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L'Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio - Emanuela Scarpellini | riassunto, Sintesi del corso di Storia Sociale

Riassunto esaustivo del volume "L'Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio" di Emanuela Scarpellini per l'esame di Storia sociale dello spettacolo all'Università degli Studi di Milano.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 15/12/2020

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Scarica L'Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio - Emanuela Scarpellini | riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Sociale solo su Docsity! Corso di Storia sociale dello spettacolo Riassunto del libro: L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, di Emanuela Scarpellini, 2008 0. PREMESSA I beni di consumo sono apparsi a occhi esterni come l’aspetto piú evidente, e anche il piú desiderabile, della moderna civiltà occidentale. Può apparire strano che un aspetto cosí appariscente, oggi considerato come un elemento pervasivo della nostra società, abbia ricevuto relativamente poca attenzione; o almeno, non sia stato considerato come una categoria autonoma degna di entrare nella «narrativa» della storia contemporanea. Questo è invece quanto si propone il presente libro. Parlerà del consumo come di un elemento centrale nelle vicende del nostro Paese fin dai primi tempi dell’unificazione, durante il fascismo (quando entra nella politica di italianizzazione del regime) e nei lunghi decenni repubblicani. La tesi qui avanzata è che abbia sempre giocato un ruolo importante e che la sua centralità sia cresciuta nel tempo, fino a emergere apertamente nel discorso pubblico. La cultura materiale legata ai consumi si è dimostrata in grado di strutturare la società, di marcare i confini di classe, genere, generazione e le differenziazioni regionali; dunque una costruzione culturale che permette di osservare l’evoluzione dell’Italia da un’angolazione molto particolare. Scrivere una storia dei consumi che si snodi in parallelo con le grandi narrative della storia culturale, politica, economica e sociale pone molti problemi. A cominciare dal piú semplice, ma fondamentale, della definizione stessa di consumo: essa può limitarsi semplicemente all’uso di alcuni beni oppure dilatarsi fino a comprendere pressoché ogni cosa. Si è deciso di concentrarsi soprattutto sui beni materiali, e in parte su quelli immateriali e i servizi, purché siano effettivamente alla base della vita quotidiana. L’altra scelta importante è stata quella di non limitarsi all’ultima fase del consumo, cioè al momento dell’acquisto e della «distruzione» del bene, ma cercare di ricostruire il ciclo completo, che inizia molto prima nella sfera sociale e culturale, si concretizza nel campo della produzione economica e segue un percorso che giunge al mondo commerciale. Tutto ciò ha una fondamentale ricaduta sul piano politico: un’altra tesi avanzata in questo libro è che il consumo sia sempre ben presente nelle politiche governative, sia pure con accenti e pesi diversi secondo il periodo. Un ultimo punto riguarda la periodizzazione. La domanda è questa: si può parlare di una vera e propria rivoluzione dei consumi, qualcosa che per portata ed estensione sia paragonabile alla rivoluzione industriale? E se sí, quando ha avuto luogo? Una prima ipotesi è che essa si situi tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando si notano gli effetti della rivoluzione industriale: produzione in serie, creazione di grandi mercati, trasporti moderni, diffusione di nuove strutture di vendita come i grandi magazzini, ecc. Altri studiosi, soprattutto di area nordeuropea, ritengono invece che la nascita di una moderna sensibilità riguardo ai consumi sia da retrodatare fino al Seicento olandese o almeno al Settecento inglese. Non è semplice dare una risposta. Forse sono necessari molti altri studi per comprendere a fondo le dinamiche di questo fenomeno (e ciò vale di sicuro per l’Italia); forse dipende dalla definizione di «rivoluzione dei consumi». Se si vuole adottare una prospettiva di «lunga durata», è necessario andare molto indietro, probabilmente fino al Rinascimento. Non solo infatti la cesura del Sei-Settecento ha poco senso per l’Italia, rimasta in una posizione marginale rispetto alle grandi correnti commerciali europee e alle prime fasi della rivoluzione industriale, ma la nascita di alcune pratiche di consumo e una nuova valorizzazione culturale dei lussi materiali iniziano probabilmente nelle corti rinascimentali. In alternativa, si potrebbe scegliere una prospettiva relativamente piú breve, in grado di cogliere ogni cambiamento, ponendolo in rapporto con le varie sfere della società, dell’economia e della politica. Questa è stata la scelta che si sceglie di evidenziare nel presente lavoro, piú che un momento unico e irripetibile in cui i consumi esplodono una volta per tutte, una serie di tappe significative tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XXI secolo. una separazione fra due aspetti in precedenza connessi e sovrapposti. Il tempo libero non è però semplicemente il tempo dell’ozio; la diffusa mentalità produttivistica richiede che sia un tempo impiegato diversamente, ma comunque utilmente, ad esempio nello sport, nella cultura, in divertimenti sempre piú commercializzati. Questi nuovi consumi operai pongono però un problema: si tratta di una progressiva estensione dei consumi tipici delle alte classi sociali, un effetto trickle down, che si verifica con l’innalzamento del tenore di vita? Oppure per gli operai valgono meccanismi diversi? C’è del vero in entrambe le ipotesi. Non c’è dubbio che la contiguità fisica con le classi borghesi e la parziale condivisione degli stessi spazi pubblici abbiano favorito la diffusione di comportamenti simili; ma non bisogna dimenticare la spinta delle associazioni popolari e socialiste, favorevoli alla diffusione dell’istruzione e di comportamenti socialmente apprezzati che potessero migliorare non solo il singolo ma l’intera classe operaia. La tradizione dei cultural studies ha mostrato come la ricezione dei contenuti culturali e di intrattenimento «alti» da parte della classe operaia sia parziale: si accettano solo i contenuti che si adattano al proprio quadro di riferimento culturale, si adattano o rifiutano gli elementi percepiti come estranei. Dunque, nella società operano meccanismi di trasmissione culturale dall’alto verso il basso, ma non mancano quelli che compiono il cammino inverso, bubble up (si pensi in campo alimentare a taluni piatti contadini «poveri» passati sulle tavole borghesi o alle apprezzate preparazioni di pesce dei pescatori), oltre a spinte che determinano convergenze, dovute a un ambiente esterno comune. Le differenze culturali non vanno intese rigidamente, come costruzioni cristallizzate nel tempo una volta per tutte, ma in maniera elastica, flessibile, piú come un insieme di usi e schemi d’azione legati alle pratiche quotidiane, in grado di strutturare i comportamenti secondo l’estrazione sociale; insomma, quello che Bourdieu ha presentato come habitus. In una linea di continuità con la situazione preindustriale e contadina, le donne erano massicciamente impiegate nel lavoro manifatturiero, concentrandosi nei settori tessile e dell’abbigliamento. Tuttavia esse facevano parte dell’esercito della manodopera dequalificata: il loro lavoro era considerato accessorio e qualitativamente inferiore, era pagato di meno, durava per un tempo piú limitato (in genere fino al matrimonio o piú spesso alla maternità, quando oltretutto si veniva facilmente licenziate, e non oltre i 30- 35 anni di età). Questo discorso è importante per evitare di contrapporre troppo rigidamente le sfere di consumo e sociabilità maschile e femminile, identificando una presenza maschile tutta giocata sull’identità lavorativa extra-domestica e una sfera femminile definita quasi unicamente dal riferimento alla casa e alla famiglia. Nelle città la realtà del lavoro femminile è a lungo molto forte, anche se in calo. Semmai è interessante notare come nella vita lavorativa della donna della classe operaia vi siano una maggiore discontinuità e varietà, legate alle diverse fasi della vita. Questo ha un’ovvia ricaduta anche in termini di scelte di consumo, con un’attenzione a specifici consumi individuali legati alle necessità di apparire socialmente (abbigliamento, cura della persona) maggiore nei periodi di vita lavorativa esterna. Un’altra gerarchia riguardava le classi d’età; penalizzava l’età matura e soprattutto discriminava il lavoro minorile, ampiamente utilizzato. Dare una definizione unitaria della borghesia è quasi impossibile. I numerosi studi riguardanti la classe media hanno finito per concludere che fosse meglio parlare di «borghesie» o «classi medie», cioè di varie fasce sociali con ruoli e comportamenti differenziati. Anche in questo caso, dunque, il ricorso alla nozione di habitus può risultare molto utile per identificare mentalità e comportamenti collettivi e di nuovo il riferimento alle pratiche di consumo che strutturano questi comportamenti diventa centrale. Se si vuole essere precisi, si potrebbe individuare una fascia alto borghese composta da proprietari, imprenditori, dirigenti e professionisti (stimata nel 1901 in 310.000 persone); una corposa fascia di artigiani, commercianti e addetti ai servizi (1.900.000 persone), alla quale si possono aggiungere categorie particolari come militari, religiosi e simili (altre 440.000 persone). Infine, il gruppo degli impiegati pubblici e privati e degli insegnanti (480.000). Nel complesso, si tratta del 18% della popolazione attiva. La centralità del cibo nella tradizione culturale italiana è molto importante. Già dal Cinquecento, si afferma in Italia, per diffondersi in tutta Europa, il gusto delle nature morte, che mettono al centro della scena frutta, verdura e vari tipi di alimenti, ritratti con grande realismo. Questi quadri costituiscono per secoli un importante elemento di arredo nelle abitazioni agiate, e in seguito anche in quelle meno facoltose; sono quindi ben presenti nell’immaginario culturale e testimoniano con la loro presenza la trasfigurazione artistica del cibo, e quindi il suo valore simbolico. Un secondo elemento merita la nostra attenzione: il ruolo degli abiti. Pierre Bourdieu ha osservato che una parte importante delle risorse è utilizzata in strategie di distinzione: ogni classe