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L'italia dei consumi, Scarpellini, riassunto., Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto dettagliato e approfondito del suddetto testo, per esame di storia contemporanea ed economica.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

In vendita dal 20/03/2018

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Scarica L'italia dei consumi, Scarpellini, riassunto. e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! L’ITALIA DEI CONSUMI. Il libro tratta del consumo in Italia, facendo riferimento al periodo compreso tra l’Unione del Regno nel 1861 e l’età contemporanea, considerando come proprio il consumo abbia finito per strutturare e caratterizzare la società e a differenziare classi e regioni, ricordando che le trasformazioni economiche e culturali che hanno avuto luogo in Italia non sono valide per il resto del mondo poiché esse sono influenzata anche dall’area geografica; in particolare, le vicende economiche italiane possono essere capite solo se analizzate alla luce del contesto europeo ed euro-americano, in quanto il consumo è legato all’internazionalismo dato che le merci, così come le persone, si muovono. CAPITOLO 1: L’ITALIA LIBERALE. La popolazione italiana. Il periodo compreso tra il 1870 e il 1913 è occupato da una grande trasformazione seguita alle innovazioni della prima rivoluzione industriale; tale rivoluzione interessò anche l’Italia, seppure in modo molto lento; è proprio dal 1870 che il reddito pro capita comincia ad aumentare, pur rimanendo sempre inferiore rispetto la media europea, e ovviamente i diversi redditi comportavano scelte consumistiche diverse e tali differenze si sentivano anche a livello territoriale, per esempio tra campagna e città. Nello stesso periodo diminuisce il tasso di mortalità e così quello di natalità, allungandosi però l’aspettativa di vita: se nel 1880 era di 35 anni, nel 1910 era di 47. A favorire il conseguente aumento della popolazione anche i progressi dell’agricoltura e quelli nel campo tecnico e scientifico; la crescente pressione demografica rompe i legami abituali e spinge a spostarsi nei centri industriali o all’emigrazione e questo ha dette ricadute anche sulle tradizionali pratiche di consumo. A quel tempo la spesa maggiore era rappresentata dall’alimentazione, seguita dalle spese per la casa, poi il vestiario, i trasporti e infine altre di minore rilievo; e nonostante questo comunque l’alimentazione era semplice e spesso scarsa infatti si consumavano soprattutto risorse agricole e solo in pochissima quantità carne e pesce, mentre condimenti, formaggi, generi come tè e caffè erano rari. Ovviamente bisognava anche considerare le differenze territoriali e di classe sociale. La maggior parte della popolazione fu per lungo tempo impiegata nell’agricoltura; nel 1911 ancora il 62% della popolazione attiva lavorava la terra. Le condizioni di vita dei contadini erano molto dure e le entrate scarse, oltre che frettolosamente assorbita da alimentazione, casa e vestiario (la triade dei bisogni primari). I braccianti vivevano comunque in modo più disagiato rispetto ai contadini autonomi o ai mezzadri. L’apporto calorico era basso ovunque e così anche l’assunzione di vitamine e proteine, anche se le abitudini alimentari erano diverse, per esempio nelle Langhe i contadini mangiavano polenta, legumi, patate e castagne e la carne era consumata solo in caso di malattia mentre in Sardegna il pranzo era costituito da pane di frumento e la cena da zuppa di legumi, oppure in Puglia pane bagnato con acqua e sale. Anche se le disponibilità alimentari erano scarse, i contadini attribuivano ai cibi che mangiavano significati particolari e simbolici, considerandoli di grande rilievo nell’organizzazione della vita sociale. Per esempio durante le feste di consumavano determinate qualità e quantità di cibo diverse dal tempo del lavoro e così durante la malattia e le cerimonie religiose; ciò che è grasso significava buon auspicio, viceversa il magro e così tutto ciò che cresceva in alto o in basso. Particolare il grano, che spiritualmente parlando aveva per i contadini la forma di un lupo, infatti se un lupo passava nel campo con la coda alzata cercavano di ucciderlo, se aveva la coda abbassata e quindi portatrice di fecondità gli davano del cibo. Significative erano anche le modalità di consumo del cibo, c’era un determinato ordine di distribuzione delle portate, anche di sedersi al tavolo (il capofamiglia a capotavola e i membri più importanti vicino a lui, oppure talvolta le donne mangiavano a un tavolo distinto), oppure talvolta era occasione di socializzazione, durante le feste dei villaggi o le riunioni intorno al fuoco per esempio. Le differenziazioni a livello locale in ambito di consumi non ruotavano solo intorno al cibo, ma anche intorno la casa. Anche riguardo questa però possono essere rintracciati due elementi comuni: • Il riferimento all’ambiente circostante e quindi l’utilizzo di materiali locali; • Il legame con il sistema di organizzazione produttiva, per esempio le corti padane, strutture specializzate nelle quali vivevano anche sette famiglie che lavoravano la stessa terra ed erano organizzate intorno a un’aia centrale con la dimora padronale con le case dei contadini e gli edifici e le terre destinate al lavoro, oppure le massarie del Sud o i casali del Lazio. In alcuni casi si potevano ritrovare anche abitazioni unifamiliari ma comunque poverissime e molto piccole, addossate in piccoli villaggi, con una stalla importante non solo per il lavoro e la cura delle bestie ma anche perché luogo di incontro; altro ambiente importante in queste casette è la cucina, poiché grazie al focolare era l’unico ambiente riscaldato, e perché era anche un luogo di produzione e consumo insieme, dato che qui le donne tessevano o accudivano i bimbi e gli uomini riparavano attrezzi, ecc. Da non dimenticare l’impostazione gerarchica della famiglia e la divisione del compiti. Nelle camere da letto, accanto ai grandi letti nei quali talvolta dormiva un’intera famiglia, in armadi e bauli si potevano trovare gli indumenti, talvolta fatti a mano, altre volte ereditati, altre ancora riciclati o comprati; anche l’abbigliamento svolgeva un importante compito di distinzione sociale, dunque anche i contadini tenevano al modo di apparire durante feste o cerimonie. Le condizioni di vita degli operai non erano poi così migliori, la differenza sostanziale stava nel fatto che il loro reddito era il salario e che l’autoconsumo era quindi molto più basso; anche gli operai destinavano la maggior parte delle loro entrate all’alimentazione; a Milano la carne e il pesce venivano consumati in piccole quantità, a differenza di latte e mais. Anche a Napoli si mangiavano poca carne e poco pesce preferendo verdure e cereali; le diete sono insufficienti e poco variegate. Nonostante la situazione vissuta dagli operai non fosse molto diversa rispetto quella dei contadini, essi mettevano in atto comportamenti molto diversi in ambito di consumi ma anche a livello demografico; la natalità era inferiore e la mortalità più elevate, i matrimoni venivano contratti in età più tarda ed erano superiori le nascite illegittime. Inoltre gli operai erano costretti a spostarsi molto frequentemente per trovare lavoro data l’instabilità occupazionale e questo causava spesso difficoltà nel trovare un alloggio adeguato alla grandezza della famiglia e alla condizione economica ma, lavorando in città, avevano anche più possibilità di mischiarsi con le altre classi sociali. Ma anche per altri motivi gli operai entravano a contatto con ambienti diversi; in particolare, accadeva molto spesso che un operaio provenisse da un ambiente familiare contadino o legato all’artigianato e, poiché in fabbrica si veniva licenziati attorno ai 45 anni poiché il rendimento di abbassava, si era poi costretti a cercare altri lavori, ampliando ulteriormente la propria rete di conoscenze e spesso assimilando il tutto in una cultura dei consumi molto fluida. La popolazione operaia rappresentava una percentuale ridotta rispetto a quella complessiva e solitamente si raggruppava più densamente in alcuni luoghi urbani, solitamente nei quartieri più poveri, nei centri urbani degradati o nelle costruzioni a blocco tipiche della periferia, spesso senza possibilità per una famiglia di avere una propria casa, infatti nella maggior parte dei casi le abitazioni erano piccole e sovraffollate. Un esempio di abitazione sfruttata dagli operai le case di ringhiera tipiche del milanese, a più piani, con bagno in comune, senza illuminazione né fognature. Dunque anche le condizioni igienico-sanitarie erano precarie. Nei centri industriali inglesi, tedeschi e francesi si sviluppa un’edilizia operaia che in Italia continua a mancare, così come l’architettura indirizzata ai lavoratori urbani. Un’eccezione può essere ritrovata nei villaggi operai, come la Nuova Schio, fatta costruire dall’imprenditore laniero Alessandro Rossi, che sperava in un superamento delle contrapposizione classiste, pur essendo progettato in base a una netta separazione Non di seconda importanza il ruolo degli abiti come elemento di distinzione, appare infatti evidente la volontà di ogni classe sociale di distinguersi dalle altre, ricorrendo ad abiti diversi a seconda dell’impiego talvolta (i colletti bianchi e quelli blu per esempio) oppure abiti puliti e ordinati per distinguersi dai lavoratori manuali; a costo di fare sacrifici economici, la tendenza all’apparire sempre ben vestiti è tipica anche degli strati più bassi della borghesia. L’abitazione borghese invece cambia nel corso del tempo e per descrivere i suoi mutamenti si fa riferimento a due autori. Il primo è Simon Schama che, nella sua opera Il disagio dell’abbondanza, analizza la tendenza dei mercanti e dei banchieri olandesi ad accumulare grandi fortune temendo però di perdere la loro anima, rifugiandosi quindi nella pulizia e nell’ordine della casa; non solo quindi un riparo, ma anche una contrapposizione al mondo esterno. Questo suggerisce che il senso privato diventa un attributo della casa. Il secondo autore è Pierre Bourdieu, che analizza le case berbere presentando gli spazi abitativi come riproduzione delle divisioni sociali. Queste due analisi sono utili per comprendere le caratteristiche delle abitazioni borghesi dell’Italia liberale, che sono ben diverse da quelle contadine e operaie. Non sono solo più ricche e ampie, hanno anche spazi divisi e risultano più centrali nella vita quotidiana; sono inoltre le prime ad accogliere mobili e arredi industriali di serie, considerando anche la praticata separazione dello spazio esterno da quello interno attraverso finestre chiuse e tende; anche qui si evita la contaminazione con il mondo esterno valorizzando invece la sfera privata. La separazione tra pubblico e privato è anche interna alla stessa abitazione, vi sono infatti spazi riservati alla vita in società, dunque per ricevere gli ospiti, e altri all’intimità tra figli e coniugi; la media borghesia preferiva la socializzazione al di fuori dell’ambiente domestico. Solo a Napoli risulta tipica la tendenza anche della media e della piccola borghesia a socializzare in casa, dedicando per questo molta attenzione agli spazi interni e al loro arredo; solitamente le stanze private erano povere e spoglie e il mobilio migliore era invece destinato alle sale, dove potevano essere trovati divani, specchi, orologi a pendolo, pianoforti, quadri e oggettistica varia. Nelle famiglie più benestanti c’erano anche alcune stanzette riservate alla servitù; gli ambienti femminili erano distinti da quelli maschili e così anche gli arredi e le spese, maggiori per i maschi e soprattutto per il maggiore di essi, mentre le camere delle donne erano più semplici e spoglie. Inoltre se nel mondo operaio e contadino anche i bambini erano impiegati in mansioni leggere, verso la fine dell’Ottocento tra la borghesia si diffonde la visione dell’infanzia come un’età diversa da quella adulta e con bisogni diversi, quali la creatività e la spensieratezza, che devono essere lasciati emergere liberamente. La prima a sostenere ciò in Italia è Maria Montessori, fondatrice di varie scuole finalizzate proprio a esaltare le capacità creative dei bambini; essa credeva che i bambini fossero puri e innocenti contestando il peccato originale. Da quel momento in poi, la visione dell’infanzia influenza anche i consumi poiché si capisce la necessità dell’educazione, di svaghi, abiti e vestiti adatti; non a caso negli Stati Uniti e in Europa nasce una vera e propria industria di prodotti rivolti ai bambini, produttrice di giocattoli, verso i quali si crede che l’attaccamento emozionale sviluppi attitudini positive. Il consumismo approda anche nel mondo dei bambini, quindi. Tendenza tipica borghese è amplificare le distinzioni sociali attraverso i consumi ricreativi e culturali, dai circoli di lettura ai balli oppure le cene fuori casa, in ristoranti o alberghi, per arrivare anche al teatro e alle associazioni sportive, che in Italia compaiono alla fine dell’Ottocento e si sviluppano molto rapidamente; si sviluppano anche elementi quali la tradizione militare e quella patriottica; i fenomeni di massa che portano alla nascita dello sport-spettacolo, quali gare automobilistiche e ciclistiche, finiscono per rispecchiare i valori della nascente società di massa, ovvero competizione e divertimento. Infine, anche in Italia continuava ad esistere la classe aristocratica con il suo ostentare vestiti, cappelli, gioielli, cerimonie lussuose in palazzi altrettanto lussuosi, ecc. vedendo nel consumo un mezzo fondamentale per legittimare il proprio potere e la propria posizione. È solo in età moderna che il lusso smette di essere visto in modo negativo (tra greci e romani il lusso era visto come mancanza di capacità di adempiere ai propri doveri, per i cristiani era un ostacolo alla salvezza) e comincia ad essere inteso come mezzo di promozione del commercio e del benessere individuale, entrando nella sfera economica con significato positivo da una parte e continuando ad essere accostato all’ozio dall’altra. All’inizio del Novecento le famiglie nobili in Italia continuavano a diminuire ed erano distribuite in maniera molto disomogenea; e mentre si riduceva anche il loro patrimonio, i loro stili di vita caratterizzati dalla sociabilità domestica, dal’endogamia geografica, ecc. continuano ad essere gli stessi, così come continua la diffidenza nell’aprirsi alle nuove elite borghesi. E nonostante il periodo di decadenza economica e il restringimento numerico la loro importanza sulla società non tendeva a diminuire. Le case degli aristocratici erano dimora di famiglie allargate e molti servi e, se situati nelle campagne, erano dotati di magazzini agricoli, stalle e botteghe; la grandezza del palazzo e la sua decorazione rimandavano alla ricchezza della famiglia e per sottolineare meglio ciò si ricorreva anche ad architetti famosi per le costruzioni. Anche all’interno di questi grandi e sfarzosi palazzi vigevano delle divisioni, quella tra giorno e notte e quella tra pubblico e privato; ben distinti erano anche gli ambienti dedicati alla servitù. Buona parte dello spazio era pubblico e destinato a feste e ricevimenti, per questo le stanze erano molto ricche, con mobili pregiati, quadri, tappeti, oggettistica preziosa. Per esempio il palazzo della marchesa Berlingieri di Napoli era destinato per due terzi alla sociabilità e gli ambienti ne sono la testimonianza, con divani, poltrone, pianoforti,sedie, tavoli da gioco e suppellettili d’oro e d’argento, mentre i mobili erano realizzati con legni preziosi e marmi. La stessa attenzione era comunque posta sulle altre camere e sui locali di rappresentanza, spesso alcune avevano un tema o un colore predominante ma erano tutte accomunate dalla presenza di tendaggi, quadri, specchiere, poltrone e divani, tappeti, o da caratteri quali tappezzerie sulle pareti, pavimenti di legno e soffitti affrescati. Le posizioni degli oggetti non erano casuali ma dettate da precisi precetti. Le dimore dei nobili erano fornite di bagni con acqua corrente e calda e a volte anche del bidet e la diversa visione del corpo umano che si diffonde nell’Ottocento, oltre che i progressi della medicina, fanno capire quanto l’igiene del corpo fosse importante, mentre prima si credeva che l’acqua, penetrando i pori, potesse portare malattie; igiene e pulizia diventano quindi anche sinonimo di salute. Ambiente molto importante era anche la cucina, che doveva soddisfare le necessità di molti individui ed era per questo sempre ben fornita e in essa lavoravano soprattutto donne; secondo Norbert Elias in età moderna e proprio a partire dagli aristocratici si diffonde la tendenza a controllare le pulsioni e i desideri e, a tavola, questo si risolve nel galateo, nelle buone maniere, nell’utilizzo delle posate, nell’utilizzo di diversi piatti e bicchieri, sempre preziosi, per le diverse portate; cade infatti l’usanza di mangiare diverse portate nello stesso piatto o di passarsi i bicchieri. Anche le stesse posate cominciano ad essere differenziate in base a ciò che si doveva mangiare; sulla tavola veniva posta una tovaglia rigorosamente candida, per sottolineare la pulizia, e si trovavano ornamenti diversi quali saliere, ecc. I piatti e i bicchieri dovevano essere rigorosamente uguali, quindi provenienti da un uno stesso servizio; molti erano i domestici che servivano al tavolo degli aristocratici. Essi consumavano diversi pasti nel corso della giornata; la prima colazione era a base di caffè, latte o cioccolata e crostini imburrati, la colazione (verso le undici o mezzogiorno) prevedeva una minestra, carne e contorno; il pranzo veniva consumato verso le sei ed era più abbondante, con una minestra, antipasti vari (salumi, ostriche, crostini), una portata importante (fritto, lesso o umido), poi segue un piattino più sfizioso come tartine o pasticcini di carne, la portata principale (arrosto di carne con contorno di verdure o pesce), poi dolci, frutta e formaggio. Le portate sono sempre accompagnate dal vino. Ovviamente anche parlando dell’aristocrazia si ritrovano delle differenze a livello regionale e gli stessi nobili le percepivano; l’aristocrazia romana si dedicava poco alla politica, ma godeva di una salda base economica nelle sue proprietà, conducevano uno stile di vita splendido senza rinunciare a feste e balli e aveva grande prestigio nella vita cittadina; i consumi di prestigio erano molto ostentati anche dalla nobiltà napoletana, pur avendo essa basi economiche meno solide; l’aristocrazia piemontese manteneva saldi i suoi patrimoni grazie agli investimenti atti al miglioramento delle terre e al suo legame con la monarchia, pur rimanendo volutamente distaccata dal resto della società. Sono gli svaghi a rendere più vicine le varie aristocrazie e, allo stesso tempo, a diversificare i soggetti; andare a teatro per esempio comportava indossare vestiti appropriati, come frac per gli uomini e vestiti da sera per le donne, ma si ricordano le diverse entrate a seconda del posto da occupare, se in galleria o in platea; tra gli sport, il più ben visto dall’aristocrazia sembra essere l’equitazione e infatti cominciano a nascere i primi ippodromi e le prime società legate alle corse dei cavalli. Ciò avviene proprio mentre cominciano a diffondersi anche le automobili e risponde, ancora una volta, dalla volontà di diversificazione delle classi aristocratiche. Lo stato e i consumi pubblici. Il consumo quindi è una pratica della quale si è consapevoli nel momento in cui la si svolge, ma non è una pratica solo privata, cioè della quale godono i singoli, e può essere anche pubblica, cioè ci sono dei consumi che vengono fruiti collettivamente oltre che privatamente (l’agricoltura, l’industria e l’amministrazione di un paese). I consumi sono fondamentali per capire gli indirizzi delle politiche di governo di ogni Stato, infatti anche nelle politiche governative i consumi hanno un ruolo di primo piano; questo perché ciò che viene prodotto dai vari settori dell’economia del Paese viene impiegato nei consumi interni, che siano pubblici o privati. L’intervento dello Stato nel campo della produzione, dell’economia e dei consumi fu a lungo dibattuto, in particolare perché farvi fronte sarebbe stato piuttosto complicato in quanto le differenze nei consumi derivavano dalle disparità sociali, da sempre esistenti, e la povertà in Italia era un fenomeno tutt’altro che raro già dall’inizio dell’Ottocento, ma con il procedere dell’industrializzazione la situazione peggiora parallelamente al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori delle campagne, in piena crisi economica, e delle città, sempre più sovraffollate; si decise per l’intervento statale dietro la convinzione che tali problemi fossero connessi non alla volontà dei singoli che potevano essere nullafacenti e mendicanti, ma a problemi interni all’economica e alla società. Si pensò quindi di intervenire riguardo i consumi pubblici, ovvero le forme di assistenza individuale che il mercato non era in grado di fornire, come fornire agli individui assistenza, sanità e istruzione, per soddisfare anche le richieste delle masse che, infiammate dalla propaganda socialista, vogliono affermare i loro diritti nella società talvolta destabilizzando la società e facendo temere per l’esplosione di un conflitto sociale; la risposta a questo provenne dalla Germania bismarckiana, che aveva varato una legislazione per contenere l’influenza del partito socialiste e legare quanto più le masse allo Stato, integrando anche gli operai nella nazione similmente a come era stato fatto in Inghilterra grazie alla cooperazione dei liberali e dei laburisti. Anche se i governi di Destra e Sinistra si sforzarono per apportare dei miglioramenti quali la costruzione delle ferrovie e di altre infrastrutture, senza però toccare l’istruzione e la redistribuzione, solo durante l’età industria e artigianato e assorbendo per questo più manodopera rispetto agli altri settori, per questo le merci sono prodotte nel raggio di pochi chilometri da dove sono poi smerciate. In questo stesso periodo, sotto la spinta della rivoluzione industriale, anche nel settore alimentare vengono introdotti miglioramenti quali nuove macchine, nuove tecniche di lavorazione e nuovi prodotti industriali; si comincia quindi a produrre quantità maggiori di alimenti e ciò determina dei cambiamenti anche nella distribuzione. Era infatti molto più facile vendere prodotti locali alla clientela abituale che vendere prodotti industriali a una grande clientela, sconosciuta e non più legate all’ambito locale, ma a quello nazionale e spesso internazionale. I problemi legati alla distribuzione e al marketing si risolvono in un aspetto che nel corso del XX secolo si rivela decisivo, ovvero la marca. Con tale termine si indicava inizialmente il marchio proprietario, il nome o il simbolo del prodotto, ma con l’allargarsi del mercato questa diventa un mezzo per caratterizzare la merce. Ha inoltre due funzioni: ▲ Informativa, indica le caratteristiche del prodotto e le sue funzioni; ▲ Valoriale, è un valore aggiunto rispetto al bene fisico che può per questo fornire uno status diverso a chi lo acquista. Sulla costruzione di una marca influisce anche la pubblicità, che inizialmente tende a valorizzare l’aspetto informativo per far conoscere i nuovi prodotti ai consumatori, infatti solitamente sui fogli pubblicitari accanto all’immagine del prodotto se ne spiegavano le caratteristiche, il suo fine e il modo per utilizzarlo (prevalenza della scrittura sull’immagine); importanza assume anche il packaging, cioè la confezione esterna che oltre a essere un elemento importante per la caratterizzazione del prodotto poteva anche richiamare clientela; quindi anche nelle industrie la situazione cambia e si ritrovano prodotti con una marca; la pasta Barilla o de Cecco, gli amaretti Lazzaroni, la cioccolata Venchi e Perugina e spicca inoltre la marca Cirio, da Francesco Cirio, che si ritrovava su barattoli di pelati e conserve vegetali varie, ma anche sui prodotti ittici e sulla frutta. Esso aveva cominciato proprio esportando frutta, verdura e altri prodotti attraverso vagoni frigoriferi di sua invenzione, allargando la sua attività con un’industria conserviera e cominciando poi con una grande espansione industriale tanto a Nord quanto a Sud. I formaggi si legano a nomi come Galbani, Invernizzi e alle Latterie Soresinesi; l’olio e il riso rimangono di produzione locale mentre caffè o prodotti come brodo concentrato e late condensato arrivato dall’estero; anche i vini ancora rimangono prevalentemente prodotti locali o provenienti dal mercato interno. Le marche si legano anche ai mobili, come Ducrot o Coppedè, i cui servigi erano richiesti da famiglie regnanti o comunque per alberghi e simili, mentre nelle case del popolo si ritrovano produzioni artigiane, comunque di buonissima qualità data la tradizione artigianale dell’Italia. Riguardo i mobili di produzione industriale, fatti di pochi pezzi assemblati tra di loro, essi erano considerati inferiori rispetto a quelli artigianali, dunque non adatti a una dimora dignitosa, anche perché al gusto estetico si prestava ben poca attenzione, eccezion fatta per l’austriaco Michael Tonet che attraverso la curvatura del legno a vapore realizzò una sedia leggera, semplice, raffinata che poteva essere anche smontata e spedita e che ancora oggi è uno degli oggetti d’arredo più diffusi al mondo. In Inghilterra invece anche gli arredi erano sinonimo di eleganza e modernità, che si ritrovavano anche in prodotti quali porcellane, posate, abiti, lenzuola, capi di lana; anche in questi settori l’Italia vantava dei maestri, per esempio le porcellane di Ginori, oppure le vetrarie veneziane, ma questi rimanevano legati ai vecchi sistemi di lavorazione e ai segreti del mestiere che consentivano loro di produrre soprammobili unici ma di non andare oltre; fu la competitività derivata dai progressi delle industrie