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L'Italia dei consumi: dalla Belle époque al nuovo millennio, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Questo volume mostra come, dalla lotta contro la povertà dei primi governi liberali dell'Italia unita alla creazione, voluta dal fascismo, di un consumo nazionale autarchico, per arrivare fino all'oggi con le politiche del welfare e i movimenti del consumo critico, il fattore consumistico abbia giocato un ruolo fondamentale nella definizione della nostra fisionomia di nazione e negli orientamenti delle diverse politiche di governo.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 13/05/2020

cava17
cava17 🇮🇹

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Scarica L'Italia dei consumi: dalla Belle époque al nuovo millennio e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! L’ITALIA DEI CONSUMI CAP.1: L’ITALIA LIBERALE -Un paese dai mille volti: le colossali imprese industriali sono nate fuori dall’Italia e si sono imposte come condizione generale del nostro mondo. In Italia, di contro, vi erano vecchie e piccole industrie, pronte a combattere contro quei colossi. In questa guerra, i fratelli Bocconi, sono in prima linea, con il loro sforzo dei grandi magazzini e la varietà di merci e prezzi nei loro negozi. Fino al 1913, l’Italia attraversava un periodo di trasformazione industriale, lenta rispetto al Nord Europa. In Italia, poi, vi era il divario tra città e campagna. Un altro fattore importante per lo sviluppo dei consumi, era l’aspetto demografico. Fino alla fine dell’800, l’età media era sui 35 anni, per poi salire, attorno al 1920 ai 47 anni. Quindi vi è un aumento della popolazione con un cambiamento relativo alle classi di età, anche a livello scientifico e sociale. Questo spinge la popolazione a cambiare stile di vita, spinge l’esodo verso nuovi centri urbani. Il nuovo regime demografico spinge l’uomo a una libertà maggiore, verso nuovi consumi, con una vita più lunga. Ma cosa si consumava in quegli anni? Ovviamente l’alimentazione faceva la parte da leone: circa il 60% del totale in età giolittiana. A grande distanza vi erano spese per l’abitazione e l’energia, il vestiario, trasporti e infine tutte le altre voci. Ovviamente vi erano differenze tra classi sociali. -i contadini: gran parte della popolazione era impiegata nell’agricoltura nei primi del 900, circa il 62%. Le condizioni di vita dei contadini erano dure, le entrate economiche erano adibite all’alimentazione, alla casa e al vestiario. La situazione era accettabile per i contadini autonomi e drammatica per i braccianti. Un quadro generale mostra che nell’800 si nutrivano più che altro di legumi e niente carne; Pasquale Villari ci descrive la giornata tipo del contadino pugliese: si alza all’alba, va a lavoro con un pezzo di pane, alla sera il massaro fa bollire in una pentola una zuppetta. Le condizioni erano variabili a seconda della zona e dipendevano dalla disponibilità dei prodotti locali. Nel tempo anche il cibo ha assunto vari significati. Il cibo si inseriva nell’organizzazione della vita: il tempo della festa aveva qualità e quantità di cibo diversi da quelli del tempo del lavoro. Un valore positivo si dava a tutto ciò che era grasso, che rappresentava il privilegio negato ai contadini. Anche la religione aveva il suo peso, dividevano con norme il mangiare grasso o magro. I contadini avevano allora un rapporto sociale col cibo, poiché sempre scarso; un rapporto simbiotico con la natura e il territorio da cui dipendeva. Tra i contadini prevalevano i prodotti locali, ma non mancarono apporti esterni. Si pensi alle piante americane: patate, pomodori, peperoni e mais. Le modalità di consumo del cibo erano importanti: in genere si mangiava insieme dopo la preghiera, con il capofamiglia a capotavola. Il mangiare e i beni costituivano una partica culturale, anche di socializzazione: mercato, fiere, osterie. La seconda voce di spesa per i contadini era l’abitazione. Due sono gli elementi ricorrenti: i materiali locali e legame con l’organizzazione produttiva. Il tipo di casa dei contadini era simile: grandi stanzoni al piano terra con cucina, al piano superiore due o tre stanze per dormire, le stalle e i fienili annessi, locali per i depositi. Piccole differenze tra nord e sud, quelle meridionali erano più grandi disposte su tre piani. In alcuni casi prevalgono abitazioni unifamiliari poverissime, di dimensioni piccole; spesso annesse alla stalla. Questo spazio era importante, non solo per il lavoro ma anche come spazio sociale. La cucina è il centro della casa, è l’unico ambiente riscaldato. È un luogo polifunzionale: le donne tessono, preparano il cibo, accudiscono i bambini; gli uomini riparano e fabbricano attrezzi. In poche parole è uno spazio di consumo e produzione. Nella famiglia contadina vige una forte gerarchia e una marcata divisone dei compiti: gli uomini per i lavori agricoli e pesanti, le donne cura della casa, le decisioni economiche spettano al capofamiglia. Passando alla stanza da letto, con uno o più grandi letti, c’erano bauli e armadi. Indumenti e lenzuola erano più che altro realizzati in casa o avuti in eredità, o comprati a poco prezzo. Anche l’abbigliamento ha valore di distinzione sociale; anche per i contadini contava apparire al meglio durante le feste e gli eventi sociali. Quindi in conclusione i consumi del mondo contadino sono scarsi, più che altro vi era una corsa e voglia di cibo, nascono in questo periodo detti legati al mangiare: “ la fame fa uscire il sangue dai denti”. -gli operai: la loro condizione di vita non era in molti casi migliore. La principale differenza risiedeva nel fatto che il reddito derivava quasi esclusivamente dal salario. Qui la spesa va ancora per il 74% al cibo, poi per la casa, mentre le altre spese vanno per altri consumi, come l’abbigliamento. Secondo varie indagini, tra nord e sud, in linea generale gli operai consumavano poca carne, pesce salato, molta verdura e ortaggi. Tuttavia gli operai del nord hanno più apporto proteico con la carne fresca rispetto a quelli del sud con meno carne e più frumento. Esiste quindi una specifica cultura operaia del consumo, che si differenzia da quella del contadino. Molti comportamenti sono diversi dai contadini; vivendo in città cambiano le abitudini, come la natalità illegittima, matrimoni meno frequenti. Poi vi è una differenza nella mobilità spaziale; essere operai significa condurre una vita di continui spostamenti sul lavoro, dovuti a una notevole instabilità lavorativa, quindi significa anche spostarsi per trovare un’abitazione. L’operai è meno attaccato ai beni immobili. Va aggiunta una maggiore mobilità sociale, questo perché la città offre più occasioni di conoscenza di culture e usi. L’età produttiva di un operaio andava dai 19 ai 45 anni, dopo si era licenziati perché calava la produttività; si dovevano trovare altri lavori come per esempio il facchinaggio o servizio di portineria per gli uomini, per le donne servizi domestici. Le case operaie erano per lo più sistemate nei quartieri poveri, nelle periferie o nei