o segmento sociale vuole differenziarsi dai gruppi contigui, soprattutto se inferiori. C’è da notare che la borghesia italiana sembra attribuire un peso maggiore a questo aspetto, e quindi al suo modo di apparire sulla scena sociale. L’abitazione borghese è al centro di importanti mutamenti, per descrivere i quali si deve fare ricorso al lavoro di due importanti autori: 1. il primo è Simon Schama che ha scritto Il disagio dell’abbondanza (1987). Nel rintracciare le origini dell’identità nazionale e culturale degli olandesi a partire dal Seicento, lo studioso rileva una dicotomia tra ricerca e godimento della ricchezza da un lato e vergogna per il suo possesso e consumo dall’altro; i ricchi mercanti e banchieri olandesi si lanciavano in rischiosi affari che consentivano lauti guadagni e accumulavano grandi fortune ma ne erano al tempo stesso turbati. L’ossessione per la pulizia e il decoro domestico cosí tipico di quella società si spiegherebbero con il tentativo di cercare un rifugio lontano dalla «sporcizia» del mondo. La casa doveva essere quindi pulita, sobria, incontaminata dalle brame di ricchezza e dagli affari mondani e sarebbe stato il regno della donna. Il brillante lavoro di Schama suggerí agli studiosi che nel Nordeuropa si fosse sviluppato un nuovo concetto di domesticità, di spazio privato, visto come un valore centrale intorno a cui costruire un’identità distinta sia dagli aristocratici sia dalle classi inferiori; 2. il secondo autore è Pierre Bourdieu, che si è occupato di abitazioni in tutt’altro contesto (i cabili in Algeria). Quello che interessa è il tipo di analisi che il sociologo fa di queste case berbere: egli «legge» gli spazi abitativi come una trama che lascia chiaramente trasparire la visione sociale sottostante, una riproduzione nella struttura spaziale delle divisione sociali, di genere e di età presenti fra i cabili. Le dicotomie luce/ombra, interno/esterno, alto/basso, maschile/femminile rimandano ad altrettante divisioni presenti nel nucleo sociale della famiglia. Le analisi di Schama e Bourdieu si rivelano importanti per comprendere le caratteristiche delle abitazioni borghesi dell’Italia liberale, che si distaccano nettamente da quelle contadine e operaie. Innanzitutto, appaiono luoghi molto piú centrali nella vita quotidiana; sono poi differenti non solo per la loro maggiore ampiezza e ricchezza, ma anche per la specializzazione degli spazi e la loro divisione e gerarchizzazione, che incarnano la struttura sociale e culturale della famiglia. Queste abitazioni sono spesso funzionali, «moderne» nello stile, e sono le prime ad accogliere mobili e arredi industriali di serie. La prima opposizione è tra interno ed esterno: porte chiuse, finestre, tende e tendine proteggono e separano l’ambiente interno della casa da quello esterno. All’interno della casa vi è poi la separazione fra pubblico e privato: vi sono spazi pensati per la vita in società, dove ricevere gli ospiti, e spazi riservati a questa nuova intimità domestica fra coniugi e figli. È importante fare una precisazione sui figli. È un delicato periodo di transizione riguardo all’idea di infanzia. Nella cultura contadina e operaia tradizionale i figli piccoli venivano precocemente impiegati nel lavoro con mansioni leggere; non si trattava di maltrattamento, ma semplicemente di una cultura che non riconosceva all’infanzia uno statuto speciale. In ambito borghese verso la fine dell’Ottocento iniziò invece ad affermarsi l’idea che i bambini non fossero «adulti immaturi», ma costituissero un mondo a parte, con proprie esigenze e necessità, propri valori, a volte addirittura contrapposti a quelli adulti: creatività, purezza, vulnerabilità. Il compito degli educatori era quindi quello di far emergere liberamente tali valori interiori, senza forzare i bambini con una ferrea disciplina e obbligarli a svolgere lavori inadatti. In Italia principale fautrice di tali posizioni fu Maria Montessori, che fondò numerose scuole ispirate a un metodo che esaltava le capacità positive dei piú piccoli. Questa nuova valorizzazione dell’infanzia ebbe varie conseguenze. I bambini non furono piú visti come esseri in transizione verso l’unica fase significativa della vita, la maturità; erano portatori di valori propri e pertanto necessitavano di spazi specifici (anche nelle case). Andavano ripensati anche i consumi: ora si richiedevano educazione, svaghi, giochi e anche abiti e pettinatura adeguati. Resta da dire un’ultima cosa, cioè ricordare i consumi legati alla sociabilità extra-domestica. Una delle strategie messe in atto dalle classi borghesi per attuare la distinzione fu proprio quella legata ai consumi ricreativi e culturali. Anzi, culturali in primo luogo, almeno cronologicamente, attraverso circoli, gabinetti letterari e società scientifiche; c’erano poi i divertimenti trasformati e adattati, come il ballo, nel Settecento appannaggio esclusivo della nobiltà e ora interpretato con uno spirito diverso, oppure la crescente abitudine di mangiare fuori; e infine il divertimento principe, il teatro. L’altra grande novità furono le associazioni sportive, che comparvero in Italia a fine Ottocento e si svilupparono molto rapidamente. Gli studi in questo settore mostrano come convergano in questa evoluzione vari elementi: la tradizione militare, le nuove spinte igieniste, un riflesso dello spirito patriottico, la ricerca di status sociale, l’aspirazione a valori solidaristici. Per le classi aristocratiche il consumo sembra davvero giocare un ruolo centrale nel processo di legittimazione della loro posizione. Questo non vuol dire che il consumo di beni di pregio, cosí carico di significati simbolici, fosse sottratto a un giudizio morale. Al contrario esso è stigmatizzato per tutta l’antichità, almeno nella sua forma di eccesso e spreco; bisognerà attendere il periodo moderno per assistere a una rivalutazione del lusso da parte di alcuni studiosi, inteso utilitaristicamente come mezzo di promozione del commercio e del benessere individuale. Il lusso è cosí sottratto al giudizio morale (che ora riguarda principalmente i comportamenti e le scelte private) e può entrare nella sfera economica pubblica come elemento positivo. Quanti erano i nobili in Italia a inizio Novecento? E quale era il loro peso? Dal punto di vista numerico si trattava di circa 8.400 famiglie e il loro numero continuava a diminuire. E il loro stile di vita? Quello, invece, mostrava sorprendenti caratteri di continuità, a iniziare dalla sociabilità domestica, dalla tendenza all’endogamia geografica (matrimonio con la stessa classe), al perpetuarsi di alcune professioni tipiche, all’esclusivismo sociale che apre alle nuove élite borghesi con molta lentezza e molta diffidenza. Intanto c’è da notare che, nonostante la relativa decadenza economica e il restringimento numerico, l’impatto di questa fascia sociale sull’immaginario collettivo è ancora molto forte a cavallo del secolo, grazie al suo ruolo storico e alla sua «visibilità». Si pensi alle case. Le dimore aristocratiche tendono a ospitare famiglie allargate e molti servi. L’architettura dell’edificio trasmetteva chiari significati: la sua mole rimandava alla ricchezza della famiglia. All’interno vi erano molte stanze divise secondo i basilari princìpi giorno/notte, pubblico/privato e la socialità domestica continua a essere una prerogativa di queste famiglie, che utilizzano buona parte dello spazio domestico per ricevere e divertirsi in compagnia. Ogni camera poi era di per sé uno spettacolo di colori, gli oggetti non sono disposti casualmente ma, dietro ai consigli di diffusi manuali, seguono uno stile unitario. Anzi, in molti casi adattano lo stile alla funzione della stanza. Le dimore nobiliari erano poi fornite di numerosi bagni, alcuni dei quali con molti comfort (dall’acqua calda alla novità del bidet importato dalla Francia). Igiene e pulizia divengono sinonimi di ordine e disciplina e sono associate alle classi superiori, in contrapposizione alla sporcizia materiale e morale dei ceti subalterni. Un altro ambiente importante era la cucina: grande, in quanto doveva soddisfare le necessità di molti individui, e ricca di utensili, pentole e arredi. Il discorso sulla cucina ci introduce necessariamente alla questione del cibo. Cosa e come mangiavano i nobili? Norbert Elias nelle sue famose opere ne ha fornito una Non sorprende quindi che l’attenzione principale sia andata inizialmente verso il settore educativo, l’unico in grado di assicurare un’istruzione diffusa e standardizzata necessaria per il progresso agricolo, e soprattutto per far funzionare la macchina dell’industria. Tutto questo completa e integra perfettamente il dato saliente relativo alla spesa pubblica, e cioè il formidabile impegno nella creazione di infrastrutture e negli investimenti. Il peso di questa spettacolare spinta allo sviluppo fu scaricato in buona misura sulle classi popolari; i consumi piú diffusi furono l’oggetto principale sul quale gravarono le imposte regressive. Si potrebbe dire che in questo periodo inizia a crearsi uno «spazio nazionale» che orienta le scelte di consumo; ma anche che le prime politiche riguardanti i consumi implementate dalla ristretta élite alla guida del paese ebbero un carattere ambivalente. Dal punto di vista dei nostri consumatori, infatti, questa politica ebbe pesanti costi. Il mondo della produzione Contano di piú i consumatori o i produttori? La domanda è inevitabile nel momento in cui si constata che le pratiche di consumo sono sí informate da processi culturali, ma fanno inevitabilmente i conti con i fattori materiali che le condizionano. Il rapporto che intercorre tra produzione e consumo è ovviamente di reciproca influenza, ma sicuramente i produttori contano molto rispetto ai processi di consumo italiano tra fine Ottocento e inizio Novecento. Essi producono o comunque rendono effettivamente disponibili i prodotti sul mercato (anche grazie all’intermediazione commerciale); le scelte dei consumatori, con tutte le differenziazioni, si svolgono de facto all’interno di questa offerta produttiva, con due importanti correttivi: 1. Il primo è l’importazione dall’estero. L’Italia, tipica economia di trasformazione con scarse materie prime, attraversa in questo periodo il primo effettivo slancio industriale. Nel quadro europeo appare come un paese a metà del guado tra economia tradizionale ed economia industrializzata: esporta soprattutto prodotti agricoli, tessili (soprattutto seta) e alimentari; importa frumento, materie prime, semi-lavorati e prodotti industriali finiti. Molti beni di consumo di lusso provengono dall’estero; tuttavia l’apertura dell’economia italiana è piuttosto limitata e non si può dire che le produzioni estere esercitino in questo periodo un ruolo decisivo nel complesso dei consumi. 2. Il secondo è l’autoconsumo. Le statistiche ufficiali, costruite per registrare le transazioni mercantili, non si accorgono del lavoro svolto a domicilio, di quello domestico, dei servizi scambiati attraverso reti di amici e parenti, che costituirebbero una quota stimabile intorno al 20-25% dei consumi. È importante segnalare subito alcune tendenze di lungo periodo riguardo ai prodotti consumati: - si passa dal consumo di beni primari a quello di beni industriali: l’esempio piú clamoroso è quello degli alimentari. A fine Ottocento un terzo di tutti i prodotti consumati proveniva dall’agricoltura, un altro 30% dalle industrie alimentari; nel giro di sessant’anni la situazione quasi si rovescia, con le industrie alimentari al primo posto e i prodotti agricoli primari ridotti al 16%. Questo vuol dire che molte operazioni condotte in ambito familiare (pulizia, taglio, conservazione, cottura) sono state trasferite all’industria alimentare, per motivi sociali (mutamenti verificatisi all’interno della famiglia e crescente lavoro extra-domestico delle donne), economici (maggiore disponibilità di reddito) e tecnologici (nuove tecniche di conservazione e lavorazione dei cibi); - secondariamente, è chiara l’attenzione dei consumatori verso i nuovi prodotti proposti, ad esempio, dall’industria chimica, meccanica, dei trasporti e della scolarizzazione; tuttavia il consumo di questi beni risulta a lungo modesto e non incide significativamente sugli equilibri generali. Considerato il peso giocato da alcune industrie nazionali nel processo di consumo, vale la pena di esaminare le loro caratteristiche e il tipo di offerta che proponevano al variegato mondo dei consumatori. Industria alimentare. Oltre a ricordare l’importanza dell’autoconsumo, è bene sottolineare il carattere locale della produzione: quasi tutte le merci sono prodotte nel raggio di poche decine di chilometri, al massimo all’interno della stessa regione. In effetti il settore alimentare, pur essendo il piú importante come produzione totale (854 milioni di valore aggiunto nel 1911, piú della meccanica) e assorbendo ancor piú manodopera, ha dimensioni medie molto piccole e risulta in genere arretrato da un punto di vista tecnico, ponendosi spesso a metà strada tra industria e artigianato. L’onda d’urto della rivoluzione industriale, partita dalle industrie tessili e meccaniche, comincia a farsi sentire anche nelle trasformazioni alimentari, con nuove tecniche di lavorazione, nuove macchine, nuovi prodotti industriali (ad esempio chimici) da impiegare nella produzione. Il risultato è che un certo numero di imprese compie il salto e inizia a produrre meccanicamente quantità di gran lunga superiori di prodotti alimentari, che risultano molto piú standardizzati e costano decisamente di meno grazie alle economie di scala. I grandi produttori devono fare i conti con i problemi legati alla distribuzione e, soprattutto, al marketing. Prende cosí forma un aspetto che si rivelerà decisivo nella storia dei consumi del Novecento: la marca (o marchio proprietario: il nome o simbolo del prodotto commercializzato da un’impresa, spesso protetto tramite un deposito legale). Basilarmente la marca ha due funzioni. La prima è informativa: dice quali sono le caratteristiche del prodotto, le sue funzioni, i suoi componenti, prima ancora di comprarlo; la seconda è valoriale: costituisce una specie di «valore aggiunto» rispetto al bene fisico, dice come quello specifico articolo si inserisce nel mercato, quale valore di status può fornire. La costruzione di una marca si basa essenzialmente sulla pubblicità, che non a caso muove allora i primi passi anche in Italia. Si tratta però di una pubblicità che punta soprattutto sul primo aspetto, cioè quello dell’informazione: nelle pagine delle riviste che ospitano in numero crescente gli «inserti» pubblicitari appaiono riquadri con una piccola illustrazione del prodotto e una lunga scritta di spiegazione. Importante era anche il packaging: la confezione esterna del prodotto (la forma, il colore, il logo impresso) era un elemento importante per la sua caratterizzazione e doveva perciò rimanere uguale nel tempo. Se tutto il meccanismo funzionava, e si riusciva a distribuire la merce abbastanza capillarmente, si poteva sperare che fossero i consumatori stessi a richiedere quello specifico prodotto e che, a lungo andare, essi si «affezionassero» alla marca. Tra le marche piú in voga: Buitoni, De Cecco, Barilla, Agnesi (pasta); Lazzaroni, Marinai e Guelfi, Venchi, Talmone (dolci); Cirio, Del Gaizo, Polli, Arrigoni (conserve e salse in scatola); Locatelli, Invernizzi, Galbani, Latterie Soresinesi, Polenghi Lombardo (formaggi); Libieg, Knorr, Nestlé (marche straniere di estratto di carne, brodo concentrato e latte condensato in polvere). Spesso si tende a immaginare la rivoluzione industriale inglese come un’innovazione ristretta a miniere di carbone, macchinari industriali, trasporti moderni e macchine a vapore: in realtà, la ricchezza inglese si basò in buona parte sulla produzione di beni di consumo, richiesti dall’effervescente mercato interno ed esportati in tutto il mondo. Biscotti, liquori, coloniali, salse, porcellane, biancheria, posate, camicie e abiti confezionati (soprattutto da uomo), lenzuola, capi in lana di pregio: su questo e molto altro ancora poggiava la potenza dell’impero inglese. Non è che in Italia mancassero competenze in questi settori, ma i sistemi di lavorazione erano arretrati. L’effetto dimostrativo costituito dalle piú avanzate industrie estere e gli orientamenti dei consumatori insieme crearono un formidabile impulso verso una trasformazione in senso industriale che, quando riuscí al meglio, uní le nuove competenze a un antico «saper fare» artigianale che avrebbe posto le basi per il futuro made in Italy. Consumatori e produttori, dunque, sono all’interno di un medesimo processo; e dei consumi finali, oltre alla funzione culturale e politica, va tenuta ben presente la funzione economica. Gli spazi del commercio In luoghi francesi come la Galleria del Palais Royal (del 1789), il Passage Delorme (1808) o la Galleria Colbert (1826), tutto appariva diretto a un consumo spettacolarizzato. Intanto erano luoghi coperti, di passaggio, lussuosamente pavimentati e ben arredati; l’ingresso non implicava quindi la volontà di fare un acquisto; semmai essi invogliavano a passeggiare e soffermarsi accanto alle sfavillanti vetrine che si allineavano l’una dopo l’altra al loro interno, inframmezzate da caffè, ristoranti e teatri. Si proponevano come luoghi di ritrovo e di incontro, dove però la funzione commerciale era inscritta nella stessa architettura. Il richiamo di questi luoghi era affidato anche alla tecnologia: costruiti nell’Ottocento con moderne coperture di vetro e ferro, lasciavano filtrare di giorno una luce bianca e di sera si illuminavano con l’abbagliante chiarore della luce a gas. Le gallerie commerciali si diffusero rapidamente nelle principali città europee, divenendo un polo di attrazione e un vanto; nell’Ottocento la sola Parigi ne contava 150, ed esse si moltiplicarono a Londra e anche in Italia, dove negli ultimi decenni dell’Ottocento si costruirono varie gallerie di grandi dimensioni, come quelle realizzate a Torino, a Genova (Galleria Mazzini) e a Napoli (Galleria Umberto I). A differenza degli originali passages, queste costruzioni sono molto piú grandi e monumentali, tanto che l’iniziale finalità commerciale, con il suo carattere di raffinato salotto, si abbina a quella di rappresentanza. Si consideri la piú grande, la neoclassica galleria Vittorio Emanuele II a Milano, progettata da Giuseppe Mengoni e costruita tra il 1865 e il 1877: si tratta della piú grande galleria di questo tipo al mondo. È chiara qui la volontà di creare un monumento rappresentativo delle ambizioni di una città in crescita, tanto che quando la società privata che aveva iniziato i lavori fallí, fu il comune ad acquisirne la proprietà e ad accollarsi le ingenti spese di realizzazione. Resta però significativo il fatto che l’architettura piú maestosa creata per dare decoro e prestigio alla Milano borghese sia una galleria commerciale, dove presero subito posto i negozi piú prestigiosi della città e i bar alla moda. Prestigio sociale e progresso economico si manifestavano cosí in forme commerciali. In un ideale cammino evolutivo, alle gallerie seguirono presto i grandi magazzini. Allestito in un grandioso edificio all’insegna della modernità, il magazzino spalancava al suo interno davanti agli occhi dei clienti un profluvio di merci lussuose, esotiche e ordinarie. La formula fu subito ripresa a Parigi e in tutta Europa; i contemporanei non hanno dubbi: il grande magazzino è una svolta nella storia dei consumi e del commercio. Fiere e botteghe sono forme antichissime di commercio. Le fiere sono state un elemento caratterizzante nella vita economica e sociale per secoli interi, anche se la loro frequenza era forse un indice dell’insufficiente strutturazione del commercio interno, piú che un segno della sua floridezza, tanto è vero che zone molto sviluppate dal punto di vista mercantile come Venezia non avevano importanti fiere. Comunque, le fiere furono grandi occasioni di commercio, di incontro e spesso di festa quasi fino all’Ottocento; poi lo sviluppo dei trasporti marittimi e ferroviari fece diminuire l’importanza di tali manifestazioni a favore di strutture piú stabili, come i mercati locali. Lo sviluppo urbano investe con forza anche queste strutture: le esigenze di approvvigionamento delle città crescono rapidamente e si provvede a costruire mercati coperti. Anche le botteghe hanno una storia lunghissima e per molti secoli sono mutate ben poco e lentamente, dal Settecento, ma piú compiutamente dall’Ottocento, l’antica bottega diviene negozio (cioè luogo del «non ozio») nel senso inteso oggi: un ambiente piú ampio e piú specializzato. Nei centri cittadini interessati da questo rinnovato sviluppo edilizio si moltiplicano le rivendite di lusso, i caffè, le farmacie. È difficile effettuare un censimento preciso di questa élite commerciale, ma si può ritenere che si trattasse di un numero ristretto di rivendite, anche nelle città piú grandi. In questi negozi c’era sempre un commesso che mostrava un prodotto: è lui il vero protagonista, il tramite ineludibile della vendita, l’animatore di questo spazio pubblico, l’esperto e il consigliere, anche perché gran parte della merce non è esposta ed è lui a farla apparire (anche se rappresentava ancora l’eccezione e non la regola). Per quanto riguarda i grandi magazzini, si puntava ad acquisire una clientela borghese sensibile al richiamo del gusto e della moda, anticipando molte soluzioni moderne. La formula si basava su alti volumi di vendita e una veloce rotazione del magazzino, sul prezzo fisso e l’eliminazione dell’obbligo di acquisto; tutto ciò comportava un’enorme macchina amministrativa. L’impiego nei grandi magazzini celava una realtà di dura fece che dare una veste politica a una linea protezionistica in atto da anni per via di dazi e tariffe doganali. Il giudizio degli storici sull’autarchia è concordemente negativo. Si è osservato che essa ha danneggiato un’economia di trasformazione come quella italiana, ha favorito alcuni settori a scapito di altri, ha imposto ai consumatori prodotti italiani piú costosi oppure surrogati di scarsa qualità. Per sostenere l’industria italiana e per controbattere le sanzioni, venne progressivamente attivata una campagna di sostegno ai prodotti italiani che assegnava alle merci un valore aggiunto: l’italianità. Comprare italiano non era sprecare, era adempiere a un compito patriottico. L’uso della leva patriottica per promuovere le produzioni non è certo nuovo, né limitato all’Italia. Nel contesto del fascismo, però, questa politica ha l’effetto di elevare il consumo al rango di attività che concorre pienamente allo sviluppo della nazione e di creare esplicitamente uno spazio di consumo nazionale. Si è visto come il consumo avesse in precedenza caratteristiche insieme localistiche e transnazionali; il fascismo compie uno sforzo per creare un’identità e un profilo tipico del consumatore «italiano». Questo porta a due considerazioni: - l’autarchia investe il lato dei consumi ed entra direttamente nella sfera della famiglia; in tal modo si rivolge di fatto alle donne, che sono usualmente incaricate di fare gli acquisti e gestire la famiglia come una piccola unità economica. Lo Stato fascista si preoccupa di assegnare alle donne un ruolo preciso, all’interno della famiglia, per il miglioramento e lo sviluppo della razza italiana; e a tal fine crea sia incentivi positivi (assistenza sociale, sostegno alla maternità) sia strumenti repressivi (allontanamento da vari mestieri, scoraggiamento dell’istruzione superiore, esclusione dalla politica). In questo quadro, la politica dei consumi diventa un importante aspetto della politica fascista nei confronti delle donne; - è evidente lo sforzo di creare uno spazio integrato comprendente l’Italia e il Mediterraneo, e questo a proposito di tutti i tipi di consumo. Ci fu il tentativo di creare uno spazio nazionale dei consumi allargato anche alle colonie. In effetti, per quanti non ebbero la possibilità di recarsi in tali territori, la rappresentazione delle colonie si formava attraverso le immagini rilanciate dai cinegiornali Luce, le fotografie su quotidiani e riviste, i discorsi pubblici e, in maniera piú tangibile, attraverso le merci esotiche, soprattutto caffè e banane, che giungevano sui mercati dalle terre d’Africa. Inoltre, gli italiani erano abituati a declinare i consumi in termini di classe e genere: ora compare la razza. Molti prodotti sono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’«indigeno»: in una pubblicità per le banane è un sorridente giovane nero che le porge. Queste “pubblicità africane” non sono parte irrilevante nella costruzione di un’identità «egemonica» nazionale, rispetto alle popolazioni coloniali, perché sottolineano visivamente le differenziazioni di razza. Infine, non è da sottovalutare la presenza nelle città italiane di negozi di prodotti coloniali, caffetterie e torrefazioni con nomi esotici. Vale la pena di ricordare brevemente a questo punto che il consumo di prodotti «nazionali» non si limitò all’Italia e alle colonie. Da fine Ottocento, esso aveva di fatto seguito le ondate di immigrati italiani in Europa e nelle Americhe, dove si era creata un’importante domanda di prodotti tipici. Si prenda l’esempio italoamericano: durante il fascismo, quando crebbe l’orgoglio per l’appartenenza etnica (dopo le discriminazioni a lungo subite da parte dei gruppi anglosassoni), uno dei modi per testimoniare questo rinato nazionalismo fu quello di aumentare il consumo di prodotti italiani. Durante la campagna d’Etiopia vi fu una vera mobilitazione delle comunità delle grandi enclave di New York e Chicago per acquistare merci provenienti dall’Italia, per contrastare l’effetto delle sanzioni. Non si trattava solo di mangiare pasta, pomodori, olio d’oliva, vino e pane, ma piuttosto di come mangiarli: in famiglia, riuniti tutti insieme intorno a una tavola, o in certe ricorrenze con tutti i parenti (e questo in un paese come gli Stati Uniti dove questi usi non sono affatto generalizzati). Naturalmente questo non vuol dire che il consumo di prodotti italiani portasse a un’effettiva replicazione dell’identità. Il mercato dei beni di consumo era governato da meccanismi complicati, tutt’altro che «naturali», e lo Stato vi faceva sentire la sua voce in misura crescente. Esso non solo cercava di orientare i consumi privati, con l’autarchia e la promozione di prodotti nazionali, ma appariva sempre piú protagonista nell’offerta di consumi pubblici. È vero che già i governi liberali vi avevano prestato attenzione, ma con il fascismo queste spese assumono una nuova centralità. A uno sguardo di lungo periodo appare evidente la tendenza verso una crescita della spesa pubblica, di cui i consumi pubblici sono una quota significativa; molti attribuiscono il fatto alla maggiore complessità delle società moderne, che comporta un crescente intervento regolatore dello Stato, uno sforzo nella dotazione di infrastrutture e cosí via. Una delle analisi classiche al riguardo, quella di Adolf Wagner, correla la crescita della spesa con la crescita del reddito. Lo Stato spende sempre di piú perché è chiamato a «correggere» gli squilibri dello sviluppo industriale, ad esempio riguardo all’urbanizzazione e all’ambiente, e a rispondere alla crescente domanda di servizi sociali. Questa crescita non è però costante nel tempo, ma avviene a sbalzi: Peacock e Wiseman hanno osservato che in occasione di una grave crisi, ad esempio una guerra, la spesa sale rapidamente e poi scende ma non torna ai livelli precedenti, forse perché i cittadini preferiscono mantenere alcuni dei servizi e delle protezioni sociali ormai introdotti. È questo l’«effetto di spiazzamento»: dopo ogni crisi, il livello della spesa si innalza stabilmente di un po’. La politica del fascismo dunque si inserisce in una condotta molto piú generale, legata allo sviluppo industriale del paese. All’interno di questo quadro esso attua però scelte specifiche. Si può osservare come in Italia, al contrario di altri paesi europei, l’effetto di spiazzamento quasi non si verifichi (o almeno avvenga con ritardo): ciò è dovuto a una certa arretratezza del Paese ma anche al fatto che il fascismo riorienta rapidamente la spesa pubblica seguendo finalità politiche, lasciando nuovamente cadere le spese assistenziali e previdenziali che erano molto cresciute dopo la guerra (in particolare nel triennio 1920-22), e privilegiando altre spese, soprattutto quelle militari (fino alla fine degli anni Venti). C’è un altro aspetto da ricordare nella politica sui consumi pubblici del fascismo, e cioè le specifiche norme previste per le donne. È possibile ricordare come la politica in favore della maternità non fosse solo sostenuta da una martellante propaganda; numerose furono le leggi approvate a concreto sostegno delle donne lavoratrici: estensione delle norme contro il lavoro notturno di donne e bambini; legge quasi rivoluzionaria sulla maternità, che prevedeva due mesi di congedo obbligatorio pagato, piú un prolungato periodo di assenza facoltativa, permessi per l’allattamento, un bonus in denaro alla nascita. A questo si assomma la creazione di asili nido, consultori pediatrici e cliniche specializzate e la capillare opera di assistenza svolta dal 1925 dall’Onmi (Opera nazionale per la maternità e l’infanzia). Dunque, non c’è dubbio che il regime fascista stimoli gradualmente la spesa pubblica, militare in primo luogo, ma poi anche civile. All’interno della spesa civile si assiste a un significativo fenomeno: le spese redistributive (assistenza e previdenza) superano negli anni Trenta quelle per l’istruzione. Si potrebbe interpretare questo fatto come un effetto di «spiazzamento» in ritardo; ma le caratteristiche di questa spesa fanno propendere per una scelta politica. L’obiettivo è cioè indirizzarsi a specifici gruppi, le donne in primo luogo, ma anche i lavoratori dell’industria e i dipendenti pubblici per integrarli nel regime. I consumi pubblici divengono cosí uno strumento di consenso politico mirato. Nella vita quotidiana delle famiglie durante il fascismo non ci sono solo i consumi privati e i servizi di base assicurati dallo Stato. In misura crescente entrano altri consumi «collettivi», assicurati da enti parastatali, organismi privati, associazioni controllate dal partito. Si tratta dei consumi collegati al tempo libero: educazione, sport, cultura, divertimento. Perché il regime doveva occuparsene? 1. In Italia le associazioni ricreative operaie, spontanee o d’ispirazione socialista, erano molto diffuse e popolari. Una delle prime preoccupazioni del fascismo fu perciò quella di fare piazza pulita del retroterra avversario, colpendo bande musicali, cori, filodrammatiche e associazioni sportive anche solo lontanamente sospette di simpatie socialiste. 2. Un secondo stimolo a incentivare queste iniziative proviene invece dagli Stati Uniti, dove fioriscono le attività dopolavoro aziendali, che rappresentano uno sviluppo della tradizione filantropica di aiuto ed «elevazione» dell’operaio nata in Europa fin dall’Ottocento. Ora però avviene un fatto nuovo: tutte queste attività vengono portate dentro lo Stato, inglobate in un ente parastatale affidato direttamente al partito fascista, perché ne faccia uno strumento di organizzazione del consenso. Nasce quello che Stefano Cavazza ha chiamato «tempo libero di Stato». Questa operazione è rivelatrice di un cambiamento epocale: i consumi relativi al tempo libero sono diventati cosí importanti da meritare l’attenzione delle autorità; non sono superflui, voluttuari, o magari riservati a una certa élite. Studiosi come Kern e Corbin mostrano come ogni epoca e cultura abbiano una specifica concezione del tempo. Dall’Ottocento il tempo diventa piú strutturato, piú misurabile, accelerato, interiorizzato. Se dunque il tempo contemporaneo è cosí prezioso e misurabile, non sorprende che una delle battaglie operaie e sindacali piú lunghe sia stata quella per la riduzione dell’orario legale di lavoro da 12-15 ore a 8 ore; in questo modo i lavoratori acquistavano piú tempo per se stessi. Ecco allora che la ricreazione, il tempo dedicato ad attività di svago e di cultura diventa un’attività socialmente apprezzabile. Il gioco è fatto: i consumi culturali ricreativi hanno preso il loro posto accanto ai consumi di base tradizionali. Il fascismo non fa che concretare tutto questo, aggiungendovi di suo la connotazione politica. Il regime portò, ad esempio, il teatro, tipico consumo d’élite, a fasce piú ampie di popolazione nell’ambito di un programma di integrazione nazionale (e si torna cosí alla creazione di uno spazio nazionale dei consumi: non a caso, l’unica prerogativa richiesta per la rappresentazione delle opere era l’«italianità»). E un discorso simile può essere fatto per altri ambiti, per esempio lo sport, che ha un significato non solo di classe ma anche di genere. Questo sforzo di allargare i consumi culturali quanto è servito a rafforzare il regime? Ha piú senso ribaltare la domanda: quanto il regime ha legittimato socialmente questi consumi? Dal punto di vista delle alte cifre, la risposta è certamente molto positiva, considerato che la partecipazione resta sempre volontaria (anche se talvolta è consigliata); il regime diffonde in tal modo la fruizione di consumi «alti» come il teatro e popolarizza ancor piú generi come lo sport, il cinema e la radio. Questo non significa però che l’adesione sia totale e omogenea da parte delle diverse classi sociali, che possono aver interpretato le nuove esperienze alla luce di una loro cultura specifica. Ognuno insomma può aver preso quello che voleva. Ma che cosa voleva? Gli studiosi dei sistemi organizzati sostengono che l’adesione a un’organizzazione volontaria dipende da due principali fattori: gli incentivi selettivi (incentivi materiali, ad esempio la possibilità di usufruire di beni e servizi altrimenti fuori dalla portata economica delle classi medio-basse) e gli incentivi collettivi (che possono consistere nella solidarietà, nel sentirsi parte di un gruppo, nel riconoscersi in una specifica identità, come l’italianità). È possibile quindi ritenere che ci sia stata una fruizione su piú livelli, anche contemporanei, e dividerli è impossibile. Una cosa però è certa: l’opera del regime, diffondendo dall’alto questi consumi, contribuí a dar loro una forte patina di legittimazione sociale, contribuí a farli ritenere parte di quel «pacchetto» di beni e servizi cui ogni cittadino aveva diritto. Rispetto alla Germania nazista, l’Italia era in una condizione diversa, di maggiore povertà. Per questo il ruolo del regime nel promuovere i consumi pubblici e collettivi era piú importante; inoltre l’accento posto sulla dimensione autarchica del consumo, con tutte le sue ricadute politiche, fu piú marcato. Ma per entrambi i 3. IL MIRACOLO ECONOMICO La società nell’età d’oro del capitalismo Se i decenni tra fine Ottocento e prima guerra mondiale sono quelli della «grande trasformazione», gli anni 1945-73 sono l’«età d’oro» del capitalismo. Le cause di questa fortunata situazione sono molteplici, alcune contingenti, altre strutturali. 1. In primo luogo operano la liberalizzazione dei mercati e l’integrazione dei sistemi produttivi in un unico spazio economico, sovrinteso da istituzioni internazionali e saldamente ancorato al dollaro, che innescano un flusso di merci e capitali senza precedenti. Il ruolo degli Stati Uniti in questo processo non può essere sottovalutato, per la loro lungimirante leadership, per gli aiuti concessi all’Europa in crisi dopo la guerra, per l’attiva diffusione di nuovi modelli di produzione (e consumo), per la spinta all’integrazione politico-economica occidentale. 2. Altrettanto importante è la politica economica coscientemente perseguita per promuovere lo sviluppo all’interno dei singoli paesi e anche a livello internazionale. L’assunto di queste politiche è chiaro: lo sviluppo consiste essenzialmente in una crescita economica di tipo quantitativo, che porta a un piú alto standard di consumi, migliora la qualità della vita, diminuisce la disoccupazione e la conflittualità sociale; pertanto gli obiettivi prioritari sono gli investimenti in capitale fisso e quelli in capitale umano (istruzione, formazione professionale). 3. Un terzo elemento è dato dagli insospettati spazi di crescita economica e di mutamento che si aprono con la ricostruzione. La tipica resistenza al cambiamento opposta dalle istituzioni sociali e dalle stesse forme culturali viene superata d’un colpo per via della guerra, che spazza via vetuste istituzioni, caste privilegiate, ricche corporazioni, antiche famiglie, insieme a molti poveri abitanti. 4. Anche a metà del XX secolo un elemento fondamentale per comprendere le dinamiche che innescano profondi cambiamenti nei consumi è l’aspetto demografico. La generazione del dopoguerra dà vita al baby boom, un piccolo sconvolgimento demografico, che porta a un rapido aumento della popolazione e soprattutto a una crescita delle classi d’età piú giovani, bambini e ragazzi. Questa fase vede un incremento demografico, complice la crescita economica dei paesi occidentali e la ripresa delle migrazioni interne e internazionali, soprattutto intereuropee; si chiuderà agli inizi degli anni Settanta, con una nuova stagnazione demografica. L’altro importante fenomeno demografico, come detto, è la ripresa dei flussi migratori. Certo, non si tratta piú delle imponenti migrazioni di inizio secolo: ora ci si sposta dal sud al nord, dall’Europa meridionale a quella settentrionale (Germania in testa) e anche, in paesi con una frattura economica interna come Italia e Spagna, dalle regioni piú povere a quelle piú industrializzate. Tutto ciò comporta un mutamento nel profilo demografico dell’italiano medio, che ha un’immediata ricaduta sui consumi. La presenza di giovani e di nuove coppie che si sposano, hanno figli, creano una famiglia nucleare, vivono in luoghi geografici lontani dalla famiglia originaria e si spostano con facilità, dà vita a una forte domanda di beni di consumo. Ci sono dunque le premesse sociali per un mutamento nella struttura dei consumi. 5. Inestricabilmente legato ai fattori economici e sociali, c’è il cambiamento culturale. Nell’Italia del miracolo economico era venuta l’ora di «comprare» la felicità. Magari per via della diffusione di un modello di benessere individualistico, dove il consumo privato è il vero segno del successo e dell’integrazione sociale (come avveniva appunto in America); o magari perché le premesse culturali di un consumo di massa erano state già poste durante il fascismo, senza che ci fossero i mezzi per il loro effettivo appagamento. Ma cosa comprano gli italiani? Si può parlare di miracolo rispetto ai consumi? Sicuramente sí, ci fu una crescita dei consumi sconvolgente. Per la prima volta, le spese alimentari non assorbono piú la gran parte delle risorse disponibili e scendono ben al di sotto della metà, ma soprattutto la dieta cambia profondamente. Rispetto agli anni ‘30, raddoppiano tutti i prodotti caseari (latte e formaggio) e le uova; cresce il consumo di vino e ancor piú quello di birra, ma soprattutto salgono tre prodotti simbolo: la carne bovina, lo zucchero e il caffè. Il consumatore medio del 1970 ha finalmente davanti a sé un’alimentazione ricca e variata. La triade dei consumi di base appare fortemente ridimensionata in percentuale: in forte calo gli alimentari, sostanzialmente stabili le spese per la casa e i vestiti. Invece gli altri consumi coprono il 35% del reddito a disposizione: si assiste quindi a uno spostamento nelle scelte e alla progressiva sostituzione di quote tradizionalmente spese nell’alimentare per la motorizzazione privata, peri beni durevoli (arredamento e primi elettrodomestici), per la cura e la bellezza del corpo e per l’acquisto di servizi. La principale novità riguarda la presenza di beni durevoli. Al primo posto frigorifero e televisione, distanziati lavatrice e automobile, quindi aspirapolvere, motocicletta e lavastoviglie, con scelte non omogenee in base alla fascia di reddito: le famiglie piú povere privilegiano il televisore rispetto al frigorifero, l’aspirapolvere è meno diffuso, mentre sale la percentuale di possessori di moto; beni come la lavastoviglie, invece, restano appannaggio di poche famiglie molto ricche, quasi come uno status symbol. Le ricostruzioni di studiosi e giornalisti presentano questo periodo come una specie di età dell’oro e utilizzano termini come «miracolo» e «boom economico»; anche le testimonianze orali di oggi rimandano a un tempo felice di solidarietà umana ora perduta, di nuovi consumi carichi di significato, di realizzazioni personali, ma le fonti del periodo hanno toni molto diversi. Denunciano le condizioni di vita degli immigrati, parlano dei disastri della speculazione edilizia, dell’arroganza e ignoranza dei nuovi ricchi, del duro lavoro degli operai, dei sacrifici da fare tutti i giorni. Il focus sui consumi consente forse di dare una risposta, ossia permette di dire, guardando ai consumi delle famiglie italiane, che ci fu un lungo dopoguerra, segnato da un tenore di vita modesto e da scarse speranze di cambiamento; che il miglioramento avvenne in ritardo rispetto ad altri paesi europei (il miracolo infatti parte in Italia a fine anni ‘50, al contrario di quanto avviene in paesi come Germania e Belgio); e che quando effettivamente avvenne, fu selettivo. Questo è il punto centrale: non riguardò tutti. In sostanza, nel pieno del miracolo, fu la classe media a migliorare rapidamente i suoi consumi, mentre operai e agricoltori restarono in gran parte esclusi. Per quanto concerne l’immigrazione, la provenienza degli immigrati fu estremamente varia. Arrivavano da diverse regioni geografiche; moltissimi erano ex salariati agricoli, ma una buona parte era data anche da piccoli proprietari rurali; venivano da piccoli villaggi o da grandi borghi; e non mancava una quota di immigrazione cittadina, sia proletaria sia di classe media. Quale che sia la loro provenienza e cultura, gli immigrati sperimentano importanti cambiamenti. Il primo è la mobilità. Ma c’è una cosa che attira subito l’attenzione, racchiude tutti i significati attribuiti alla mobilità e diviene il simbolo del «sogno italiano»: l’automobile. O meglio, l’utilitaria, a cominciare dalla Fiat 600 che appare nel 1955. Ma cosa vedono, immigrati e non in questa vetturetta? Questa macchina è la risposta a un sogno, perché è la prima vera auto pensata per tutti. Non che il prezzo sia davvero abbordabile: 590.000 lire (un buono stipendio operaio è al massimo 70-80.000 lire mensili), ma il linguaggio che parla questo oggetto è quello di uno status symbol, di un concreto miglioramento della propria vita, di un senso di appagamento che viene per la prima volta piú dal consumo che dal lavoro, della soddisfazione che possono provare gli immigrati che tornano al paese d’estate con la prova del loro successo e della loro vita piú ricca di «cose». Il successo della 600 (in tre anni ne circolavano già quasi 400.000) portò a proporre nuovi modelli con la stessa ispirazione, tra cui la 600 multipla e la 500, un’utilitaria ancora piú piccola, originariamente a due posti, che nel 1957 diventò una macchina simbolo e a un prezzo mai visto, 415.000 lire nella versione piú spartana. L’automobile è l’icona del nuovo paesaggio urbano e industriale della contemporaneità; esprime mobilità spaziale e sociale; afferma il valore dell’individualità; inaugura nuove modalità di lavoro e di consumo. Tutto ciò la rende il bene piú desiderato dagli italiani. Ma nel momento stesso in cui inizia a divenire un consumo diffuso, ecco che si sollevano critiche e obiezioni. L’automobile è vista come un mezzo per sfuggire al controllo sociale, per trasportare i soggetti «deboli» in luoghi sconosciuti, lontano dal benefico controllo delle autorità. Cosí la macchina diventa, nei fatti e ancor piú nell’immaginario, un luogo di peccato e di illiceità sessuali, ma c’è dell’altro: l’auto è pericolosa, materializza la velocità. L’automobile non sovverte solo meccanismi di controllo sociale; c’è anche un’evidente caratterizzazione di genere. Secondo alcuni studiosi, il periodo degli anni ’50-‘60 è centrale nella costruzione di nuove identità maschili, perché la cultura di massa – con il suo riferimento ai consumi e a una supposta «femminilizzazione» della società – mette in crisi i ruoli tradizionali. Non è un caso che in questo periodo emergano frequenti scandali sessuali, sfide alla tradizionale separatezza dei generi, prime timide rivendicazioni omosessuali. Tutto ciò crea una diffusa ansietà sul proprio ruolo, alla quale si reagisce cercando nuovi ruoli maschili, ad esempio artisti anticonformisti, cow-boy dei film western, uomini d’azione, eroi dello sport, playboy, giovani ribelli. È l’inizio di un processo che porterà a leggere nell’habitus fisico l’incorporazione della maschilità e quindi a studiare specifiche posture, abbigliamento, discorsi. Ebbene in questo processo di ricreazione della mascolinità non c’è dubbio che un posto importante sia rivestito da alcuni oggetti, e in particolare dall’automobile. Basta pensare al film Il sorpasso (1962) di Dino Risi per comprendere come essa possa comunicare molti tratti identitari: sicurezza sociale, aggressività, esuberanza fisica, competenza tecnica, ecc. Gli economisti hanno riscontrato differenze nel consumo dei beni, ovviamente di tipo diverso da quelle viste ora, anche nelle società moderne. Non tutti i beni sono uguali: per alcuni la domanda è abbastanza stabile (cioè anelastica, come per i beni di prima necessità), per altri può essere molto variabile (cioè elastica, come per i beni voluttuari). Questa variabilità è dovuta a molti fattori: la quantità di beni consumati, la presenza di sostituti, il valore sociale e individuale dato al loro uso, il fatto che siano abbinati a beni già posseduti, la quota di reddito impiegata per acquistarli. Poi c’è anche il fattore temporale, che dice che nel breve periodo si fa fatica a cambiare le nostre abitudini, ma nel lungo periodo si riesce a farlo. Si può dire quindi che esiste un andamento duale nel consumo dei beni: le spese di base, come gli alimentari (beni a domanda anelastica), salgono molto rapidamente fino a un certo livello di reddito, quindi rallentano la loro crescita e infine, se il reddito sale ancora, si stabilizzano e iniziano persino una lieve discesa. Per i beni di lusso, le cose vanno diversamente: c’è un continuo incremento legato alla crescita del reddito, non direttamente proporzionale ma costante. Questo vuol dire che l’inserimento di beni di lusso in budget familiari «normali» mette in moto complesse strategie di acquisto; le famiglie redistribuiscono le risorse a disposizione per includere costosi oggetti di lusso, magari limitando il consumo di altri beni ritenuti «di base». Il risultato finale può apparire incongruente, perché in realtà mosso contemporaneamente da logiche diverse: in un certo senso, la democratizzazione del lusso valorizza la «qualità» piú che la «quantità», e questo scompagina gli schemi. Questo significa anche che per certi beni esiste un limite di fatto, ma per altri il consumo potrebbe essere teoricamente infinito. Sulla scia degli studi di Gary Becker, alcuni economisti hanno ritenuto che il tempo sia una variabile importante per comprendere il funzionamento delle unità familiari e hanno diviso gli apparecchi domestici in due categorie: quelli che fanno risparmiare tempo (time-saving) e quelli che lo fanno consumare, o meglio impiegare nell’intrattenimento (time-spending). Elettrodomestici come lavatrice, aspirapolvere e frigorifero rientrano nella prima categoria; radio, giradischi e televisione nella seconda. La famiglia si adatta alle tecniche diffuse nella società, ma ci sono alcune complicazioni: dell’opinione pubblica, ma una costruzione di pratiche e discorsi che, come scrive Foucault, formano gli oggetti di cui parlano. Tutto quello che è congruente (episodi di teppismo, devianze giovanili, balli sfrenati, abuso di alcol) viene isolato e inglobato nel discorso pubblico, il resto scivola via nell’indifferenza. I giovani, da parte loro, vedono le cose molto diversamente. Il loro comportamento è un modo per esprimersi come soggetti, per divertirsi e stare insieme. La loro identità trova una prima costruzione intorno ad alcuni oggetti e intorno ad alcuni luoghi. Il primo è la cameretta, concepita come spazio «altro» rispetto alla casa. Lo spazio giovanile è però principalmente quello extra-domestico, soprattutto cinema, bar o case di amici nei quali è sempre presente la musica. Sono segnali distintivi abbigliamento, accessori, taglio di capelli. I ragazzi portano capelli lunghi, blue jeans (lanciati in Italia dai teddy boy), giacche attillate, maglioni, magliette a righe o camicie bianche e colorate. Le ragazze capelli lunghi o corti a caschetto, mini-abiti, jeans, cinture vistose, scarpe con tacco o stivali. L’abbigliamento mostra chiaramente la ricerca di nuovi modelli estetici, oltre che «politici», insegue il diverso, l’antitradizionale come forma espressiva autonoma, rifiuta le rigidità nel vestiario come quelle sociali. Secondo alcuni sociologi, i giovani fanno proprio questo: assemblano materiali diversi, che possono venire dai media, dalla moda, dalla pubblicità consumistica, dall’esempio di coetanei, dall’estro personale, e creano un nuovo insieme finale, dei nuovi rituali. In questo modo gli oggetti cambiano significato, perché vengono decontestualizzati, trasformati, esagerati: si esibiscono tagli di capelli inconsueti, variazioni nell’abbigliamento tradizionale e i simboli consumistici, fuori dal loro contesto originale, appaiono come segni di riconoscimento. È cosí che nasce uno «stile», il cui fine è quello di costruire un’identità specifica, diversa da quella di provenienza, e di comunicare all’esterno questa «alterità». Nella loro rielaborazione attiva dei messaggi consumistici, i giovani anticipano cosí modalità tipiche dei decenni futuri. Politica, cultura e welfare state I cambiamenti che avvengono in pochi anni lasciano frastornati e perplessi i protagonisti della vita pubblica; cosa significa questa esplosione di consumi? Perché gli italiani comprano di tutto? Perché si appassionano cosí alla televisione? Molti si disinteressano al «problema» perché non attiene alle cose alte della politica e dell’economia, altri però temono che i mutamenti sul piano della quotidianità abbiano un’influenza nel lungo periodo e portino a forme di omologazione. I pareri però sono discordi. - Un gruppo particolarmente influente è quello degli economisti. La loro analisi parla di «distorsione dei consumi». Gli italiani privilegiano consumi «opulenti», tipici dei paesi piú sviluppati, invece di acquistare prima i beni «necessari»: si buttano su auto, elettrodomestici e televisioni, mentre magari vivono ancora in baracche o case senza servizi igienici e mangiano pasti inadeguati. Inoltre è posta forte enfasi sui consumi privati, fruiti individualmente, anziché sui consumi collettivi di base, per i quali dovrebbe intervenire efficacemente lo Stato. Il suggerimento pertanto è quello di comprimere o «rimandare» i consumi di lusso e sviluppare in questa fase i consumi pubblici primari. Va anche ricordato che è diffuso a livello internazionale il concetto di «sviluppo come crescita», come lo ha definito Arndt, cioè la convinzione che il benessere del paese sia automaticamente dipendente dal suo tasso di crescita economica (misurato dal Pil), e che quindi gli investimenti abbiano un’assoluta priorità; i consumi, da questo punto di vista, limitando il risparmio, «bruciano» preziose risorse. - Non maggiore comprensione viene dai partiti politici. La Democrazia cristiana al suo interno ha molte anime; tuttavia prevale la diffidenza verso forme di consumo troppo incentrate sulla mondanità e che possono mettere in ombra il ruolo della Chiesa, minando insidiosamente le istituzioni e le basi stesse dei valori cattolici; solo dagli anni Sessanta si apre un primo dialogo sugli effetti della «americanizzazione». Il Partito comunista è altrettanto dubbioso sugli effettivi miglioramenti della classe operaia e, in generale, sulle capacità del capitalismo di promuovere un vero sviluppo: i consumi sono un inganno, una fatale illusione propagandata dai nuovi media; la lotta ai consumi è un tutt’uno con quella al capitalismo monopolista. Ma anche qui studi sulle pratiche quotidiane degli aderenti al partito, soprattutto giovani, indicano il progressivo insinuarsi di nuovi stili e la fascinazione di cinema e televisione. - Il quadro di riferimento di buona parte di questi discorso è dato dal dibattito intellettuale che si accende proprio in quegli anni su questi temi. Il punto di riferimento obbligato sono le opere di Adorno e Horkheimer e della Scuola di Francoforte, in particolare la famosa Dialettica dell’illuminismo (1947), dove si parla di «consumismo», cioè di un consumo sfrenato e coattivo indotto dall’industria culturale. Esso diventa un nuovo oppio dei poveri, abbaglia i lavoratori e li induce a spendere i loro guadagni per acquisire sempre nuovi beni di consumo, in un circolo senza fine: è il modo in cui il moderno capitalismo ingloba anche la classe operaia nei suoi meccanismi di funzionamento. In Italia una voce controcorrente che si farà sentire alcuni anni piú tardi è quella di Pier Paolo Pasolini. In un famoso articolo sul Corriere della Sera, usò la metafora della scomparsa delle lucciole per dimostrare che, mentre infuriano le battaglie ideologiche e il Palazzo vuole esercitare il suo potere repressivo, qualcosa di drammatico succede nella società italiana: come le lucciole, sparite per l’inquinamento, cosí l’intero «vecchio universo agricolo e paleocapitalistico cede il posto a una civiltà nuova, totalmente ‘altra’», la civiltà dei consumi. - Spunti diversi provengono poi dagli studi «sul campo» che si moltiplicano rapidamente. Ci sono analisi come quelle di Alberoni sulla ricezione dei beni di consumo, i sondaggi d’opinione, inchieste sugli immigrati a Torino e Milano o sui contadini rimasti in campagna. Questi studi hanno una sorta di approccio emico, cioè ascoltano la voce dei soggetti e ritengono valida la loro autorappresentazione, invece di forzare una tesi dall’esterno in base a canoni e valori propri dello studioso. Ad esempio, la televisione non è vista dai contadini come un consumo superfluo e «opulento», ma come un bene che consente una migliore conoscenza del mondo ed è una conoscenza che permette di «articolare» le cognizioni, esplicitare i bisogni, chiamare le cose con il loro nome. Un secondo aspetto che emerge dalle inchieste è che sulle trasmissioni piú diffuse c’è un continuo dialogo: si parla, si discute, si ricorda, si ripetono insieme frasi e motivi musicali; in pratica, i nuovi consumi culturali stimolano la comunicazione e nuove forme di socialità fra gli spettatori. Risalta infine la centralità del divertimento: una centralità che riflette forse una nuova valorizzazione dell’individuo e delle sue necessità, rispetto alla tradizionale etica fondata solo sul dovere del lavoro e il valore del sacrificio. Queste posizioni si accordano molto bene con le classiche analisi di sociologi come Lasswell e Lazarsfeld, che ritengono che i media svolgano quattro essenziali funzioni sociali: 1. Controllo dell’ambiente; 2. Correlazione dei membri della società; 3. Trasmissione dell’eredità socioculturale; 4. Divertimento. Parlando di welfare, vanno sottolineati tre importanti aspetti: - la continuità con i periodi precedenti: il discorso sui consumi pubblici si diffonde almeno da fine Ottocento e come le politiche relative sono una parte importante dei governi in epoca liberale e ancor piú in quella fascista. L’Italia repubblicana eredita un complesso di norme e istituzioni che mantiene apparentemente senza variazioni, ma nell’ispirazione che guiderà i governi repubblicani c’è una fondamentale differenza: i benefici non sono piú mirati a specifiche categorie (lavoratori dell’industria, dipendenti pubblici, donne in maternità, ecc.) ma tendenzialmente a tutti. A una politica esclusiva si sostituisce una politica inclusiva, e l’aspetto redistributivo e di perequazione sociale diventa centrale. - Il welfare è considerato un elemento costitutivo della democrazia del dopoguerra. Non per nulla esso nasce «ufficialmente» con il famoso rapporto che William Beveridge pubblicò nel 1942, in pieno conflitto, contrapponendo il contemporaneo stato di guerra (warfare state) a un futuro assetto di pace e benessere (welfare state) che garantisca libertà dalle cinque grandi schiavitú: bisogno, malattia, ignoranza, miseria, ozio. Pochi anni dopo un sociologo di Cambridge, Thomas Marshall, inserisce questa proposta in una lettura storica. La costruzione della cittadinanza conosce tre fasi: 1. la prima è quella del riconoscimento dei diritti civili (diritti individuali legati alle libertà personali, di espressione di fede, pensiero e parola, insieme ai primi diritti collettivi di associazione politica e sindacale) e vede la sua attuazione intorno al Settecento; 2. la seconda è l’ottenimento dei diritti politici (diritto di eleggere e farsi eleggere), che avviene gradatamente nell’Ottocento con l’estensione del suffragio universale; 3. la terza è quella dei diritti sociali di cittadinanza (istruzione e servizi di base per tutti), che si verifica nel Novecento. Solo il godimento di tutti e tre i tipi di diritti garantisce l’effettiva appartenenza alla comunità. - La struttura delle spese assistenziali che prende forma in Italia mostra fortissime similarità con quelle dei principali paesi europei, sia nell’allocazione delle risorse, sia nella tempistica; non c’è dubbio che qui siano all’opera politiche comunitarie di armonizzazione ed «effetti dimostrativi». Se c’è un elemento che caratterizza con forza i paesi europei all’esterno, oltre al loro retaggio culturale, questo è probabilmente il comune riferimento allo stato sociale – alcuni parlano di un vero e proprio modello europeo (dove il cittadino viene prima del consumatore) che ruota intorno allo Stato. È importante quindi sottolineare che la costruzione del welfare non avviene solo in base a esigenze di politica interna, ma entro chiari riferimenti internazionali. E il miracolo economico consegnò ai governi ampie disponibilità finanziarie da investire nei settori in cui si avverte un «ritardo» rispetto al resto d’Europa (istruzione, assicurazioni sociali). Con queste premesse, la spesa pubblica si sviluppa impetuosamente. Si può dire che nel periodo 1950- 73 venga letteralmente edificato il moderno welfare italiano. Alcune spese diminuiscono in percentuale (quelle istituzionali, come amministrazione e difesa); altre crescono (istruzione e soprattutto trasferimenti dovuti a sanità, assistenza e previdenza). Questo vuol dire che la presenza dello Stato in questi settori alleggerisce la corrispondente spesa privata, favorendo l’espansione di certi consumi e liberando risorse per altri scopi. La spesa principale non è né l’istruzione né la sanità. La vera caratteristica del periodo è il forte aumento della spesa redistributiva. Come avviene anche in altri paesi europei, all’interno della spesa pubblica la spesa «esaustiva», cioè quella che lo Stato fa per realizzare direttamente beni e servizi (istruzione e sanità, ma anche case e servizi collettivi), diminuisce in percentuale; aumenta invece quella per i trasferimenti in denaro (pensioni, assegni familiari), in pratica redistribuzioni monetarie tra diversi soggetti. Assistenza, previdenza, pensioni, sanità, istruzione: chi paga tutto questo? In realtà una buona parte è pagata dallo stesso assistito, tramite le imposte e i contributi previdenziali. La principale riforma fiscale avviene nel 1971-73, quando si introducono l’Iva (imposta indiretta che colpisce i consumatori finali) e nuove imposte progressive sul reddito (soprattutto Irpef e Irpeg). Da questo momento anche in Italia le imposte dirette diventano maggiori di quelle indirette; parallelamente si registra una formidabile crescita dei contributi sociali. Pubblicità e produzione 4. LA SOCIETÀ AFFLUENTE L’impatto della società dei consumi I consumi sono la prima vittima del nuovo clima, presi come sono tra due fuochi. Da una parte risuonano con rinnovato vigore le critiche degli epigoni della corrente radicale che da sempre li condannano come espressione degenerata del capitalismo, strumento di oppressione mascherata e fonte di alienazione. D’altra parte, la crisi economica e lo spettro della mancanza di energia proiettano oggettivamente un’ombra oscura sullo sviluppo futuro. Nell’epoca d’oro dello sviluppo si era pensato che il modello d’industrializzazione occidentale potesse svilupparsi pressoché all’infinito, salvo catastrofi come guerre o rivoluzioni (provocate dall’uomo stesso). Ora si pone un drammatico interrogativo: esistono dei limiti «naturali» a questo tipo di espansione? Risparmiare diventa allora la parola d’ordine. In Italia inizia l’era dell’austerity, cosí come è battezzata dal governo Rumor: bisogna limitare i consumi di petrolio e intanto salgono i prezzi di benzina e gasolio; negozi e cinema riducono gli orari di apertura; riscaldamento e illuminazione sono regolamentati. L’austerity diventa il simbolo di un possibile futuro, molto diverso da quello immaginato fino ad allora. Nel frattempo le politiche governative si muovono decisamente per contenere il disavanzo e la spesa pubblica, mentre la compressione dei salari reali dovuta all’altissima inflazione contribuisce a diffondere sfiducia nei consumatori. I provvedimenti colpiscono con forza uno dei consumi simbolo del miracolo economico, l’automobile; per la prima volta la prospettiva di una crescita illimitata di beni è messa in crisi. L’ultimo scorcio di secolo presenta tuttavia repentine variazioni e negli anni ‘80 l’economia italiana e quella internazionale conoscono una nuova fioritura. I consumi riprendono la loro corsa. Per l’Italia si parla addirittura sul piano economico di «secondo miracolo», soprattutto grazie al made in Italy e, sul piano sociale, di trionfo del consumismo. È il momento del look, della moda, delle televisioni private, di una seconda ondata di consumi: non piú quelli di sussistenza legati alla triade cibo-casa-vestiti, ma vacanze, viaggi, cosmetici, palestre, seconde case, seconde auto, beni voluttuari (spesso mirati al consumo individuale piú che familiare). La pubblicità fornisce il linguaggio e le immagini con cui questi anni si rappresentano. Gli italiani non sono mai stati meglio: vivono nella quinta potenza industriale del mondo e i loro consumi si sono finalmente agganciati a quelli medi europei. Già agli inizi degli anni ‘90 l’implosione del sistema politico italiano, le incertezze che gravano sul mercato del lavoro e sui giovani, il procedere della deindustrializzazione, il rallentamento della crescita economica in tutta l’area europea, la comparsa di nuovi protagonisti a Oriente, il terrorismo internazionale, le preoccupazioni per l’ambiente, l’erosione del welfare state e infine la globalizzazione si riflettono in un’attitudine piú ponderata nel campo dei consumi, che vede l’emergere dei prodotti tecnologici e conosce una forte diversificazione. Affiora anche una questione etica relativa ai consumi e l’ingresso nel nuovo secolo è piú all’insegna di domande che di risposte. I consumi, è chiaro, sono ora parte imprescindibile dello stile di vita occidentale, ma il loro ruolo culturale è in trasformazione. Rovesciando il quadro e osservandolo dal punto di vista dei consumi, si mettono a fuoco elementi diversi, che cambiano in parte la nostra prospettiva. - La prima è relativa agli anni Settanta, gli anni di crisi per eccellenza, gli «anni di piombo», uno dei periodi piú difficili della storia italiana. Ebbene i consumi privati mostrano un andamento inaspettato: crescono per tutto il decennio, sia pure irregolarmente; l’unica vera diminuzione si registra nel 1975, il momento piú acuto della crisi. Come hanno sottolineato vari studiosi, fra cui D’Apice e Maione, i numeri dicono che è da questo momento che i beni di consumo si diffondono anche fra i ceti popolari: la rivoluzione di massa dei consumi avviene in Italia negli anni Settanta-Ottanta, con un ritardo di vent’anni rispetto al Nordeuropa. Gli incrementi salariali ottenuti sono dunque stati impiegati nell’espansione dei consumi, e questo allargamento del mercato interno consente all’Italia una discreta performance anche in momenti difficili. Dal punto di vista della storia dei consumi, dunque, gli anni Settanta sono fondamentali e assolutamente da «rivalutare»; la retorica imperante dell’austerità e del risparmio, come ha notato Arvidsson, è piú un’autorappresentazione che un fedele ritratto della realtà; o forse, come suggerisce Gundle, è lo specchio di una classe politica che temeva gravi squilibri sociali in un Paese in rapido mutamento, accomunando in una linea prudente e conservatrice vasti settori democristiani e comunisti. - È certamente vero che nel corso degli anni ’80-‘90 il linguaggio della pubblicità acquisisce un ruolo mai visto prima, rimbalzando da un mezzo di comunicazione all’altro, e che, nell’afasia (e disillusione) della politica, ambisce a rappresentare simbolicamente la società del tempo. Naturalmente il nuovo ruolo della pubblicità è potenziato dalla comparsa delle televisioni private che, con una strategia abile e pragmatica, promuovono un forte sviluppo degli investimenti pubblicitari. È altrettanto vero che in questo periodo i consumi tendono a trasformarsi da familiari a individuali. Tuttavia l’ottimista rappresentazione consumistica della fine del Novecento, all’insegna di «stili di vita» sempre piú diversificati e di una crescita «lineare» per tutti, merita qualche riflessione critica. Numerosi teorici hanno ipotizzato che le categorie analitiche necessarie per comprendere la società contemporanea siano diverse da quelle del passato. Le nostre società sono complesse, differenziate, composte da sottosistemi relativamente autonomi; la caratterizzazione degli individui non discende solo dalla posizione sociale della famiglia di origine, ad esempio, ma da infiniti altri fattori (istruzione, tipologia di lavoro, gerarchia occupazionale, luogo di residenza, ecc.), che possono interagire fra loro creando geografie sociali diversissime. La frammentazione sociale è elevatissima, perciò le grandi differenziazioni strutturali della società (le classi, innanzitutto) hanno oggi poco significato, e siamo piú liberi di crearci il nostro destino, di forgiare la nostra vita come «un’opera d’arte». La conseguenza di questo scenario, almeno per quanto riguarda i consumi, sarebbe una loro relativa indipendenza dai condizionamenti sociali e un maggiore uso in funzione autoespressiva. Ma è davvero cosí? Alcune recenti ricerche sul campo forniscono risultati un po’ diversi (e per la verità, da storici, la repentina sparizione di categorie culturali che hanno informato cosí a lungo la società ci rende un po’ sospettosi). Ovviamente, lo sfondo sul quale dobbiamo proiettare questi dati è quello di un’Italia piú ricca dove i ceti medi sono divenuti il gruppo maggioritario, pur comprendendo al loro interno grandi differenziazioni, e la geografia di riferimento è quella industriale urbana. I risultati finali sono che classe sociale di origine, genere, generazione e area geografica sono elementi determinanti per tutta la durata del Novecento, anche negli ultimi decenni, ma con interessanti variazioni. Il fattore che incide maggiormente sul percorso individuale nell’Italia di fine secolo è l’appartenenza di classe. Essa infatti consente di avere un piú elevato grado di istruzione, di accorciare spesso i tempi di attesa del primo impiego (grazie a network familiari o alla continuazione del lavoro paterno), di entrare nel mondo del lavoro in una posizione elevata (e questo è fondamentale a causa della scarsa mobilità di carriera esistente in Italia rispetto ad altri paesi), di giungere presto a un lavoro stabile e non precario, inducendo infine a sposare un partner della stessa condizione sociale (ma l’omogamia è una tendenza riscontrabile un po’ a tutti i livelli, ed è un altro elemento che frena la mobilità). Quindi l’origine sociale di una persona determina ancora decisamente il suo destino sociale; la «classe», o ceto, perpetua le disuguaglianze sociali. Questi elementi sono fondamentali per lo studio sui consumi, parte integrante della rappresentazione sociale, perché sgomberano il campo da alcuni equivoci. Nell’Italia di fine secolo restano ben vive e operanti alcune fratture che abbiamo visto lungo tutto il corso del secolo, a volte con una stabilità sorprendente; alcune si sono attenuate, altre sono cambiate. Ma il fatto è che tali cleavage continuano a strutturare la società e a determinare culturalmente i consumi. L’ultima notazione riguarda il fenomeno dell’immigrazione. Benché i consumi abbiano sempre avuto una certa connotazione soprannazionale, per via della circolazione delle merci, dell’internazionalismo di vari luoghi di vendita e della contaminazione fra culture del consumo, non c’è dubbio che il massiccio arrivo di stranieri in Italia abbia influenzato la percezione del paesaggio urbano e anche l’immaginario legato ai consumi. In questo periodo i consumi sono aumentati e si sono diversificati merceologicamente: abbiamo tutti piú cose e cose diverse, anche se non nella stessa misura; in certi casi si è creato un effetto a catena, per cui si è spinti a comprare un oggetto dietro l’altro («l’effetto Diderot»), ma nel tempo è mutato il loro significato culturale. Alcuni beni che avevano il sapore dell’eccezionalità o del lusso si sono trasformati in oggetti comuni o comfort necessari grazie al loro inserimento nella nostra vita quotidiana (automobile, telefono: persino il cibo ha un valore diverso). Insomma, comprare l’ennesimo paio di scarpe, da aggiungere a tutte le altre, non è come comprare il primo paio. Forse hanno ragione Gronow e Warde: il cambiamento fondamentale di fine secolo è stato la trasformazione del consumo stesso in routine. Quali sono le principali ricadute dei consumi nell’arena politica a fine Novecento? Da un lato, il primo aspetto che colpisce è la continuità delle politiche di governo. Il modello che ha preso forma negli anni Sessanta e Settanta, e che vede i consumi come elemento importante per il consenso politico, non viene messo in dubbio anche successivamente; dunque, in un paese dove l’integrazione nazionale di alcune fasce di popolazione è avvenuta su basi economiche piú che politiche, come si è visto, e dove la mobilità sociale si è concretata di fatto in un piú ampio accesso ai beni di consumo, la «politica dei consumi» è risultata centrale per la governabilità per vari decenni. Tuttavia, agli inizi del nuovo millennio questa politica, che trascende schieramenti di parte, sembra essere in sofferenza per via delle crescenti difficoltà economiche e sociali di ampie aree del ceto medio e delle classi popolari, della limitata mobilità sociale, dei problemi occupazionali dei giovani: se il «patto» che garantisce l’accesso ai consumi per tutti dovesse venire meno, allora si aprirebbero inquietanti scenari di instabilità sociale e delegittimazione della classe politica nella sua interezza. D’altro lato, sulla scena politica ci sono importanti novità: i movimenti dei consumatori. Piú precisamente ci riferiamo al «consumerismo», traduzione letterale dall’inglese per indicare le varie forme di organizzazione dei consumatori. In Italia le prime organizzazioni prendono forma negli anni Cinquanta, un po’ come in tutta Europa, a seguito dei primi scandali alimentari. Esse operano su un piano privato, spesso appoggiandosi a riviste, per informare e difendere il consumatore da frodi e raggiri, per chiedere piú trasparenza e tutela legislativa, per mettere a confronto prodotti simili. Apparentemente si assiste un po’ in tutto l’Occidente da parte dei consumatori a una crescente intensificazione di azioni individuali e collettive che hanno un sottofondo «politico». Non si tratta di comportamenti nuovi, ma nel clima odierno acquistano un significato particolare in tutti questi casi i consumatori riconoscono che i beni materiali sono iscritti in un preciso contesto sociale: mettono in atto un «consumo politico». Si può considerare questo comportamento una forma di partecipazione politica, in cui i consumatori usano il mercato per far arrivare il loro messaggio? Si osservano due cose. In primo luogo, i principali protagonisti di queste azioni sono soggetti sottorappresentati nel mondo della politica ufficiale: donne, giovani, gruppi marginali; in secondo luogo, i luoghi dell’azione sono diversi: negozi e centri commerciali, ma anche Internet, dove circolano appelli, manifesti e inviti all’azione. Si potrebbe concludere che il consumo politico sia la modalità che le voci assenti, o distanti dalle stanze del potere, trovano per esprimere la loro posizione etica e politica; di piú, per mutare la situazione esistente con un’azione ben finalizzata (ottenendo in vari casi anche risultati significativi).
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