Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

l'italiano al cinema, l'italiano nel cinema, Sintesi del corso di Linguistica

riassunto del libro: l'italiano al cinema, l'italiano nel cinema

Cosa imparerai

  • Che tipi di dialetti e lingue straniere si mescolano nel cinema italiano?
  • Quali termini entrano nel lessico italiano grazie al cinema?
  • Come il cinema ha influenzato la lingua italiana?
  • Come la storia della lingua italiana è legata a quella del cinema?
  • Come gli autori del cinema hanno utilizzato la lingua integrale?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 17/10/2021

beatrice_tagliapietra
beatrice_tagliapietra 🇮🇹

4.4

(12)

7 documenti

1 / 48

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica l'italiano al cinema, l'italiano nel cinema e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! L'ITALIANO AL CINEMA, L'ITALIANO NEL CINEMA PREMESSA La storia della lingua italiana del Novecento è legata a quella del cinema a doppio nodo: - Inscenando dapprima l'italiano letterario nelle didascalie del muto e nei dialoghi d’ascendenza teatrale nel sonoro; - Perdar voce a tutte le varietà d’Italia > lo schermo ha fatto da mezzo di continuo interscambio tra usi reali e riprodotti. Il plurilinguismo è una cifra distintiva del nostro cinema, alla quale però si contrappone la tendenza (altrettanto identitaria) alla normalizzazione e alla ricerca di un italiano dell'uso medio da tutti facilmente comprensibile (tipico del cinema nostrano, ma in particolare di quello doppiato). > il cinema ha assunto una duplice funzione di scuola e di specchio delle lingue. > cinema come amplificatore in Italia e all’estero di lingue e varietà. > doppio rapporto di dare e avere tra cinema e lingua italiana = la lingua del cinema entra, eventualmente modificandolo, nell'italiano comune e quest’ultimo passa al cinema, eventualmente modificato, filtrato o deformato. Leggo ultime pagine della premessa per aggiungere qualche frase chiave ai capitoli. La componente verbale della versione definitiva di un film è sempre sensibilmente distante dalla sceneggiatura, che è una forma di “scritto per essere detto come se non fosse scritto”. CAPITOLO 1= UN BILANCIO LINGUISTICO ATTRAVERSO IL TEMPO - Aspetti verbali del linguaggio cinematografico La lingua cinematografica può essere studiata sia nella sua dimensione di lingua speciale, sia in quella di varietà di lingua parlata trasmessa. Occorre distinguere tra: 1. LA LINGUA DEL CINEMA = il lessico specifico e le caratteristiche morfosintattiche delle tecniche di ripresa, montaggio, proiezione (ecc.); 2. LA LINGUA NEL CINEMA = le caratteristiche del modo di parlare degli attori nel film e dunque le peculiarità del parlato filmico rispetto al parlato teatrale, al parlato - parlato e allo scritto letterario + oggetto del capitolo (caratteristiche del parlato filmico); 3. LA LINGUA DAL CINEMA = la ricaduta delle battute cinematografiche, dei titoli e dei nomi dei personaggi di film, sulla lingua di tutti i giorni; 4. LA LINGUA SUL CINEMA = quella della critica cinematografica e degli scritti che parlano di cinema > si tratta dell’aspetto meno studiato. La cinematografia italiana spicca, fin dall'inizio della sua storia, rispetto ad altre tradizioni (come della hollywoodiana), per una vicinanza assoluta tra forme di rappresentazione e forme di vita 3 spiccata tendenza al rispecchiamento, da parte del cinema, di fatti sociali e linguistici che rende il parlato filmico utile a un doppio livello: da un lato esso si presenta ad essere preso a prototipo di un parlato medio, per la varietà delle situazioni comunicative e anche degli apporti regionali; dall'altro la distanza delle forme dell’italiano scritto come da quelle del parlato meno controllato, lo rendono un candidato ideale al confronto con questi due estremi. L’intera storia filmico-linguistica italiana oscilla dunque costantemente tra questi due poli: quello del forte realismo, quello, invece, della riduzione del caos a forme più o meno artefatte di (neo)standardizzazione, dalla lingua del doppiaggio, alle soluzioni pseudoregionali di tanto neorealismo rosa e di tante commedie all'italiana. Entrambe queste istanze sembrano omologhe a precise dinamiche storiche, geografiche e socioculturali del nostro Paese. È evidente la vicinanza del cinema muto italiano allo scritto letterario. Le didascalie (all’inizio del ‘900 dette anche titoli, sottotitoli cartelli, scritte, legende, diciture, scritture) possono essere di tre tipi: - Narrative > sono le più frequenti. Hanno funzione di riassumere gli eventi, di spiegare integrare verbalmente quanto parallelamente o successivamente illustrato dalle immagini. Le didascalie narrative riassumono, descrivono o integrano eventuali lacune. - Locutive > si sono affermate in un secondo momento e servono a indicare le parole detto o pensate da un personaggio del film; possono avere forma del discorso diretto o indiretto e possono essere monologiche o dialogiche. La didascalia locutiva (a differenza delle altre tipologie) non precede necessariamente l’immagine a cui si riferisce e segue spesso la prima inquadrature di un dialogo; le parole scritte nelle didascalie locutive solo raramente corrispondono esattamente ai movimenti labiali degli attori e questo accresce il senso straniante e antirealistico della componente scritta scarsamente integrata con quella iconica. Le didascalie locutive riportano quanto detto dai personaggi e possono essere dialogiche. - Tematiche > esprimono idee di carattere universale, talora sotto forma di citazione; la parola scritta, tuttavia, non entra nel cinema soltanto nella forma canonica della didascalia bensì anche in qualità di scritta di scena, ovvero diegetica (cioè come parte integrante, iconicamente, narrativamente e verbalmente, della scena in corso): come insegna di un negozio per esempio, un cartello stradale, un manifesto, il testo di una lettera, la pagina di un libro, un articolo di giornale. Nei film dei primordi mancano le didascalie o si limitano a poche parole che introducono la scena seguente. Dagli anni Dieci del ‘900 (a partire quindi da un cinema industrialmente e culturalmente più strutturato, di durata più estesa e con trame sempre più intricate e bisognose, pertanto di integrazioni verbali) le didascalie di fanno più frequenti, articolate (anche in più turni dialogici), complesse anche dal punto di vista grafico-iconico, talora non prive di velleità letterarie e affidate non più solo ad anonimi ma a professionisti della parola. 3 noto il caso di Gabriele D'Annunzio, supervisore delle didascalie di Cabiria, nei titoli del film, come unico autore dell’opera, tanto da occultare persino il nome del regista (ruolo spesso taciuto nei film degli albori de cinema). La componente scritta dell’opera ridonda di dannunzianismi. - La formula dannunziana consiste nel reinventare un simulacro di lingua morta compiendo una operazione per certi versi simile a quella degli autori dei testi dei monumenti e delle lapidi commemorative. - L’effetto straniante della lingua di Cabiria - comune a gran parte della produzione coeva - è favorevolmente accolto dal pubblico; il protagonista Maciste verrà sfruttato in numerose altre pellicole. Gli italiani richiedono ai divi dello schermo parole olimpiche, tanto distanti dalla realtà. L’ostentato scarto della lingua comune caratterizzava la media della produzione filmica nostrana fino all'avvento del sonoro (1930), ma timide (anche se progressive) aperture al parlato sorgono all’orizzonte (ex. Scambio dialogico de Assunta Spina, del 1915 di Gustavo Serena, film diventato famoso per il suo stile realistico); (di questo periodo sono anche le prime didascalie dialettali, come quelle delle sceneggiate filmate della ditta Elvira Notari). La lingua di Poveri, ma belli è una sorta di romanesco sfatto che diventa suggello di democraticità linguistica, uno strumento espressivo ibrido e composito, ma dotato di duttilità e di un efficace potere unificante. > ibridismo consistente nell’artefatta combinazione di tratti tra loro difficilmente conciliabili, in uno stesso parlante. > nel film tutti i personaggi sono doppiati da altri interpreti (ad eccezione dei fratelli Carotenuto, che doppiano se stessi) e si collocano a un livello socioculturale basso. | vistosi tratti antiromaneschi, toscani o scolasticamente standardizzati (dei veri e propri “doppiaggismi”) del loro eloquio sono pertanto ancor più sorprendenti. Per esempio il dittongo al posto del monottongo (buongiorno); la laterale palatale in luogo della semiconsonante («L'avete svegliato?», vogliamo); l’apocope vocalica in luogo della sillabica («Lo vogliamo far dormire»; «deve lasciar libero»); le e gli in luogo di je, forme piene insieme con forme apocopate, pleonasmi sintattici unitamente a una morfologia e una pronuncia da manuale si scontrano nella seguente battuta di Salvatore: «Non le bastavo io, a mamma, che le volevo tanto bene? Dagli a fà figli. Guarda che disgraziati che sono venuti fuori!»; chiusura della e protonica in i («se mi danno il turno di giorno voi perdete l'inquilino. O ti dovessi credere che io la notte vengo a dormire abbracciato con te?!»), anche commista a romaneschismi di bandiera come mo, ’sta e ahé, nonché alla solita apocope vocalica far, inesistente a Roma, che conosce soltanto l’apocope sillabica fà ‘fare’: «Mo ti fai 'sta mesata di sonno! Ti saluto!»; «Ahò, se ti ricapita nel letto, non gli far male, al grillo, che quello è il grillo di lolanda». La sintassi e la pronuncia sono quasi semprel...]. È il grillo de lolanda. Poverello! Credevo che se ne fosse andato. Vieni qua, bello! » (poverello è toscano, o letterario, a fronte del romano poraccio). E l’analisi potrebbe andar avanti molto a lungo, dalla s intervocalica sempre sonora (in luogo della sorda romana), alla pronuncia aperta del condizionale (-èbbe), a Roma sempre chiusa, per non parlare del mancato rafforzamento della b («tanto bene», pronunciato sempre bbene a Roma. > si tratta di una lingua ibrida, non italiano regionale ma neanche esempio di code-mixing = dialetto tradotto in italiano. Emerge una precisa volontà degli autori del film la scelta di una dialettalità integrale di maniera, ottenuta mediante i ricorso a interazioni verbali posticce, modulate secondo un’informalità falsamente spontanea e costruita a tavolino selezionando moduli locutivi elementari di dialetti reali, cancellandone drasticamente i tratti meno comprensibili al vasto pubblico nazionale e assemblandoli secondo schemi funzionali a situazioni comunicative elementari e ripetitive = è forse la creazione linguistica più originale del cinema italiano, destinata a una fortuna decennale. Il grande pubblico apprezzò e cadde nell’inganno, abituato ad accettare le convenzioni della finzione filmica: una lingua immobile, più vicino allo scritto che al parlato, che funge da dialetto vivo, non è più inverosimile del montaggio, del doppiaggio, degli effetti speciali o della stessa impersonificazione di personaggi immaginari da parte di attori reali. La forzata convivenza dei singoli tratti regionali con tratti superitaliani, doppiati, è il marchio di fabbrica di gran parte dei film del neorealismo rosa (si pensi alla saga inaugurata da Pane, amore e fantasia, del 1953, di Luigi Comencini, in napoletano ibridato) e poi di gran parte delle commedie all'italiana. Era garantita la comprensibilità delle più vaste platee senza per questo rinunciare al colore locale. Il consenso del pubblico premiava anche un altro merito di questi film, quello di attenuare negli italiani, e in particolare negli inurbati senza lingua, il timore di parlare male, e di incoraggiarli quindi a esprimersi comunque anche in difformità dalla norma. L'ideologia consolatoria e reazionaria di questi film emerge dalla lingua non meno che dalla loro morale: la rigida separazione tra le classi sociali non deve mai essere infranta. Lingua italiana dialetti, italiani regionali, lingue straniere, si mescolano lungo tutta la storia filmica italiana in tutti i generi. Più tipi, talora convivono nel medesimo film. 10 funzioni del dialetto filmico: 1 Dialetto come macchia di colore su una base italiana o debolmente regionale. In questo caso il dialetto non è strutturale, cioè non è parte integrante del film, ma viene limitato ai personaggi secondari soprattutto maschili, e serve a strappare la risata e il coinvolgimento del pubblico, o come marchio identitario socioculturale e geografico del film, senza metterne a repentaglio la piena intellegibilità per tutto il pubblico nazionale. Ne sono un esempio i dialoghi dei film appartenenti al genere dei telefoni bianchi Dialetto riprodotto realisticamente o documentaristicamente, anche se non necessariamente in presa diretta. La soluzione della mimesi integrale (strutturale) è stata praticata raramente dal nostro cinema del passato, per evidenti limiti commerciali. Un esempio può essere La terra trema di Visconti, del 1948, tratto dai Malavoglia, in un siciliano incomprensibile ai più, caso unico nel panorama neorealista, non scevro da componenti liriche e ideologiche che ne circoscrivono la carica mimetica. In anni recenti questa funzione ha ritrovato vigore. Dialetto lirico-nostalgico come reminiscenza individuale o come memoria storico-sociale (romagnolo in 8 % e Amarcord di Fellini, bergamasco in l’Albero degli Zoccoli di Olmi e romanesco in Paolini). Dialetto simbolico di certi personaggi che ha spesso la funzione di scolpire immediatamente un tipo sociale o umano, oppure un disagio comunicativo. Un esempio è il romanesco di Alberto Sordi (l'operazione compiuta è quella di aver ritratto attraverso l’italiano regionale romano a vari livelli l'italiano medio, come lingua e come tipo umano: borghese, depresso popolano, emigrato, ladruncolo, imprenditore corrotto. La lingua di Sordi è sempre stata perfettamente aderente ai personaggi, comica e indagatrice allo stesso tempo, realistica ed espressiva; ha dato vita a sordismi: ammazza che fusto!, machi te conosce a te? Pussa via brutta bertuccia! Bboni, bboni, state bboni! E non ci facciamo sempre riconoscere!), che simboleggia l’ostentato calpestamento di ogni remora civica e morale, oppure il siciliano dei film americano doppiati sulla mafia, con la selezione metonimica della Sicilia come simbolo di tutta Italia. In questi casi più che l'appartenenza geografica importa la rappresentazione valoriale e ideologica di quella parlata, così come percepita da una determinata società in un determinato periodo storico. La maschera dialettale; è l’uso tipico della commedia all’italiana, nella quale, sulla scorta della commedia dell’arte, ad ogni tipo sociale corrisponde un determinato dialetto, proprio come una maschera. Tali usi linguistici da un lato enfatizzano il tipo, dall’altro ne offuscano i connotati, imbastardendo il dialetto più stretto, artificiosamente ibrigliandolo con un italiano scolastico, per renderlo più digeribile. La maschera amplifica e ovatta il suono, vela e disvela i connotati. Negli usi fin qui descritti più che di un autentico dialetto, si tratta di un italiano regionale più o meno distante dallo standard, e in alcuni casi (commedia all’italiana) di vere e proprie forme ibride tra italiano scolastico e pronuncia regionalmentemarcata. Lo specchio deformante è l’effetto espressivo-teatrale di tanti stravolgimenti dialettali per il puro piacere infantile e prelinguistico del gioco verbale. Totò stravolge lingue, dialetti e registri quasi sempre di là da intenti mimetici o satirici, che pure sarà possibile ravvisare - quasi un risultato inconsapevole - soprattutto nella produzione postbellica. Ne nascono vividi esempi di italiano popolare: dalla parodia degli snob capresi (in Totò a colori, 1952, di 10. Steno e Monicelli ma già prima in L'imperatore di Capri, 1949, di Luigi Comencini) alla dettatura della lettera (Totò, Peppino e... la malafemmina, 1956, di Camillo Mastrocinque), dal dialogo nonsense con il vigile urbano milanese scambiato per austriaco («Noio volevàn savuàr l’indrìs...», nel medesimo film) ai fraintendimenti di Totò e Peppino alle prese con le turiste straniere (Totò, Peppino e... la dolce vita, 1961, di Sergio Corbucci). Quasi loro malgrado, dunque, questi film contribuiscono al ritratto del semicolto, nell'Italia dell’avvento della televisione, alle prese con una lingua scolastica inseguita a fatica e mai del tutto assimilata. Ne scaturisce sempre, con la risata liberatoria, un elevato tasso di straniamento > espressionismo linguistico. al corpus di Totò, spetta il primato dei transiti dalla lingua del cinema alla lingua comune, con tutta una serie di totoismi specifici ed espressioni proverbiali: eziandio, pinzillacchere, sono un uomo di mondo, siamo uomini o caporali?, lei non sa chi sono io, badi come parla (e parli come badi), signori si nasce. Dialetto iperriflesso. Sempre di matrice espressionistica e metalinguistica, sono gli stravolgimenti dei dialoghi dei film di Lina Wertmuller (Mimì metallurgico ferito nell’onore, 1972; Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, 1974 e in molti altri film), da Monicelli, Age e Scarpelli almeno nella lingua inventata per L'armata Brancaleone, 1966, e Brancaleone alle crociate, 1970, oppure in quella inventata da Pasquale Festa Campanile in Quando le donne avevano la coda, 1970 e Quando le donne persero la coda, 1972[26]. Soltanto un'Italia non più esclusivamente dialettofona può rispecchiarsi con rinnovato interesse inventivo e creativo ed eventualmente in burla, le mille difficoltà comunicative di una ormai (apparentemente) tramontata frammentazione. In questa categoria rientrano anche operazioni non giocose marginalissime, spesso artificiose: da Carmelo Bene a Ermanno Olmi, da Vittorio Cottafavi a Emma Dante. Dialetto come macchietta; è la funzione caricaturale o grottesca delle farse dialettiali sullo stile di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e di molte produzioni successive: i fratelli Vanzina, Neri Parenti e simili. La versione più innocua delle precedenti tre funzioni, per lo più parassitaria a partire dagli anni ’80, della comicità cabarettistico-televisiva, a sua volta derivata da quella dell’avanspettacolo. Dal dialetto si passa al (neo)gergo nei primi film di Nanni Moretti o di Massimo Troisi: il primo deride molti usi cristallizzati e stereotipici, i neologismi, i forestierismi, soprattutto del parlato giovanile. Il secondo inscena il disagio di comunicare, oltreché di vivere nel mondo. In entrambi il dialetto o l’italiano regionale, così come avviene tuttora in Italia, lungi dall’essere l’unica scelta disponibile dei giovani, è segno di una consapevole riappropriazione come marca generazionale e di appartenenza a un gruppo. Il dialetto negato si ha, ormai non più frequentemente nel cinema (ma tuttora nelle serie televisive italiane più patinate), in quei film nei quali la trama, l'ambientazione e lo status dei personaggi implicherebbero l’uso del dialetto, che invece lascia tutto il campo (o quasi) all’italiano standard. Accadeva, tra l’altro, nei mélo di Raffaello Matarazzo (Catene, 1949 e titoli successivi che seguitano la serie), doppiati in un italiano scolastico anche quando “esibivano, nelle immagini e nelle canzoni, una prorompente napoletanità. Casi più recenti sono Fame chimica, 2003, di Antonio Bocola e Paolo Vari, e Il seme della discordia, 2008, di Pappi Corsicato, nei quali forse la scelta dell'italiano standard non è da ricercarsi nell’ossequio alla consuetudine del doppiaggese, quanto, all'opposto, nella volontà di contrapporsi all'adozione indiscriminata dell’italiano regionale, per fuggire dalle insidie della farsa e accostarsi, invece, a una ricostruzione di ambiente con maggiore consapevolezza critica. Se l’opzione del dialetto indica, infatti, una certa adesione emotiva ai personaggi descritti, Il teatro offriva soprattutto l'esempio concreto di un possibile italiano parlato, di modi comunicativi borghesi e italiani, non dialettali, inun momento storico in cui la lingua nazionale rimaneva per molti una lingua estranea, legata alla comunicazione scritta. Il cinema e la radio avevano il difficile compito di proporre un modello di lingua parlata nazionale, identitario, non più custodito dallo scritto e dalla letteratura. > importanza del cinema parlato come mezzo di unificazione linguistica + potenziale spinta trasformatrice della lingua nazionale. 3 Mentre ai tempi del cinema muto l’influenza delle didascalie brevi e saltuarie era insignificante, ora la parola che accompagna tutto il film ha una sensibile influenza sul pubblico, cioè su milioni di spettatori, e anche in strati in cui il giornale arriva appena. 3 questo valore aggiunto di cui si caricava il cinema parlato (e la radio) giustifica l’attenzione delle istituzioni alla lingua, con interventi a tutela della qualità linguistica delle didascalie e poi dei dialoghi, doppiaggio compreso. - Il problema di trovare una lingua borghese, quotidiana, affrancata dai modelli letterari era un problema che, com'è noto, si era già posto al teatro di prosa quando aveva cercato di avvicinare la scena alla rappresentazione della realtà contemporanea, in un panorama in cui le colonne portanti della scena italiana rimanevano il melodramma, con la sua lingua astratta e assoluta, e il teatro dialettale. Debenedetti fornisce una definizione specifica del dialogo cinematografico rispetto a quello teatrale = il cinema in quanto arte ha le due leggi e i suoi limiti di contenuto e di ambiente, che impongono precise modalità di rappresentazione e soprattutto di narrazione: “cinematograficamente parlando, la tragedia è quasi tutta una successione di primi piani; mentre un film quasi tutto di primi piani andrebbe incontro alla propria peggior nemica, che è la noia». Il cinema coglie il personaggio nel suo ambiente conferendo ad entrambi la stessa dignità, condizionando così la parola del cinema che «per non riuscire stonata, s'è dovuta acconciare al tempo del cinema ed a perdere il tempo proprio, ha dovuto accettare i luoghi prodotti fotograficamente dall’obbiettivo, anziché creare un luogo proprio: in breve, è divenuta parola ambientale e documentaria, anzi che assoluta, lirica, e fantastica». | dialoghi devono dunque rinunciare ad avere un valore autonomo e intonarsi alla fotografia, arte borghese per eccellenza, e quindi la parola dovrà essere «borghese anch'essa, quotidiana, identica al secolo”. - Il dialogo cinematografico non ha un ruolo autonomo che dev'essere anonimo > ricerca di una lingua simile a quella che si orecchia per strada. L’anonimato richiesto alla parola cinematografica spiega anche il tipo di collaborazione richiesta agli intellettuali nel cinema degli anni Trenta: se il cinema muto chiedeva alla letteratura una sorta di legittimazione, nel cinema sonoro, prodotto di un’organizzazione più industriale, gli scrittori sono inseriti nell’ingranaggio produttivo e la loro “riconoscibilità” non è richiesta. | dialoghi di Corrado Alvaro o di Mario Soldati, di Vitaliano Brancati o di Achille Campanile o di Cesare Zavattini non devono rivelare tracce della loro paternità, devono semplicemente essere di buona qualità. Ostacolo alla ricerca di una maggior naturalezza dei dialoghi era spesso anche la recitazione degli attori, provenienti dal teatro, quindi abituati a usare la voce con altri fini. > l’attore cinematografico recita principalmente con la maschera, con la naturalezza della sua presenza fisica, non con le diverse intonazioni della voce, così importanti in teatro. Il modello di recitazione teatrale al cinema è negativo, perché gli attori che lo propongono nel film vengono fuori con quel tono che è stato definito “birignao”. - Annibale Ninchi, protagonista del kolossal Scipione l’Africano (1937, di Gallone) evoca al meglio cosa vuol dire portare sullo schermo una recitazione teatrale. Più che recitare uno Scipione ricalcato sulla retorica mussoliniana, Ninchi “canta” la sua parte, presta la sua bella voce, i suoi timbri baritonali a battute che sembrano piuttosto arie d'opera, nei momenti in cui le masse e le scenografie consentono degli “assoli” + incontenibile enfasi e dizione tradizionalistica, che anni dopo Luigi Freddi (fondatore di cinecittà e del centro sperimentale di cinematografia, considerò insopportabili e incompatibili con il cinema. Ninchi ricerca monumentalità e memorabilità; solennità dell’eloquio, sostenuto da silenzi vari (che evidenziano il decisionismo, simile a quello del duce). Mario Pannunzio (1938) individuò il problema della recitazione (non tanto nella distanza tra quella teatrale e quella cinematografica) nell’avvertimento della lingua come falsa, o perché troppo familiare o dialettale o semplicemente perché inconsueta, così da impedire all’attore di raggiungere maggiore disinvoltura e maggiore verità nella sua recitazione. Uno degli effetti positivi del doppiaggio, secondo Debenedetti, è quello di avere aiutato gli attori italiani a perdere l'impostazione teatrale. Lasciata ai cinegiornali LUCE (istituto fondato nel 1923) la propaganda, nel cinema del periodo fascista non compaiono riferimenti espliciti alla realtà: non compaiono, per esempio, camicie nere sullo schermo (a parte Camicia nera di Giovacchino Forzano, del 1933 e Vecchia guardia di Blasetti del 1935), ma la presenza del regime si manifesta indirettamente, filtrando aspetti e riferimenti precisi della realtà contemporanea. La censura (e spesso l’autocensura) riguardava anche produzioni allineate con l’ideologia fascista; i film dovevano contenere una buona dose di retorica, senza limitarsi a ricalcare ambienti dal vero, specie se popolari (lo dimostra Ragazzo, film mai distribuito). Il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione cinematografica è riassunto in buona parte dal cinema dei telefoni bianchi (lo sceneggiatore Steno è il probabile inventore della metafora) > partendo dal presupposto che la cinematografia fascista cercava di sradicare dalla realtà italiana tutto quello che poteva darle fastidio, finendo per riprodurre una Italia che non era Italia, la produzione di quegli anni (fine anni ’30) si riempie di film con trame che ripropongono perlopiù triangoli amorosi ambientati però in alta società in cui i telefoni erano bianchi, in atmosfere internazionali, che permettevano la messa in scena di una società alto borghese in cui aspetti morali invisi al fascismo potevano essere tollerati. Il triangolo amoroso, presunto o reale, dà luogo a un'infinita serie di equivoci, fraintendimenti, espedienti, che possono essere ambientati nei salotti alto borghesi, o in grandi alberghi. > trenta secondi d'amore, ho perduto mio marito, la dama bianca, inventiamo l’amore, lamia canzone al vento, l’amore si fa così, il fidanzato di mia moglie. - Turni dialogici piuttosto ampi; dialoghi teatrali a cui è affidato il compito di far progredire la storia, la componente verbale rimane predominante e non entra in relazione con le altre componenti del linguaggio cinematografico, sono assenti tratti che possono avvicinare i dialoghi al parlato (come sovrapposizioni di turno, dislocazioni, esitazioni, cambi di progetto sintattico ecc.); la lingua si sposa in modo naturale con un ambiente alto borghese lontano dal pubblico, in cui era naturale darsi del “voi”. In pieno Ventennio può succedere che questi gruppi sociali altolocati, di dubbia moralità, siano rappresentati in modo esplicito come polo negativo di una società autentica, di stampo rurale, che il fascismo aveva sposato. - È il caso di Argine (1938, Corrado D'Errico, adattamento di u testo teatrale del ’36), testo che dà vita al movimento Strapaese, in cui si privilegia il rapporto con la tradizione e il territorio (opposto a Stracittà). A differenza dell’originale, la versione filmica crea una contrapposizione voluta e insistita