estere a spingere a un ammodernamento anche in questo campo. Gli spazi del commercio. Nell’Ottocento nasce anche la metropoli intesa in senso moderno; un esempio è la Parigi che Baudelaire e Haussmann contemplavano e descrivevano nelle loro prose e nelle loro poesie, osservandone la gente e i cambiamenti senza riuscire a capire se essi siano in positivo o in negativo; mercificazione (con il denaro che si impone anche sui rapporti e sul tempo) e spettacolarizzazione diventano due tratti fondamentali della nuova metropoli. In Europa, forse solo Londra e Vienna potevano competere con Parigi per ricchezza e potenza. Questo si materializza fisicamente nei bazar e nei magazzini. Realizzati sfruttando le coperture in ferro e vetro, ben arredati e con pavimenti lussuosi e vetrine luminose che invogliavano i passanti a entrare, diventavano luoghi di ritrovo e incontro accanto alla loro funzione commerciale. Questi luoghi di commercio, stupore e meraviglia venivano chiamati passage. Si moltiplicano anche le gallerie commerciali che, a differenza dei passage, erano costruzioni più grandi e monumentali e con funzione di rappresentanza, per esempio la galleria Vittorio Emanuele II a Milano, progettata dall’architetto Giuseppe Mengoni e formata da una grande cupola centrale con quattro braccia laterali alle cui entrate si trovano archi di trionfo intitolati al re. Significativo il fatto che a rendere omaggio al sovrano e alla Milano borghese in espansione sia stata proprio una galleria commerciale. Il passo seguente sono i grandi magazzini, non formati da diversi negozi e diverse imprese in un unico grande luogo ma da una singola unità; un esempio il Bon Marché aperto a Parigi nel 1852, un grandioso edificio in chiave moderna che offriva le più varie merci ai clienti e uno spettacolo agli occhi di tutti con scale, passaggi, arredamenti di lusso come tende, tappeti e specchi. Si poteva definire anche un ambiente ospitale grazie alla musica, ai palloncini regalati ai bambini, agli omaggi per i clienti e i fiori per le signore,bar, ristoranti, ecc. Non a caso fu il modello più imitato; ma per capire a pieno lo sviluppo di queste attività e come esse abbiano influenzato la collettività e i consumi bisogna partire dalle attività commerciali di base. Il commercio funge da intermediario tra produttore e consumatore, rimanendo quindi molto vicino alle sue esigenze, e così come si sono evoluti i consumi si sono evolute le attività commerciali, che a loro volta hanno un ruolo importante in ambito di consumi in quanto determinano le modalità pratiche dell’acquisto e attribuiscono un significato e un valore specifico ai prodotti. Un’antichissima forma di commercio sono le grandi fiere, occasione di commercio, incontro e festa che entrano in crisi con lo sviluppo dei trasporti marittimi e ferroviari rendendo necessarie strutture più stabili come i mercati locali, situati presso le grandi piazze o le vie più importanti. Con lo sviluppo urbano e le diverse necessità di approvvigionamento cominciano ad essere costruiti i mercati coperti, per esempio il Mercato Centrale di Firenze, allora capitale del Regno, costruita nell’area di Camaldoli di San Lorenzo dopo aver abbattuto le casette medievali, costituite da un grande capannone in ghisa, ferro e vetro che porta il nome dell’architetto Giuseppe Mengoni; tali strutture si diffusero poi anche in altre città italiane come evoluzione dei mercati all’aperto. Per molti secoli le botteghe costituirono un altro punto basilare per il commercio; si trattava di spazi limitati con apertura verso la strada e un arredo molto semplice, dotate di un retrobottega dove si svolgeva l’attività artigianale; la trasformazione delle botteghe in negozi comincia nel Settecento ma si completa nell’Ottocento. I negozi si presentano come luoghi più ampi e specializzati delle botteghe, spesso a metà tra punti vendita e di produzione, nei quali aumentano la vendita di prodotti di lusso e anche l’arredo di bar e negozi comincia a imitare quelli aristocratici; ovviamente questo tipo di negozi esistevano in numero limitato, a rispecchiare anche la limitatezza del commercio di lusso. Le fotografie d’epoca di questi negozi li mostrano come curati sia all’esterno, con le insegne ben visibili, che all’interno, con banconi, armadi, cassettiere in legno e arredi raffinati come tappeti, tendaggi, lampadari; non c’è l’uso di esporre il prezzo né la merce, che viene mostrata su richiesta dai commessi. Ovvio che questo quadro fatto di gusto, raffinatezza e prodotti di lusso costituiva l’eccezione nel panorama dei negozi italiani; la maggior parte di essi infatti vedevano spazi e arredi ridotti all’essenziale, con il bancone e i contenitori per le merci, come emerge dalle fotografie e dalle testimonianze letterarie, da Bontempelli a Pirandello, anche se non si ha sempre la certezza che queste rappresentino la realtà oggettiva non potendo essere spettatori di quella realtà che, in arte, potrebbe essere stata manipolata per ottenere gli effetti desiderati. Una realtà ben diversa i grandi magazzini, grandi spazi dedicati agli acquisti che cominciano a sorgere nelle grandi città facendo rispondere le strutture a determinate necessità, come la teatralità. Si può considerare quello che si incontrava nel centro di Milano a inizio Novecento. Dalle vetrine all’esterno ai i saloni interni con mobili e merci per arrivare alle scalinate, ai soffitti a vetrate colorate e i pavimenti in legno, con merci esposte ovunque e con tanto di prezzo segnato; diversamente dai negozi, i commessi intervengono solo se richiesto quindi c’è la libertà totale di girare per quegli spazi e di toccare le merci; solitamente all’ultimo piano si trovava il salotto; era prevista la consegna a domicilio e la possibilità di scegliere la merce da casa tramite catalogo. Ma la realtà amministrativa era tutt’altro che semplice; il grande magazzino rispondeva a diverse esigenze, come gli alti volumi di vendita, la veloce rotazione del magazzino, il prezzo fisso, l’eliminazione dell’obbligo d’acquisto; per chi lavorava la realtà era tutt’altro che piacevole, il lavoro era duro, la disciplina ferrea e si era retribuiti a cottimo, oltre che gli impieghi erano precari. Ciò nonostante, il grande magazzino ha avuto un grande impatto sulla collettività per diversi motivi: 1. Perché sembra incarnare il mito del progresso e della novità, diventando l’elemento che testimonia la modernità urbana; per primi infatti avevano adottato l’illuminazione elettrica, i riscaldamenti e gli ascensori idraulici, oltre che le scale mobili e le merci che venivano continuamente rinnovate per seguire la moda; 2. Perché si realizza a pieno la spettacolarizzazione della merce, dato che tutti i prodotti sono esposti in uno stesso spazio finiscono per esaltarsi a vicenda, venendo valorizzati anche dall’ambiente circostante; 3. Gli spazi urbani e le metropoli vengono ridefiniti in base agli spazi commerciali, oltre che ai luoghi del divertimento, con il ruolo accostato di luoghi di incontro; 4. Sono gli spazi della borghesia e quindi riflettono le sue pratiche di consumo e i suoi valori; l’efficienza e il risparmio legati a prodotti di qualità portano a un processo di democratizzazione del lusso. Eppure gli effetti spettacolari che i consumatori potevano godere nei grandi magazzini non erano inediti ma ispirati agli ambienti teatrali; il grande magazzino è un grande palcoscenico e i consumatori sono spettatori che vi impiegano il tempo libero e si divertono proprio come a teatro, per questo viene capito e accettato subito. E proprio come a teatro, le donne rappresentano un elemento fondamentale; così come erano assidue frequentatrici delle scene e lettrici delle riviste teatrali, così come amavano passeggiare per i grandi magazzini oppure erano impiegate come commesse; le donne irrompono sulla scena pubblica creando attorno a sé immagini negative, per esempio le attrici di teatro spesso vengono ritratte come prostitute e così le consumatrici come cleptomani, due figure che infrangono la morale ancora prima che la legge; ciò nonostante le donne attraverso il consumo cominciano a ritagliarsi un angolo di spazio per partecipare alla vita pubblica e questo sarà molto importante nella definizione della loro identità, costituendo anche un passo in avanti nel lungo cammino dell’emancipazione. Già i governi liberali comunque avevano esercitato una certa influenza sui consumi pubblici, che con il fascismo assumono una nuova centralità; l’azione del governo fascista però non deve comunque essere isolata dal contesto internazionale. Infatti le spese per i consumi pubblici aumentano ovunque, forse a causa della complessità delle società moderne e della necessità di infrastrutture alla quale lo Stato deve rispondere; Wagner correlò la crescita delle spese pubbliche alla crescita del reddito, con lo Stato che spende sempre di più per correggere gli squilibri dello sviluppo industriale (legati all’urbanizzazione e all’ambiente) e per far fronte alla crescente domanda di servizi sociali. È una spesa incostante, infatti Peacock e Wiseman hanno osservato che in occasioni di gravi crisi o guerre le spese salgano per poi scendere di nuovo senza tornare però ai livelli precedenti, probabilmente perché i cittadini preferiscono mantenere alcuni dei nuovi servizi introdotti (effetto di spiazzamento: dopo ogni crisi il livello della spesa cresce). La politica del fascismo deve essere analizzata alla luce dello sviluppo industriale dell’Italia; infatti l’effetto di spiazzamento non si verifica data l’arretratezza del paese e la politica economica del regime che orienta la spesa pubblica seguendo finalità politiche, lasciando cadere le spese assistenziali e previdenziali a favore di quelle militari. Cascano le spese per l’istruzione che viene sottoposta ad un processo di politicizzazione e di strumentalizzazione dei giovani come tipico nei totalitarismi, infatti viene creato un sistema che segue gli studenti fino alla fine del percorso di studi e organizzazioni giovanili che si occupano della preparazione sportiva e militare (l’Organizzazione nazionale Balilla per esempio); dopo la riforma di Gentile del 1923 (finalizzata alla costruzione di un sistema educativo gerarchico ed elitario basato sulle materie umanistiche), la riforma di Bottai interviene per valorizzare gli insegnamenti tecnici per creare uno strato intermedio e specializzato appunto nei mestieri tecnici. Gli insufficienti mezzi economici e la guerra ostacolarono i suoi piani. Il livello sociale continua a influenzare l’istruzione, sono infatti pochi quelli che possono permettersi di frequentare il liceo classico e poi l’università, la maggior parte invece frequenta scuola inferiori, studia per pochi anni per poi cominciare a lavorare; seppur in aumento, ancora minori sono le possibilità di studio per le ragazze, soprattutto l’università, inoltre il regime pone restrizioni alle professioni dirigenziali e all’impiego di manodopera femminile. Riguardo la politica assistenziale e previdenziale invece si compiono dei passi avanti; la preoccupazione per l’integrità della stirpe funge da avvio per le casse mutue e le assicurazioni sul lavoro, inoltre si amplia la provvidenza contro le malattie attraverso l’Infam e la riorganizzazione dei servizi sanitari negli ospedali, oltre che alcune campagne per debellare malattie come tubercolosi e malaria; cresce la previdenza con le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni per i lavoratori agrari, per l’invalidità e la vecchiaia e vengono prese le prima forme di tutela contro la disoccupazione. Tutto ciò si risolve nella nascita di istituti appositi come l’Infps (pensioni) e l’Infail (infortuni) che costituiranno la base delle strutture assistenziali del secondo dopoguerra. Riguardo le donne, numerose sono le leggi approvate a sostegno delle lavoratrici, dalla maternità retribuita per due mesi, permessi facoltativi per l’allattamento e bonus alla nascita, al controllo sul lavoro notturno di donne e bambini; vengono creati asili nido, consultori pediatrici e cliniche specializzate, oltre che l’Onmi (Opera nazionale per la maternità e l’infanzia); da non dimenticare gli assegni familiari e le facilitazioni per le famiglie numerose. Quindi oltre a stimolare la spese militare il fascismo stimola quella civile, che supera Secondo il suddetto teorema, gli spagnoli lasciarono su un’isola delle capre per costituire una riserva di cibo per eventuali viaggi futuri e queste si riprodussero velocemente dato che non c’era nulla ad impedirglielo; i corsari locali quindi cominciarono a farne rifornimento e gli spagnoli indispettiti sbarcarono sull’isola dei cani che cominciarono a cacciare le capre; il numero di capre quindi si stabilizzò grazie all’equilibrio ristabilito dalle leggi della natura. quella destinata all’istruzione, probabilmente per integrare i beneficiari (donne e lavoratori soprattutto) nel regime, quindi i consumi pubblici diventano uno strumento di consenso politico mirato. Durante il fascismo aumentano anche i consumi collettivi, legati al tempo libero, quindi educazione, sport, divertimento e cultura, fruibili gratuitamente o a prezzi agevolati. Il regime doveva infatti occuparsi anche di questi consumi non necessari per diversi motivi; in primis perché l’associazionismo sportivo e ricreativo era nato in ambiente socialista e il regime aveva necessità di debellare il socialismo assorbendo gli iscritti e piegandoli alle finalità politiche del regime. Queste attività vengono inglobate dentro lo Stato per farne uno strumento di organizzazione del consenso ma non hanno un valore solo strumentale, infatti testimoniano anche un cambiamento epocale. I consumi relativi al tempo libero sono diventati di interesse delle autorità, non sono più superflui o destinati alle elite. Secondo studiosi come Kern e Corbin questo avviene perché dall’Ottocento il tempo era diventato più misurabile (si introducono i minuti), più veloce (i trasporti moderni cambiano il rapporto tra tempo e spazio) e più strutturato, infatti il tempo dedicato alle attività lavorative viene distinto da quello dedicato al riposo, ne seguono quindi le battaglie operai e sindacali per la riduzione dell’orario di lavoro e per la conquista delle ferie; Corbin però rimarca la tradizione occidentale legata al tempo libero, che distingue l’otium (individuale) dalla ricreazione (collettivo); l’otium era tipico delle elite e non era indicato per le classi popolari quanto la ricreazione; i consumi culturali ricreativi prendono quindi il posto accanto a quelli di base, soprattutto con il regime fascista che non manca di aggiungervi la connotazione politica. Le attività ricreative più popolari tra quelle proposte dal regime sono quelle post lavorative; importante è l’azione del regime nel settore teatrale, prima riservato alle classi alte e ora giunto a fasce più ampie della popolazione nell’ambito di un programma di integrazione nazionale, che prevede forma di partecipazione attiva e passiva, chi recita e chi osserva. Negli anni Venti tutte le associazioni musicali e di prosa ritenute di ispirazione politica vengono sciolte e le restanti confluiscono nell’Ond (Opera nazionale dopolavoro), cominciando poi a crescere in numero. Nei paesi dove non c’erano sale per allestire gli spettacoli, il teatro arriva sotto un’altra forma, quello del teatro mobile che si spostava di paese in paese, vantava la partecipazione di attori professionisti e metteva in scena classici del teatro italiano; gli spettacoli erano gratuiti. Lo stesso allargamento di fruizione viene operato per il cinema e lo sport. Il regime quindi legittima socialmente i consumi accessori e se ne ha una risposta molto positiva, infatti la partecipazione ad essi aumenta pur essendo una scelta facoltativa; inoltre ogni classe interpretava a suo modo i nuovi consumi e soprattutto prendendo ciò che voleva. Secondo gli studiosi dei sistemi organizzati, l’adesione a un’organizzazione volontaria dipendeva da due fattori principali, ovvero: • Gli incentivi selettivi e materiali (la possibilità di usufruire di beni al di fuori della propria portata economica); • Gli incentivi collettivi (la solidarietà, il sentirsi parte di un gruppo). La legittimazione sociale che il regime fa dei consumi porta i cittadini a godere di tutti quei beni e quei servizi dei quali essi avevano diritto e bisogno. Eppure i consumatori potevano finire per chiedersi se l’allargamento dei consumi passasse necessariamente attraverso le forme proposte del regime o se esistessero anche modalità diverse, dato che potevano essere osservati modelli concorrenti. Per esempio le riviste avevano come modello di riferimento riguardo ai consumi la nobiltà; altro modello quello statunitense approdato grazie alla cinematografia, che presentava un modello di uomo e donna appariscenti, sicuri di sé, che godono di una cultura dei consumi commercializzata, un modello comunque irraggiungibile per l’Italia di quel tempo. Più vicino l’esempio della Germania; secondo alcune interpretazione la politica nazista ostacolò i consumi privati per concentrare risorse economiche in vista della guerra. E ciò è vero solo in parte, poiché il regime ostacolò alcuni consumi (grasso e burro) ma allo stesso tempo ne incoraggiò altri (radio, cinema, automobili, elettrodomestici), temendo che un abbassamento del tenore di vita potesse minare il consenso ed ostacolare il regime, infatti la politica di risparmio alla vigilia della guerra viene presentata come un modo per consumare di più in futuro. Ma l’Italia era meno ricca della Germania, per questo promuove più strenuamente i consumi pubblici e collettivi; per entrambe le politiche però la politica dei consumi è fondamentale e decisiva, creando inoltre le premesse culturali per il consumo di massa che si realizza nel dopoguerra, grazie anche alla fruizione domestica e alla tecnologia. La tecnologia è un potente incentivo ai consumi, secondo Kuznets, perché spinge a volere cose nuove, a cercare cose nuove e anche nel periodo fascista accade ciò con determinate conseguenze. La loro analisi può essere condotta a partire dalla casa situata in città di un borghese medio-alto (i ceti minori rimangono infatti ancora tagliati dalle nuove tecnologie); la famiglia che vi vive è composta da marito, moglie e due figli, più la cameriera. Al mattino, per primo esce il marito con indosso un cappello di feltro e pelo, un abito sartoriale composto da giacca e pantalone, camicia e cravatta, queste ultime di produzione industriale. Proprio le camice sono i primi indumenti ad essere prodotti industrialmente e venduti con i ricambi per colletto e polsini in quanto gli abiti devono durare. Dopodiché esce la cameriera, con indosso un camice azzurro, che accompagna i bambini a scuola: il maschietto indossa i calzoncini e un grembiule nero con colletto bianco e fiocco azzurro, la bambina indossa lo stesso grembiule nero ma con il fiocco rosa. La moglie esce per ultima e indossa un vesto a fiori aderente, un cappotto con collo di pelliccia, un cappellino portato di sbieco e delle calze velate; erano state introdotte le fibre artificiali, che consentivano la produzione di capi di buona qualità a un prezzo contenuto. Entrando nella casa invece balzano all’occhio l’ordine e la pulizia dell’ambiente, grazie anche ai nuovi prodotti chimici per l’igiene e la pulizia di casa e biancheria; al centro della stanza da cucina c’è la cosiddetta cucina economica, composta dai fornelli e al di sotto un forno, addossata contro la parete si trovano la vecchia stufa da riscaldamento e la nuova stufa elettrica, probabilmente utilizzata poco dato il costo dell’elettricità; la casa è dotata di servizi quali elettricità, gas e acqua corrente, cioè di quei consumi chiamati monopoli naturali la cui gestione è affidata, almeno in Europa, a imprese pubbliche e parastatali. La cucina è lo spazio dedicato ai lavori della donna che, dopo la mobilitazione del lavoro femminile durante la Prima guerra mondiale, torna al lavoro domestico, infatti il fascismo preferisce che, dopo il matrimonio o il primo figlio, le donne si occupino dei figli, della casa, della famiglia. Quindi tornano in cucina dove si occupano della cura del cibo e del vestiario; si trova infatti una macchina per cucire, costosa ma molto importante per l’economia domestica dato che consente di realizzare capi, cucire e rammendare, un ferro da stiro elettrico. Nel salotto ci sono divani e poltrone, tappeti e soprammobili sui vari tavolini; il mobilio è ancora più artigianale che industriale; ci sono anche grammofono, telefono e soprattutto la radio, che diffonde il gusto per la musica, per le trasmissioni sportive, per i programmi di intrattenimento, che consente tempestivi aggiornamenti grazie ai radiogiornali. Riguardo il grammofono, i dischi e la musica, le prime canzoni che si diffondono sono canzoni d’opera e ballabili; con i dischi aumenta la domanda di fruizione musicale. Nel bagno ci sono uno scaldabagno, una vasca in ghisa, una mensola con i primi prodotti industriali come il sapone di Marsiglia, le saponette Palmolive, il dentifricio Colgate, lamette Gillette e pforumi; c’è anche un armadietto per i medicinali. Seppur le spese per i beni durevoli e per i trasporti aumentino, esse sono riducibili alle sole classi superiori (anche in questo settore la media italiana rimane molto più bassa di quella di altri paesi d’Europa). A rimanere tra i consumi di lusso anche l’automobile, della quale fu subito colto il valore in termini di rivoluzione e modernità, come esaltato dai futuristi, oltre che la libertà che dava di muoversi secondo i propri tempi e modi; già negli anni Venti in Italia c’erano 36 case automobilistiche a combattersi il mercato come Lancia e Alfa Romeo ma la più importante era la Fiat di Agnelli, che creò per prima una vettura di serie e Pur essendo stato il periodo del grande boom economico un periodo felice e fatto di consumi nuovi, le fonti dell’epoca presentano anche scenari diversi, come le condizioni di vita degli immigrati, le speculazioni dell’edilizia, il lavoro duro degli operai e l’arroganza dei ricchi. Accanto al ritardo del miracolo italiano rispetto a quello avvenuto nei grandi paesi europei, ci fu il fatto che esso non riguardò tutti ma fu strettamente selettivo; infatti la diffusione dei beni durevoli seguì una precisa stratificazione sociale e sostanzialmente è a classe media a migliorare i consumi, operai e agricoltori ne rimangono invece esclusi. Nel Nord Europa invece anche la classe operaia aveva goduto della rivoluzione. La sfasatura dei consumi può essere anche vista come conseguenza della sfasatura sociale e di quella geografica, le regioni meridionali sono infatti al di sotto della media in fatto di consumi, una situazione leggermente migliore si verifica al centro mentre la maggior parte del benessere risulta essere concentrato a nord. Eppure i mutamenti del periodo rimescolano molti equilibri e ridefiniscono le differenziazioni, rendendolo molto meno marcate, dando una diversa possibilità di integrarsi nella società attraverso la sovrapposizione di valori e modelli. Questa sovrapposizione si verifica anche come conseguenza dell’immigrazione interna, dato che spostandosi in città i contadini, che fossero ex salariati agricoli o piccoli proprietari, passavano da una cultura contadina a una urbana e cambiando il loro modo di vivere, infatti in campagna ci si basava sull’autoconsumo, su precisi schemi che regolavano la vita in famiglia e in società, come il modo di servire i cibi o gli abiti; in città acquisteranno nuovi oggetti e assumeranno comportamenti diversi. I primi a migrare sono gli uomini, seguiti in un secondo momento da donne e bambini, che potevano contare su amici o parenti emigrati in precedenza per trovare una sistemazione provvisoria e un primo lavoro saltuario nell’edilizia o nel commercio, solitamente in nero, dato che trovare occupazione presso le fabbriche era piuttosto complicato. L’impatto con la realtà del Nord è quindi molto forte, pur essendo attutito dal sostegno offerto dalla rete parentale che aiutava anche a ricreare luoghi e spazi di sociabilità che riproponessero il luogo d’origine; un’immagine che si staglia subito nella mente degli immigrati e che per molti di essi rimarrà solo un sogno è quella dell’automobile, acquistabile anche a rate. L’impatto che ha l’automobile sulla cultura in generale viene sintetizzato da un poster realizzato da Felice Casorati per il lancio della Fiat 600; l’auto si staglia contro una Torino notturna, è circondata da uomini, donne e bambini sullo sfondo la Mole e la luna, la strada è illuminata dai lampioni. Questa immagine pone l’auto in sintonia con la tecnica, con la natura e con l’umanità. Anche se per molto tempo rimarrà un bene poco utilizzato e solo nel 1970 ne circolano circa 10 milioni, un numero che si avvicina molto alla media europea, l’automobile diventa presto il bene più desiderato degli italiani, esprimendo il nuovo paesaggio urbano e industriale, mobilità spaziale e sociale e il valore dell’individualità. Allo stesso tempo rimane circondata da pregiudizi e accuse di immoralità, infatti per lungo tempo a preti e militari fu vietato il suo utilizzo, inoltre non mancarono gli scherni alle donne, viste come incapaci di accostarsi alla tecnologia, e ai giovani. Questo perché l’automobile viene vista anche come mezzo per sfuggire al controllo sociale, che può portare lontano dal controllo delle autorità; oltre a essere luogo di peccati sessuali è anche pericolosa, aumenta presto il numero di incidenti, a volte causati dall’incoscienza, a volte dallo stress causato dal traffico cittadino. L’automobile diventa anche mezzo di caratterizzazione di genere, simbolo di mascolinità, e marcatrice di status, essendo un bene di lusso. Viene allora da chiedersi perché un bene di lusso entri con così tanta forza anche nei cuori degli appartenenti ai ceti medi e popolari tanto da spingerli a grandissimi sacrifici e se con il processo di democratizzazione del lusso non sia cambiata anche la concezione del lusso. Dopo la Seconda guerra mondiale i consumi degli italiani cambiano a seconda dei beni, la cui domanda può essere anelastica (stabile, per i beni di prima necessità) o elastica (variabile, per i beni voluttuari). La variabilità della domanda dipende da molti fattori, quali: 1. La quantità di beni consumati; 2. La possibilità di sostituirli; 3. Il loro valore sociale e individuale; 4. Il peso che l’acquisto ha sul reddito; 5. Il cambiare delle abitudini nel tempo. La differenza tra i beni necessari e quelli di lusso è che per i primi quando il reddito aumenta aumentano anch’essi fino a un certo punto per poi stabilizzarsi e spesso diminuire, mentre per i secondo più il reddito aumenta e più aumenta la spesa; dunque c’è una diversa distribuzione delle spese, si risparmia in qualcosa per spendere in qualcos’altro e si può dire che la democratizzazione del lusso valorizzi la qualità piuttosto che la quantità. Tornando al discorso sugli immigrati, per loro il processo di motorizzazione sarà più lento, infatti solitamente prima della macchina posseggono una motocicletta; accanto all’auto, la priorità degli immigrati è la casa, che è sinonimo di stabilità e futuro. Andare in affitto appariva sconveniente ma comprare una casa era spesso difficile, talvolta impossibile, dunque si cerca una soluzione. Nelle periferie cominciano a spuntare le prime costruzioni abusive, vere e proprie baracche che nel corso del tempo diventano veri e propri quartieri inglobati nelle stesse città, come le borgate a Roma, dove l’abusivismo supera l’edilizia legale, o anche a Milano con le coree (ispirate alle sventure causate dalla guerra coreana); l’emergenza abusivismo non riesce ad essere contenuta a causa delle speculazioni dell’edilizia e della necessità di una casa; gli immigrati si accontentavano, bastava avere una casa. Francesco Alberoni spiegò questa tendenza degli immigrati poveri a volersi appropriare dei nuovi beni di consumo non come frutto del consumismo ma come derivata dalla volontà di integrarsi socialmente dato che i nuovi beni comunicano nuovi valori: la televisione rappresenta l’uscita da una comunità chiusa, automobile e moto rappresentano l’autonomia, la casa, anche modesta, è il luogo dove vivere in intimità con la famiglia. In altre parole, i nuovi beni rappresentano la possibilità di integrazione sociale al di fuori delle organizzazione sociali. Ovvio che i nuovi beni mutano anche la stessa concezione della casa e quindi dell’identità femminile che vi era legata; un piccolo appartamento situato nella periferia di una grande città non sarà sicuramente bello o accogliente, ma il fascino della modernità non manca. Sono sparite le stoviglie in mostra, la cucina si è ridotta a uno spazio minuscolo ma da dove trionfano i nuovi elettrodomestici quali la lavatrice e il frigorifero, accanto alla macchina a gas dotata anche di spiedo e girarrosto. La presenza della tecnologia nelle case influenza anche il tempo; gli elettrodomestici infatti sono stati distinti dagli economisti in time- saving, cioè quelli che come la lavatrice fanno risparmiare il tempo, e in time-spending, quelli che come radio e televisore consumano il tempo, dunque lo fanno spendere nel riposo o l’intrattenimento. In ciò si nota quasi un’applicazione delle categorie della produzione e del consumo nell’ambito domestico, con l’adattamento della famiglia alle tecniche diffuse in società con tutte le sue complicazioni; la prima riguarda il genere, infatti essendo i lavori domestici affidati alle donne, gli elettrodomestici time-saving rientrano nella sfera delle attività femminili e proprio il basso valore ad esse attribuite ritarda la diffusione degli apparecchi domestici. Infatti il primo elettrodomestico a entrare nelle case è la radio, poi il forno e solo in seguito televisione e lavatrice. La loro diffusione è legata però anche a fattori materiali (le politiche dei prezzi, i redditi delle famiglie, l’accesso al credito, le politiche pubbliche in materia di accesso ad acqua e gas) e culturali, come i messaggi pubblicitari o soprattutto la nuova dimensione della domesticità, ovvero l’emergere della sfera privata. Infatti le funzioni svolte dagli elettrodomestici erano diffuse già da tempo a livello industriale e potevano essere fruite al di fuori della famiglia o c’erano state delle esperienze collettive come la creazione di tintorie cooperative o condominiali; ma un valore centrale della famiglia nucleare diventa è la privacy, quindi queste funzioni devono diventare interne alla famiglia. A influenzare ulteriormente tutto ciò la restrizione della famiglia, si fanno infatti meno figli, e la sua possibilità di godere dell’assistenza pubblica e di poter quindi godere di beni e servizi prima inaccessibili, oltre che il reddito, infatti chi gode effettivamente del miracolo economico è il ceto medio. La diffusione degli elettrodomestici ha anche condizionato l’identità femminile; questi nuovi strumenti erano pubblicizzati come mezzi di liberazione dalla fatica e infatti si ottiene più tempo libero che le donne possono dedicare al riposo o alla cura di se stesse o ai bambini. Come era stato per le automobili, alcuni pregiudizi si legano anche agli elettrodomestici, in particolare riguardo la loro presunta pericolosità come strumenti che potessero sminuire il ruolo di donne di casa, oppure che la lavatrice non lavasse bene e rovinasse i tessuti. Ciononostante, gli elettrodomestici hanno definito l’identità della casalinga moderna, rendendola più efficiente, più attenta al risparmio e alle esigenze di tutti i membri della famiglia grazie al tempo risparmiato. Le novità che si ritrovano in una cucina del tempo possono non ritrovarsi in una camera da letto; lo spazio risulta ancora occupato per la maggior parte dal letto, affiancato da un armadio. Al suo interno, i vestiti maschili sono composti per la maggior parte dalle divise grigie e blu da lavoro, abiti da sera, camicie in gran numero e cravatte, oltre che un impermeabile. L’uomo in questione possiede anche un orologio da polso; in origine essi erano pensati per le donne mentre gli uomini utilizzavano quello da tasca, ma durante la Prima guerra mondiale si diffondono quelli da polso per necessità pratiche e da quel momento diventano simbolo di mascolinità, passando da una linea sottile e delicata a una più grossa. È negli anni Sessanta che gli orologi da polso si diffondono tra gli uomini della classe media evolvendosi man mano, per arrivare a quelli automatici e a migliorie introdotte gradualmente, come la lancetta dei secondi e la precisione sempre crescente. La parte femminile invece conta vari vestiti, tailleur, camicette e pantaloni, una novità per le signore. Nei cassetti si ritrovano biancheria intima, bigiotteria e cosmetici. A partire dall’Ottocento fino ad allora l’uso dei cosmetici era associato a donne di bassi costumi come le prostitute e le attrici, negli anni Cinquanta invece anche alle donne dello spettacolo o delle classi elevate, ma negli anni successivi si diffondono anche tra la classe media grazie alla comparsa sul mercato di prodotti più economici e al nuovo valore che viene attribuito alla cura del corpo femminile e alle nuove occasioni di socializzazione, infatti l’urbanizzazione accelerata moltiplica le occasioni di contatto sociale e quindi la volontà di presentarsi in un determinato modo. Oltre ai cosmetici si trova anche un profumo; quindi crescono le spese relative all’igiene e alla bellezza personale e infatti si trovano anche altri prodotti di bellezza come saponette, bagnoschiumi e shampoo, brillantine e borotalco. Anche i prodotti per l’igiene della casa cominciano ad essere sempre presenti. Il bagno è bianco, è dotato di vasca, water, bidet e lavandino, al di sopra del quale c’è uno specchio; c’è anche uno scaldabagno a gas, il cestello portabiancheria, il phon e vari saponi; un oggetto molto importante è il catino, poiché realizzato in plastica, di produzione industriale e che costituisce una vera e propria rivoluzione. Si creano infatti oggetti leggeri e resistenti che si diffondono in fretta dato il basso costo e la facile maneggiabilità, testimoniando ancora il fascino per il progresso tecnologico. Tra i primi oggetti ad essere realizzati in plastica si trovano piatti, posate e bicchieri. La nuova casa nasce in relazione all’esigenza della funzionalità e la struttura della casa fa riferimento a questo; non viene a mancare la contrapposizione tra naturalità ed artificialità: ciò che fa riferimento alla natura ha più pregio rispetto a ciò che è artificiale, dunque gli arredi di legno e marmo sono più preziosi rispetto agli altri di produzione industriale, pur essendo comunque realizzati in legno. Secondo Baudrillard questa contrapposizione è ideologica, data dalla consapevolezza che il legno utilizzato industrialmente viene tendenza hippie con casacche, pantaloni larghi, camicie larghe e fantasie floreali. L’antitradizionale, anche in abbigliamento, diventa espressione della ricerca di nuovi modelli estetici e politici. La plastica, attraverso gli accessori come collane e bracciali, diventa parte integrante dell’abbigliamento così come altre fibre sintetiche, come nei collant e nelle calze, di nuova produzione. Ciò che fa il giovane italiano in realtà non era esprimere una rivoluzione, ma solo la voglia di libertà e di stare insieme e lo fa assemblando gli elementi a sua disposizione, come il selvaggio di cui parlava Levi Strauss. In questo modo ogni elemento, che provenga dai media, dalla moda, dall’esempio di altri coetanei, cambia significato poiché viene trasformato per diventare un segno di riconoscimento, come i capelli lunghi, e per creare un determinato stile, espressione di una specifica identità. Eppure non tutto ciò che viene assimilato dai giovani, non tutti i consumi di cui fanno uso sono approvati dalla società, per esempio quelli che si ritiene spingano alla criminalità. Questo discorso può essere fatto riguardo ogni tipo di consumo, anche al di fuori della sfera giovanile; per esempio il vino, pur essendo presente in ogni dieta ma ne era condannato l’abuso e infatti sono molte le campagne contro l’alcolismo che puntano alla moralizzazione (soprattutto della classe operaia), anche se non fu mai proibito il consumo di vino; lo stesso si verifica per il tabacco, in origine strumento di guarigione presso le civiltà precolombiane, importato in Europa invece diviene consumo di lusso per le classi agiate per poi diffondersi tra i poveri, in quanto faceva diminuire la fame. Più tardi diventa simbolo di dinamicità e socialità e negli anni Cinquanta comincia ad essere apprezzato anche dalle donne. Consumi più illegali e immorali erano la prostituzione, che si cerca di controllare attraverso le case chiuse (abolite nel 1958), e la droga, a partire dall’Oppio, utilizzato in Inghilterra inizialmente come base per preparare medicinali e solo in un secondo momento diffusosi come droga e quindi dichiarato illegale. Politica. Ogni tipo di bene, legato all’evoluzione della società, si evolve parallelamente con essa e quindi i consumi assumono diversi significati, così come cambiano le pratiche che li vedono coinvolti; è inevitabile che presto o tardi il cambiamento influenzi anche la politica. Negli anni Cinquanta infatti il dibattito politico e pubblico comincia proprio a parlare dei consumi, essendo la trasformazione molto più evidente rispetto agli anni precedenti, molto più veloce e per questo giudicata in modo negativo; allo stesso modo si pone il problema di come governare i cambiamenti. Gli economisti sono i protagonisti dei progetti volti a indirizzare la crescita economica, come il piano Vanoni, e si esprimono al riguardo parlando di distorsione dei consumi; gli italiani infatti privilegiano i consumi opulenti, mettendo i beni necessari in secondo piano (magari vivono in una baracca ma l’importante è avere gli elettrodomestici), e quelli privati, a scapito di quelli pubblici per i quali dovrebbe intervenire lo Stato. Il suggerimento degli economisti è di comprimere i consumi di lusso e sviluppare i consumi pubblici primari; ciò sta a significare che gli italiani hanno sfruttato in modo sbagliato la loro possibilità di consumare. A maggior ragione per il fatto che si parlava di sviluppo come crescita, cioè che il benessere del paese dipendesse dal tasso di crescita economica, mentre i consumi limitavano il risparmio bruciando risorse preziose. Anche i partiti politici si esprimono al riguardo; la maggior parte della DC è diffidente di fronte a forme di consumo troppo incentrata sulla mondanità e che mettesse in ombra il valore della Chiesa e dei valori cattolici. Il dibattito sull’americanizzazione è ripreso anche dal partito comunista, dubbioso riguardo gli effettivi miglioramenti della classe operaia e sulle capacità del capitalismo di promuovere un vero sviluppo; quindi la lotta ai consumi si risolve con la lotta al capitalismo. Eppure presto anche tra gli aderenti al partito si comincia a usufruire di consumi quali televisione e cinema. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta il consumismo viene definito come l’oppio dei poveri e dei lavoratori che spendono tutti i loro guadagni per acquisire beni di consumo; si tratta di una sorta di manipolazione dei bisogni che tocca ogni classe e che, secondo Marcuse, ha il fine di assicurare un controllo autoritario dall’alto. Addirittura Baudrillard estremizza queste teorie affermando che le esperienze del consumo siano più efficaci di quelle reali e che annebbino la distinzione tra ciò che è falso e ciò che è vero. Più tardi Pasolini si pronuncerà molto criticamente riguardo il consumismo; così come sono scomparse le lucciole (a causa dell’inquinamento) è scomparsa la vecchia economia agricola e precapitalistica italiana per lasciare spazio a una civiltà nuova, quella dei consumi, una civiltà nella quale gli uomini hanno rinunciato ai valori originari per sostituirli con i nuovi beni; questa nuova forma di potere è molto più forte di quello politico, ingloba tutto e tutti e non da speranze per il futuro. Molte critiche negative sono rivolte alla televisione, che dal pubblico non sembra essere vista come uno strumento così malvagio. Le opinioni dei più ritengono infatti sia istruttiva, soprattutto i contadini credono che attraverso essa si possa pervenire a una conoscenza più approfondita del mondo. Essa diventa anche strumento di comunicazione e di sociabilità, inoltre è centrale il divertimento, una delle nuove necessità dell’individuo. Il tono prevalente è però quello di critica al consumismo; una parte della Dc comunque capisce presto quanto una simile crescita economica potesse contribuire alla stabilizzazione del paese. Anzi, per molti è la risposta a tutti i problemi del tempo: un migliore standard di vita avrebbe calmato le tensioni sociali e favorito l’integrazione tra le varie classi sociali. Allo Stato fu quindi comodo favorire il consumismo, a maggior ragione che le industrie statali crescono e possono fare da leva per i consumi pubblici, portati all’interno delle competenze dello Stato dal fascismo in modo irreversibile. Quindi le esigenze di redistribuzione del reddito e di giustizia sociale espresse dalla sinistra e dalla DC possono contribuire alla creazione di quel welfar state che diventa centrale per l’equilibrio della repubblica. Vanno a questo punto sottolineati tre aspetti: 1. La continuità con i periodi precedenti, infatti il discorso sui consumi comincia ad essere affrontato sin dall’Ottocento e le politiche al riguardo diventano da subito parte integrante dei governi liberali e di quello fascista, il cui bagaglio viene ripreso e mantenuto dal governo repubblicano che mantiene le istituzioni create dal fascismo rimuovendo solo la f dal nome in quanto significava fascista (da Infps a Inps per esempio). L’unica differenza è che i benefici sono indirizzati a tutti e non a determinate categorie (da politica esclusiva a inclusiva); 2. Il welfar diventa un elemento costitutivo della democrazia del secondo dopoguerra e nasce durante la guerra, dalla contrapposizione che Beveridge fa tra warfar state e welfar state, che garantisce la libertà dalle cinque grandi schiavitù (bisogno, malattia, ignoranza, miseria e ozio). Ripresa da Thomas Marshall, tale visione costituisce la base per la sua teoria sulla costruzione della cittadinanza, articolata in tre fasi ovvero il riconoscimento dei diritti civili (si attua attorno al Settecento con il riconoscimento dei diritti individuali e legati alle libertà personali), l’ottenimento dei diritti politici (eleggere e farsi eleggere, avviene nell’Ottocento con l’estensione del suffragio universale) e infine il riconoscimento dei diritti sociali di cittadinanza (istruzione e servizi di base, nel Novecento). Il godimento di tutti questi diritti sancisce l’effettiva appartenenza alla comunità; 3. La struttura delle spese assistenziali in Italia ricalca quelle degli altri paesi europei; la costruzione del welfar infatti non porta benefici solo a livello interno ma anche esterno al Paese, quindi è importante per l’integrazione europea. Il welfar italiano viene costruito tra il 1950 e il 1973; in questo stesso periodo aumentano alcune spese, come quella per l’istruzione, a scapito di altre, quella militare per esempio scende. Aumentare le spese per l’istruzione risulta essere legato sia a motivi pratici che di equità sociale: il boom economico richiedeva l’impiego di manodopera specializzata ma il tasso di analfabetismo e l’abbandono degli studi erano ancora troppo diffusi; poiché l’istruzione basilare era quella tecnica diventa anche un prerequisito di base per una maggiore occupazione e per creare il capitale umano, altrettanto necessario per lo sviluppo economico. Il percorso di studi comincia con le elementari, cinque anni al termine dei quali si sosteneva un esame; dopodiché si poteva scegliere se continuare le scuole o proseguire con un avviamento professionale. La scuola media viene istituita nel 1962, il maggiore intervento di istruzione non solo del governo di centro- sinistra ma anche di tutto il periodo repubblicano. Dopodiché si potrebbe decidere per gli studi superiori; si diffonde l’idea che l’istruzione sia un efficace strumento di mobilità sociale; di lì a poco cominciano le proteste degli studenti che parlano di riformare la scuola, dagli insegnanti ai corsi, ma il governo ricorre a leggi provvisorie e di passaggio che a ben poco servono. L’università vede crescere il numero di iscritti ma anch’esse sono investite da problemi vari, quali le aule piene, gli insegnati sottopagati e quindi scontenti, i laboratori poco efficienti e le borse di studio praticamente assenti. Molti impiegano più tempo del previsto per laurearsi, altri abbandonano presi dallo sconforto. Un grandioso salto in avanti è condotto nel campo della sanità, dove pubblico e privato si intersecano. Infatti ci si iscrive alle casse mutue e si ricorre ai medici convenzionati prima ancora che agli ospedali, dove vanno i casi più gravi. È un sistema che sembra poter funzionare dato anche il cambiamento delle patologie da curare; le malattie infettive hanno lasciato il posto a quelle degenerative (cancro). La riforma vera e propria prende avvio nel 1968, quando gli ospedali vengono trasformati in enti di diritto pubblico e dieci anni dopo si crea il Servizio sanitario nazionale, con l’accentramento di tutti i servizi di assistenza e sanità in unità locali territoriali (Usl), alle quali era obbligatorio iscriversi. La nuova cultura del corpo incide quindi anche sulle politiche statali. La spesa principale è però quella redistributiva, destinata quindi a pensioni e assegni familiari, più facile rispetto all’intervento diretto nello Stato per realizzare direttamente beni e servizi e quindi anche più accettato. Potrebbe anche essere visto come conseguenza del ritorno alla privatizzazione: è meglio dare i soldi alle famiglie che fornire beni collettivi. Non è tanto il campo dell’assistenza (per le invalidità per esempio) a riportare delle novità rimanendo per lo più legati al sistema fascista, ma quello della previdenza, affidata agli enti parastatali: le pensioni migliorano sia a livello contributivo che retributivo, con 40 anni di contributi con l’80% dello stipendio, vengono introdotte le pensioni sociali e quella di anzianità. La previdenza viene allargata anche ai lavoratori autonomi, spesso con contributi bassi, e vengono approntati i sussidi per la disoccupazione e la sospensione del lavoro. Si fa tutto questo per diversi motivi; in primis si volevano attenuare le tensioni civili, c’erano anche necessità politiche quali l’acquisizione del consenso. Sono gli stessi cittadini però a pagare i sistemi di previdenza e assistenza attraverso le imposte e le trattenute, aumentate insieme ai prezzi dei generi dopo la Seconda guerra mondiale. Le imposte dirette diventano maggiori di quelle dirette e nel 1971 viene inserita l’IVA. L’andamento del prelievo non diventa mai abbastanza soddisfacente e molti evadono facilmente, non potendo quindi garantire il realtà il welfar e non riuscendo a stare al passo con le politiche redistributive e con le varie concessioni e ciò diventa evidente negli anni Settanta, con la crisi e la crescita del debito pubblico, quando non si riesce più a garantire servizi soddisfacenti. Pubblicità e produzione. La pubblicità è uno strumento fondamentale per acuire i consumi, per questo spesso si ricorre a icone o personaggi simbolo. Un esempio può essere fatto con la Mucca Carolina, un premio ottenuto una volta in serie, porta a un rapporto equilibrato tra la qualità e il prezzo e ha i suoi punti di forza nella capacità di lavorare materiali nuovi e di reinterpretare modelli artigianali o esteri; nasce così il made in Italy. La grande distribuzione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta dagli Stati Uniti parte l’idea della diffusione dell’American way of life; era stato fatto in Italia nel 1956 e fu fatto in Russia nel 1959; nel primo caso era stato allestito, in forma espositiva, un supermercato sul modello di quelli americani, nel secondo una cucina tipica delle case americane. Così facendo, gli Stati Uniti volevano dimostrare come ai loro cittadini fossero assicurati beni di consumo in quantità e qualità superiore e che i loro bisogni e desideri sono comunque importanti, per questo deve esserci la possibilità di realizzarli e di scegliere come farlo. Infatti la libertà di scelta garantita dal mercato è il riflesso della libertà di scelta garantita dalla democrazia. E in questa ottica il supermercato è un elemento importante. Esso infatti espone ogni tipo di prodotto rendendolo potenzialmente comprabile, incarnando l’idea di benessere senza limite. Il primo supermercato moderno si ritiene sia stato il King Kullen di Long Island, aperto nel 1930. La prima ondata di diffusione negli Stati Uniti infatti è proprio durante la grande depressione per i prezzi concorrenti, la seconda durante gli anni Cinquanta per via dell’innalzamento del tenore di vita e dall’aumento delle nascite. In Europa si diffondono nel secondo dopoguerra; in Italia invece arrivano più tardi dato il ritardo generale del Paese, il primo apre nel 1957. Il mondo del commercio era caratterizzato da una situazione mista, caratterizzata sia dai piccoli negozi che, in misura molto minore e poco incidente, dai grandi magazzini e dai magazzini a prezzo unico. Le migrazioni interne e l’accresciuto potere d’acquisto della popolazione determinano la crescita dei negozi non alimentari per rispondere alle nuove esigenze dei consumatori e il loro nuovo tenore di vita risulta provato anche dai negozi che vanno meglio, ovvero abbigliamento, oreficerie, radio, generi per la casa, l’arredamento e l’igiene. Per la piena diffusione dei supermercati bisognerà invece attendere gli anni Settanta; la prima importante catena di supermercati che nasce in Italia, la Supermarkets Italiani Spa, fu opera di Rockefeller, magnate del petrolio e con capitale misto, americano e italiano, e incontrò non poche difficoltà date le trafile burocratiche per ottenere la licenza e le resistenze dei piccoli commercianti. La buona accoglienza del pubblico ne determinò il rapido successo, l’impatto sociale fu infatti molto positivo. Se i grandi magazzini erano stati ispirati al teatro, la spettacolarizzazione dei supermercati è di tutt’altro tipo: è basata sull’organizzazione razionale ed ordinata degli spazi, con la suddivisione in reparti diversi a seconda dei prodotti con le relative indicazioni, è basata sulla tecnologia, sull’efficienza e sulla modernità. I colori dell’ambiente sono chiari e metallici, i pavimenti sono lucidi e puliti, la musica di sottofondo crea un’atmosfera piacevole. Solitamente, prima di acquistare un prodotto i clienti lo osservano non conoscendo bene le diverse marche né essendo abituati ai prodotti già confezionati; anche la carne è già tagliata e confezionata. Una grande novità è rappresentata dai surgelati, verso i quali si è ancora scettici. Si trovano anche macedonia o frutti esotici come l’ananas in barattolo e un vasto assortimento di prodotti per l’igiene personale e delle casa. La nuova catena di supermercati mette in vendita anche prodotti dei quali è produttrice, infatti si scopre presto che le industrie alimentari italiane non erano pronte a rispondere alle esigenze di qualità, quantità e controllo dei prodotti cominciando a produrre direttamente pane, pasta, caffè macinato, ecc. oppure a prendere accordi con le industrie estere. N’inchiesta condotta dall’Ipsoa su 500 clienti spiega che le ragioni della scelta di acquistare presso i supermercati era data, nell’ordine, dai prezzi bassi, l’assortimento, la rapidità del servizio, la libertà di scelta, la qualità, l’igiene, i prezzi fissi e poi una serie di motivazioni varie. La tendenza al risparmio è ancora al primo posto nella scala delle priorità, infatti gli italiani per la spesa spendevano circa un terzo rispetto agli americani. Ognuno risparmiava a modo proprio: i meno abbienti spendevano di meno rinunciando alla qualità, i più benestanti non rinunciavano alla qualità ma compravano in grandi quantità, la classe media invece ricerca i punti vendita con i prezzi migliori. Non solo una clientela giovane fu attratta dai supermercati ma anche gli anziani, potendo comprare in piccole quantità e a prezzi bassi, e gli immigrati, poiché in tale posto si creava una sorta di omologazione, un pregio per chi aveva difficoltà ad integrarsi e magari era discriminato. Ovviamente sono le donne le grandi protagoniste delle corsie dei supermercati; visti gli impegni familiari, tra cui fare la spesa, e il crescente lavoro extra-domiciliare, qui possono risparmiare tempo e trovare prodotti pronti all’uso. Sono presenti anche come commesse, pur essendo la disciplina molto rigida, infatti non si assumevano donne sposate e si esigeva un aspetto ordinato e pulito, si combatteva strenuamente l’assenteismo. In compenso, i salari erano molto alti. Eppure anche gli uomini gradiscono molto i nuovi supermercati e li frequentano, non tanto per fare la spesa quanto per curiosare tra i prodotti, per scoprire i nuovi prodotti, per trovare nuovi prodotti da provare e da integrare nella dieta familiare; infatti ormai la scelta del cibo diventa risultato di un bricolage culturale nel quale ogni membro della famiglia vuole partecipare. Non si tratta tanto di cibi esotici ma soprattutto provenienti da altre regioni d’Italia: i confini locali sono abbattuti dalla grande distribuzione. Inoltre solitamente la spesa si fa una volta a settimana, serve quindi l’aiuto del marito e talvolta si va con l’intera famiglia a fare la spesa, conciliando consumo e divertimento; per questo l’ambiente è curato e studiato in ogni dettaglio per rendere piacevole la permanenza all’interno. Nel giro di pochi anni compaiono molte altre imprese di supermercati, alcuni a realtà regionale come la Romana Supermarkets, poi estesasi come Gs, oppure la Pam; parallelamente si estendono a livello nazionale la Rinascente, dando vita a una società autonoma di supermercati, la Sma, inglobando ditte minori e aprendo nuovi punti vendita, e la Standa, integrando i propri magazzini con prodotti alimentari. Si realizzano anche altre due forme importanti, cioè il commercio associato (dall’unione di piccoli dettaglianti e commercianti) e le cooperative (la Coop o la Conad). Nascono anche nuovi grandi magazzini, per esempio la Coin. A contribuire allo sviluppo della rete commerciale italiana e alla crescita della grande distribuzione non sono solo i fattori economici e sociali ma anche un complesso gioco politico che vede protagonisti le associazioni sindacali di categoria (Confcommercio) e numerosi organismi pubblici (Camere di commercio, prefetture, comuni e regioni), oltre che i partiti politici che sostengono la legge quadro del 1971, che assegna un ruolo di pianificazione agli enti locali frenando lo sviluppo della grande distribuzione. Come i grandi magazzini nell’Ottocento, il supermercato è il punto di partenza di una rivoluzione che cambi le abitudini, rende immediato il rapporto con la merce, rafforza il ruolo delle marche, fa conoscere nuovi prodotti, ecc. Infatti è la forma di grande distribuzione più diffusa in Italia, pur non essendo succube delle imprese industriali poiché mette in atto specifiche politiche di vendita e produzione. Ad accumunare grandi magazzini e supermercati anche l’impatto culturale e sociale: come allora i grandi magazzini, anche i supermercati rappresentano la nuova epoca con i suoi sviluppi e la modernità, legata anche a elementi quali l’abbondanza di merci, la libertà di scelta, acquisto e consumo e, in senso negativo, l’omologazione e l’anonimato. Il supermercato influenza anche l’arte e la letteratura; si ricorda la Pop Art di Andy Warhol, che nel 1964 a New York rappresenta un vero e proprio supermercato con prodotti finti ma firmati da altri artisti e che potevano essere acquistati. Il confine tra arte e realtà viene abbattuto e così si rappresenta l’ironica celebrazione del consumo illimitato: un melone cromato costava 125 dollari (ma portava la firma di Robert Watts). Anche in Italia i supermercati finiscono per influenzare la letteratura, per esempio Bianciardi presenta il supermercato come la catena di montaggio, che aliena e disumanizza i clienti e i commessi, oppure Calvino e il mondo distante e volgare dei consumi ai quali Marcovaldo vuole prendere parte. Intellettuali come Moles e Dorfles hanno invece parlato del kitsch, caratteristica delle società moderne ma non intesa come proliferazione di oggetti di cattivo gusto (cioè il vero significato del termine), piuttosto come merci in grado di appagare i desideri di tutti; non sono merci costose o rare ma oggetti industriali, a buon mercato e facilmente reperibili. Il kitsch è la manifestazione compiuta delle grandi società di massa, della nuova cultura consumistica, pur mantenendo il loro ruolo di luoghi di ritrovo. Diversamente dai grandi magazzini che solitamente erano collocati al centro delle grandi città, i supermercati si collocano nei pressi di centri abitati e quartieri popolosi, in periferia o nei nuovi quartieri di immigrati, mentre gradualmente il numero di negozi nei centri scende; i consumi quindi plasmano il paesaggio determinando l’ubicazione dei centri d’acquisto ma anche con la stessa figura dei supermercati o dei negozi o attraverso le loro insegne e poster pubblicitari. Dagli Stati Uniti anche i supermercati giungono in Italia, dove gradualmente erano giunte tutte le novità statunitensi, e quindi si può parlare con essi del culmine del processo di americanizzazione che aveva colpito tutti gli aspetti della vita, dell’economia, della cultura e della società e che è stata sia esaltata che condannata; ridurre però quello che è stato l’incontro tra due culture estremamente diverse a un giudizio è troppo semplicistico, poiché la storia dei consumi è molto più complessa. Come appurò Geertz, una cultura interpreta ogni azione che la tocca e la influenza in modo di darle un senso e un significato proprio ed è proprio quello che ha fatto l’Italia dopo il contatto con l’America, senza dimenticarsi delle proprie specificità storiche e culturali; questa forma di ibridazione è stata definita da Kroes creolizzazione, cioè la costruzione che deriva dall’inserimento di parole o elementi di una lingua straniera in una grammatica e sintassi indigene. CAPITOLO 4: LA SOCIETÀ AFFLUENTE. L’impatto della società dei consumi. Dopo la grande crescita economica che aveva interessato tutta l’Europa, durante gli anni Settanta una brusca inversione di tendenza causa una grande depressione economica con conseguenze quali l’aumento della disoccupazione e dei prezzi (inflazione) e della criminalità; in Italia si cercano equilibri politici difficilmente raggiungibili. La prima vittima del nuovo clima sono ovviamente i consumi; continuano le solite critiche che li avevano dipinti come espressione degenerata del capitalismo e come strumento di oppressione e alienazione. Pensare che l’industrializzazione potesse svilupparsi all’infinito aveva reso pressoché tutti impreparati a una simile crisi che rende incerto lo sviluppo futuro. Non ci si era posti il problema di un possibile esaurimento delle risorse del pianeta, non si era pensato a quanto sfruttarle a un simile livello potesse essere dannoso. Non a caso la crisi viene innescata dallo shock petrolifero e in Italia il governo Rumor sancisce l’inizio dell’era dell’austerity. I consumi di petrolio vengono limitati e i prezzi di benzina e gasolio crescono, la parola d’ordine diventa risparmio e infatti riscaldamento e illuminazioni vengono regolamentati mentre negozi e cinema riducono gli orari di apertura. Il futuro è possibile solo all’insegna dell’austerity; nel frattempo i salari scendono e i governi cercano di contenere la spesa pubblica. Il primo bene ad essere colpito è l’automobile, non solo gli acquisti scendono ma anche il suo utilizzo diminuisce a dismisura considerando l’aumento del prezzo del carburante, che non basterà all’infinito. A Negli ultimi anni del Novecento, le politiche di governo continuano a vedere i consumi come fondamentali per il consenso; la legittimazione del sistema appare sempre più dipendente dalla sua capacità di garantire standard di vita sempre crescenti, il consumo e il welfare sono centrali in ogni governo, accanto ai tentativi di riduzione dei costi dello stato sociale, più rivolto alla previdenza che all’assistenza, cercando a questo proposito la collaborazione di agenzie no profit e privati (welfare mix). Le crescenti difficoltà economiche e sociali tra il ceto medio e popolare, la limitata mobilità sociale e le difficoltà di occupazione mettono in crisi questa politica, che in caso di caduta comporterebbe risvolti gravi. Ad aggravare la situazione il consumerismo, i movimenti dei consumatori e le loro organizzazioni, nate intorno agli anni Cinquanta sull’esempio europeo e americano a seguito dei primi scandali alimentari e finalizzato proprio a difendersi da frodi e raggiri, ad ottenere più trasparenza legislativa. La loro azione in Italia non fu poi così decisiva, infatti è solo grazie alle sollecitazioni degli organismi della Comunità europea che la politica ha preso a interessarsi anche alla regolamentazione nel campo dei consumi. Le azioni dei consumatori, che siano individuali o collettive, non mancano di un sottofondo politico. Non sono azioni nuove, ma inserite in questo contesto assumono un significato particolare; si tratta di scioperi della spesa per protesta contro le politiche fiscali del governo, oppure boicottaggi di prodotti di ditte accusate di scarso rispetto per l’ambiente o di sfruttamento dei lavoratori e viceversa se ne acquistano altri di ditte che garantiscono il rispetto per lavoratori e ambiente, oppure si organizzano dimostrazioni pubbliche e dirette contro il consumismo o talvolta azioni violente. I principali protagonisti di questi movimenti sono quei soggetti sottorappresentati dalla politica, come giovani, donne, gruppi socialmente marginali e i luoghi dove svolgono le loro azioni sono molteplici, dai negozi ai centri commerciali alle strade a internet. Il loro operato può essere definito consumo politico, poiché partecipano politicamente le voci assente o distanti dal potere, che si esprimono attraverso l’etica e la politica. La loro forma alternativa di partecipazione politica finisce per indicare come quella tradizionale sia entrate in crisi, a favore di nuove frontiere della politica quali consumerismo e comunità virtuali. E in questi cambiamenti la produzione continua a giocare un ruolo importante; il paesaggio produttivo cambia con la nascita dei distretti industriali, agglomerati di imprese specializzati in uno stesso settore, che si diffondono in tutta Italia, dal Nord al Meridione, e diventano i grandi protagonisti del made in Italy, riuscendo a coniugare produzione e qualità artigianale a prezzi contenuti grazie a una legislazione favorevole ma talvolta anche grazie al lavoro in nero e sottopagato e all’evasione fiscale. I distretti industriali, legati soprattutto a settori quali abbigliamento, meccanica, alimentari e oreficeria, producendo prodotti tipicamente apprezzati dagli italiani ma vendendo anche all’estero, finiscono per influenzare le scelte dei consumatori e per avere un impatto significativo sul mercato, grazie anche al massiccio aumento della pubblicità. Il primo settore largamente influenzato dalle proposte dei produttori è stato quello dei beni tecnologici, soprattutto quelli legati alla comunicazione e all’informazione; da sempre infatti la tecnica ha influenzato la storia dei consumi ma ovviamente più essi si evolvono e più la loro influenza è diversa e ha avuto uno specifico impatto. Gli storici della scienza sono stati i primi a occuparsi del fenomeno e a valutare la rivoluzione condotta dai più recenti beni tecnologici, osservando come il loro significato sia legato al contesto culturale e alle differenziazioni sociali, di genere e di generazione. Per esempio il computer viene apprezzato dai genitori per le sue potenzialità come strumento di sostegno alla didattica, i giovani si dilettano con i videogames mentre le ragazze lo vedono come strumento di socializzazione. I consumatori lo adeguano alle loro esigenze. Il computer può essere considerato anche in relazione ai suoi effetti di lungo periodo; può aiutare a conciliare svago e lavoro, può aiutare a muoversi in tempi e spazi multipli ma può anche rendere più sottile la separazione tra sfera pubblica e privata; anche la stessa diffusione del computer in Italia risente delle diversificazioni di genere ed età e pur diffondendosi gradualmente, il costo iniziale e l’alfabetizzazione informatica ne ritardano la diffusione rispetto a Germania e Inghilterra. Come a suo tempo l’automobile, anche il computer diventa simbolo di una nuova era e del miracolo economico. Se il computer si diffonde gradualmente, il telefono cellulare si diffonde in pochi anni in tutti gli strati sociali grazie al suo basso costo e alla semplicità d’uso, sostituendo in poco tempo l’apparecchio fisso e aprendo la porta al mondo della comunicazione globale. Questo strumento si è poi arricchito di funzionalità sempre nuove. Prodotti nuovi compaiono non solo nel settore tecnologico ma in tutti i settori del consumo, per esempio i materiali plastici usati nell’arredamento oppure le fibre tessili o nel settore alimentare. Gli alimenti sono protagonisti di un lungo processo che dall’agricoltura li porta attraverso l’industria e la tecnologia, tramite i trasporti arriva ai sistemi di stoccaggio e vendita; i due terzi dei prodotti offerti ai consumatori sono di tipo tradizionale, ovvero pasta, olio, vino e pane, mentre un’altra parte è rappresentata da cibi elaborati per risparmiare tempo come i sughi pronti o le cialde di caffè, il resto sono i prodotti nuovi, divisi tra quelli trattati industrialmente (a scopo dietetico per esempio, come gli alimenti light), quelli tipici (con marchio Igp o Dop), che un tempo erano legati a tradizioni locali e con un significato ben diverso da quello ora rispecchiato e che si estende a una realtà regionale, e infine quelli biologici. Ma il settore alimentare risente anche di diverse manipolazioni finalizzate ad adattare i prodotti della natura alle esigenze della società, dalla lavorazione meccanica della carne (introdotta negli Stati Uniti) allo sforzo degli scienziati di migliorare la salute e la stazza del bestiame. L’agricoltura moderna poi altro non è che il risultato della applicazioni scientifiche e tecnologiche alle coltivazioni; nel Novecento questi processi si velocizzano anche grazie all’intervento della biologia e delle sue capacità di manipolare la genetica dei vegetali e quindi di modificarne la crescita; anche la chimica entra nell’alimentazione con medicinali e composti. Tutto ciò è finalizzato all’adattamento degli animali e dei vegetali alle necessità degli uomini: devono essere sani, grassi e standardizzati per far diminuire i costi di packaging e trasporto. Gli impianti meccanizzati fanno sì che anche l’estetica dei prodotti sia diversa, non a caso nei supermercati ci sono tutti i giorni prodotti freschi e sempre uguali. Alla fine del Novecento queste manipolazioni causano le prime preoccupazioni riguardo al cibo, alla sua composizione e alla sua salubrità, e ciò, affiancato a scandali e malattie, porta a un desiderio di ritorno alla natura e alla rivalutazione di elementi semplici; è di nuovo attraverso la pubblicità che si cerca di reagire, presentando mulini, rievocando le figure dei contadini e del lavoro manuale nei campi, paesaggi incontaminati, ecc. Assicurare qualità e genuinità a tutti i costi non era l’unica priorità, infatti bisognava conciliare ciò con le necessità della grande distribuzione, della competitività dei prezzi e della facile reperibilità; alla fine saranno i consumatori sfruttando la loro libertà di scelta a trovare la soluzione tra una svariata quantità di prodotti. Da parte dei produttori invece si è smossa una certa attenzione verso l’ambiente, la qualità della merce e la naturalità degli elementi, ma più che come necessità per la salute ciò viene ancora percepito come sforzo. Il consumo incide anche sull’ambiente e quasi mai in maniera positiva; l’industrializzazione, l’urbanesimo, l’incremento demografico sono stati causa di un grande aumento dei rifiuti, verso i quali si è rivolta per molto tempo poca attenzione con danni irreparabili; all’aumento del benessere aumenta il consumo e più aumentano questi aumentano i rifiuti, data la possibilità di gettare gli oggetti usurati e sostituirli con dei nuovi (come Calvino, attraverso la bocca di Marcovaldo, narra a proposito della città di Leonia). Oltre a ciò, il consumo influisce sull’ambiente perché utilizza quote di capitale naturale non sempre rimpiazzabili e che quindi diminuiscono sempre più, causando non pochi problemi (le guerre per il petrolio per esempio). L’inquinamento e la scarsità delle risorse hanno posto il problema di un consumo infinito e infatti la questione ambientale è al centro dell’interesse degli studiosi; sono state avanzate varie soluzioni come l’economia ecologica (decremento dei consumi), miglioramenti tecnici nella produzione, politiche con un minor impatto ambientale. I comportamenti consumeristici sono fortemente legati a simili problematiche e sono diffusi trasversalmente nella società e influenzati da fattori come la collocazione ideologica, la situazione locale, la condizione socioeconomica e dai valori postmateriali, termine con il quale Inglehart definì affetto, appartenenza, stima, piaceri estetici, intellettualismo e ambientalismo. Lo stesso intellettuale parlò di quella rivoluzione silenziosa che tra gli anni Sessanta e Settanta ha portato alcuni, soprattutto coloro che non avevano sofferto la miserie ed erano critici verso la politica contemporanea non riuscendo essa a rispondere alle loro esigenze, a dare più importanza ai valori postmateriali che a quelli materiali e legati al consumo. Weber aveva distinto razionalità sostanziale, orientata ai valori, e razionalità funzionale, orientata ai mezzi per raggiungerli; la prima è rappresentata dai postmaterialisti, la seconda dai materialisti (gruppi a basso reddito). Nelle società contemporanee nonostante l’aumento del benessere, il miglioramento delle condizioni di vita, ecc. l’insoddisfazione cresce perché le priorità sono cambiate. Questo fenomeno si è verificato anche in Italia, con il solito ritardo. L’ambientalismo comincia a farsi sentire negli anni Settanta ma negli anni Ottanta acquisisce maggior sostegno, sviluppandosi anche sul piani politico e della produzione, cercando di diffondere la volontà di assumere determinati comportamenti che limitassero l’impatto ambientale delle nostre attività quotidiane e con dei buoni risultati, considerando che nel paesaggio urbano si nota la limitazione delle auto o la raccolta differenziata ma con scarsa influenza considerando il massiccio uso che si fa dei mezzi di trasporto, delle comunicazioni e di apparecchi elettrici. Soltanto collaborando, cosa molto difficile, si potrebbero ottenere dei risultati efficaci. Venezia nel 2005 propose a mille famiglie di limitarsi ad acquisti rispettosi dell’etica e dell’ambiente per dieci mesi, oppure Judith Levine che per un anno ha speso soltanto in cose indispensabili alla sopravvivenza affermando di essere diventata più sensibili verso il consumo responsabili ma allo stesso tempo di essersi sentita esclusa dalla vita sociale, che si esprime proprio attraverso il consumo. Per capire questi nuovi comportamenti relativi al consumo si può fare ricorso a un indice di misurazione che è l’ISEW, cioè l’indice di benessere economico sostenibile; esso si base su molteplici grandezze economiche tra cui redditi, consumi e possesso dei beni durevoli integrate con i fattori ambientali, quali costi per l’urbanizzazione, pendolarismo, inquinamento, ecc. In Italia l’ISEW per un po’ è cresciuto parallelamente al Pil, che valuta solo grandezze economiche, mentre nel corso degli anni Settanta comincia a scendere dato che i fattori negativi salgono più velocemente di quelli positivi, quindi il costo dell’impatto ambientale di un certo modello di produzione e consumo fa avvertire maggiormente i suoi effetti negativi, ecco perché si ha l’impressione che la qualità della vita peggiori. È stata l’arte a sfruttare maggiormente lo scarto, per denuncia, per provocazione o forse per presentare le abitudini degli uomini in una diversa chiave attraverso ciò che resta dei consumi; si utilizzano sacchi della spazzatura, bottiglie di plastica e apparecchi rotti, pile usate, ecc. È la trash art: la spazzatura viene decontestualizzata dal suo contesto abituale e diventa arte per durare eterno. Attraverso la trash art e la eat art (opere fatte con materiale commestibile), arte e consumo si fondono. 2. L’esasperazione del momento spettacolare e ludico connesso allo shopping, seguendo l’esempio dei mall statunitensi. In Italia la grande distribuzione organizzata si sviluppa a partire dalla metà degli anni Ottanta, parallelamente alla ripresa economica e dei consumi tra tutte le classi sociali. Così come i grandi magazzini in età liberale e i supermercati negli anni del miracolo economico, i centri commerciali sono insieme causa ed effetto delle trasformazioni: sono causa perché stimolano gli acquisti suscitando curiosità ed interesse, sono effetto perché dipendono dai mutamenti economici e culturali che provengono dalla società. È il piccolo negozio alimentare a risentire della crescita del commercio organizzato, eppure il mondo del commercio italiano continua ad apparire più legato a formule di piccola dimensione rispetto all’Europa. Il settore alimentare rimane comunque dominato dalle grandi imprese e infatti la principale imprese italiana, la Coop, opera proprio nel campo alimentare. L’ultimo passo dello sviluppo sono i factory outlet, negozi controllati direttamente dai produttori che offrono al pubblico le rimanenze di merci di marca; si sviluppano negli anno Settanta rispondendo al desiderio dei consumatori di acquistare merce di marca a prezzi d’occasione e a quella dei produttori di salvaguardare la propria immagine e non mandare sprecata la merce. Il primo outlet italiano ha aperto nel 2000 a Serravalle Scrivia, nei pressi di Alessandria (Liguria) ed è il più grande d’Europa. Costruito come fosse un borgo settecentesco, è solo pedonale, conta vari bar e ristoranti e negozi tradizionali che vendono capi d’occasioni ma la cui struttura ricopia quella del negozio originario, in uno spazio urbano che sembra quello della città con un’annessa piazza, portici e casette. Gli outlet sono basai su una logica inclusiva, cioè accogliere sempre più clienti e allargare a tutte le classi sociali anche i consumi più elitari; è presente però anche una logica esclusiva che punta sulla differenziazione degli stili di vita del pubblico. Considerando le catene di negozi (Benetton, Chicco, ..), esse essendo monomarca cercano di distinguersi il più possibile dagli altri e aumentare la loro riconoscibilità, presentando uno stile unico e offrendo ogni tipo di prodotto; talvolta si arriva al concept store, il negozio tematico che crea una precisa atmosfera per comunicare la marca e la filosofia aziendale (visual merchandising: comunicazione figurativa): per esempio nei negozi Nike a tema esclusivamente sportivo e che rimandano al fascino di una vita di corsa e piena di energia, oppure quelli Ralph Lauren che riproducono eleganti salotti, quelli Diesel che accostano mobili di epoche diverse, ecc. Queste caratteristiche servono proprio a rafforzare la sensazione di vivere secondo un determinato stile e l’attenzione è posta più sulla marca che sul prodotto. Una tendenza alla differenziazione è presente anche negli show room degli stilisti di moda; a caratterizzarli la separazione fisica, cioè il fatto che sono collocati in un punto preciso e delimitato della città (a Roma via del Corso e via Condotti, per esempio, e il fatto che solitamente sono negozi che portano il nome di architetti noti e il richiamo alle sedi internazionali; solitamente hanno un interno lussuoso ma minimalista, con colori freddi, giochi di luci e trasparenze, sono utilizzati materiali nobili (vetro, legno, metallo, marmo) e sono esposte poche merci: la distanza e il vuoto sono i temi dominanti per valorizzare le merci, poche e preziose tanto da essere al confine con l’arte e infatti si avvicinano ai musei, a differenza di iper e supermercati, centri commerciali e outlet che puntano sull’abbondanza. Ciò è incarnato alla perfezione dal negozio di Prada a New York, disegnato da Rem Koolhaass, vastissimo ma vuoto e con pochi elementi che richiamano lo shopping, si osservano i manichini disposti come in una parata lungo un’ampia scala di legno. Altra tipologia di negozi sono i Guerrilla Store, negozi che offrono merci di moda in ambienti di avanguardia ma semplici e che chiudono nel giro di pochi mesi per garantire un’esperienza d’acquisto unica proprio come fosse una performance artistica. Secondo Sontag è i consumatore camp (e non quello kitsh, che si ritrova invece nei grandi punti vendita) a frequentare questi negozi, è quello che fa attenzione allo stile e all’estetica e che trasporta gli oggetti in una cornice distaccata, esorcizzando il consumo di massa secondo l’interpretazione di Gregotti. Gli spazi del consumo crescono continuamente, mantenendo il loro rapporto con la cultura e la ricchezza del paese; accanto agli spazi del consumo ricco, aumentano quelli del consumo povero nelle periferie urbane, negli spazi degradati delle grandi città. Intorno agli aeroporti e alle stazioni nascono veri e propri centri commerciali, anche nei musei oggi ci sono negozi. Lo spazio sociale è permeato di negozi così come oggi lo è internet, che offre possibilità di acquistare merci da tutto il mondo.
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