centri urbani degradati. La famiglia operaia si adattava a spazi angusti e sovraffollati. Tra le tipologie di casa vi era “la casa ringhiera”, tipica del milanese: case in affitto in periferia a più piani, con lunghi ballatoi e cortile interno. Dai ballatoi si accedeva a piccoli alloggi di uno o due stanze e poi vi era la latrina comune. Mancavano illuminazione e fognatura, l’acqua corrente spesso disponibile solo in cortile. Ovviamente queste abitazioni erano lontane dal centro città. A Torino vi fu la stessa situazione nel 900. Possiamo ricordare un interno villaggio operaio “la Nuova Schio”: vi erano giardini, scuole, servizi comuni. Era progettato in maniera gerarchica, villette per i dirigenti, abitazioni per le famiglie degli impiegati, case a schiera per gli operai. Molti criticarono questo modello, altri invece cercano di imitare questo modello. La caratteristica della classe operaia è la sociabilità, la tendenza a sviluppare strategie relazionali e solidaristiche. Esempio: le famiglie delle case a ringhiera non vivevano isolate, ma creavano un reticolato di amicizie, che serviva anche come scambio di servizi. Questo più che altro per le donne, mentre gli uomini trovavano spazi alternativi di socialità, tipo le osterie. Nelle città si venne a creare una identità culturale operaia: che andava dal cibo ei vestiti. L’operaio si riconosceva perché aveva abiti semplici ed erano simili tra loro, a lavoro con una tuta o a torso nudo, le operaie con grembiule o camici e cuffiette. La divisa diventa il simbolo identitario, di riconoscimento sociale. La sociabilità operaia non va però idealizzata. La differenza con le altre classi sociali stava anche nella pulizia e nell’igiene. Non vi era disponibilità di acqua corrente, quindi si associava la povertà alla sporcizia. Anche tra gli operai vi erano diverse classi, si parla di aristocrazia operaia: era coloro che potevano permettersi di pagare l’affitto e disponevano di una certa liquidità; erano per lo più operai specializzati in settori di punta o che svolgevano mansioni legate all’artigianato. L’operaio moderno ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio, veste pulito e ha tempo libero con la riforma dell’orario fisso di lavoro con la rivoluzione industriale. Si viene a creare una divisone del lavoro tra tempo del lavoro e tempo libero, non inteso come ozio, ma tempo per sé (sport o cultura). Nell’800 infatti nasce una commercializzazione del tempo libero, con spettacoli teatrali, musica, libri, sport e gite. Secondo studi sociologici, l’operaio ovviamente accettava solo i contenuti che si adattavano al proprio quadro culturale. Per esempio la bicicletta diventa per l’operaio un mezzo per andare a lavoro e non un vezzo sportivo, non apprezza la musica classica. Ovviamente queste differenze non vanno intese in maniera rigida, ma elastica e intesa come un insieme di azioni tipiche. Il mondo operaio non era isolato da conflitti interni; tra questi vi erano quelli legati ai conflitti di genere. Le donne erano impiegate nel settore tessile e dell’abbigliamento. Tuttavia esse erano coloro che facevano parte dell’esercito della manodopera dequalificata: erano pagate meno, lavoro considerato inferiore, osteggiato dagli uomini. Le donne espulse del mercato del lavoro si dedicavano raramente alla casa, in genere cercavano lavori a domicilio, con servizi domestici. Nelle città il lavoro femminile è più radicato. Un’altra gerarchia riguardava le classi di età; penalizzava l’età matura e discriminava il lavoro minorile, largamente usato. Le cronache del tempo sono piene di denunce riguardo abusi e maltrattamenti di questi piccoli lavoratori. Furono introdotte leggi limitative solo nel 1886 e nel 1902 (con limite di età a 12 anni per entrare in fabbrica). I bambini entrano precocemente nel mondo del lavoro, abbandonano presto la sfera familiare e si concentrano ai consumi degli adulti. La famiglia stessa ritiene che i bambini vada abituato alla vita lavorativa, apportando sostentamento. -i borghesi: dare una definizione di borghesi è impossibile. Numerosi studi hanno concordato nel dire che è più giusto parlare di “borghesie” o di “classi medie”, cioè di varie fasce sociali con ruoli diversi. Inizialmente questa classe era identificata con gli artigiani e i mercanti nelle città (borgo), poi passata ad imprenditori e finanzieri, per poi dilatarsi al XX secolo, comprendendo anche impiegati e professionisti. Quindi si è preferito parlare di bassa, media, alta borghesia. Una interessante indagine fu compiuta nel foggiano, a Troia, tra il 1908-1909, sui bilanci delle varie famiglie, comprendeva anche i borghesi. La voce principale individuare le modalità di intervento statale. L’idea più diffusa era quella di fornire servizi utili al singolo cittadino: istruzione, sanità, previdenza, assistenza. Dall’800 si parla di “massa”, non vi è più la disordinata plebe, ora vi è un corpo organico che diventa protagonista del mondo del lavoro, vuole affermare i suoi diritti e pretende di avere voce in politica. La questione sociale inizia ad affermare un certo timore tra le classi dirigenti, la folla diventa visibile e informata. Jacini parla proprio di voglia di una scalata sociale, tuttavia questo attivismo va controllato in misura perché si potrebbe sfociare nell’anarchia. Un esempio ci viene fornito dalla Germania bismarkiana che aveva varato una avanzata legislazione sociale per contenere l’influenza del movimento socialista e legare le masse operaie allo stato. L’Italia inizialmente si occupò, per quanto riguarda la spesa pubblica, sulle infrastrutture e sull’amministrazione. Poco spazio per l’istruzione. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, nell’Italia liberale dell’800, tutto dipendeva dal reddito. Se si era benestanti si chiamava il medico privato o ci si recava in ospedale. Se invece si era poveri ci si rivolgeva alle associazioni caritatevoli. Questi centri erano per lo più cattolici, gestivano ospedali e centri di assistenza; nel 1862 fu approvata una legge su questi centri che lascia loro facoltà di agire senza gravare sullo stato. Tre anni dopo si decise che gli enti locali e, in alcuni casi la provincia, dovevano occuparsi dei malati, anche poveri; i comuni dovevano farsi carico delle spese ospedaliere e di assistenza per i poveri e orfani. Nel 1888 intervenne una nuova riforma sanitaria: è creata una direzione generale di sanità; a livello locale si stabilisce la presenza di un medico e una levatrice pagati dal comune per i poveri, di una rete di medici provinciali operati a livello locale con compiti di prevenzione e igiene. Il medico come ufficiale di stato. Le opere pie diventarono istituzioni pubbliche; si pongono le basi per rinnovamenti delle strutture sanitarie pubbliche. Nascono il Policlinico a Roma e si creano ospedali minori. Durante il periodo giolittiano ci si concentra sulle malattie frequenti: tubercolosi, colera, malaria. L’impegno si sposta anche sulla prevenzione, si procede anche ad interventi igienici nelle città, come lo sventramento di quartieri degradati, creazione di piazze e corsi. Ad