fra il mondo autentico della campagna e quello corrotto della città e dell’alta società, fatto di donne seduttrici e superficiali e rappresentato solo da locali notturni di taglio modernista, frequentati da avventori in frac o in scintillanti abiti da sera e si ascolta musica jazz; una società anonima a cui si contrappone la comunità da osteria, che canta canti popolari. Significativa anche la caratterizzazione linguistica dei due gruppi sociali: nel gruppo a cui appartiene la misteriosa forestiera che ha sedotto il giovane campagnolo abbondano forestierismi, ci si dà del “lei” - nella comunità dell’osteria, invece, il pronome è il voi, e l’unico forestierismo. La lingua non fa concessione a regionalismi, a partire dalla dizione toscaneggiante di molti attori = adeguamento alla politica linguistica fascista > guerra ai forestierismi e al dialetto, imposizione del “voi”. Autarchia linguistica: la linea puristica della riflessione linguistica italiana diventa nel Ventennio un purismo di Stato, favorito in un primo momento dal nazionalismo diffuso e divenuto in un secondo momento un cavallo di battaglia del regime. Se i primi interventi legislativi riguardavano le parole straniere nelle pubbliche insegne, a partire dagli anni Trenta la guerra ai forestierismi acquista una rilevanza pubblica e diffusa tramite il risalto che ad essa danno i giornali, con rubriche specifiche e proposte di traduzioni dei prestiti. A questa censura, che colpisce inizialmente le didascalie del muto e in seguito vieta inserti dialogici in lingua straniera in un film, si deve l’obbligo del doppiaggio (a partire dal 1933) dei film stranieri in Italia. E la traduzione dei dialoghi stranieri costituirà una spinta importante nell’adattamento dell'italiano allo schermo. Il cinema non si allineò in modo rigido a questa direttiva: sondaggi condotti sul parlato di un corpus di film documentano l’ininterrotta presenza di forestierismi, con punte massime nella produzione iniziale e con oscillazioni per tutti gli anni Trenta, e una radicale flessione a partire dagli anni Quaranta. | forestierismi non spariscono nei film perché sono una componente indispensabile per la caratterizzazione dell’altra società che viene rappresentata; tra i più frequenti infatti si rilevano -nomi di alcolici: cognac, ruhm, vermouth, alcool, champagne, whisky, gin; -balli e locali: foxtrott, walzer, mazurka, jazz; -vestiario e temini della moda: frac, smoking, shiffon; -parole che designano referenti importanti della modernità: raxi, yatch, garge, cachet. Si tratta per lo più di anglicismi ma anche il francese è ben rappresentato. | forestierismi spesso sono inseriti in contesti in cui divengono oggetto di ironia e fraintendimento da parte di personaggi che appartengono a classi più basse, secondo la tradizione comica italiana che trova da sempre nella contrapposizione fra le lingue un elemento inesauribile di comicità (basti pensare a Totò). - Il bersaglio della parodia linguistica è lo snobismo che i forestierismi celano; in Camerini si sposa con la sotterranea polemica antiborghese dei suoi film, veicolati dalla trasposizione della commedia sofisticata in ambientazioni più comuni e realistiche, più vicine allo spettatore (gli uomini, che mascalzoni, del 1932 = è il primo film italiano con scene girate all’esterno a Milano). Questa dimensione più comune e vicina allo spettatore dei film di Camerini facilita la scelta di un linguaggio più naturale e “molto intonato all'evoluzione generale della lingua e dello stile nazionale che va verso il semplice e la franchezza” > tono medio espressivo. Nella lingua del cinema cominciano ad essere attestati, e soprattutto ad intensificarsi, tratti comunemente considerati vicini al parlato, come, per esempio, subordinate con indicativi al posto del congiuntivo e periodi ipotetici semplificati, realizzati con l’imperfetto indicativo; fenomeni di - Aquesta prima fare appartengono luci del varietà, lo sceicco bianco, i vitelloni (’53), la strada, le notti di cabiria ('57). Si tratta di film in cui l’istanza narrativa, l’unitarietà della trama e dei personaggi e la piena comprensibilità dei dialoghi non vengono mai messe in discussione e nei quali il tessuto linguistico è basato su un italiano parlato sufficientemente controllato, con coloriture dialettali e regionali, in cui il dialetto è inserito comunque come una varietà dotata di dignità linguistica e culturale a offrire colori e sfumature reali. Per la maggior parte dei casi si tratta di una dialettalità ricreata in sede di doppiaggio; questa dialettalità, forse proprio perché fa parte di un progetto creativo di reinvenzione artistica e non è frutto di un lavoro di imitazione o di improvvisazione da parte degli attori, diventa, da un punto di vista dell’arte narrativa cinematografica e delle sue funzioni sociolinguistiche, probabilmente portatrice di significati diversi. Siamo ancora di fronte a un dialetto a tratti letterario e teatrale, spesso simbolico e poco spontaneo, ma pur sempre incisivo e sicuramente valutabile anche come appoggio allo sdoganamento e alla rivalutazione post-fascista delle varietà locali. Le varietà dialettali fanno la loro comparsa nel cinema di Alessandro Blasetti già durante il periodo fascista, mentre un vero e proprio sdoganamento e rivalutazione sono presenti a cominciare dal primo cinema di Rosselini e di De Sica, nei cui film entra in scena il plurilinguismo e si fa viva l’attenzione verso un parlato credibile e una ricerca de vero, anche linguistico. La poetica zavattiniana del pedinamento informa un cinema della presenza, un cinema che ha come obiettivo una sollecitazione della consapevolezza storica e sociale del pubblico. La medesima istanza neorealista si ritrova nelle sperimentazioni del primo Visconti e investe pure il cinema di Fellini. - Lo sceicco bianco = presenta un rapporto lingua italiana standard/varietà locali che è tutto basato sul valore del localismo come elemento di coloritura espressionista e ironica. Emerge il caos della dialettalità urbana romana. Fellini avvia una ricerca sula rappresentazione del mondo come un circo con personaggi che insieme con gli spettatori stessi, sono alla ricerca di un senso nello spettacolo che si ripete ogni sera sotto il tendone plurilingue del circo-mondo. Nella personale visione del mondo felliniana, il dialetto serve a esprimere il vivo e concreto erotismo carnale. | dialoghi di Cabiria, a cui collaborò anche Pier Paolo Pasolini - profondo conoscitore della realtà sociolinguistica delle borgate romane -, riportano il romanesco urbano e suburbano vivo, con quell’effetto straniante dato da una certa ironia sempre presente, anche nei momenti più drammatici. Con | vitelloni, Fellini entra a pieno nella dimensione dell'esperienza autobiografica e comincia un percorso di ricerca nella propria esistenza artistica, nel passato, nella vita sentimentale e dell’uomo che non riesce completamente a interpretare la realtà che lo circonda. | vitelloni sono giovani perditempo, oziosi, indolenti e senza aspirazioni concrete. Gli anni ’60 del ‘900 si aprono con i “film della crisi”, la produzione cinematografica di quella fase che comincia con La dolce vita (1960). Nel plurilinguismo e nella dialettalità di questo film si scorge sempre una volontà di ricerca di analisi del reale attraverso la rappresentazione di idee e immagini complesse e polivalenti, idee smontate e rimontate in maniera del tutto soggettiva e a volte difficili da ricomporre immediatamente. > secondo Raffaelli, la dolce vita fu un’opera di rottura anche linguistica; essa rappresenta la liberazione dell’artista da quell’italiano chiudo nella norma di estrazione letteraria, mostrando una tendenza alla mescolanza e alla deformazione caricaturale di lingue e dialetti. Per questo si può affermare che il plurilinguismo e la dialettalità presente nella dolce vita, 8%, Roma o amarcord, è più complesso che semplicemente espressivo o affettivo. L’intento mimetico, così come lo intendono altri registi, è probabilmente da escludere + per Fellini vale nel significato di una rappresentazione della realtà attraverso il mondo dei propri sogni e della propria memoria. È una mimesi autopoietica, che riproduce modelli in relazione all'ambiente, alla sala cinematografia, allo spettatore. Il gioco della lingua è spinto oltre l’espressionismo in tutti i rimanenti film, caratterizzati, seppur in misura diversa, da una forte componente metafilmica e autobiografica. Attraverso questo linguaggio cinematografico, che è una scomposizione della lingua nelle sue matrici e nelle sue funzioni fisiologiche, Fellini riesce a portare sullo schermo, attraverso una grammatica postmodernista, i propri ricordi, i propri paesaggi intimi, il proprio flusso di coscienza. Nella dolce vita, si riconoscono: italiano standard, molti inserti linguistici diversi come inglese, francese tedesco, spagnolo, latino, romanesco, napoletano dialetti mediai, veneto, romagnolo, sfumature lombarde e toscane, varietà intermedie (italiano anglicizzante, italiano francesizzato), registri diversi (italiano burocratico, giornalistico, iper-ricerato dell’alta società, popolare e regionale, informale colloquiale con turpiloqui). Varie sono le rappresentazioni della dialettalità felliniana. - In primo luogo c’è la dialettalità di Roma. Roma è presente in tanti film ed è tutte le città e tutte le lingue; ma è anche lacittà eterna rappresentata dalla dielttalità de romanesco (che diventa dialettalità a due facce, realista e simbolica). - Un'altra interpretazione della dialettalità è quella di Rimini, come reminiscenza di infanzia (in Amarcord, 1973 è il più autobiografico film di Fellini). - C’è un’altra dialettalità, quella di Venezia: una dialettalità elevatissima che trascina lo spettatore nel letterario, attraverso i versi scritti in veneziano onirico. La dialettalità prorompente e allegra, carnale, goliardica e irriverente, il plurilinguismo magico e scoppiettante, la polifonia prima provocatoria, carnevalesca, pornografica poi malinconica e consolatoria, tutte queste sono caratteristiche della lingua felliniana. Il mondo linguistico felliniano, deformante e caricaturale, libero e liberatorio, ha funzionato da modello stilistico e linguistico nella storia del cinema italiano. Infatti, seguendo il personale percorso artistico, Fellini è stato capace di rivoluzionare il modo di fare cinema e di raccontare la vita, capace di creare il proprio significato grottesco mostrando il lato bizzarro, sproporzionato e stonato della realtà. Il tale personale visione della nostra società contemporanea, Fellini ha sempre cercato di mostrare come il ruolo delle figure grottesche che abitano il mondo sia quello di mettere in crisi la monotonia del sistema delle nostre relazioni sociali e, quindi, di smuovere anche il sistema delle nostre relazioni sociolinguistiche. La creatività felliniana si serve del plurilinguismo, e quindi delle varietà dell’italiano, dei dialetti, delle lingue straniere, in maniera neorealista, iperrealista, surrealista, espressionista, grottesca, tessendo un discorso narrativo volto ad inseguire la realtà, secondo un'idea personalissima di realismo cinematografico e di poesia plurilingue e rivoluzionaria. Il suo modo tutto particolare di raccontare la complessità della realtà contemporanea trova nell’intertestualità e nel plurilinguismo semiotico la possibilità di portare al massimo grado di creatività il complesso sistema di segni linguistici e sovralinguistici a sua disposizione. Il racconto senza un apparente filo logico, le immagini della realtà confusa, il circo, la nostalgia, la malinconia del comico, la poesia del silenzio e del ricordo, le maschere umane sono tutti elementi fondamentali del linguaggio cinematografico di Fellini. Miscuglio di varietà linguistiche e dialettali (come dei personaggi) per raggiungere l’unico realismo possibile. CAPITOLO 4: VARIAZIONE LINGUISTICA E COMMEDIA La commedi all’italiana rappresenta e interpreta la storia e il costume dell’Italia nella secondametà del novecento. Questo è vero anche per il rapporto tra lingua e società, che conosce sviluppi decisivi proprio negli anni 60. I film di riferimento per questo periodo: la grande guerra, il sorpasso, l’armata brancaleone, in nome del popolo italiano, c'eravamo tanto amati > questi 5 film si dispongono lungo tutto l’arco di questo genere, tra | soliti ignoti (1958) e Amici miei (1975). - I regista sono Monicelli, Risi, Scola. -. Quanto agli attori: Gassman, Sordi, Mangano, Tognazzi, Manfredi e Sandrelli. ARMATA BRANCALEONE - Ambientato nel Medioevo - Armata italiana (1915-1918) composta da uomini appartenenti alle classi popolari, per lo più analfabeti e caratterizzati da parlate di tipo dialettale o regionale. - Accenti tedeschizzanti, tratti lombardo-veneti, parlate alto-laziali, dialetto meridionale. - Alle classi alte (nobili, cavalieri, chierici, dame) è assegnato un italiano antico o anticheggiante, arricchito da elementi regionali, per rappresentare la diversificazione della stessa lingua letteraria in epoca medievale. - Brancaleone si caratterizza, soprattutto all’inizio, per un toscano trecentesco con elementi anche non fiorentini e con chiari riferimenti a Dante e Macchiavelli. - Cassia: principale via per Roma, raggiungibile dal nord tramite il passo appenninico di Monte Bardone = l’armata brancaleone si forma su questo tratto viterbese, su questa strada romana: qui Brancaleone assume il comando del gruppo per guidarlo verso il sud dell’Italia, fino alla Puglia (passando per l'Abruzzo e le campagne). Questo itinerario si riflette nella struttura linguistica del film e nella stessa lingua del protagonista che, caratterizzata inizialmente solo come italiano letterario, accoglie poi romaneschismi (so’, bona, addò andate?) e si ibrida di meridionalismi (fimmene, jetterai, caballo). Questo indica una interazione tra i membri dell’armata e i territori attraversati. GRANDE GUERRA - Nel parlato filmico troviamo due dialetti veneti, il dialetto e l’italiano regionale lombardo, il romanesco, l’italiano regionale con tratti pugliesi, l'italiano regionale siciliano con qualche inserto dialettale. - Agli esponenti delle classi superiori (ufficiali di vario grado) e associato l’uso dell'italiano nelle sue varietà stilistiche o situazionali: stile epico, retorico, italiano burocratico, italiano medio o medio-basso. Nel quasi contemporaneo In nome del popolo italiano (1971) l'industriale Lorenzo Santenocito, padrone o amministratore di decine di imprese tra cui la plast, si colloca oltre lo standard, nel regno del «linguaggio aderenziale e desemplicizzato», in parte antilingua nei termini di Calvino (1965) e in parte rivisitazione grottesca del «livellamento di tutto l’italiano alla precisione inespressiva della comunicazione tecnica [...] omogeneizzata», paventato da Pasolini (1964). Rispetto all’italofonia aggressiva e al «linguaggio desemplicizzato» di questo Gassman sempre più “cattivo”, risposte positive diverse, ma compatibili l’una con l’altra, possono essere una lingua pubblica in cui invece di desemplicizzato si dica tranquillamente complicato, un italiano standard “amichevole”, come quello di Luciana in C’eravamo tanto amati, o l’intreccio tra italiano e romanesco praticato da Antonio nello stesso film. Da tutti questi elementi risulta confermato il giudizio espresso sin dagli anni Ottanta da De Mauro (1986: 162), secondo cui «la commedia all’italiana [...] ha assecondato, raccogliendolo, quel che veniva accadendo nella realtà linguistica e lo ha assecondato con molta efficacia». Nella scrittura cinematografica, nella direzione di riprese e doppiaggio e anche in dichiarazioni pubbliche, i nostri registi e sceneggiatori si rivelano ben consapevoli del loro lavoro di filologia sulle lingue e i dialetti e ne rivendicano il valore e la funzione (sul piano artistico, non scientifco o accademico). Le commedie di Monicelli, Risi, Scola, Age, Scarpelli ecc. non mirano, in termini neorealistici, a rappresentare “fotograficamente” la realtà ma a «cogliere gli elementi essenziali [di una situazione storico-sociale o di un individuo] e [a] inventare, in base ad essi, caratteri e situazioni», magari «impossibili nella vita quotidiana» ma verosimili e “tipici”. Questa verosimiglianza ha una componente fondamentale nel gioco linguistico che, anche a costo di approssimazioni e incoerenze, rende credibili i personaggi e incontra in vario modo le aspettative del pubblico, più o meno raffinate, favorendo il successo del film. Nonostante (0, se si vuole, data) la «tendenza alla medietà e alla semplificazione » di molto del nostro cinema (Rossi), una commedia all’italiana senza diversificazioni sociolinguistiche, dialetti o accenti regionali, linguaggi specialistici, simulazioni di carattere metalinguistico sarebbe come un western senza cappelloni, Colt e Winchester, non sarebbe insomma riconoscibile come tale. CAPITOLO 5: MASSIMO TROISI PARTE-NOPEO E ARRIVA ITALIANO Negli anni ’60-’70 del ‘900 il cinema italiano raggiunge la maturità linguistica, mettendo a punto un parlato filmico che, salvo qualche variante, è quello attuale: un italiano colloquiale, immediato e con una forte connotazione dialettale. - Raffaelli osserva che l’impiego di un italiano segnato da tratti dialettali che si impose come codice nazionale di comunicazione individuale e talora collettiva, con il sostegno della radio e soprattutto della televisione, costituì l'innovazione più importante di tutta la storia linguistica del cinema italiano. - Negli ultimi anni si assiste a un rinnovato interesse per la produzione dei dialetti, anche integrale; per cui, oltre ai dialetti che godono giù di una lunga tradizione cinematografica (romano, napoletano, siciliano), si affacciano sul grande schermo anche nuove varietà, quali il barese e il calabrese = una tendenza già in atto negli ultimi decenni del ‘900, quando la raggiunta padronanza della lingua aveva permesso un impiego disinvolto e talora spregiudicato delle sue risorse è si pensi a Moretti, Verdone e Massimo Troisi ('53-'94). Per Massimo Troisi la crisi dell’uomo moderno è soprattutto difficoltà di esprimere i sentimenti intimi. L’artista napoletano sperimenta la solitudine, le difficoltà espressive, la malattia, l’afasia e si rifugia nel suo dialetto, (il napoletano), che è ancora una lingua viva, capace di esprimere e comunicare emozioni. Nel corso della sua (breve) carriera, la lingua dei suoi 7 film (e in parte anche dei film in cui parteciperà come attore) si fletterà dal dialetto iniziale verso le varie forme di italiano; dall’italiano neostandardo italiano dell’uso medio, a quello regionale o locale, dal registro popolare a quello colloquiale, con incursioni nel linguaggio giovanile: è possibile trovare nei suoi film tutte le variazioni che caratterizzano la realtà linguistica dell’italiano. - Nella prima parte della sua produzione cinematografica (e prima teatrale), senza scivolare mai nella napoletanità intesa come folcloristica imitazione della forma esteriore di un mondo perduto, è stato il dialetto-madre che ha permesso a Troisi di mantenere un rapporto di verità tra le cose e le parole: lui stesso afferma che non sarebbe riuscito ad arrivare ai meccanismi comici realizzati servendosi dell’italiano e non del dialetto napoletano. All’inizio, afferma, si trattava anche di un fatto ideologico, perché era una difesa, un non volere accettare le regole. Vedeva nel cinema italiano di quegli anni, la volontà di uniformarsi alle regole + così facendo avrebbe tradito il suo dialetto, la sua cultura ma anche la sua ide di voler fare cose diverse e spontaneamente. = dichiarazione di non omologazione + Troisi non solo usa il dialetto in modo estremo, ma rompe anche continuamente il ritmo del discorso, usa una lingua ricca di sospensioni, false partenze, ripetizioni, sporcature; costruisce un denso e originale reticolato deittico. Il suo è un parlato filmico fratto, a tratti criptico, vicino al parlato in situazione e nello stesso tempo un attacco alle leggi di chiarezza e medietà proprie del parlato cinematografico: rovesciando le consuetudini linguistiche del cinema, Troisi regala un continuo balbettio, una lingua che esibisce il dolore, l’afasia e la finitezza dell'essere umano. > le sue esitazioni sono molto di più che un semplice tentativo di mimare le incertezze del parlato; le incertezze del discorso esprimono in realtà quelle dell'anima, che non si arrende all’omologazione dominante e cerca di stabilire un contatto vero con le cose e i sentimenti. Il balbettio rende evidente la difficoltà di comunicare verità e sentimenti profondi. - Singolare modo di portare avanti il discorso del film. - Il suo film d'esordio: Ricomincio da tre + nella prima sequenza troviamo un turno discorsivo lunghissimo (2 minuti), quasi un monologo teatrale più che una battuta cinematografica. Si tratta della scena in cui Gaetano (Troisi) racconta dei suoi sogni sulle guerre in cui non uccide mai nessuno per colpa dell’insonnia. Finzione e reltà si confondono; dietro la comicità però si nascondono paure, difficoltà, senso di inadeguatezza. In questa scena sono presenti tutti i fenomeni linguistici che caratterizzeranno in larga parte il parlato filmico di Massimo Troisi, a cominciare dal suo dialetto-sfida. Se è vero che non esiste un vero napoletano (come non esiste un vero italiano) in quanto una lingua si rapporta a usi variabili e non rigidi, è evidente che il napoletano, come ogni altra lingua ha alcune caratteristiche specifiche, che ritroviamo nella lingua filmica di Troisi (almeno in quella di alcuni personaggi). Tra le caratteristiche tipiche del dialetto napoletano presenti nel parlato filmico dei film di Troisi, come tratti fonetici troviamo: 1. Suono chiuso delle toniche nei dittonghi (va bbuono); 2. Metafonesi e dittonghi metafonetici (‘o canciell’) > alterazione di una vocale sotto l'influenza di una vocale seguente che si trova in via di indebolimento; 3. Lenizione delle finali 3 indebolimento della articolazione delle consonanti occlusive, che da sorde diventano sonore + fenomeno molto frequente. Tra le caratteristiche morfologiche: - Plurali femminili; - Collettivi con iniziale raddoppiata (gguerre, ggente). Nel lessico: - Possono essere considerate come connotate dialetticmaente parole o espressioni quali: sangh’e ra miseria, alluccà, che te ‘nquart’a ffà, capa di pianto. Nell’attacco di Ricomincio da tre, oltre all’uso serratissimo del dialetto, troviamo anche il suo procedere balbettante, monologante, pieno di digressioni, discorsi sospesi, ripetizioni. In seguito alla necessità di aprirsi a un più vasto pubblico conduce Troisi e il suo cinema verso vari tipi di italiano. È dunque possibile incontrare un italiano regionale o locale parlato tanto dai personaggi interpretati di Troisi quando dagli altri. Forme morfosintattiche tipiche dell'italiano locale presenti nei suoi film: 1. Imperfetto congiuntivo in luogo del condizionale; 2. Complemento oggetto preceduto da “a”; l’italiano popolare è meno frequente; tuttavia, oltre a ricorrere in alcuni personaggi minori, ha il privilegio di connotare il protagonista dell’ultimo film (il postino), che proprio in italiano popolare esprime la sua concezione democratica della poesia. Dell’italiano dell’uso medio si incontrano forme come: 1. Forme abbreviate del dimostrativo (‘sto, ‘sta); 2. Costruzi riconducibili alla sintassi segmentata (a me mi basta). Si notano anche alcune incursioni nel linguaggio giovanile, come nel caso dell’uso insistito, quasi ossessivo di “cioè”, che è infatti un tratto caratteristico dello slang giovanile di fine anni Settanta, trasferito al cinema da Troisi. L’uso esteso e ridondante di questa forma accomuna Troisi ai giovani; “cioè”, infatti è uno dei lemmi-bandiera propri del linguaggio giovanile; il linguaggio giovanile e il parlato filmico di Troisi diventano contestazione linguistica. Nel lungo monologo iniziale di Ricomincio da tre, ricorre sette volte: da un lato, l’uso così insistito fa pensare a un'operazione di svuotamento del senso; dall’altro, le funzioni che “cioè” svolge in generale nel parlato di Troisi sono numerose: segnale discorsivo, strumento deittico. Nel monologo presenta soprattutto una valenza semantico-discorsiva, per introdurre aggiustamenti della linea espositiva, per precisare, ribadire, riformulare quanto detto. Per quest'ampiezza d’uso, Sebastiani ha definito Troisi “inventore del cioè”. L’uso reiterato del “cioè” dimostra l’ansia da spiegazione che invade Troisi, il complesso di non essere capito, il tentativo di dare fluenza e corrispondenza verbale alle sue idee. La particella discorsiva che si ripete a così breve distanza per coì tante volte rende evidente la preoccupazione costante di giustificare ciò che dice. > apparentemente queste relazioni semantico-discorsive si rifanno al significato letterale («vale a dire», «mi spiego meglio», «intendo dire», «ossia», «piuttosto»), in realtà l’uso così frequente, a volte inconsapevole, in uno spazio minimo, oscura l’accezione letterale della congiunzione. In altri termini, si attua un procedimento di torsione semantica che trova il suo significato profondo nello stesso procedere e non in ciò che si processa. Cioè, allora, diventa un grido estremo, un invito accorato alla condivisione, che postula come condizione necessaria la mutua comprensione. Se il forte potere indessicale del parlato filmico di Troisi dimostra un legame stretto con Napoli e con la napoletanità, “cioè” è il simbolo di un Troisi che allarga il suo orizzonte comunicativo. In Umberto D (1952) la lingua del protagonista, un italiano corretto con un lieve accento settentrionale, serve ad accentuare la sensazione di solitudine che pervade tutto il film. Parte degli interlocutori (tra cui la domestica Maria) parlano dialetto dell’area laziale, per cui la variazione linguistica sottolinea ancor più la diversità sociale e culturale che separa Umberto dal mondo che lo circonda. Nonostante il valore artistico e culturale dell'esperienza neorealista, i pochi film prodotti non incontrano il favore del grande pubblico, che continua ad apprezzare il genere melodrammatico, privo di qualsiasi tentativo di verosimiglianza linguistica: un esempio emblematico è Catene (1949). Il film, ambientato nella Napoli del dopoguerra, ha come protagonisti un meccanico e sua moglie, legata sentimentalmente ad un terzo individuo: i tre, nonostante la loro condizione sociale, parlano un italiano standard estremamente sorvegliato. - Ineccepibile morfologia verbale; - Participio passato accordato con l'oggetto; - Sintassi complessa (fino al quarto grado di subordinazione). Il neorealismo, pur lasciando un segno profondo nei film delle generazioni successive, cede il passo, a partire dagli anni ’50, alla commedia all’italiana, nella quale la plurivocità dell’italiano è ‘ampiamente presente, con un repertorio vario e soluzioni diverse nella combinazione di codici, registri, intonazioni dialettali. La lingua serve a caratterizzare i personaggi anche con qualche eccesso, per accrescere la componente ironico-umoristica, che diverrà prevalente poi nel cinema degli anni ’80-'90. La rinascita di istanze realistiche, anche in chiave critica, dalla fine degli anni ’90, si misura in un filone interessato a raccontare il costume degli italiani attraverso le piccole storie di vita quotidiana o le ansie, le aspettative e le delusioni di una generazione. Dal punto di vista linguistico, questo genere cinematografico può essere considerato l’unico adatto a rappresentare un’attenta e attendibile riproduzione del parlato spontaneo, anche se a volte eccede nell’enfatizzare i luoghi comuni del momento o nel crearne di nuovi; questi ultimi diventano ben presto stereotipi, o tormentoni, di una generazione o di un certo tipo di italiano. Il rispecchiamento e l’ipermimesi espressiva della lingua di tutti i giorni diventano così osmotici con la creazione di un codice, a tratti gergale, a sua volta messo in circolo dallo schermo nella lingua comune. “Per i primi decenni, si è avvertito fortemente il ruolo pedagogico della televisione, che si prestava volentieri a finalità educative, offrendo a milioni di persone, sparse su tutto il territorio nazionale e appartenenti a tutti i ceti sociali, la possibilità di venire in contatto con una lingua che non si ritrovava ancora nella frammentata realtà linguistica del Paese e che perciò rappresentava l’ideale da raggiungere. Tra il '54 e la prima metà degli anni '60, «La televisione diventava la scuola d’italiano più diffusa”. A guardare alla produzione di quegli anni, la tv - che si ispirava al network pubblico inglese, la bbc, e obbediva ai suoi tre principi guida: informare, intrattenere, istruire - ha contribuito a un'impresa educativa che la scuola da sola non avrebbe potuto realizzare in un arco di tempo così ristretto, e lo ha fatto non solo con trasmissioni “di chiaro stampo formativo, come Una risposta per voi (1954), Telescuola (dal 1958), Non è mai troppo tardi (dal 1960), ma anche con i teleromanzi, che avvicinavano gli italiani non lettori alla grande narrativa di tutti i tempi, e persino coni programmi di intrattenimento come i quiz (Donfrancesco e Patota 2014). Pur non del tutto privo di registri, il modello linguistico di riferimento dei primi decenni televi era un italiano standard, corretto e uniforme, che è stato definito «italiano consapevole», un parlato «formalmente più qualificato», dominato da «un'esigenza di medietà, di toni smorzati» (De Mauro 2002/1963: 439), quasi completamente svuotato di variazioni diatopiche, diastratiche, diafasiche. La necessità di rivolgersi a un pubblico ampio imponeva la ricerca della medietà nei diversi registri utilizzati. Si trattava perciò di una lingua sorvegliata e lineare, corretta e non marcata, vicina al modello scritto. Un italiano con queste caratteristiche si definisce tecnicamente standard, termine per alcuni controverso ma con cui si intende la “buona lingua” esplicitamente codificata e fissata da precise norme, una sorta di lingua franca socialmente accettata e non marcata regionalmente. Questo tipo di parlato si ritrova soprattutto nel lunghissimo ciclo della collection Vivere insieme (a cura di Ugo Sciascia) iniziato nel 1962 per proseguire fino al 1970; qui gli autori fanno attenzione a eliminare i tratti che segnalano l'appartenenza a un gruppo sociale o a una determinata città. Come esempio di questa scelta autoriale si riporta il dialogo tra una signora borghese (Luisa: Lucia Catullo) e la parrucchiera (Olga: Pier Paola Bucchi), tratto dall'episodio Una nuova vita; la storia si svolge a Napoli, ma, anche qui, come nel film Catene sopracitato, la città è solo uno sfondo che non condiziona il modo di parlare di due donne diverse per età, modo di vivere ed estrazione sociale. - Olga usa l’allocutivo di cortesia “lei” e non “voi”, come ci si aspetterebbe dal suo status geosociale; le due donne, la parrucchiera e la signora della buona borghesia, usano lo stesso registro privo di intonazioni e di accenti, scevro da tratti dialettali o informali che possono caratterizzare e differenziare i ruoli dei due personaggi. - In questo racconto la maggior parte degli scambi comunicativi si svolgono in famiglia tra moglie, marito e figli, dove usualmente si adopera un italiano meno controllato; in alcuni rari contesti emerge una varietà vicina al formalismo, mai rilassata, priva di coloriture e di impurità lessico-grammaticali = un italiano decontestualizzato e non aderente al vissuto dei personaggi in scena. La rai, per lungo tempo, si è ispirata a questo modello più ideale che reale, assente dal tessuto del «parlato-parlato» nazionale e anche molto distante dalle coeve, frequentissime, incursioni cinematografiche negli italiani regionali, popolari, gergali. Per proporre un italiano che fosse un modello di riferimento certo, la rai richiedeva scuola di dizione e correttezza linguistica a tutti i suoi annunciatori, sia della radio sia della televisione, e agli attori, quasi sempre di provenienza teatrale; per questa ragione fu adottato il Prontuario di pronunzia e di ortografia, curato da Giulio Bertoni e Francesco A. Ugolini, pubblicato dall’eiar nel 1939; finché nel 1959 fu costituito un comitato scientifico, presieduto da Bruno Migliorini, per la compilazione di un repertorio di parole che ponevano dubbi nella grafia e nella fonetica, che portò alla pubblicazione del Dizionario di ortografia e di pronunzia (dop), nel 1969. La preoccupazione educativa cominciò a venir meno durante gli anni ’70, con il passaggio dal monopolio al sistema misto in cui agivano le prime televisioni private, sotto la cui spinta nasceva la cosiddetta neo-televisione, nella quale la finalità commerciale, subentrando a quella pedagogica, imponeva scelte programmatiche diverse. | fatti storici alla base di questo cambiamento sono almeno i seguenti: 1. la riforma del 1975, con la quale alla voce degli speaker professionali, che adoperavano il modello del dop, si affiancarono, fino a sostituirli, giornalisti con la propria pronuncia, anche fortemente regionalizzata: «in tal modo, la rai, da prima scuola, anche di pronuncia, che era, diventava bruscamente uno dei principali specchi delle varietà regionali di italiano»; 2. i sempre più frequenti interventi dei telespettatori, che favorivano la comparsa di pronunce regionali e portavano sullo schermo una varietà di parlato particolarmente informale; 3. le radio libere, che riprendevano e amplificavano la presenza del pubblico, attraverso il telefono. La televisione, dunque, da “maestra” per una popolazione largamente analfabeta e profondamente dialettofona, si adegua nel corso del tempo agli usi comuni linguistici e si avvicina pertanto agli usi cinematografici. - L’influenza del parlato sull’italiano medio, e sullo scritto anche, si è molto intensificata. Il parlato, attraverso radio e TV, si è a suo modo ufficializzato. Adesso la tipologia delle fonti di linguaggio si è enormemente ampliata e diversificata. Nuovi gruppi, movimenti e organizzazioni sono diventati anch'essi fonte di linguaggio. Alla radio e alla televisione arriva il parlante qualunque, con la sua istruzione, la sua pronuncia locale, la sua grammatica. La proliferazione delle emittenti private ha concesso la rivalutazione del dialetto, le coloriture municipali e l'italiano parlato con tutte le sue incertezze e oscillazioni. Al parlato è stato conferito una sorta di legittimazione culturale dalla sua attuale amplificazione nei media. Nei primi anni della televisione, la narrativa per lo schermo domestico veniva definita con il nome generico di sceneggiati, che si distinguevano in teleromanzi, adattamenti di opere letterarie, e in racconti segnalati con il nome di prosa o atti unici. Queste sommarie definizioni trovano la loro giustificazione nel fatto che all’epoca i prodotti di narrativa venivano registrati in diretta secondo regole simili a quelle teatrali, anche se la tecnica imposta dal mezzo creava delle difficoltà per gli attori, che provenivano, nei primissimi tempi, quasi tutti dal teatro. Con l'introduzione dell’ampex, che permetteva la registrazione e quindi un maggiore impiego di esterni, il rapporto con il teatro si fa a mano a mano meno evidente e si incomincia a intravedere una maggiore specificità nella narrativa televisiva; con l'avvento dei mezzi elettronici, infine, si manifesta un graduale avvicinamento alle tecniche cinematografiche e si assiste a un fenomeno di osmosi fra i due media. La sempre più frequente partecipazione di attori provenienti dal cinema ha avvicinato ancor più i due medium, come dimostra La meglio gioventù (2003), lungo film tv in quattro puntate che, prima di essere messo in onda dalla televisione, è stato proiettato nelle sale cinematografiche e accolto con notevole successo. Dal punto di vista linguistico, il cambiamento di tendenza si è reso evidente soprattutto con il genere family-fiction, che racconta la vita di una famiglia o di un gruppo di famiglie le cui storie s'intrecciano in un susseguirsi di piccoli o grandi eventi. La lingua del nuovo genere attinge necessariamente all’italiano colloquiale, che annovera, fra le sue prerogative, «da un lato la banalità quotidiana, il parlare dei fatti spesso insignificanti della vita delle persone qualunque, l’usualità” e dall’altro l'espressività, la partecipazione colorita a eventi e fatti. - Alcuni casi esemplari: La famiglia Benvenuti (1968) > l’iniziatore del genere; Un medico in famiglia (1998); Tutti pazzi per amore (2008) = in tutti e tre i casi sono reperibili molti fenomeni tipici del parlato spontaneo, come le interferenze dialettali e regionali, il che polivalente, i meccanismi di segmentazione e focalizzazione, le dislocazioni, i forestierismi, il turpiloquio. Dalla fine degli anni ’70, in concomitanza con l'avvento della neo-televisione, i film e le serie televisive provengono dagli stessi autori; uno degli esempi più evidenti ci è offerto da Pupi Avati, che presta al piccolo schermo il suo noto valore di regista e autore cinematografico. La produzione televisiva di Avati ha inizio nel 1978 con Jazz-Band ed è continuata fino ad oggi con opere che hanno incontrato un grande favore di pubblico, come Un matrimonio (2013) e Le nozze di Laura (2015). In questi titoli, come d’altra parte in tutta la produzione cinematografica di Avati, la lingua aderisce pienamente al contesto sociale e geografico della storia narrata. La lingua di Un matrimonio è un italiano medio con un evidente accento emiliano (così come nella maggior parte - Diversi codici adottati da questo documentario. Del 1956 è Costruzioni meccaniche Riva: - Questo documentario è particolarmente ricco di tecnicismi mail lessico specialistico, accompagnato in alcuni casi da rideterminazioni tecniche di parole comuni (il caso di “finestra” per ciascuno dei fori operati lungo la parete della montagna, in “Manon”), è una componente importante dell'intera produzione di Olmi. - Un elemento innovativo è la polifonia di voci che si aggiunge al commento fuori campo. Un metro lungo cinque (1961) + interviene un personaggio in alcune sequenze (il capoalloggi del cantiere) in un italiano che a volte cede al dialetto, con discorsi carichi di enfasi; la voce fuori campo prepara lo spettatore al nuovo registro. L’inserimento di altre voci rende più dinamica la struttura dei documentari; l'italiano dei nuovi protagonisti risulta semi-spontaneo: dà conto di qualche coloritura fonica e prosodica regionale, restituisce esitazioni, errori di concordanza e altri tratti tipici dell’oralità come interiezioni, segnali discorsivi, pause, frasi sospese e riformulazioni. Dal punto di vista lessicale, è solo la voce fuori campo a usare la terminologia tecnica; gli operai, che seppur dialettofoni dominano le terminologie specialistiche dei propri mestieri, parlano solo per dare o ricevere ordini, oppure per dialogare con i compagni e con la gente del posto. Nel clima di generale esaltazione delle opere industriali due eventi contribuiranno a segnare le sorti del documentario industriale, che a metà degli anni Sessanta avvierà la fase discendente della sua parabola: la morte di Enrico Mattei, nell’ottobre del 1962 e, un anno dopo, il disastro del Vajont. Bernardo Bertolucci introduce uno sguardo nuovo nel documentario industriale italiano; tra il 1965 e il 1966 giare per l’ENI le tre puntate della Via del petrolio. Il film è dedicato, dice la voce fuori campo del regista, ai bambini persiani. - Nonc'èilrealismo dell’umile vita quotidiana, ma un’accettazione etnografica e antropologica. Il commento risale indietro nel tempo fino alle glorie della Persia imperiale dell’antichità e del Medioevo; il taglio è quello del mito, venato di suggestioni oniriche. - Il paternalismo dei documentari ENI girati in Africa è abbandonato per far posto a un’osservazione partecipata; - In alcuni passaggi del commento è evidente la risonanza delle memorie indiane di Pasolini (risalenti al 1962). L’altra novità è data dal fatto che i tecnici prendono la parola: nelle interviste ai geologi e agli operai dei pozzi ENI in Iran, condotte da Bertolucci, che non compare mai in campo. E soprattutto nella terza parte, Attraverso l'Europa, in cui il giornalista e scrittore argentino Mario Trejo segue il tracciato dell’oleodotto ENI da Genova a Ingolstadt e nel dialogo con gli esperti sollecita l'emersione di una lingua schiettamente tecnologica. - Trejo, alter ego dello spettatore comune, ha già l'ironia del divulgatore, che media tra l’esperto e il profano; il distacco giornalistico è un latro elemento di novità del linguaggio di questi documentari, che anche sotto questo aspetto segnano un'importante evoluzione formale del genere. Siamo in un momento di svolta: il lento ma inesorabile declino dell'industria italiana, l'autunno caldo del 69 e a crisi petrolifera dei primi anni ’70 rallentano e mettono in crisi la produzione documentaristica, che soffre anche la chiusura dei finanziamenti statali, abbondanti negli anni del boom. - Gli anni descritti sono stati una scuola di lingua: palestra di una lingua adatta a convivere con l’immagine più che veicolo di modelli per gli spettatori. - Uscito quasi del tutto dal circuito - anche specializzato - delle sale cinematografiche e confinato in territori marginali dalla neotelevisione, il documentario sopravvive quasi solo grazie alla traduzione di prodotti stranieri. Riprenderà forza nel nuovo millennio, sperimentando nuove forme, spesso ibridate con i generi televisivi, come la docu-fiction e i programmi che mescolano educazione e intrattenimento. Tratti evolutivi del linguaggio del genere documentario (partendo da quello industriale) e per la divulgazione filmata che si sviluppa nella televisione italiana a ridosso dei primi anni Settanta. - “AI centro del cinema d’impresa ci sono la fabbrica e soprattutto le macchine; per accostare lo spettatore a una realtà che gli è ignota ed estranea, il testo di commento alle immagini “anima” e umanizza le macchine, trasportandole in un territorio fiabesco, dove questi “strani” esseri (interagiscono con le forze della natura in modo magico e miracoloso. Un altro elemento costante è la descrizione della vita di fabbrica: all’interno (le scene di lavoro si alternano a quelle di vita comune, come i pasti alla mensa) e all’esterno, nel contatto con un ambiente talora ostile che va soggiogato, e con gli uomini che quell’ambiente abitano, colti ad osservare gli intrusi con diffidenza e stupore. C'è infine, in forme più o meno scoperte, un intento promozionale, rappresentato dall’uso enfatico delle cifre - presenti spesso anche nei titoli - e dall’inserto di lessico specialistico, garanzia di efficienza e di consapevolezza tecnologica. Il tasso di tecnicismi - non di rado retrodatabili rispetto alla prima documentazione scritta è un buon parametro per misurare l’evoluzione del testo di commento: all’inizio sono accolti timidamente, e a parlare è la potenza evocativa delle immagini dei macchinari, ma col passare del tempo, soprattutto nelle produzioni destinate alla circolazione “interna, assumono un peso sempre maggiore. Nella valutazione dei tratti innovativi del genere andranno tenuti in conto la selezione del pubblico (interno all’industria o esterno) e i rapporti tra regista, sceneggiatore e committenza. Chiudiamo indicando due elementi centrali per l’analisi linguistica e intersemiotica: la dialettica tra il commento, esclusivamente o prevalentemente fuori campo (su testi preconfezionati, letti da attori professionisti), e la riproduzione del parlato reale, in presa diretta o preparato e montato (per es. nelle interviste); la dinamica testuale tra parola e immagine, dove ha particolare rilievo la tessitura dei deittici e un ruolo essenziale è svolto dalle pause lunghe, elemento di raccordo narrativo ed emblema, al tempo stesso, di un'interazione semiotica in cui l’epifania della parola, pur nella sua funzione ancillare, orienta l’interpretazione e qualifica l'essenza didattica o promozionale del prodotto. CAPITOLO 7: IL DOPPIAGGESE E LE SUE RICADUTE SULL’ITALIANO Nel panorama nazionale, l’esperienza cinematografica è profondamente legata al doppiaggio; rimane la principale modalità tramite cui il nostro Paese usufruisce dell’audiovisivo e si è rivelato un canale privilegiato di interferenza dall'inglese all’italiano, data la potenza del suo impatto sulla lingua contemporanea. - I fenomeni di contaminazione sono più p meno virtuosi 8se però il doppiaggio è scadente, può diffondere mode scadenti o errate) a livello lessicale, sintattico e fraseologico. Alcuni studiosi sono all’armati dalla penetrazione di forestierismi (anglicismi) che possano intaccare l’integrità della nostra lingua; ma la maggior parte dei linguisti non si si professa allarmista. Se è vero che l’integrità di una lingua è assicurata là dove i forestierismi non superano il 15% del lessico totale, la situazione italiana non sembra promettente: il numero delle nuove importazioni, infatti, a volte supera anche il 20% dei neologismi circolanti. In realtà, è il concetto stesso di integrità di una lingua a risultare alquanto vago. Nel caso specifico del rapporto con l’inglese e della superficialità del contatto non in grado di intaccare la struttura profonda dell’italiano, ci si basa di solito su alcuni criteri: la pronuncia dell’anglicismo viene adattata al sistema fonologico italiano; nel sistema morfologico di arrivo, il prestito è usato nella “forma singolare anche là dove richiederebbe, nel sistema di partenza, la -s del plurale; persiste l'ordine determinato-determinante nei composti nostrani; numerosi prestiti si sono dimostrati semplici occasionalismi. Occorre, però, sottolineare che i fenomeni di contaminazione non si limitano all'area lessicale: è proprio nei livelli più strutturati (fonologia, morfologia e sintassi) che si fanno strada interferenze di cui i parlanti raramente sono consapevoli e che giungono spesso attraverso il doppiaggio di prodotti audiovisivi angloamericani. Il doppiaggio gode nel nostro Paese di una solida tradizione: il primo studio di lavorazione nacque a Roma nel 1932 a opera di Stefano Pittaluga, che acquistò gli stabilimenti della Cines. Erano gli anni del purismo più radicale, in cui il governo fascista emanava leggi contro la circolazione di pellicole in lingua straniera, costringendo le majors americane ad aprire studi di sincronizzazione in Italia (è il caso della mgm) e favorendo così la nascita di una scuola nazionale tra le migliori al mondo. In realtà la censura statale aveva colpito il cinema già tempo prima delle suddette restrizioni: nel maggio 1913, sotto il governo Giolitti, nasceva l'Ufficio Revisione dei Film, per la tutela della pubblica morale, dello status sociopolitico e della corretta lingua italiana, per cui erano previste multe in caso di errori grammaticali, ortografici, improprietà lessicali e uso di forestierismi. Con Mussolini si andò ad acuire una tendenza già in atto, che sfociò nel regio decreto legge del 5 ottobre 1933, che impose l'esecuzione in Italia del doppiaggio per le opere importanti: l'intento era quello di accelerare l'unificazione linguistica, che nel paese non si era ancora compiuta (e che si sarebbe ottenuta più avanti, grazie all'influenza dei media). Tuttavia il divieto di usare esotismi tramite disposizioni legislative non avrebbe avuto grandi ripercussioni sul comportamento spontaneo dei parlanti (i settori colpiti sono in genere quelli di uso non quotidiano della lingua), ma l’italianizzazione coatta delle pellicole straniere, imposta come forma di protezionismo, si sarebbe rivelata col tempo un potente veicolo di interferenza dalle altre lingue (soprattutto l’inglese, dato che i prodotti cine- televisivi trasmetti in Italia erano e sono in prevalenza angloamericani). Il doppiaggio delle produzioni americane ha continuato a proporre agli italiani un modello di dialogo sintatticamente semplificato, punteggiato da interferenze con la lingua originale. In alcuni casi si tratta di veri e propri errori di traduzione, dovuti alla passività nei confronti dell'inglese; molte altre volte, invece, si tratta di calchi ormai infiltrati nell’uso di tutti i giorni. La traduzione o trasposizione di un testo da un sistema linguistico-culturale a un altro rappresenta un luogo esemplare di contatto e contaminazione, luogo in cui si vienea creare una lingua ibrida: il traduttese + doppiaggese (iponimo del traduttese). Nello specifico, quando si parla di doppiaggese, ci si riferisce a quella varietà pseudo- colloquiale dell'italiano prodotta da un doppiaggio inaccurato, caratterizzata da appiattimento delle varietà linguistiche (in special modo quelle di registro), ridondanza e preferenza per elementi esogeni al posto di equivalenti italiani (che secondo alcuni La mancata o perduta specificità dona elasticità a parole come “problema” e “punto”, termini che si adattano bene in numerose combinazioni a esprimere significati diversi, ricalcando costruzioni che sono spesso estranee al nostro sistema linguistico, facendo leva sulla difficoltà di trovare un equivalente italiano unico o perfettamente coincidente. - “il problema”: le espressioni rinvenute sono numerose. - What's the/your problem? + qual è il (tuo) problema? > che (problema) hai?/che ti prende? - What's the problem with you? > Qual è il problema con te? + Che (problema) hai?/Che ti prende? - No problem + Nessun problema (ulteriore evoluzione di “non c’è problema”) > Non fa niente/Non ti preoccupare - The problem with X isY > Il problema con X è Y > II problema di X è Y / X ha un problema: Y - “il punto” sembra caratterizzato da ancor maggiore ambiguità semantica, in espressioni come “è proprio questo il punto”, “non è questo il punto”, “il punto è un altro” (ecc.). Il termine è utilizzato in questo modo già nei Promessi Sposi 3 TP molto fertile, che ha generato numerosi TN. Mentre queste costruzioni sono di norma usate per tradurre, oltrechè numerosi costruttu inglesi, alcune espressioni presenti nei copioni francesi e in quelli tedeschi, anche nei film angloamericani questo caso di transfer risulta spesso ingiustificato (per stile, semantica e sinc). - Ex. Well, that's just it. lm beginning to wonder if | can. 3 ‘È questo il punto. Comincio a chiedermi se mi sia possibile’. CALCHI FRASALI - “(sì), lo voglio” = formula altamente diffusa e acclimatata (alcuni non la riconoscono nemmeno più come alloglotta) + sull’altare (e non più solo al cinema o in televisione) è ormai la regola che alla domanda del celebrante si risponda con “sì, lo voglio” o più semplicemente “lo voglio”. Si tratta di un tn di tipo strutturale e livello frasale che è in genere dovuto a esigenze di sinc labiale, eppure sovente viene riproposto ingiustificatamente in prodotti audiovisivi italiani e anche nel linguaggio spontaneo. - “assolutamente” = caso che risulta particolarmente interessante, in quanto testimonia una duplice interferenza dall’inglese. 1. Come accade anche a una lunga serie di avverbi di modo/qualificativi che terminano in -mente (dolorosamente, tremendamente, meravigliosamente), “assolutamente” viene utilizzato come intensificatore con grado pari al superlativo. La frequenza di questi avverbi aumenta soprattutto in testi adattati, per cui nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte a un transfer positivo. Si tratta, infatti, prevalentemente di elementi già esistenti nella lingua italiana, e l'influenza esogena si limita a incrementare il numeto di occorrenze, anche quando il testo di partenza non giustifica la scelta dei dialoghisti, a dimostrare che ormai l'influenza dei doppiaggismi va ben oltre il caso particolare dell'adattamento cine-televisivo. 2. L’altro fenomeno di inferenza riguarda l’utilizzo di questo elemento come rafforzativo nell’affermazione o negazione, un uso ammesso dalla grammatica italiana, per quanto spesso eccessivo, al contrario di “assolutamente” con valore olofrastico (sprovvisto, quindi, delle particelle “sì” / “no”). Si tratta di un transfer negativo di tipo frasale rinvenuto già verso fine ‘500. È possibile ipotizzare un influsso dal francese per quanto concerne la forma affermativa; un occasionalismo sostenuto e diffuso anche dall'inglese nella forma negativa. Nella nostra lingua contemporanea, l’utilizzo di “assolutamente” con valore olofrastico avviene indiscriminatamente per affermare e negare, senza rendersi conto dell’ambiguità delle frasi che Ug così si producono (dacché nello stesso enunciato lo si accompagna a “sì” e “no”). Il mondo del doppiaggio è un circolo chiuso: sono pochi gli adattatori, e molti spesso ricorrono alle soluzioni dei colleghi e perpetuano mode artificiose e sgrammaticate. Nel nostro sistema linguistico esistono diverse zone grigie, all’interno delle quali le interferenze tendono a infiltrarsi e proliferare = questo rappresenta uno dei fattori principali del cambiamento linguistico o della contaminazione della lingua italiana (insieme a una spiccata passività nei confronti dei modelli linguistico-culturali angloamericani e a un’innegabile tendenza al calco, intrinseca al lavoro dell'adattamento per il doppiaggio di prodotti audiovisivi). Rimane indubbio il ruolo svolto dall’italiano doppiato nel condizionare/trasformare quello contemporaneo. > il mutamento linguistico è inevitabile. CAPITOLO 8: DEONIMICIE TRANSONIMI DAL CINEMA Sergio Raffaelli distingueva tra le parole DEL cinema, le parole NEL cinema e le parole DAL cinema > nomi DAL cinema = quei nomi propri che, uscendo dall’àmbito cinematografico, artistico e finzionale in generale, sono divenuti voci di lessico antonomastiche, metaforiche e metonimiche, o sono divenuti nomi propri appartenenti a una tipologia diversa rispetto a quella dell’eponimo. Si distinguerà quindi tra - deonimici cinematografici = nomi propri italiani del mondo cinematografico - nomi e cognomi di attori, registi, personaggi finzionali, titoli di pellicole intesi come sintagmi propriali se non “come nomi propri tout court - sono stati assunti dal lessico come nomi comuni, aggettivi e talora verbi o avverbi. - transonimi cinematografici = si tratta degli innumerevoli antroponimi, toponimi e titoli di opere dell’ingegno umano come film, documentari, ecc., che, a motivo della loro popolarità, si sono trasformati in luoghi di ristorazione, denominazioni di cibi, insegne e marchi commerciali, teatronimi (termine, questo, coniato da Sergio Raffaelli nel 1983), mantenendo il proprio status propriale ma subendo un processo di transonimia. PAPARAZZO = è uno di quei nomi propri che rientra in entrambi i gruppi, avendo generato sia deonimi che transonimi. “È ben noto che la denominazione corrente del fotoreporter delle celebrità nacque sul set della Dolce vita di Federico Fellini (1960). Ma, nel film, Paparazzo inizialmente non è un nome comune, bensì il cognome di uno dei personaggi, il fotografo interpretato da Walter Santesso. Un cognome che lo sceneggiatore Ennio Flaiano aveva suggerito al regista dopo averlo scovato nel diario di viaggio di uno scrittore inglese, George Gissing, By the lonian Sea. Nel diario è citato l’incontro con un albergatore di Catanzaro, Coriolano Paparazzo. Quel cognome piacque per la sua sonorità: si disse che ricordava l’aprirsi e chiudersi delle valve di una conchiglia e quindi il flash della macchina fotografica, tanto che qualcuno azzardò che Flaiano si fosse invece ispirato al nome abruzzese della vongola. Ma lo stesso scrittore ha lasciato la sua testimonianza scritta nei Fogli di Via Veneto. Paparazzo ‘fotoreporter dei divi e della vita mondana’ si è propagato in decine di altre lingue in tutto il mondo perlopiù con -i finale - tipica marca dell'italiano nella percezione degli stranieri - anche al singolare. In Rete si riscontra la parola in testi islandesi e venezuelani, neozelandesi e thailandesi, e anche in alfabeti non latini, in cirillico, in ideogrammi cinesi e giapponesi. Paparazzo ha subìto anche un processo transonimico. Da cognome e ancor prima da soprannome o nome di mestiere a nome comune e poi di nuovo a nome proprio. La voce è infatti protagonista di un ulteriore e fondamentale passaggio semantico: dal valore di semplice fotoreporter a simbolo di mondanità in generale e di italianità in particolare. Paparazzo entra in quel ristretto club di nomi allusivi e garanti che, in àmbiti diversi, per l’Italia nel mondo comprende, accanto a nomi comuni quali pizza e spaghetti, solo personaggi di straordinaria levatura come per “esempio Dante e Raffaello, Leonardo e Galileo, Verdi e Puccini, rare figure della letteratura italiana moderna, forse i soli Pinocchio e Gattopardo, e ancor più rari personaggi contemporanei quali Sophia Loren o Pavarotti. Oltre, s'intende, a toponimi come Roma, Venezia, Firenze, Sicilia. Ecco allora spiegato perché nel cuore di Praga un grande negozio di calzature italiane si chiama Paparazzi o perché «Paparazzi» è il titolo di una rivista argentina diffusa in tutta l'America Latina e perché la voce è divenuta insegna di ristoranti, alberghi, sale vip, ecc. in ogni continente. Da una rapida occhiata nelle Pagine Gialle di varie nazioni si coglie la presenza di punti di ristorazione - per lo più ricercati e prestigiosi - in decine di nazioni[190]. Inoltre Paparazzi si adatta bene anche ad altri àmbiti, come quelli riguardanti l'aspetto fisico, il presentarsi in pubblico, l'essere parte della società cosiddetta mondana: il nome indica infatti anche boutique di vestiario di ogni tipo, gioiellerie e rivendite di ornamenti, saloni di bellezza, agenzie di spettacoli. A partire da un cognome di un personaggio reale e da quello di un personaggio d’invenzione: - FELLINI = è diventato uno di quei nomi-garanzia cui si intitolano non sono strade, hotel, sale, negozi, aereoporti, pizze, un asteroide e pastasciutte, ma anche vocaboli: i sostantivi fellineggiamento, fellinata, fellineide, fellinerie, felliniade, fellinianità e fellinità, fellinismo e fellinisti, fellinaggine, felliniade, fellinofilo, fellinologia e fellinologo; gli aggettivi fellineggiante, fellinesco, fellinistico, fellinizzabile; i verbi fellineggiare e fellinizzare; gli avverbi felliniamente e felliniamamente, per non dire delle combinazioni con prefissi e prefissoidi: antifelliniano, subfelliniano, filofelliniana, iperfelliniano, neofelliniano, parafelliniano, prefelliniano e postfelliniano e postfellinismo, protofelliniano, pseudofelliniano, similfelliniano, superfelliniana, tardofelliniano, ultrafelliniano. - FANTOZZI = il cognome, largamente esistente anche in realtà, alterato di “fante” fa “Bonfante” o simile, cioè “buon ragazzo”, distribuito secondo due distinti nuclei (toscano e laziale, abruzzese e molisano), è nato dalla fantasia di Paolo Villaggio che lo ha interpretato in dieci film, dal primo Fantozzi diretto da Luciano Salce (1975) al Fantozzi 2000-La clonazione di Domenico Saverni (2000), preceduti dall’apparizione nel programma televisivo Quelli della domenica (1968) e dai “libri Fantozzi (1971) e Il secondo tragico libro di Fantozzi (1974); il personaggio era peraltro nato su un palcoscenico di Genova nel 1965[192]. Per quanto mai ufficialmente spiegata, la scelta del cognome ha a che fare con fantoccio, come dimostra l'alterazione del cognome del personaggio, in alcuni momenti dei film interpretati, in Fantocci (e Fantocci fu un primo cognome “di lavoro” per il personaggio, il che fuga ogni dubbio circa il significato che gli si voleva dare)[193]. Fantozzi è divenuto sinonimo antonomastico di uomo sopraffatto dal destino di fronte al quale pare inerte, in una miscela di servilismo e fobie persecutorie, vinto dall’arrivismo e dalle - PIANOLEONE = Fra i tecnonimi cinematografici, di cui un buon esempio è il Fregoligraph, spicca in tempi a noi più vicini e con valenza internazionale il nome usato per un’inquadratura d’autore: il “piano (Sergio) Leone”. Il regista statunitense (di padre italo- americano) Quentin Tarantino, grande amante del cinema italiano e di Sergio Leone, secondo un aneddoto raccontato dallo stesso regista sul set del suo primo lungometraggio Le iene (1992), agli inizi della carriera non conosceva ancora tutti i termini tecnici cinematografici ed era solito chiedere agli operatori di ripresa “give me a Leone”, ‘datemi un Leone’, per ottenere un suggestivo primissimo piano, ravvicinato sui dettagli, marchio di fabbrica del regista romano. I nomi di protagonisti del mondo del cinema - artisti e personaggi finzionali - hanno subìto processi di conversione in altre tipologie di nomi propri, ripartibili in numerosi àmbiti, il primo dei quali è rappresentato dall’odonimia. In Italia, il maggior numero di odonimi dedicati a personaggi legati al mondo del cinema si trova a Roma e nettissima è la differenza quantitativa con ogni altro comune. Si tratta infatti di poco meno di 200 odonimi registrati. Sono celebrati non solo registi e attori, ma anche sceneggiatori, storici del cinema, doppiatori, montatori, scenografi, produttori e impresari; un’ulteriore intitolazione legata al cinema è Piazza di Cinecittà. Sempre più spesso negli ultimi anni anche altri comuni italiani hanno dedicato aree di circolazione a registi e attori cinematografici. Possiamo individuare alcuni centri nei quali l'omaggio non è irrelato, ma ha una propria coerenza: 1. Con vicende legate all’ambientazione di film o alla frequentazione di protagonisti del cinema: nella provincia di Roma, a Castel San Pietro Romano, Piazza Vittorio De Sica ricorda che nel comune furono girate le principali scene del film Pane amore e fantasia (Luigi Comencini, 1953), protagonisti appunto De Sica e Gina Lollobrigida. Zagarolo, talora segnalata erroneamente come sede delle riprese di quella pellicola, fu sede di vacanze per attori e registi (tanto che negli anni Sessanta-Settanta ricevette il nomignolo di Zagarolywood), e si ricordi il tragicomico Ultimo tango a Zagarolo (Nando Cicero, 1973). Oggi si distingue per un gruppo di odonimi dedicati, insieme a un Viale del Cinema, a sette registi: Federico Fellini, Pietro Germi, Sergio Leone, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica; 2. Con la celebrazione di festival o altri eventi cinematografici: a Pesaro, che ospita da oltre mezzo secolo il Pesaro Film Festival - Mostra internazionale del Nuovo Cinema, un pentagono circoscritto dalla Via del Novecento e, appunto, dalla Via del Cinema contiene 11 odonimi, dedicati a registi; sono le vie Anton Giulio Bragaglia, Frank Capra, Federico Fellini, Carmine Gallone, Pietro Germi, Sergio Leone, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Massimo Troisi, Luchino Visconti e Cesare Zavattini. “Le vie del cinema” è inoltre il festival di Narni (Terni) che presenta le pellicole restaurate: l’amministrazione comunale ha intitolato via via dal 1995 piazze a Rossellini, De Sica, Visconti, Blasetti, Elio Petri, Luigi Comencini, Dino Risi e Vittorio Gassman e vie a Fellini, Pasolini, Totò, Zavattini, Germi, Giulietta Masina, Anna Magnani, Sergio Amidei, Mario Camerini, Eduardo de Filippo, Aldo Fabrizi, Antonio Pietrangeli e Ugo Tognazzi; 3. on l’aver dato i natali a grandi protagonisti del cinema: il caso più eclatante riguarda Rimini, che nel 2006, in seguito alla più ampia operazione odonimica della sua storia recente, ha intitolato 26 vie ad altrettanti film, documentari e sceneggiature di Federico Fellini - la filmografia completa del regista - nel cuore della Marina di Rimini, a partire dal preesistente Piazzale Fellini. La forza dell'intervento del Comune si è manifestata anche attraverso la cancellazione di alcune intitolazioni ai più prestigiosi musicisti della storia e l'apposizione, per ciascuna delle vie felliniane, non solo della data dell’opera ricordata, che è parte integrante dell’odonimo, ma anche di un cartello con la riproduzione del manifesto originale della pellicola e la trama del film, accostandosi così a una sorta di informazione più turistico-culturale che non topografico-orientativa; 4. Con lacreazione di una sorta di mini-città del cinema attorno appunto a un cinematografo: le strade adiacenti il cinema multisala di Gioia del Colle (Bari) sono state intitolate dalla Giunta Municipale a grandi autori del cinema italiano; otto le vie: Massimo Troisi, Antonio de Curtis con l’indicazione del nome d’arte Totò fra parentesi, Federico Fellini, Sergio Leone, Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica; il nuovo giardino di fronte al cinema dal 2007 si chiama Piazza Cinecittà. Un riferimento storico può giustificare questo particolare interesse del comune pugliese per il cinema: l’aver dato i natali a Ricciotto Canudo (1877-1923), complessa figura di intellettuale, poeta, scrittore e critico cinematografico, parigino d'adozione. 5. In altri casi si è manifestata la semplice necessità di dar vita a nuovi blocchi semantici: il caso di Roma si riproduce altrove in miniatura. Una scelta particolare è quella di via Gelsomina per indicare l’area di circolazione fittizia che i Comuni italiani sono obbligati a fissare per attribuire un domicilio alle persone senza “issa dimora: evidente il richiamo simbolico al personaggio del film La Strada di Fellini (1954), dove Giulietta Masina interpreta una fragile ragazza che segue come un cane il rozzo saltimbanco Zampanò da cui sarà poi abbandonata lungo una strada deserta. 6. Computando le dediche ai singoli personaggi, in testa alla graduatoria figura Antonio de Curtis-Totò[203], seguito da Federico Fellini, Vittorio De Sica, Anna Magnani, Luchino Visconti, Sergio Leone, Alberto Sordi, ecc. A questi si aggiungano gli odonimi dalle “città del cinema”: una Via Cinecittà a Pergine Valdarno-Ar, una Via Cinelandia a Cologno Monzese- Mi e alcune Via Pisorno a Pisa, a Tirrenia-Pi, Capoliveri-Li e Piazza al Serchio-Lu: Pisorno fu la prima cittadella italiana del cinema, a Tirrenia, già Tirrenia Film nel 1933 e dal 1937 sino alla fine della Seconda guerra mondiale ribattezzata Pisorno (dal 1969, poi, Studi Cosmopolitan), una fusione degli equidistanti toponimi Pisa e Livorno. Quanto ai teatronimi, non pochi sono formati da nomi propri riusati. Da titoli di film si segnalano: il cinema Otto e mezzo di Isernia, il Multisala Cabiria di Scandicci (e l'arena estiva Le notti di Cabiria), il Sabrina di Bardonecchia-To, il King Kong Microplex di Torino, l’arena Effetto notte di Palau-Or; a Roma l’Azzurro Scipioni trae il primo elemento del nome dal documentario di Franco Piavoli Il pianeta azzurro, proiettato per anni nella sala di Via degli Scipioni. Singolare il caso del Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988) a San Damiano d’Asti, che segna il passaggio da un teatronimo finzionale a un teatronimo reale attraverso la mediazione di un titolo di film (anche a Bogliasco-Ge, Brescia - Piccolo c.p. -, Catania, Folgaria- Tn e Tricase-Le esiste un Cinema Paradiso). Curiosa la vicenda del teatronimo Tiffany (a Palermo, Catania, Roma, fino al 1998 anche a Milano); il successo del film di Blake Edwards Colazione da Tiffany (1961), dal romanzo di Truman Capote del 1958, e il prestigio del marchio (casa di gioielli con base a Manhattan) ha fatto nascere le sale cinematografiche Tiffany, per esempio a Bologna (ora Chaplin), Forlì, Macerata, Milano, Palermo e Roma. Si tratta di un altro raro fenomeno transonimico tutto interno al mondo del cinema. Titoli a parte, dal nome del protagonista del felliniano La città delle donne (1980) a Cattolica-Rn un cinema si chiama Snaporaz; dalla parola-chiave delle vicende di Quarto potere di Orson Welles (1941) a Reggio Emilia sorge il Rosebud. Oltre alle aree di circolazione e alle sale cinematografiche, numerosi sono gli àmbiti onimici - in prevalenza crematonimici - nei “quali i nomi di attori e registi sono riutilizzati, con maggiore 0 minore correlazione al mondo del cinema. 1. Scuole. A Roberto Rossellini è intitolato l’Istituto professionale cinematografico e televisivo di Roma. Istituti scolastici di vario tipo portano i nomi di Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Anna Magnani e Marcello Mastroianni (tutti a Roma); Federico Fellini (Forlì, Pescara, Riccione-Rn con un Istituto d'Arte, Rimini, Sordio-Lo, Tavazzano con Villavesco-Lo, Torino con un Istituto per la cinematografia, la televisione, lo spettacolo e la comunicazione, Virgilio-Mn); Antonio de Curtis (Casalnuovo di Napoli, Ercolano-Na, Napoli, Roma, Sant'Antonio Abate-Na); Pier Paolo Pasolini (Cadoneghe-Pd, Calcinaia-Pi, Milano, Pordenone). 2. Premi. Non sorprenderà trovare decine di premi intitolati ad attori, sceneggiatori e registi famosi. Si ricordano almeno il Premio “Ennio Flaiano” all'autore del miglior copione inedito; il Premio “Mario Camerini” per la migliore canzone da film; il Premio “Renato Castellani” al ligure che si è meglio distinto nel mondo dello spettacolo e della comunicazione; il Premio “Oreste Lionello” allo spettacolo teatrale di maggior gradimento del pubblico; il Premio “Marcello Mastroianni” a giovani attori emergenti; il Premio “Totò” alla comicità; il Premio “Solinas-Documentario per il cinema”. 3. Sale e stanze d'albergo. Anche negli alberghi attrezzati per convegni, manifestazioni, ecc., le sale sono variamente denominate e lo stesso vale per le fiere (permanenti e no). L’Excelsior Palace Terme di Acireale-Ct ha dedicato le sale a otto registi: Visconti, Fellini, Rossellini, Risi, Antonioni, Pasolini, De Sica e Leone. L’usanza è ben diffusa anche all’estero. 4. Arredamento. La Chateau d’Ax ha nel proprio catalogo di divani la serie Hollywood, che utilizza i prenomi di celebri attori: H. Sofia, H. Fred, H. Ginger, H. Marilyn, H. Marlon. 5. “Cibi e locali di ristorazione. Vari menù di ristoranti e pizzerie, in Italia e all’estero, propongono nomi celebri italiani, da Fellini a Pinocchio; presso la “Ciak Pizzeria” di Palermo e il “Ciak si mangia” di Roma le pizze sono chiamate con nomi di attori. AI “Funiculì Funiculà” di Napoli le denominazioni delle pizze sono ispirate alla cultura partenopea e si distinguono Totò e Peppino, Malafemmena e Pappagone (il personaggio televisivo più famoso interpretato dal più giovane dei De Filippo). AI “My Cinecittà” di Monza le pizze si chiamano come film: la “casa” raccomanda, nei suoi comunicati, in particolare le pizze Johnny Stecchino, Bianco, rosso e Verdone e Ritorno al futuro. Frequenti sono i locali chiamati “Totò e Peppino”, in omaggio alla coppia di attori che recitarono insieme in numerosi film. Fellini, insieme a due nomi stranieri - Marilyn e Chaplin/Charlot - è probabilmente il nome cinematografico più transonimizzato in esercizi di ristorazione[204]. Segnalo inoltre, un esempio di accrescitivo-soprannome: a Palermo la trattoria “Albertone”, omaggio ad Alberto Sordi; un esempio di personaggio finzionale è l'hotel “Don Camillo” di Brescello-Re dalla serie cinematografica tratta dai romanzi di Giovanni Guareschi[205]. Un caso speciale di eponimo legato al cinema è Robertissimo, come Roberto Benigni venne trionfalmente annunciato da Sophia Loren quale vincitore dell’Oscar 1999 per la regia del miglior film straniero (La vita è bella); il superlativo Robertissimo è divenuto l'insegna di un ristorante a Embourg (Chaudfontaine) in Belgio e di un caffè a Delft nei Paesi Bassi. 6. Agenzie e servizi. Mi limito a indicare il box office “Alberto Sordi” nell’omonima galleria romana, ma esistono in Italia agenzie investigative o di viaggi intitolate a registi e attori stranieri; Northbridge (Australia), Methven (Nuova Zelanda), ecc. “Cinema Paradiso” assume inoltre un valore quasi lessicalizzato per indicare ‘vecchio cinema tradizionale particolarmente amato’. Altri titoli di film, poi, s'incontrano in àmbito crematonimico con piccole variazioni che originano gustosi giochi di parole: è il caso della ditta di imbianchini di Monte San Pietro-Bo “Rulli e pupe” (da Bulli e pupe, Joseph L. Mankiewicz, 1955); di “Johnny Stockino”, boutique di vestiario a Roma (da Johnny Stecchino, “Roberto Benigni, 1991); di “Mondo pane”, panificio a Parma e Taranto (da Mondo cane, Gualtiero Jacopetti et al., 1962). Gruppi semanticamente coerenti, costituiti da titoli di film, sono talvolta usati con funzione identificativa senza alcuna relazione con gli enti specifici che denominano, dunque fungibili e potenzialmente scambiabili tra loro. Come già visto per i nomi di attori, registi e altri personaggi del cinema trasformati in odonimi, si ha almeno un caso in Italia, di titoli di opere d’ingegno, tra le quali alcune pellicole, usati per intitolazioni stradali. A Napoli la transonimia da titolo di film a odonimo si registra nel quartiere di Secondigliano con via Miracolo a Milano e via Il posto delle fragole, oltre alle vie Il barbiere di Siviglia, | misteri di Parigi, La certosa di Parma e Il flauto magico, Madama Butterfly, Tosca, Rigoletto, Aida, che comunque sono, in via secondaria, anche film. In campo commerciale, oltre ai nomi di pizze, si possono citare gli abiti da sposa della collezione di Cristina Fioranelli di Ancona (“Le spose di Cristina”), che corrispondono a 11 titoli di film (le descrizioni degli abiti non indicano alcuna correlazione, neppur vaga, con tali titoli o coni contenuti delle pellicole): Via col vento, Casablanca, Sabrina, Roma, Amarcord, La vita è bella, Profumo di donna, Niagara, La dolce vita, Chocolat, Colazione da Tiffany. Un altro esempio è fornito dai nomi commerciali dei fiori; mi limito a segnalare dal catalogo “Rose Barni” di Pistoia i fiori denominati con titoli quali Tempi moderni, Funny girl, Polvere di stelle, Profondo rosso e Scent of a woman. CAPITOLO 10: AUTOBIOGRAFIA LINGUISTICA DI DUE SCENEGGIATORI Partiamo da un presupposto. Un’autobiografia di questo tipo - quella cioè di due sceneggiatori, linguisti di formazione - non può che essere una storia piena di risvolti tragici. O tragicomici, almeno. Perché - sarà noto ma è bene ribadirlo - quello che gli sceneggiatori scrivono, una volta licenziato, nella filiera produttiva che porta alla realizzazione compiuta di un film (o di una fiction) diventa uno strumento in mano a tante persone diverse, con diversi ruoli, che possono incidere sulla sua forma e, inevitabilmente, anche sul suo significato. Spesso, nessuna di queste persone proviene da studi linguistici. E invece tutti, perlopiù, hanno poco tempo - tenendo anche conto di quelli sempre più ridotti, per ragioni economiche, concessi per girare un film - per star dietro alle fisime degli sceneggiatori, tanto più se linguisti: avvertiti magari per questo come eccessivamente inclini alla cura del dettaglio teorico e quindi distanti dalla logica praticona del fare che da “sempre caratterizza anche nei racconti - apparentemente, in realtà: solo apparentemente; e più come vulgata percepita - le varie figure dei reparti tecnici. Un mondo la cui poesia digressiva e ossimorica però - per non lasciare che certo pressapochismo di alcuni magari diventi l’unica cifra - ha raccontato magnificamente Fellini in una scena di Intervista (1987): quando un giovane Rubini si trova stregato di fronte a due operai, sospesi su due impalcature mobili nel cielo finto della scenografia, intenti a dipingere le nuvole per il film a venire e pronti a ribadirsi, più volte, la propria pragmatica, necessaria, romanissima e irrinunciabile capacità di disincanto con una delle più note e retrive pratiche teatrali del popolo di Roma: «Oh, a Ce”...» dice l'uno. «Che vvòi?», risponde l’altro. «Vàttela a pjà ’nder culo...». E dopo poco: «A Ce’, no stavo a penzà ’na cosa...» «Che cosa?» «Perché non te la vai a pjà ’nder culo?...». E infine, il montaggio di Fellini a cornice per uno stacco in fuga: «A Ce”...» «Oooh...» «Lo sai chi t'ho incontrato, ieri? Moccoletto... E sai che m’ha detto?!...» «No!?» «M’ha detto che te la devi andà a pjà...» laddove la competenza dello spettatore è definitivamente persuasa. Fisime, si diceva. Così vengono percepite il più delle volte le richieste aggiuntive di ciak - o di doppiaggio, quando il cambiamento si rileva in fase di montaggio - per via del sinonimo inade guato che magari un attore ha improvvisato in una battuta non ricordando il termine scritto; o per la riformulazione sintattica di un'intera frase che a quel punto si mostra incongrua rispetto al contesto. È così: si tratta di una vita difficilissima, che tormenta e dilania gli autori in proporzione alla cura e alla consapevolezza che hanno investito durante la scrittura. A volte pensiamo che gli sceneggiatori si muovano in coppia per questo: per non sentirsi soli; e per potersi confortare come Plotino e Porfirio (evitandosi spesso a vicenda la deriva inconcludente di Bouvard e Pécuchet). Si tratta di una necessità psicologica e sentimentale, e non solo tecnica come si potrebbe immaginare (tenendo anche conto del fatto che in fase di rilettura conviene essere in due per mettere alla prova la funzionalità dei dialoghi). Ora, però, ripercorrere la storia degli episodi che contraddistinguono il nostro confronto quotidiano con produttori, registi e attori, oltre a riacuire ferite sanate dal tempo, rischierebbe comunque di dare una visione parziale e quindi falsata di quello che rappresenta il nostro lavoro. Anche perché, per essere giusti, bisognerebbe ricordare anche tutte le volte che un cambiamento consapevole operato durante le riprese (o in montaggio) ha sortito miglioramenti nel prodotto finito rispetto al testo di partenza. La sceneggiatura è una partitura da seguire con rigore - per non perdere la visione d'insieme, nella parcellizzazione a cui costringe le riprese il piano di produzione — ma senza integralismi che precludano guizzi momentanei legati all’estro di chi la mette in scena; o soluzioni più adatte ai luoghi in cui poi una data scena viene girata rispetto a ciò che era stato immaginato in scrittura. E gli esempi in questo senso potrebbero essere diversi. Ma piuttosto che limitarci a una rassegna di aneddoti di vario tipo, meglio usare questo spazio per raccontare le intenzioni della nostra ricerca stilistica in ogni cosa che scriviamo, esemplificando il risultato su un unico caso, che è quello di Non essere cattivo (2015): il film di Claudio Caligari a cui siamo particolarmente legati per infinite ragioni. Non ultima, in questo contesto, il rispetto della sceneggiatura che Caligari (e di conseguenza tutti gli altri reparti) ha mostrato durante le riprese, avendo anche partecipato attivamente alla sua scrittura (d’altra parte, per quello che abbiamo capito facendo il nostro mestiere, un regista - se è un vero auteur - o riesce a vedere il film già sulla carta - indipendentemente da quanto scrive di suo pugno - o se lo lascerà raccontare come gli altri spettatori - per quanto possa sembrare paradossale - da quello che più o meno preterintenzionalmente verrà fuori durante le riprese e in montaggio). Quello che ricerchiamo noi in definitiva - tanto vale anticipare il finale, visto che qui non abbiamo obblighi di tenere viva la tensione narrativa - è una “verosimiglianza artefatta” che tende a una “verità fatta ad arte”. Da un lato, infatti, a seconda del contesto che dobbiamo rappresentare e del tipo di personaggi che andranno ad abitarlo, cerchiamo sempre di documentarci in modo che tutto sembri vero nel contesto della rappresentazione (e poi vedremo in che modo). Dall'altro lato, proprio partendo dalla lezione di Caligari che «il cinema è finzione», ci divertiamo a giocare con le parole in modo da nascondere in quella verità apparente - la punta emersa dell’iceberg, direbbe Hemingway - tutto un mondo di sovrasensi che rappresenti, mascherandole, le nostre istanze creative (sempre di verità si tratta, ma in questo caso con ambizioni ontologiche, nella speranza di parlare a molte più persone di quelle al centro del nostro racconto). Partiamo dalla verosimiglianza, dunque. E poi vediamo come giochiamo a manipolarla. Non essere cattivo è la storia di due fratelli di vita (Cesare e Vittorio), ambientata nella borgata post-pasoliniana di Ostia nel 1995 (proprio dall’Accattone di Pasolini arriva il nome di Vittorio, mentre quello di Cesare è lo stesso del primo film di Caligari, Amore tossico). Avevamo bisogno per questo di un romanesco collocato in una varietà diastratica piuttosto bassa che all'occorrenza doveva subire qualche scarto diafasico quando, in particolare, Cesare interagiva con Debora, la nipotina malata; o Vittorio con Tommasino, il figlio di Linda: la donna che lo toglie dalla strada e che nel film, popolato di proletari e di sottoproletari, doveva rappresentare la piccola borghesia. È lei l’unica a elevare il suo romanesco a un italiano regionale, sia pure molto marcato. E l’unica a usare in qualche caso il congiuntivo. Fin qui il ventaglio di possibilità su cui ci siamo mossi. A cui bisogna aggiungere, sul piano lessicale, il gergo della malavita romana, a cui abbiamo attinto le volte in cui i personaggi avevano bisogno di un fero (‘pistola’) o di una chicca (‘pasticca’) sul mercato in quegli anni (la fragolina, la playboy, la bracciodiferro). Non è da sottovalutare il riferimento diacronico, perché, su tutte queste varietà, usate a seconda del contesto, aleggiava infatti lo spettro dell’anacronismo. Rappresentare il passato prossimo è molto più difficile del passato remoto, perché non c'è un solco così netto a dividere la nostra pratica di parlanti romani al momento della scrittura (tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013) e le reminiscenze linguistiche dei circa vent'anni che ci separavano dall’ambientazione del film (un tempo che peraltro avevamo vissuto avendo allora più o meno la stessa età dei nostri protagonisti). Il pericolo di confondersi era in agguato e ha richiesto un'attenzione tanto più maniacale, con pochi repertori a sostegno e invece la vigile e ineludibile sorveglianza di Emanuel Bevilacqua, che con Caligari collaborava già dai tempi dell’Odore della notte (1998) e che poteva vantare una conoscenza approfondita di quel contesto all’epoca dei fatti e, di conseguenza, della sua lingua. “Tutto questo avendo sempre presente di non avere nessuna necessità documentaristica ma solo l'esigenza di rendere credibile un universo narrativo nel quale poi potersi divertire a operare innesti e manipolazioni come quella che proveremo a esemplificare in una scena del film. 98. est. strada bar pontile (ostia) - giorno La macchina di Cesare parcheggia davanti al bar. Il giovane scende, raggiunge il tavolino del Corto, del Lungo e del Grasso. Lungo: A Ce’, ma ch’hai fatto? Me pari Cristo er giorno prima de Pasqua... Cesare: Avete visto quer frocio de Samanta? Se la trovo l’ammazzo. Lungo: Ehhh, ma chi ammazzi! Vieni co’ nnoi che c'avemo un movimento sicuro. Cesare fa per andarsene, ma il Corto e il Lungo si alzano e lo raggiungono in due passi, lo bloccano e gli parlano circospetti. Corto: ‘N appartamento ai Parioli, robba de lusso. Lungo (con orgoglio): E quanno te ricapita d’entrà co’ ’a chiave. Il Lungo estrae dalla tasca una chiave da porta blindata. Lungo: Er garzone de ’na feramenta amico mio c’ha avuto er pensiero de fa ’na copia pe’ mme quanno i proprietari j’hanno chiesta pe’ ‘a fija. Cesare: Ditelo ar Brutto. Lungo: Nun je interessa, quer fijo de mignotta sta a spigne er cocco pe’ cazzi sua. Cesare annuisce, ma dice: Cesare: E allora fàtevelo da soli. Siamo in presenza di un romanesco, con tutte le sue variazioni fonosintattiche rispetto all’italiano, che non disdegna il turpiloquio (frocio, fijo de mignotta, cazzi sua), né espressioni gergali (movimento ‘affare sporco’; spigne er cocco ