Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

L'Italia dei consumi di Emanuela Scarpellini - Riassunto completo, Dispense di Storia Contemporanea

Riassunti dei 4 capitoli del libro.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 03/07/2022

alesyesa
alesyesa 🇮🇹

4.2

(6)

8 documenti

1 / 15

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica L'Italia dei consumi di Emanuela Scarpellini - Riassunto completo e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! CAPITOLO PRIMO L’ITALIA LIBERALE 1. La società italiana dall’unificazione alla Belle Époque Il periodo tra il 1870 e il 1913 è stato definito quello della “grande trasformazione”, riferendosi ai mutamenti indotti dalla rivoluzione industriale: in Italia il reddito pro capite è in crescita, ma i valori rimangono molto inferiori a quelli nordeuropei. Al di sotto di una certa soglia di reddito le scelte di consumo sono molto ridotte, poiché quasi l’intero ammontare è impegnato nelle spese basilari per la sopravvivenza. Un altro importante fattore a proposito dei consumi è l’aspetto demografico: il XIX secolo vede l’inizio di un nuovo equilibrio, tipico dei Paesi avanzati odierni, con bassi tassi di natalità e una lunga aspettativa di vita. Le ragioni non si legano solo alla rivoluzione industriale, ma anche a fattori socio-culturali e all’avanzamento delle conoscenze tecniche e scientifiche. Il moderno regime demografico lascia maggiore libertà all’individuo: egli può decidere per il proprio destino, grazie a una vita più lunga e prospera e a una quota minore di tempo e risorse da dedicare ai figli. Nei consumi privati l’alimentazione assorbe circa il 60% della spesa nel periodo giolittiano: la forte spesa per il vitto non comporta però una dieta ricca e variata, in quanto restano scarsi i condimenti e i grassi, lo zucchero, il caffè. 1.2 I contadini Gran parte della popolazione è impiegata nell’agricoltura. Le condizioni di vita dei contadini sono molto dure: le entrate sono scarse e quasi completamente assorbite da alimentazione, casa e vestiario. La situazione è migliore per i contadini autonomi e drammatica per i braccianti, ma varia anche da una zona all’altra e dipende dalla disponibilità di prodotti locali, dai contratti di lavoro e dalle tradizioni culturali. La prima voce di spesa per i contadini è il cibo. Una cosa è comune nell’alimentazione: il complessivo basso apporto calorico, derivante soprattutto da carboidrati, e la scarsità di vitamine e proteine. Le culture contadine del cibo sono diverse da zona a zona, ma in ciascuna prevalgono gli alimenti locali. Anche le modalità di consumo sono significative. In genere si tratta di un atto collettivo, che conferma le differenziazioni sociali e di genere: il capofamiglia a capotavola, al suo fianco i membri più importanti, e via via tutti gli altri (dalla tavola sono escluse le donne). La seconda voce di spesa per i contadini è la casa. Nonostante la varietà di situazioni esistenti, si possono notare due elementi comuni: l’uso quasi esclusivo di materiali costruttivi locali e il legame con il sistema di organizzazione produttiva. Così troviamo le “corti” padane: complessi di edifici dove compaiono una dimora padronale e numerose case per i contadini. Simili sono le “massarie” del Mezzogiorno e i “casali” del Lazio. In altri casi prevalgono abitazioni unifamiliari poverissime, addossate le une alle altre in piccoli villaggi montani o sparse nei borghi dei latifondi. Nella realtà rurale italiana coesistono famiglie estese o multiple e soprattutto famiglie nucleari. In queste famiglie vigono una forte gerarchia e una marcata divisione dei compiti: agli uomini spettano i principali lavori agricoli e la responsabilità decisionale ed economica, alle donne la cura della casa e i lavori accessori nei campi, ai fanciulli le mansioni più leggere. La terza voce di spesa per i contadini sono i vestiti: come il cibo, possono essere sia frutto dell’autoconsumo che di acquisti. 