inizio 900 la sanità migliora; ci si ammala un po' meno grazie alla prevenzione. Inizia a svilupparsi anche l’industria farmaceutica. La situazione era peggiore per quanto riguarda la previdenza. Fino a fine 800, il lavoratore aveva solo a disposizione il sostegno della società di mutuo soccorso di natura privata. Solo del 1898 furono approvate norme sull’assicurazione obbligatoria per gli infortuni per gli operai e la cassa di invalidità e vecchiaia. Poi con Giolitti vi fu l’Istituto nazionale delle assicurazioni e una legislazione che tutelava il lavoro minorile e limitava quello delle donne. A completare il quadro vi è l’istruzione. Le cassi più ricche potevano permettersi maestri privati e dopo le elementari la continuazione degli studi fino all’università. Inizialmente, nel 1859 vi era l’obbligo di frequenza fino alla seconda elementare, poi nel 1877, con la legge Coppino, portati fino a quattro, ma con risultati negativi nel Mezzogiorno. Nel 1911, con la legge Damico-Credano, lo stato prende in carico tale onere. Tuttavia il tasso di alfabetizzazione era ancora alto, dopo le elementari solo il 12% continuava gli studi, con l’1% con l’università. Ovviamente inutile dire che per le bambine la situazione era ancora più tragica. -il mondo della produzione: contano di più i produttori o i consumatori? I primi studiosi economisti ritengono che sia più importante il produttore: Smith e Marx si contrano più sulla produzione, questo non stupisce se si pensa al contesto storico della rivoluzione industriale. Il pensiero poi ovviamente cambierà rotta più in là, ponendo al centro il rapporto tra domanda e offerta, cercando un equilibrio sul mercato. I consumatori sono qui ben presenti, anche se sono ancora raffigurati in forma idealizzata. I consumatori prendono la loro rivincita con Keynes, che attribuisce al consumo, oltre che allo stato, un ruolo importante per garantire la crescita economica. Poi ci sarà Katona che affermerà che il consumo è la forza della massa, dove il consumatore è guidato non solo dal reddito ma anche da abitudini ed aspettative per il futuro. Negli anni 60-70 ci sarà una vera critica nei confronti del consumismo. Quindi notiamo che il ruolo del consumatore aumenta col passare del tempo, diventa più visibile e decisivo. Nascono proprio le ricerche di mercato. Tuttavia le statistiche di mercato non registrano tutti i consumi e servizi, come il lavoro svolto a domicilio, quello domestico. Adesso analizziamo l’ambito produttivo industriale, partiamo da quello alimentare. Molti alimenti, all’inizio del 900, sono conservati in vasi di vetro, altri in cassette di legno; prevalgono cibi secchi o conserve sotto sale; dal soffitto pendono salumi e negli scaffali formaggi. Nell’angolo più fresco prevalgono cibi freschi: pollame, uova, latte e burro. Nelle dispense non troviamo le etichette dei prodotti, nella maggior parte dei casi sono prodotti locali sfusi o autoproduzione. Il contenuto di questa dispensa ci dice molto sull’industria alimentare. Oltre a ricordarci l’importanza dell’autoconsumo, conferma che la produzione ha carattere locale. L’industria alimentare non si è ancora evoluta. Con la rivoluzione industriale in ambito tessile e meccanico, inizia ad interessare anche il settore alimentare con nuove macchine e nuove tecniche di lavorazione del cibo. Nascono i primi prodotti in serie con un prezzo inferiore. Prende forma nel 900 la marca. All’inizio la marca era solo un marchio del proprietario, poi diventa un mezzo per caratterizzare la merce. La marca ha due funzioni: informativa, ci dice quali sono le caratteristiche del prodotto e le sue componenti; poi ha un valore aggiunto perché ci dice come quel preciso articolo si inserisce nel mercato, ci fa sentire alla moda o moderni. Nasce cosi agli inizi del 900 la pubblicità in Italia, con immagini e tante spiegazioni. Importante era il packaging, la confezione del prodotto, lo caratterizzava e diventava anche il simbolo della marca stessa. Le prime “marche” a mettere piede in Italia furono la Buitoni nel 1827, la Barilla nel 1877, gli amaretti Lazzaroni. I cioccolatini della Caffarel e ovviamente la Perugina. Un settore di grande importanza in questo periodo fu quello delle conserve, ricordiamo la Cirio, grande pioniere dell’industria alimentare italiana. Tra i formaggi ricordiamo Galbani, Invernizzi. Ci sono anche marche straniere, alcune riguardano prodotti coloniali come il caffe altri sono prodotti nuovi come il brodo concentrato o il latto in polvere. Infine abbiamo anche i vini e gli spumanti e birre. Ovviamente tutti questi prodotti li troviamo in una dispensa di una casa ricca e nobile. Importante è anche osservare l’arredamento. Notiamo in prevalenza produzioni artigiane di buona fattura. Pochi si potevano permettere i mobili creati da artisti alla moda; esistevano già mobili in serie ma si trovavano in case di classi meno abbienti: erano poco curati nell’estetica, semplici pezzi assemblati con finiture scadenti. Il primo caso di attenzione estetica ad un mobile industriale è forse quello della “sedia viennese” nel 1859; venduta anche oggi. Ovviamente bisognerà aspettare molto tempo affinché la produzione industriale del mobilio venga accettata da tutta la società e non considerata inferiore. -gli spazi del commercio: le prime gallerie commerciali apparvero a Parigi a fine 700, erano chiamate i passages. Erano luoghi specifici dove tutto ruotava attorno al denaro. Vi è quindi una spettacolarizzazione del consumo; la galleria stessa come opera d’arte, luogo di ritrovo e socialità, non solo di acquisto. Si diffusero rapidamente nelle principali città europee, divenendo un polo di attrazione e vanto. Le strade con le vetrine illuminate diventano un vero e proprio teatro. Ricordiamo a Milano, la galleria Vittorio Emanuele II nel 1865, la più grande galleria al mondo. Successivamente nacquero i grandi magazzini. Formato da un insieme eterogeno di imprese, il magazzino costituisce una singola unità. Il Bon Marchè a Parigi è il prototipo riconosciuto di questa tipologia, il più conosciuto e imitato. Infatti nascono a Londra Harrods e nel resto d’Europa altri simili. -mercati, negozi, botteghe: la storia dei consumi è anche la storia del commercio. Fiere e botteghe sono forme antichissime di commercio. Le fiere furono grandi occasioni di commercio, restano fino all’800; poi lo sviluppo dei trasporti marittimi e ferroviari fece diminuire l’importanza di tali manifestazioni a favore di strutture sempre più stabili, come i mercati locali. Infatti nascono i cosiddetti mercati coperti, quello più significativo fu quello di Firenze. È uno degli edifici realizzati per modernizzare il volto di Firenze, divenuta capitale del Regno. Era un grande capannone in ghisa, ferro e vetro. Molti edifici simile nacquero nelle città italiane, in genere vicino agli scali ferroviari. Questo ovviamente non portò alla scomparsa dei tradizionali mercati all’aperto, bensì una loro evoluzione. Anche le botteghe hanno una storia lunghissima. Dall’800, l’antica bottega diviene negozio (cioè luogo del non ozio), un ambiente più ampio e specializzato. Nei centri cittadini interessati da questo rinnovato sviluppo edilizio si moltiplicarono le rivendite di lusso, i caffè imitavano i lussuosi arredi aristocratici, le farmacie con scaffalature lignee con pregiati intarsi. Sono i negozi di élite che suggeriscono una atmosfera da salotto. In primo piano c’è sempre un commesso che mostra i prodotti alle signore: è lui il vero protagonista, il tramite per la vendita, l’esperto ed il consigliere; anche perché la merce non è esposta e non vi è il cartellino del prezzo. Ma questo quadro era l’eccezione, non la regola nel mondo del commercio italiano. Nei negozi comuni ed accessibili a tutti, gli spazi erano più angusti e meno raffinati, erano ridotti allo stesso negoziante, magari coadiuvato dai familiari. Il tipico spaccio, un luogo rude. CAP.2: IL FASCISMO -Il regime: quasi tutti gli studiosi concordano che l’Italia tra le due guerre abbia raggiunto l’industrializzazione. In particolar modo negli anni Trenta, l’agricoltura viene sorpassata dall’industria. Si entra quindi in un nuovo regime culturale ed economico. Inizialmente la ricchezza era percepita come accumulo, ora invece si parla di consumo. È possibile suddividere i fattori che influenzano il consumo nel lungo periodo in tre categorie: 1. Cambiamento delle condizioni di vita. 2. Ci sono più lavoratori salariati che artigiani, quindi questo induce ad un maggiore consumo. Gli impiegati sono maggiormente spinti ad investire su sé stessi e sui loro figli, spendendo in educazione e cultura. 3. Progresso tecnologico. -Autarchia, genere e razza: ad ascoltare le campagne del regime, si direbbe che in campo economico si sia attuata una vera e propria rivoluzione. Nella realtà, la politica del regime fu assai più cauta. Il fascismo compì una vera e propria scelta a favore dell’industria. Si parla anche di protezionismo, infatti venne attivata una campagna di sostegno ai prodotti italiani che assegnava alle merci un valore aggiunto: l’italianità. Comprare italiano era un vero è proprio compito patriottico. La pubblicità giocò anche un ruolo fondamentale; un altro accorgimento fu quello di richiamare alla romanità. Quindi il fascismo compie uno sforzo per creare una identità e un profilo tipico del consumatore italiano. Così, spesso, il regime si rivolge alle donne, incaricate di fare la spesa e gestire la famiglia come una piccola unità economica. A loro viene chiesto di risparmiare sulla spesa, evitare sprechi, comprare italiano. Le donne quindi hanno un ruolo predominante nella famiglia italiana, il fascismo infatti cerca di accattivare la loro attenzione attraverso incentivi positivi (assistenza sociale e alla maternità), ma dall’altro lato la scoraggia a lavorare e a continuare gli studi superiori. Il regime cerca inoltre di valorizzare il Meridione e il suo Mediterraneo: con le sue spiagge, il sole, le primizie, il buon cibo; il Sud diviene così centrale nell’immagine dell’Italia dei consumi. Ci fu il tentativo di creare uno spazio nazionale dei consumi allargato anche alle colonie. Infatti molti prodotti sono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’indigeno. -Emigrazione: il governo italiano favorisce l’esportazione di prodotti italiani per gli emigrati italiani. È una vera e propria azione diplomatica, per tenere in pugno gli italiani nel mondo. Prendiamo il caso degli italoamericani. Ci fu un vero e proprio appello a comprare italiano nelle comunità di Chicago e New York. Ma non si trattava solo di consumare cibo nazionale, ma anche come mangiarlo: in famiglia, riuniti tutti insieme attorno alla tavola, o in certe ricorrenze con tutti i parenti. Il “magiare italiano” significava dare concretezza a valori come la famiglia, il gruppo, la convivialità, la domesticità. L’italoamericano vuole conservare le sue tradizioni italiane, ma anche diventare un vero americano, aprendosi a nuove culture originali. -Politica fascista dei consumi: la politica del fascismo è orientata ad uno sviluppo industriale. Il consumo pubblico ha una crescita a sbalzi, sia per una arretratezza del paese ma anche dal fatto che il fascismo riorienta la spesa pubblica seguendo finalità politiche, lasciando cadere le spese assistenziali e previdenziali. Il fascismo spende poco per l’istruzione rispetto all’Italia liberale, e l’istruzione stessa diventa politicizzata. Bottai, ministro dell’educazione, si impegna in un complesso progetto di riordino che valorizza gli insegnanti tecnici per creare uno strato intermedio di maestranze specializzate. Con il fascismo, per lo scolaro, l’istruzione elementare è assicurata; tuttavia il proseguimento degli studi è ancora fortemente influenzato dal livello sociale della famiglia: solo se si appartiene all’élite si può sperare di frequentare il liceo e poi l’università. Nella maggior parte dei casi, lo scolaro si limita a concludere gli studi base per poi dedicarsi al lavoro. Ancora più difficile è la situazione delle ragazze, la prospettiva di continuare gli studi è molto scarsa, per pressioni sociali e familiari. Tuttavia la scolarizzazione femminile cresce rapidamente. Più innovativa è la politica assistenziale e previdenziale. Durante il fascismo, all’interno della struttura sanitaria agiscono casse mutue private, aziendali, con il risultato di una assistenza disomogenea che non copre tutti i cittadini. Il fascismo tuttavia avvierà campagna specifiche per debellare malattie, come la tubercolosi e la malaria. Con la previdenza, già dal 1919, si estende l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sui lavoratori agrari e si vara la pensione di invalidità e di vecchiaia per i dipendenti. Il fascismo interviene anche in questo campo: vengono realizzati istituti parastatali per la gestione della previdenza. Un ultimo aspetto da ricordare nella politica dei consumi fascista, le norme previste per le donne. Se da un lato si favoriva la donna casalinga e madre, dall’altro lato furono comunque varate leggi per le donne lavoratrici: legge sulla maternità con spesso ci sono amici e parenti che si sono attivati per trovare loro una sistemazione e un lavoro. L’impatto con la nuova città è forte, ma non così traumatico. Ma c’è da dire che simbolo di mobilità, vista come libertà per l’immigrato, è l’automobile, il “sogno italiano”. La Fiat 600 diventa un simbolo, la prima auto pensata per tutti, è uno status symbol per una vita migliore. Ovviamente la diffusione dell’auto va avanti in maniera lenta negli anni 50, poi aumenta sempre più. Tuttavia l’automobile suscitava un atteggiamento ambivalente. Da un lato osannata come simbolo di libertà, ma dall’altro si insinua un dubbio morale. Infatti nascono delle restrizioni per i frati e i chierici, per non parlare degli ordini femminili e delle donne in generale, ritenute incapaci alla guida, cosi come i giovani. La macchina vista come luogo di peccato e illiceità sessuale. Ma c’è dell’altro. L’auto è pericolosa, è veloce, produce smog e traffico, causa anche incidenti mortali. Secondo alcuni studiosi, l’automobile sovverte anche meccanismi di genere. La cultura di massa mette in crisi i ruoli tradizionali. Nasce una ansietà sul proprio ruolo, alla quale si reagisce cercando nuovi ruoli maschili, per esempio cowboy, uomini d’azione, eroi sportivi, playboy. In questo percorso di ridefinizione del ruolo maschile, l’automobile gioca un ruolo fondamentale. I motori diventano il mondo maschile. L’automobile diventa un bene democratico. Nelle famiglie italiane di classe media si cerca di risparmiare sui consumi di base per permettersi alcuni beni durevoli. Tuttavia tornando all’immigrato, non può permettersi l’auto, per questo ripiega sulla motocicletta che costa meno. Due sono le grandi novità: la Vespa e la Lambretta. Diventano due icone di quegli anni, diventa un simbolo per gli operai, agricoltori e giovani. Gli studi sull’immigrazione non lasciano dubbi su quale sia l’altra priorità, la casa. Quella di proprietà diventa il simbolo del nuovo radicamento, garantisce stabilità e futuro. Ma farsi una casa non è facile. Spesso si cerca una soluzione fuori città. Nelle periferie urbane nascono migliaia di abitazioni abusive, a volte vere e proprie baracche. In alcune città si parla di “borghetti”, oppure “borgate”. Le amministrazioni comunali non sono in grado di affrontare la situazione. Sommariamente alla fine possiamo dire che per l’immigrato è fondamentale un’integrazione nella società moderna attraverso beni. Il bene materiale come negazione di un passato di miseria e la realizzazione del “sogno italiano”. -Donne (e uomini): analizziamo un appartamento della periferia. Il nuovo palazzo è a forma di cubo. L’ingresso della casa è piccolo, troviamo un tavolinetto con sopra un telefono. Tutto è ridotto, tutto è cambiato. Il cucinino lungo e stretto con la finestra in fondo, vi sono due grandi novità: il frigorifero e la lavatrice. Questa ultima è una svolta, fa risparmiare tanto tempo alla donna, garantendole più tempo libero. In generale gli elettrodomestici si dividono in due categorie: quelli che fanno risparmiare tempo (time-saving) e quelli che ce lo fanno consumare (time-spending). I primi sono la lavatrice, frigorifero, lavastoviglie, mentre i secondi sono la radio, la tv. I time-saving sono oggetti prettamente femminili. Negli anni 50 si diffonde il frigorifero, che riesce a far risparmiare e conservare in maniera efficiente il cibo. Poi a fine anni 50 troviamo la televisione; per la lavastoviglie bisognerà aspettare almeno un altro decennio, per l’asciugatrice ancora di più. Gli elettrodomestici vanno a definire la famiglia come unità di produzione e consumo autosufficiente, definendo anche i livelli di status. Si assiste però a un forte aumento di famiglie ristrette, soprattutto nel ceto medio. Le varie pubblicità degli elettrodomestici presentano alla donna un vero e proprio cambiamento: liberazione dalla fatica, autorealizzazione, conquista di nuovi spazi per sé e per la famiglia. Alcuni studiosi hanno ritenuto che la comparsa degli elettrodomestici non abbia inciso sulla divisione dei ruoli nella famiglia e soprattutto nella figura sociale della casalinga. Vi erano alcune donne che hanno rifiutato per un po' l’elettrodomestico, ritenendolo pericoloso o inutile. Per esempio la lavatrice è pratica, ma si sa, rovina e strappa i tessuti, i nuovi detersivi sono nocivi; il frigorifero comunque bisogna lavarlo per l’igiene. Per evitare queste considerazioni, la pubblicità e il design hanno giocato un ruolo importante. Generalmente gli elettrodomestici erano bianchi, si rimandava all’idea di pulito e ordine. La loro forma era semplice e lineare, con pochi semplici dispositivi di comando. Proseguendo il tour della casa, notiamo la camera da letto; qui è cambiato ben poco: letto matrimoniale, grande armadio, è la stanza importante della casa che rimanda alla gerarchia familiare. Negli armadi ora ci sono più vestiti industriali, pantaloni e camicie. Nella stanza troviamo anche prodotti di cosmetica, in particolar modo il rossetto e la cipria. Questo processo è associato ad una valorizzazione del corpo femminile. Il rossetto diventa il simbolo delle nuove ambizioni delle donne, pronta a frequentare spazi pubblici, invece di annullarsi completamente per la propria famiglia. In camera ci sono anche profumi: il primo è ovviamente Chanel n°5, troviamo saponette profumate, deodoranti e scatole di borotalco. Per l’uomo invece troviamo l’orologio, già largamente usato durante la Grande guerra. È un oggetto di precisione e affidabilità; il vero boom si avrà negli anni 60 soprattutto tra la classe media. Adesso ci spostiamo in bagno: bianco con toni pastello, con vasca, lavandino, water e il bidet. Troviamo un materiale frequente, la plastica. Rende i vari oggetti infrangibili, resistenti e poliformi. Sono oggetti che hanno anche un costo inferiore, incarnano anche la modernità e il progresso tecnologico. Non si parla ancora di difesa dell’ambiente, ma alcuni si posero già in atteggiamento critico nei confronti della plastica. Il salotto è più piccolo della camera matrimoniale. È disposto come una platea, con divanetto e poltrone rivolte verso una parete occupata da un mobile componibile, dove al centro troneggia la televisione. Siamo in un luogo consacrato al consumo culturale, dato che è presente anche il giradischi e una libreria. L’Italia era sempre stata propensa al divertimento e alla cultura, in età liberale vi era il teatro, poi si passò al cinema. Ora assistiamo a due grandi fenomeni: sviluppo culturale domestico, cioè la tendenza a consumare sempre meno all’esterno e sempre più nella propria casa. La radio fu il primo strumento a decretare ciò, seguito dalla televisione. Il secondo fenomeno è la creazione di un mix di consumi, dovuto alla moltiplicazione dei media disponibili. Troviamo le riviste mensili, i libri e infine il cinema. I giornali sono quelli più letti con l’avanzare dell’istruzione. Tuttavia è la televisione ad avere il vero successo, all’inizio con un solo canale che trasmetteva 32 ore a settimana, poi dal 1961 i canali diventano due. La televisione sembra combinare i pregi del cinema e quelli della radio, porta tutto comodamente a casa. Inaugura un nuovo linguaggio breve e frizzante, lancia attori, presentatori e cantanti; la pubblicità diventa all’inizio la vera protagonista della tv, basti pensare a Carosello. È divertente, limitata e istruttiva, oltre che simpatica per i bambini. Nella casa delle donne borghesi troviamo anche delle riviste di moda, “Epoca” con tante fotografie, “Annabella” e “Gioia” dove si trovano consigli di varia natura per le donne. Ovviamente tutto ciò appartiene alla classe media e alta. -Giovani: la cameretta è un mondo a parte, rispetto all’intera casa. Si notano subito le pareti vivaci, c’è generalmente disordine, troviamo poster e fotografie. Sulla scrivania abbiamo una radiolina, quaderni e libri di scuola, fumetti. Nella camera possiamo trovare anche un giradischi portatile, mattoncini lego, vecchi giocattoli, oppure le Barbie. L’abbigliamento ovviamente cambia: jeans, giacche di pelle. È una cultura nettamente differente da quella degli adulti; la costruzione di una età giovanile avviene attorno agli anni 50 e 60, sviluppano una loro autonoma costruzione della realtà, creano forme culturali diverse. Si crea una nuova generazione con nuove tipologie di consumi: si creano beni adatti a loro, dolciumi, bibite, sigarette, mezzi di locomozione, musica, libri e riviste. Ovviamente tutto ciò riguarda sempre il giovane borghese. I media riservano grande spazio alle imprese della “gioventù perduta” e i sondaggi mostrano un giudizio severo da parte degli adulti: sono viziati da genitori permissivi, hanno poca voglia di lavorare, sono plagiati da film e fumetti. Nasce quindi il cliché del giovane sbandato e si costruisce un discorso sociale. Le paure suscitate dai giovani sono in realtà metafore di una profonda inquietudine che attanaglia la società e che deriva dalle trasformazioni in corso: queste ultime creano sì maggiore benessere e fiducia nel futuro, ma minano i valori e i comportamenti tradizionali. Questa inquietudine si proietta sui soggetti che incarnano maggiormente la sfida dei tempi nuovi, i giovani appunto, e demonizza i loro comportamenti. I giovani, da parte loro, vedono le cose in maniera diversa. La loro identità trova una prima costruzione attorno ad alcuni oggetti e luoghi. Prima fra tutti, la loro cameretta, concepita come uno spazio diverso dal resto della casa. Ma è soprattutto da considerare le spazio extra-domestico. Ovviamente non parliamo della scuola, ma di luoghi di svago: il cinema, il bar, la sala giochi, posti dove si balla. La musica diventa anche un vero e proprio simbolo e nuovo linguaggio per i giovani. Nascono infatti nuovi generi come il rock, nuovi gruppi musicali che diventano veri e propri idoli, basti pensare ai Beatles. Il giovane si caratterizza anche per l’aspetto fisico: portano i jeans, capelli lunghi, maglie attillate, minigonne, scarpe col tacco, gioielli vistosi e di basso valore. Presto in Italia arriverà anche la moda hippy con il gusto per l’esotico e il diverso. Il giovane quindi rivoluziona gli antichi schemi sociali, parla di libertà e del gusto di stare insieme. -Politica, cultura e welfare state: negli anni 50 compare la parola consumi. Molti sono gli studiosi che hanno cercato di capire il fenomeno della politica di consumo, esploso velocemente. Il gruppo degli economisti parla di distorsione dei consumi; gli italiani privilegiano i consumi opulenti, tipici dei paesi sviluppati, invece di acquistare beni necessari: comprano auto, elettrodomestici, mentre magari vivono in posti squallidi e mangiano pasti inadeguati. Il suggerimento è quello di comprimere il lusso e sviluppare consumi pubblici primari. Gli italiani quando hanno potuto consumare, lo hanno fatto nel modo sbagliato. La politica inizialmente nutriva una certa diffidenza verso i consumi, ad esempio il PCI affermava che i consumi sono meri inganni, come appunto il capitalismo. Nascono teorie filosofiche attorno ai consumi, basti pensare ad Adorno ed Horkheimer con la Scuola di Francoforte, dove si parla di un consumismo sfrenato indotto dall’industria culturale. Esso diventa il nuovo oppio per i poveri, abbaglia i lavoratori e li induce a spendere i loro guadagni, creando un circolo senza fine. Marcuse sottolinea che si è creata una manipolazione dei bisogni, crea così un conformismo di massa, con il fine di creare un controllo autoritario dall’alto. In Italia una voce controcorrente sarà quella di Pier Paolo Pasolini che usa la metafora della scomparsa delle lucciole per dimostrare che qualcosa di drammatico succede nella società italiana: come le lucciole sparite a causa dell’inquinamento, così il vecchio sistema agricolo cede il posto a una civiltà nuova, la “civiltà dei consumi”. Si è quindi verificata una mutazione antropologica del popolo italiano, a partire dai ceti medi. Nella sua visione non c’è speranza per il futuro, si presenta apocalittico, non resta che rifugiarsi in un sogno di un passato agreste. Nascono in questo periodo sondaggi di opinione, la politica inizia ad interessarsi ai consumi; infatti attraverso il miglioramento della vita dei cittadini, la politica può plasmare le masse, crea consensi. Ecco dunque la creazione del welfare state. Diventa basilare dopo il secondo conflitto mondiale, è l’asse centrale per gli equilibri, infatti garantisce il riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali di cittadinanza. Si può dire che il periodo tra 1950-1973 venga letteralmente creato il moderno welfare italiano. Alcune spese diminuiscono in percentuale (amministrazione e difesa), altre crescono (istruzione, sanità e previdenza). Vi è quindi investimento sul capitale umano. I governi del dopoguerra cercano di cambiare la situazione relativa all’istruzione, un nuovo sbalzo si verifica negli anni 60 quando la spesa per l’istruzione supera quella per le opere pubbliche. I tassi di analfabetismo e abbandono della scuola sono ancora alti. Le elementari sono organizzate secondo il vecchio modello: cinque anni di corso e un esame finale. Ma ecco la grande novità: ora ci si deve iscrivere alla scuola media unica. Riforma voluta nel 1962 dal governo di centro-sinistra. In questo modo si facilitava l’accesso agli studi superiori. Sono gli anni dei fermenti giovanili, si chiede di cambiare il modello vecchio scolastico, di facilitare l’accesso alle università, in modo tale da essere accessibili a tutti. Quest’ultima era stata pensata per una certa élite, il sistema quindi andava cambiato. Per quanto riguarda la sanità, siamo in un sistema frammentato, basato sulle assicurazioni, frammentato e disomogeneo, dove privato e pubblico si intrecciano continuamente. Nel 1978 si crea il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) dove si garantisce assistenza medica per tutti, con attenzioni per quanto riguarda handicap, tossicodipendenza, malattie mentali e tutela delle famiglie. Per quanto riguarda il campo dell’assistenza, la situazione è quella ereditata dal fascismo e vede una miriade di istituzioni che se ne occupano. Ma il punto più forte è la previdenza. Le pensioni dei dipendenti migliorano rapidamente, viene introdotta la pensione di anzianità acquisibile dopo 35 anni di contributi. La previdenza viene poi allargata a varie categorie di lavoratori autonomi 8coltivatori diretti, artigiani, commercianti). Si istituisce la cassa integrazione a fronte di difficoltà aziendali. Chi paga tutto questo? In realtà è il lavoratore stesso tramite i contributi previdenziali. Tra il 1971-73 riforma fiscale con l’introduzione dell’Iva. -Pubblicità e produzione: la crescita dei consumi privati e il lancio di nuovi prodotti sul mercato spingono molte più imprese a utilizzare forme pubblicitarie. L’arrivo del marketing, da una nuova strategia di mercato. La prima fase del mercato (fino al 1880) era stata caratterizzata dalla mancanza di un mercato unificato e dalla prevalenza di prodotti locali e sfusi; la seconda fase (fino a metà 900), grazie a i nuovi mezzi di trasporto e comunicazione, aveva visto sorgere un vero mercato nazionale; la terza fase, quella del mercato segmentato, corrisponde alla maturità del processo e si manifesta a fine 900. Qui il consumatore è più esigente e differenziato; non basta sapere produrre, bisogna anche saper vendere. In Italia quindi iniziano a salire investimenti pubblicitari, pur rimanendo inferiori al resto d’Europa. La pubblicità quindi diventa un mezzo di manipolazione e suggestione popolare. Rispetto alle pubblicità più antiche, adesso non si punta più sul lato artistico, ma ad una precisa divisione del lavoro in agenzia tra art director, che si occupa dell’immagine, e copywriter, che scrive slogan e testi anche musicali. Per capire al meglio cosa un consumatore preferisse in una pubblicità, furono avviate anche ricerche sul campo, con un orientamento sociologico ed antropologico. La pubblicità, quindi, diventa una scienza che ha bisogno di ricerche di mercato. Diverse industrie diedero il via a vere e proprie guerre mediatiche per accaparrarsi quote di mercato, in particolar modo il mondo dei detersivi. Per il mondo dell’automobile, in Italia, la Fiat naviga in acque tranquille, soddisfatta dal mercato interno, anche per le motociclette. Per gli elettrodomestici, le pubblicità diventano necessarie per spiegare facilmente l’utilizzo e il funzionamento delle macchine moderne, si rinnova anche la visione della domesticità, per avvicinarsi meglio alle nuove famiglie. In Italia, nel mondo degli alimenti di prima necessità, aumentano prodotti e spazi pubblicitari loro dedicati. Per la pasta ricordiamo la Barilla che solletica l’attenzione delle donne moderne affidandosi ad una testimonial di eccezione, Mina. Innovativo è il settore delle conserve: la Star, la Cirio si impongono nel mercato. Nascono alimenti in scatola pronti all’uso, come la Simmenthal, piselli in scatola, fagioli, ecc. uno dei prodotti che dell’esotico. Non dimentichiamo che anche l’immigrato è un consumatore; mostrano però scelte precise con consumi diversi. -Politica e consumerismo: la politica, a partire dagli anni 60, ha iniziato ad interessarsi al mondo dei consumi, deve garantire sempre crescenti standard di vita. Con il nuovo millennio, la politica dei consumi sembra essere in sofferenza per via delle difficoltà economiche e sociali di ampie aree del ceto medio e delle classi popolari, della limitata mobilità sociale, dei problemi occupazionali dei giovani. Tuttavia sulla scena politica ci sono novità: nascono i movimenti dei consumatori. Parliamo quindi di consumerismo. In Italia, le prime organizzazioni prendono piede negli anni Cinquanta a seguito dei primi scandali alimentari. Esse operano su un piano privato, spesso appoggiandosi a riviste, per informare il consumatore, per chiedere più trasparenza e tutela legislativa. Tuttavia la politica ha cercato di lasciare poco spazio a questi movimenti; dagli anni 70 in poi invece la politica si impegna anche in questo campo. A livello europeo inizia un vero e proprio attivismo in materia, nascono scioperi della spesa per protesta contro le politiche fiscali del governo, si boicottano per ragioni etiche prodotti di imprese accusate di scarso rispetto per l’ambiente o di sfruttare i lavoratori dei paesi meno sviluppati; o al contrario si acquistano solo determinati prodotti che rispettano le normative umane vigenti. In ogni caso, il consumatore riconosce che i beni materiali sono iscritti in un preciso contesto sociale: mettono in atto un “consumo politico”. La domanda è: il consumatore usa il mercato per far arrivare un messaggio politico? In primo luogo, i principali protagonisti di queste azioni sono soggetti sottorappresentati nel mondo della politica ufficiale: donne, giovani socialmente emarginati; in secondo luogo, i luoghi dell’azione sono diversi: negozi e centri commerciali, ma anche internet. Consumerismo e comunità virtuali sono forse la nuova frontiera della politica. -Nuovi prodotti: emergono nella scena mondiali i “distretti industriali”: conglomerati locali di imprese dello stesso settore, dove l’attività produttiva si innesta su un tessuto sociale e comunitario vivo da tempo, e famiglia e impresa divengono un continuo. Simili realtà appaiono una caratteristica italiana allo sviluppo, spiegano il buon andamento del paese. I distretti sono i grandi protagonisti del made in Italy, vista la loro capacità di coniugare qualità artigianale e produzione in serie unitamente a prezzi contenuti. I settori dove sono maggiormente presenti sono spesso quelli dei beni di consumi finali: tessile/abbigliamento, meccanica, prodotti per la casa, alimentari, calzature, oreficeria. Se una parte importante della loro produzione prende piede all’estero, una buona quota comunque si rivolge al mercato interno. Ora possiamo segnale due settori in cui le proposte dei produttori hanno avuto un impatto significativo. Il primo è quello dei beni tecnologici. Il loro uso è ovviamente legato ad un contesto specifica. Ad esempio i genitori ritengono utile il computer come strumento educativo e didattico; i figli a differenza lo vogliono per i videogiochi; i ragazzi lo usano per mettere in atto le loro abilità e competenze, diventa anche spazio per socializzare. Il vero cambiamento è stato il telefono cellulare, che ha subito grande richiesta nel mercato mondiale. Nel 2005 già il 78% delle famiglie lo possedeva. Esso ha creato una vera e propria rivoluzione nelle comunicazioni, soppiantando l’apparecchio fisso, che invece aveva impiegato tanto tempo per affermarsi. Prodotti nuovi non sono apparsi solo nel mondo della tecnologia, ma anche un po' in tutti i settori: pensiamo ai nuovi derivati plastici usati nell’arredamento, l’edilizia e i trasporti; alle fibre tessili. Anche nel settore alimentare ci sono novità. I due terzi dei prodotti offerti ai consumatori sono di tipo tradizionale, un’altra fetta va ai cibi già pronti, poi ci sono i nuovi prodotti. Un primo gruppo è formato dai cibi che per motivi dietetici vengono modificati industrialmente, come alimenti light o barrette energetiche. Poi abbiamo i prodotti tipici con certificazioni DOP o IGP. Il terzo gruppo è formato dai prodotti biologici, ancora un po' di nicchia per i loro prezzi alti. Tuttavia con l’intervento della tecnologia sul cibo, ha provocato uno stato di ansietà nel consumatore; si è infatti diffuso il desiderio del ritorno allo “Slow food”. I produttori cercano di reagire a questa problematica attraverso campagne pubblicitarie che rimandano a luoghi salutari e agresti. La nuova scommessa del mercato alimentare è quella di portare cibi sani, superando lo scoglio della grande distribuzione rimanendo comunque ad un prezzo competitivo. -I limiti e i costi del consumo: qui dobbiamo analizzare le problematiche legate ai processi di consumo come abbiano un impatto ambientale. La produzione spesso utilizza capitale naturale non sempre rimpiazzabile; il consumo, da parte sua, non si esaurisce con l’atto di comprare o utilizzare il prodotto, ma prosegue nello scarto residuo, con conseguenze altrettanto gravi sull’ambiente fisico circostante. Esistono limiti al consumo? La questione ambientale è una delle maggiori sfide del XXI secolo e che non trova facili soluzioni. Sono nate quindi intere discipline dedicate a tale problema, come l’economia ecologica. Secondo lo studioso Inglehart, negli anni 60-70, si è verificata una rivoluzione silenziosa: alcune fasce della popolazione sono passate da valori materialisti legati al consumo fisico e alla ricerca della sicurezza, a valori postmaterialisti (affetto, stima, piaceri). I postmaterialisti sono spesso i più insoddisfatti nella politica contemporanea, la avvertono distante dalle loro esigenze. Sono nate organizzazioni adatte ed eventi che mirano a limitare gli sprechi, come ad esempio blocchi della circolazione, raccolta differenziata. Si cerca un consumo sostenibile. -Il corpo e la moda: il tabù più forte del consumo è il corpo. La sacralità del corpo non è certo messa in discussione a fine 900; la sua importanza e distintività sono anzi un elemento caratteristico di questa fase storica. Tuttavia la evoluzione della scienza e una nuova sensibilità culturale, vanno a ridefinire i suoi confini. Se il corpo è sacro, non può essere ridotto a merce, venduto o comprato, neppure parti di esso. Ma la scienza ci spinge a ridefinire i limiti dell’inviolabilità corporea. L’uso e la manipolazione del corpo non sono limitati al campo scientifico. Tatuaggi, piercing, mutilazioni gravi: le trasformazioni fisiche per comunicare un’identità sono un fatto culturale di lunghissima tradizione, ma nel contesto contemporaneo assumono talvolta la forma di vere e proprie pratiche di “consumo del corpo”. Anche per l’intervento della moderna medicina (lifting, liposuzioni, abbronzature). Per quanto riguarda gli standard del corpo femminile nell’Occidente, lo strapotere dei media è determinate. Pensiamo ai canoni estetici spesso diffusi nelle classi superiori, testimoniati da molte rappresentazioni artistiche, ben diversi da quelli dei contadini: il corpo magro è bello. Ricordiamo anche la funzionalità stessa del corpo, che deve essere agili e ben allenato, per poter produrre meglio: il corpo magro è efficiente. Se le forme del corpo comunicano, anche gli abiti si legano a tutto ciò. Da sempre l’abbigliamento e i suoi accessori travalicano le funzioni di protezione per comunicare una cultura e una identità: il gruppo di appartenenza, la classe sociale, il sesso, l’età, il mestiere. Corpo e abito hanno fra loro un rapporto molto stretto e non unilaterale, sono entrambi prodotti culturali. Basti pensare al “power dressing” con l’entrata delle donne nel mondo del lavoro manageriale. Ma quale è il significato della moda oggi? Simmel afferma che tendiamo ad aggregarci al gruppo per conformismo, protezione, sicurezza; nello stesso tempo desideriamo distinguerci, in una tensione continua. La moda nella società di massa trae il suo senso dalle stratificazioni di classe e tende a diffondersi dall’alto verso il basso. Una svolta sociologica si ha con Barthes, per il quale la moda è un linguaggio: in ogni merce che acquistiamo si nascondono universi di senso che ci rimandano a miti più vasti; le merci sono i segni di un linguaggio attraverso cui comunichiamo la nostra identità, entriamo in relazione con gli altri, ci confrontiamo con i significati culturali profondi, i miti appunto, racchiusi in un oggetto. Seguire la moda vuol dire comunicare, ma per comprendere il messaggio bisogna guardare non ai singoli capi (lessico) ma alla loro combinazione (sintassi), che è resa esplicita ad esempio nelle descrizioni che ne fanno le riviste specializzate. In Italia la moda è sempre stata importante, il grande stilista come perno del sistema moda, marketing e accessori. La moda diventa il nostro orgoglio, la nostra identità, come anche il cibo e il design. Si parla qui di “Italian way of life”. -Spazi privati e spazi pubblici: si viene a ridefinire nel nuovo millennio il paesaggio domestico. La cucina ridiventa il fulcro della casa, complice il suo legame con la convivialità. Vi è anche un ritorno al fascino rurale, si abbandona la città per tornare in campagna. In particolar modo si prediligono vecchie cascine da ristrutturare in chiave moderna; in particolar modo le mura si abbattono, il salotto e la cucina sono diventati uno spazio unico, diventando il vero centro della casa. Gli appartamenti in centro presentano le stesse caratteristiche, open space e cucina abitabile moderna. Il consumo plasma anche gli spazi esterni. Ci riferiamo ai nuovi locali per il consumo di cibo e bevande. Ovviamente parlando di spazi esterni, uno dei processi di consumo più caratterizzanti è forse quello del turismo. non è certo una novità, ma oggi possiamo anche parlare di ecoturismo, cioè sostenibile, informato, rispettoso dell’ambiente e della cultura. -I nuovi luoghi del commercio: gli ultimi luoghi destinati al commercio e al consumo sembrano andare proprio nel senso del gigantismo e della spettacolarizzazione. Pensiamo ai centri commerciali, ai luoghi di divertimento e spettacolo, come Disneyland o Las Vegas. Nel 1956 nasce il primo mall, che diventerà un esempio per tutti gli altri. Si riproduce a tutti gli effetti un centro urbano, con vie pedonali, piazzette, bar e ristoranti. La città fuori dalla città, un nuovo luogo di incontro sociale. In Europa, i centri commerciali arrivano dopo, in Italia non prima degli anni Settanta. A volte i centri commerciali sorgono attorno a una nuova formula, l’ipermercato, una mega struttura periferica che offre beni alimentari e non, sono presenti forti sconti e prezzi competitivi. Negli ultimi anni si assiste a un ritorno di questi grandi centri commerciali all’interno delle città, dove vi è il recupero di vecchi porti, fabbriche o magazzini, persino vecchi quartieri del centro storico. In ogni caso, la presenza dei centri commerciali incide sul paesaggio urbano. Molti dei nuovi spazi commerciali si caratterizzano per due aspetti. Il primo è il richiamo alla natura, con architettura eco-sostenibile. Il secondo aspetto è l’esasperazione del momento ludico e spettacolare, connesso allo shopping. Interessante è anche citare la presenza dei “factory outlet”, strutture controllate direttamente dai produttori che offrono al pubblico rimanenze di merci di marca. Sviluppatisi negli anni Settanta, rispondono al desiderio del consumatore di acquistare merce firmata ad un prezzo d’occasione. Il primo outlet in Italia ha aperto nel 2000 a Serrvalle Scrivia, presso Alessandria. Il compratore ha l’illusione di comprare un bene di lusso, come se fosse in un negozio in centro di marca. L’outlet ha democratizzato il lusso. Ogni punto vendita monomarca cerca un proprio stile inconfondibile. Anche la struttura stessa del negozio deve rimandare allo stile della marca con i prodotti che vende. Ad esempio il Disneystore presenta un’atmosfera fiabesca, il negozio della Nike rimanda allo sport. Il negozio quindi deve avere una propria identità specifica. Lo spazio del consumo cresce sempre più, si può acquistare qualsiasi cosa dal ricco centro alla periferia degradata. E cosa dire del consumo su Interner? La rete ha aperto spazi impensabili, non solo per l’acquisto vero e proprio, ma anche per nuove forme di comunicazione e marketing.
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