1.3 Gli operai Le condizioni di vita degli operai in molti casi non sono migliori. La principale differenza risiede nel fatto che l’autoconsumo è molto più basso: nonostante l’introito complessivo sia discreto, la quota destinata all’alimentazione porta via il 74% e anche qui la dieta è insufficiente e monotona. Anche se gli standard di vita spesso sono simili a quelli dei contadini, gli operai mettono in atto comportamenti molto diversi, ad esempio in campo demografico: la natalità è inferiore alla media nazionale, i matrimoni sono meno frequenti e la natalità illegittima è elevata. Il peso della famiglia e dei figli come soggetti di consumo è minore, e vi è uno spazio maggiore per i consumi individuali. La casa costituisce un problema per le classi popolari, a causa della scarsità di alloggi disponibili e degli alti prezzi: la sistemazione più comune è nei quartieri più poveri, nelle periferie popolari, nei centri urbani degradati. La famiglia operaia, in genere nucleare, si adatta a spazi sovraffollati e angusti. Fra le tipologie urbane più caratteristiche troviamo le “case di ringhiera” del milanese: case che si sviluppano all’esterno dei Bastioni che delimitano l’area centrale della città, dalla quale gli strati popolari vengono progressivamente espulsi. Tuttavia la caratteristica che connota la classe operaia è la sociabilità, la tendenza a sviluppare strategie relazionali e solidaristiche: le famiglie delle case di ringhiera non vivono isolate, ma creano una rete di relazioni e amicizie, che funziona anche come scambio di servizi e supporto in caso di necessità. Nella creazione di un’identità culturale operaia, molto importante è la funzione degli abiti, o meglio dei vestiti da lavoro: gli operai indossano abiti semplici e simili tra di loro, che li rendono immediatamente riconoscibili come gruppo. A causa della mancanza di acqua corrente, l’igiene personale e la pulizia di case e vestiti sono inevitabilmente approssimative: la separazione fra strati sociali differenti passa anche per l’olfatto. Migliori sono le condizioni dell’aristocrazia operaia, operai specializzati in settori di punta: possono accedere a una discreta sistemazione abitativa, a sufficienti consumi alimentari e spesso a svaghi e consumi culturali. Con l’introduzione dell’orario fisso nelle fabbriche, si inizia a distinguere tempo di lavoro e tempo libero: dall’Ottocento si assiste alla nascita di una vera e propria industria del tempo libero, che propone spettacoli, libri e giornali, feste organizzate, attività sportive, gite e scampagnate. Questo tipo di allargamento dei consumi riguarda una fascia piuttosto ristretta di lavoratori: esistono precise gerarchie fra gli occupati. La principale riguarda la differenza di genere: le donne fanno parte della manodopera dequalificata e il loro lavoro, considerato qualitativamente inferiore, è pagato di meno. Un’altra gerarchia è quella relativa alle classi d’età: ad essere penalizzati sono l’età matura e il lavoro minorile, ampiamente utilizzato. I bambini introdotti precocemente in ambienti lavorativi abbandonano presto la sfera di consumo familiare e si abituano ai consumi adulti: la vita infantile è breve e vista come preparazione all’età adulta. 1.4 I borghesi Quando si parla di borghesia si usano aggettivi quali alta, media e piccola per definire fasce sociali con ruoli e comportamenti differenziati: la fascia alto borghese italiana è composta da proprietari, imprenditori, dirigenti e professionisti; la fascia media comprende artigiani, commercianti e addetti ai servizi; infine abbiamo il gruppo degli impiegati pubblici e privati e degli insegnanti. Nel complesso si tratta del 18% della popolazione attiva all’inizio del Novecento. Anche qui la voce di spesa più elevata è costituita dall’alimentazione, anche se inferiore a quella di contadini e operai: le scelte di consumo privilegiano i cereali, ma si nota una maggiore varietà, in quanto subito dopo troviamo cibi costosi come la carne e il pesce. L’abitazione incide in maniera significativa, ma ad essere ingente è soprattutto la spesa per l’abbigliamento, che rappresenta la seconda uscita familiare: un’attenzione per l’apparire sociale molto più accentuata che in altri settori, allo scopo di distinguersi soprattutto dalle classi inferiori. Le caratteristiche delle abitazioni borghesi dell’Italia liberale si distaccano nettamente da quelle contadine e operaie: appaiono luoghi molto più centrali nella vita quotidiana, differenti non solo per la maggiore ampiezza e ricchezza, ma anche per la divisione degli spazi. All’interno della casa vi è la separazione tra pubblico e privato: vi sono spazi pensati per la vita in società, dove ricevere ospiti, e spazi riservati all’intimità domestica tra coniugi e figli. Nella cultura contadina e operaia i figli piccoli vengono presto impiegati nel lavoro, mentre in ambito borghese si ha l’idea che i bambini non siano esseri in transizione verso la maturità: sono un mondo a parte, con proprie esigenze e necessità, e si richiedono educazione, svaghi, giochi e abiti adeguati. Nasce in questo periodo una vera e propria industria di prodotti rivolti ai bambini. Una delle strategie usate delle classi borghesi per attuare la distinzione con gli altri gruppi sociali è quella legata ai consumi ricreativi e culturali: il divertimento principe è il teatro, ma compaiono in Italia a fine Ottocento anche le prime associazioni sportive, che si sviluppano rapidamente. Fenomeni di “massa” come il ciclismo e le gare automobilistiche danno vita allo sport-spettacolo. 1.5 Gli aristocratici Per le classi aristocratiche il consumo sembra davvero giocare un ruolo centrale nel processo di legittimazione della loro posizione. A inizio Novecento ci sono circa 8400 famiglie nobili in Italia, ma il loro numero continua a diminuire, così come le loro ricchezze. Nonostante la decadenza, l’impatto di questa fascia sociale sull’immaginario collettivo è ancora molto forte: un esempio sono le case. Le dimore aristocratiche tendono a ospitare famiglie allargate e molti servi: la mole dell’edificio rimanda alla ricchezza della famiglia, gli stemmi araldici ne ricordano la continuità, le imponenti facciate ne indicano il potere. All’interno vi sono molte stanze, divise secondo i basilari CAPITOLO SECONDO IL FASCISMO 1. Il regime Il prerequisito per la crescita dei consumi è l’aumento del reddito pro capite, tuttavia una maggiore ricchezza non si traduce necessariamente in maggiori consumi. Tra gli anni Venti e Trenta in Italia si possono riconoscere tre fattori che influenzano i consumi: l’urbanizzazione, la dilatazione delle classi medie, l’impatto delle nuove tecnologie. In primo luogo, l’urbanizzazione induce una crescita dei consumi commercializzati particolarmente avvertibile per le merci un tempo prodotte all’interno della famiglia (cibo, vestiario). In secondo luogo, la formazione di una classe piuttosto estesa di lavoratori dipendenti e le politiche di redistribuzione a favore di alcune fasce meno abbienti fanno aumentare la propensione al consumo. Infine, il processo tecnologico crea nuove categorie di prodotti e il fascino di queste nuove merci spinge verso consumi maggiori. Ma il carattere peculiare del periodo viene dalla politica italiana. 1.1 Autarchia, genere, razza I consumi aumentano meno del reddito, ma si ha una maggiore diversificazione: è netta la caduta della spesa percentuale per il cibo e il vestiario, mentre aumentano le quote per la casa, la bellezza, l’igiene, i trasporti. Il fascismo compie una precisa scelta a favore delle industrie: un accentuato protezionismo. Nel 1936 viene annunciata la battaglia per l’autarchia, in risposta alle sanzioni proclamate dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. L’autarchia danneggia un’economia in trasformazione come quella italiana, imponendo ai consumatori prodotti italiani più costosi oppure surrogati di scarsa qualità. Viene attivata una campagna di sostegno ai prodotti italiani che assegna alle merci un valore aggiunto: l’italianità. Comprare italiano significa adempiere a un compito patriottico. L’uso della leva patriottica per promuovere le produzioni non è certo nuovo, ma nel contesto del fascismo ha l’effetto di elevare il consumo al rango di attività che concorre pienamente allo sviluppo della nazione e di creare uno spazio di consumo nazionale. L’autarchia entra direttamente nella sfera della famiglia e si rivolge alle donne, che sono usualmente incaricate di fare gli acquisti: viene loro chiesto di risparmiare sulla spesa, evitare gli sprechi, comprare italiano. La battaglia autarchica vede le donne in prima linea: Victoria de Grazia sostiene che è il regime fascista a nazionalizzare per la prima volta le italiane, assegnando loro un ruolo preciso all’interno della famiglia per il miglioramento e lo sviluppo della razza. La politica dei consumi diventa un importante aspetto della politica fascista nei confronti delle donne, anche se è concepita soprattutto per le donne delle classi medie, essendo famiglie operaie e contadine ancora in gran parte escluse dal mercato dei consumi non di base. Si tenta di creare uno spazio nazionale dei consumi allargato anche alle colonie: davanti agli italiani, abituati a declinare i consumi in termini di classe e genere, ora compare la razza. Molti prodotti sono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’indigeno: pubblicità, prodotti con nomi o immagini che richiamano l’Africa, negozi di prodotti coloniali sottolineano visivamente le differenziazioni di razza. 1.2 Emigrazione Il consumo di prodotti nazionali non si limita all’Italia e alle colonie: gli immigrati italiani in Europa e nelle Americhe creano un’importante domanda di prodotti tipici. A New York e a Chicago c’è una vera mobilitazione delle comunità italo-americane per acquistare merci provenienti dall’Italia: si rafforza l’idea che la propria identità etnica è costruita anche su uno specifico modello di consumi. Naturalmente il consumo di prodotti italiani non porta a un’effettiva replicazione dell’identità: salvo la prima generazione di emigrati, tutti i discendenti costruiscono l’immagine della tradizione italiana sulla memoria locale, via via sempre più contaminata da altre influenze e da prodotti e usi americani. 1.3 Politica fascista dei consumi Lo Stato fa sentire la sua voce in misura crescente nel mercato dei beni di consumo: non solo cerca di orientare i consumi privati con l’autarchia e la promozione di prodotti nazionali, ma appare sempre più protagonista nell’offerta di consumi pubblici, che rappresentano una quota significativa della spesa pubblica. Un esempio è l’istruzione. Si spende meno nel fascismo che sotto i precedenti governi liberali, ma ci sono importanti differenze: la gestione, ora in gran parte nelle mani dello Stato, e la crescente politicizzazione dell’educazione. Negli anni Trenta si crea un complesso sistema educativo fascista, dove la scuola è affiancata da numerose organizzazioni giovanili parascolastiche a seconda dell’età (Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti, Gruppi universitari fascisti per i ragazzi; Piccole italiane, Giovani italiane, Giovani fasciste per le ragazze). L’uso dell’istruzione come leva per trasformare la società e creare un “uomo nuovo” plasmato completamente dal regime è comune nei totalitarismi. Più innovativa è la politica assistenziale e previdenziale. Per tutto il regime si concludono campagne per debellare malattie come la tubercolosi e la malaria e all’interno della struttura sanitaria agiscono numerose casse mutue: la preoccupazione per l’integrità della stirpe spinge ad assicurare obbligatoriamente alcune categorie di lavoratori. Parallelamente cresce la previdenza: il fascismo interviene con molte leggi perché si tratta di un utile strumento di controllo sociale e di indirizzo politico. Una novità è la creazione di enti previdenziali parastatali: nel 1933 nascono l’Infps, per le pensioni, e l’Infail, per gli infortuni dei lavoratori privati. Un altro aspetto della politica sui consumi pubblici del fascismo sono le specifiche norme previste per le donne. La politica in favore della maternità non viene sostenuta solo dalla propaganda, molte sono le leggi approvate a sostegno delle donne lavoratrici: norme contro il lavoro notturno di donne e bambini, due mesi di congedo di maternità obbligatorio pagato, creazione di asili nido. A ciò si aggiunge l’assistenza svolta dal 1925 dall’Onmi (Opera nazionale per la maternità e l’infanzia) e altri provvedimenti come gli assegni familiari e le facilitazioni per le famiglie numerose. Il fascismo stimola gradualmente la spesa pubblica, prima militare e poi anche civile, e i consumi pubblici diventano uno strumento di consenso politico mirato. 1.4 Consumi collettivi Nella vita quotidiana delle famiglie durante il fascismo, oltre ai consumi privati e ai servizi di base assicurati dallo Stato, entrano altri consumi collettivi collegati al tempo libero: educazione, sport, cultura, divertimento. Tutte queste attività vengono inglobate in enti parastatali affidati direttamente al Partito fascista, perché ne faccia uno strumento di organizzazione del consenso: nasce il tempo libero di Stato. Con la riduzione dell’orario legale di lavoro a 8 ore e la conquista del sabato libero, i lavoratori acquistano più tempo per se stessi: il fascismo aggiunge al tempo dedicato ad attività di svago e di cultura una connotazione politica. Vengono creati l’Opera nazionale dopolavoro (Ond) e i Carri di Tespi, per la fruizione di consumi “alti” come il teatro, e si popolarizzano lo sport, il cinema, la radio. L’adesione a queste organizzazioni volontarie dipende da due fattori: gli incentivi materiali, come la possibilità di fruire di beni e servizi altrimenti fuori dalla propria portata economica, e gli incentivi collettivi, come la solidarietà e il sentirsi parte di un gruppo. Come modelli di riferimento riguardo ai consumi vengono usate la nobiltà, l’aristocrazia inimitabile che si propone come guida, e una classe media affluente di provenienza americana, che passa attraverso la cinematografia hollywoodiana. Entrambi sono modelli irraggiungibili per l’Italia fra le due guerre. Più vicina è la Germania nazista: si favorisce la crescita di consumi simbolici come la radio, il cinema, le vacanze di massa. Per i due regimi la politica dei consumi è un aspetto decisivo ed è in questo momento che si creano le premesse culturali del consumo di massa del dopoguerra. 2. La vita quotidiana nel fascismo La tecnologia è un potente incentivo a consumare di più, spingendo a volere oggetti nuovi e diversi, ad allargare il ventaglio delle proprie scelte: il progresso tecnico è un elemento fondamentale nei processi di consumo, soprattutto in età contemporanea. 2.1 Casa Il costo delle nuove tecnologie è elevato: si trovano in una casa della borghesia medio-alta, ma non in case operaie o piccolo-borghesi. In questa casa ci sono anche importanti servizi moderni come acqua corrente, elettricità, gas: i monopoli naturali, le forniture basilari per la comunità, in Italia sono gestiti dagli enti pubblici locali. Ci sono tre oggetti che più di tutti ci ricordano che siamo entrati in un’epoca nuova, quella delle comunicazioni di massa: la radio, il grammofono e il telefono. La radio introduce nuove forme di consumo di musica, informazione, intrattenimento, propaganda. La diffusione del grammofono è in parte trainata dalla radio, che rafforza il consumo musicale: si crea un nuovo mercato. Tuttavia il basso livello di reddito delle famiglie limita fortemente la diffusione di nuovi dispositivi: i costi sono tali da restringerne l’utilizzo alle fasce superiori e il possesso delle nuove tecnologie appare quasi un segno distintivo di classe. 2.2 Trasporti Le prime automobili rappresentano la conquista dello spazio e del tempo, permettendo viaggi lontani e riducendo i tempi di percorrenza. L’industria italiana si muove per tempo: negli anni Venti ci sono ben 36 case automobilistiche, alcune industriali e altre di alto artigianato. Il prezzo delle automobili è fuori dalla portata della classe media: si tratta di un consumo di lusso. Eppure il regime spinge per la motorizzazione di massa e favorisce il miglioramento dei collegamenti stradali: si assiste a un notevole sforzo pubblicitario, non solo riguardante le automobili, ma anche le autostrade e i carburanti. A ciò si aggiunge la risonanza su radio e giornali delle gare sportive e dei raid automobilistici. Ma tutto ciò è un sogno per l’italiano medio ed è anche un sogno usufruire di altre reclamizzate forme di trasporto, come i piroscafi: la crociera sul piroscafo di lusso diviene uno dei punti più alti ed esclusivi della mondanità. Ancora più selettiva è la clientela dei trasporti aerei: gli sforzi del regime si concentrano sull’aviazione militare più che su quella civile. Restano i treni, che sono molto utilizzati per lavoro e per gli spostamenti privati. Tuttavia il vero mezzo di trasporto per tutti è la bicicletta: per operai, contadini, impiegati è questa la migliore tecnologia acquistabile. 2.3 Magazzini popolari Per quanto riguarda la struttura commerciale, non vi sono drastiche rotture col periodo precedente: troviamo ancora una vasta rete di piccoli negozi e l’alimentare è preponderante. I negozi alimentari sono i più diffusi ma anche i più poveri, mentre i negozi non alimentari sono i più ricchi. Si crea un quadro preciso, un triangolo: al vertice si trovano i consumi delle classi agiate e alla base i consumi strettamente di prima necessità. I grandi magazzini dell’inizio del secolo non si espandono e le cose non vanno meglio per le poche catene di negozi specializzati: la principale causa di questo ristagno risiede nel basso potere di acquisto dei consumatori, accentuato dalle crisi economiche ricorrenti e dalla politica di contenimento salariale attuata dal regime. Un altro motivo è la politica di controllo sugli ambienti economici intrapresa dal fascismo: dal 1926 una legge stabilisce la necessità di una licenza per aprire un negozio, la quale viene rilasciata dal comune in base a una valutazione sulla sua effettiva necessità. I commercianti che subiscono il nuovo ordinamento sono preoccupati anche per i nuovi magazzini a prezzo unico: offrono ai clienti migliaia di articoli di ampio consumo a prezzo fisso, rivolgendosi a una clientela popolare-piccolo borghese. I magazzini consentono ai consumatori colpiti dalla crisi e dalla compressione salariale di costruirsi un variegato paniere di consumi, di minor qualità e prezzo, ma ugualmente rispondente a uno standard di vita occidentale. minacciano di uccidere: uno dei sequestratori tratta il pagamento di un riscatto con un altoparlante dalla finestra, da consegnare sul tetto con un elicottero. Subito si scatenano polemiche che attribuiscono i fatti all’influenza deleteria di film dai contenuti violenti: l’opinione pubblica è convinta che stia emergendo una delinquenza giovanile e i media riservano grande spazio a quella “gioventù perduta” tanto severamente criticata dagli adulti. In verità il legame istituito tra giovani delinquenti e cinema/letteratura è più un effetto che una causa, poiché il dopoguerra vede il fiorire di film che parlano di giovani ribelli: si forma un cliché ricorrente, quello del giovane sbandato, e intorno a questo si costruisce un discorso sociale, che non è una vera interpretazione della realtà. I giovani vedono le cose in modo diverso: il loro comportamento è un modo per esprimersi. La loro identità trova una prima costruzione intorno ad alcuni oggetti e alcuni luoghi: lo spazio giovanile è principalmente quello extra-domestico (cinema, bar, discoteche). La musica diventa il linguaggio dei giovani: è l’arrivo del rock ‘n’ roll a dare loro una voce. E fra gli oggetti sono segnali distintivi abbigliamento, accessori, taglio di capelli: si ricercano nuovi modelli, si insegue il diverso come forma espressiva autonoma. Gli oggetti vengono decontestualizzati, trasformati, esagerati e cambiano significato: si esibiscono tagli di capelli inconsueti, variazioni nell’abbigliamento tradizionale e i simboli consumistici appaiono come segni di riconoscimento. Nasce uno stile, il cui fine è costruire un’identità specifica. Si creano quindi nuove identità e nuovi soggetti economici. 2. Politica, cultura e Welfare State Negli anni Cinquanta la parola “consumi” compare nel dibattito pubblico e in quello politico. Un gruppo particolarmente influente è quello degli economisti e la loro analisi parla di “distorsione” dei consumi: gli italiani privilegiano consumi privati tipici dei Paesi più sviluppati, invece di acquistare prima i beni necessari. Non maggiore comprensione viene dai Partiti politici: nella Democrazia Cristiana prevale la diffidenza verso forme di consumo mondane che possono mettere in ombra il ruolo della Chiesa e il Partito comunista è dubbioso sugli effettivi miglioramenti della classe operaia. Si accende un dibattito intellettuale, il cui punto di riferimento sono le opere di Adorno e Horkheimer: si parla di “consumismo” e cioè di un consumo sfrenato e coattivo indotto dall’industria culturale. Di lì a poco Marcuse sottolinea i processi che portano alla manipolazione dei bisogni e creano un indistinto conformismo di massa. In Italia si leva la voce di Pier Paolo Pasolini, che pensa si sia verificata una mutazione antropologica degli italiani: nella sua visione non c’è speranza per il futuro, che si presenta apocalittico. Spunti diversi arrivano da studi sul campo, che ascoltano le opinioni dei soggetti e la loro auto-rappresentazione, invece di forzare una tesi dall’esterno: dall’indagine di Lidia De Rita del 1959 emerge che la televisione non è vista dai contadini come un consumo superfluo, ma come un bene che consente una migliore conoscenza del mondo e una migliore comunicazione. Nonostante il tono prevalente sia quello di critica al consumismo, la DC non tarda a comprendere il significato politico che una crescita economica può avere: il miglioramento degli standard di vita crea consenso e i beni di consumo sono un indicatore fondamentale del benessere raggiunto. Per lo sviluppo si dispone di industrie statali e della potente leva dei consumi pubblici, che consentono la costruzione di un Welfare State: tra il 1950 e il 1973 viene edificato il moderno Welfare italiano. I governi investono molto nell’istruzione, che è il prerequisito per una maggiore occupazione, necessaria allo sviluppo economico. Nel 1962 si realizza la Scuola Media Unica: dopo le elementari i bambini non possono più scegliere tra proseguimento degli studi o avviamento professionale, ma sono obbligati ad iscriversi alla scuola media, portando il corso di studi obbligatorio a 8 anni e favorendo l’accesso agli studi superiori e all’università. Un altro pilastro della spesa pubblica è la sanità: da un sistema basato sulle assicurazioni, in cui pubblico e privato si intrecciano di continuo, nel 1968 gli ospedali vengono trasformati in enti di diritto pubblico. Nel 1978 si crea il Servizio sanitario nazionale: si accentrano i servizi di assistenza e sanità in unità locali territoriali (Usl) e si garantisce l’uguaglianza di trattamento. La spesa principale è però la previdenza, affidata ai grandi enti parastatali: le pensioni dei dipendenti migliorano rapidamente. Nel 1968 si passa dal sistema contributivo a quello retributivo (con 40 anni di contributi si va in pensione con l’80% dell’ultimo stipendio), viene introdotta la pensione di anzianità (acquisibile dopo 35 anni di contributi) e viene creata la pensione sociale, assegnata a chi abbia più di 65 anni e sia privo di altri redditi. La previdenza viene poi allargata a varie categorie di lavoratori autonomi. Si aggiungono i sussidi per sospensioni dal lavoro e disoccupazione forniti dalla Cassa integrazione guadagni (Cig). Gran parte di questa ingente spesa pubblica è pagata dagli stessi cittadini, tramite imposte e contributi. Il gettito complessivo dei tributi cresce fortemente: dal 1971 al 1973 si introducono l’Iva e nuove imposte sul reddito e aumentano i contributi sociali. Tuttavia il gettito raccolto non è sufficiente a garantire l’espansione del Welfare: si pongono le premesse per la crescita del debito pubblico come fonte di finanziamento. 3. Pubblicità e produzione La crescita dei consumi privati e il lancio di nuovi prodotti sul mercato spingono molte più imprese a utilizzare forme pubblicitarie attente alla vendita e al mercato, che prendono il nome di marketing. La teoria pubblicitaria di inizio secolo faceva riferimento alla psicologia: il messaggio deve essere forte e continuamente ripetuto, in modo da esercitare un grande potere persuasivo che colpisca il consumatore. Ora si comprende che non esiste un consumatore-tipo, ma tanti gruppi diversi con modi di vita differenti e si sviluppa l’orientamento sociologico: prima di realizzare qualsiasi messaggio è necessario svolgere accurate indagini di mercato. In Italia prospera una piccola imprenditoria diffusa, che non si concentra più solo nel triangolo industriale, ma anche al nord-est e al centro. I settori tradizionali, che sono i produttori di beni di consumo, evolvono e si aprono a livello internazionale: tutte queste imprese sono accomunate dall’estensivo ricorso alla pubblicità per lanciare i nuovi prodotti e spiegare il loro funzionamento e la moltiplicazione dei media contribuisce a dare alla pubblicità una visibilità sociale maggiore. Per quando riguarda il settore alimentare, le strategie commerciali prestano molta attenzione al genere e all’età: i prodotti per cucinare sono indirizzati alle casalinghe (packaging comunicativo e funzionale), i prodotti dolciari sono dedicati ai bambini (promozioni pubblicitarie con pupazzi e cartoni animati, confezioni colorate). Vi sono poi prodotti che si indirizzano ai giovani, tra cui i primi sono i gelati, seguiti dalle gomme da masticare: negli Stati Uniti i chewing-gum hanno una lunga tradizione associata anche ai militari della seconda Guerra mondiale. Il passaggio dai cibi freschi a quelli industrializzati porta a prodotti più standardizzati per forma e sapore, dove l’imballaggio assume un ruolo di primo piano, sia per la comunicazione sia per la protezione e l’igiene degli alimenti. I nuovi prodotti non soppiantano del tutto le tradizioni culinarie italiane, anzi l’industria valorizza i prodotti alimentari tipici e li lancia sul mercato nazionale: si innesta la mitizzazione della dieta mediterranea, proposta nel 1962 dal nutrizionista americano Angel Keys. Un altro settore importante è l’abbigliamento: le industrie produttrici fanno molti progressi e il ruolo di sarti e boutique artigianali si ridimensiona lentamente. Manca però un mercato per l’alta moda italiana che sia paragonabile a quello della capitale della moda, Parigi: nel dopoguerra si moltiplicano le iniziative per creare passerelle alternative a quelle francesi e da subito il mondo della moda ha un certo successo, per la qualità delle stoffe, per l’estro dei modelli, per lo stile elegante e portabile, per i prezzi concorrenziali. Tuttavia l’alta moda resta un settore elitario, separato rispetto al mondo dell’industria: ora i consumatori sono più esigenti e vogliono capi che siano strumenti di distinzione, non bastano la qualità e il prezzo. Bisogna sviluppare un livello intermedio, che sappia abbinare creatività e qualità dell’alta moda con i vantaggi della produzione di serie. Questo passaggio avviene agli inizi degli anni Settanta grazie a una nuova figura, lo stilista: progetta una collezione improntata a un suo stile specifico, presenta le opere in una sfilata-evento e si occupa della distribuzione. Lo stesso processo avviene nell’arredamento con la comparsa del designer: per coniugare creatività e produzione di serie, negli anni Cinquanta e Sessanta gli architetti collaborano sempre più spesso con produttori artigianali o grandi imprese o creano essi stessi nuove società. Si afferma una tendenza estetica basata su forme essenziali e rigore del disegno, che abbatte i costi ed esalta il contenuto tecnologico e i materiali dell’oggetto: è il nuovo Italian design. Il made in Italy è pronto per spiccare il volo. 4. La grande distribuzione e i supermercati americani Negli anni Cinquanta e Sessanta gli Stati Uniti puntano alla diffusione internazionale dell’American way of life, comunicando la loro capacità di assicurare beni di consumo in quantità e qualità superiori a chiunque altro. Il messaggio ideologico che vogliono trasmettere è che la libertà di scelta tra prodotti diversi garantita dall’economia di mercato non è che il riflesso della libertà di scelta garantita dalla democrazia: libertà economica e libertà politica sono due facce della stessa medaglia. In questa costruzione il supermercato è un elemento importante: incarna l’idea di un benessere e un’abbondanza senza limiti. Queste forme commerciali in Europa si diffondono nel secondo dopoguerra, quando importanti catene di negozi alimentari adottano il sistema americano. In Italia la prima importante società di supermercati è opera dell’americano Rockefeller: nel 1957 una delle sue società di New York (Ibec) apre a Milano un’impresa con capitale misto, americano e italiano. Le competenze gestionali del management statunitense e la buona accoglienza del pubblico ne determinano un rapido successo: i prezzi bassi, la possibilità di comprare piccole quantità di cibo e il gusto di frequentare un ambiente piacevole sono elementi che fidelizzano i clienti. Le persone osservano attentamente la merce prima di comprarla, poiché non sono abituati a comprare tutto confezionato e non conoscono molte marche: molti sembrano lì più per osservare che per acquistare davvero. Le donne sono le grandi protagoniste nei supermercati, considerato che su di loro ricade tradizionalmente il compito di fare la spesa, ma la sorpresa sono gli uomini: comincia il processo per cui la scelta del cibo non è più un’attività esclusivamente femminile e l’intera famiglia partecipa al rito della spesa. Nel giro di pochi anni compaiono molte altre imprese di supermercati, sia a livello regionale che nazionale, e in particolare vanno ricordate due forme importanti: la prima è il commercio associato (unione volontaria tra dettaglianti e grossisti), la seconda è costituita dalle cooperative. La crescita della grande distribuzione italiana non è solo il risultato di fattori sociali ed economici, ma anche di un complesso gioco politico che vede protagonisti le associazioni sindacali di categoria, i partiti politici, gli organismi pubblici. Il supermercato cambia le abitudini, rende diretto e immediato il rapporto con la merce grazie al self-service, rafforza il ruolo delle marche sul mercato, fa conoscere nuovi prodotti: questo nuovo luogo del commercio diventa l’altare della cultura del consumo. Anche il paesaggio urbano muta: i supermercati si insediano di preferenza all’interno di quartieri popolosi, spesso in periferia, i quali vengono così valorizzati. L’impatto del modello americano quindi è enorme in questi anni: si parla di un’americanizzazione che si riflette un po’ in tutti i campi dell’economia, della cultura e della società.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved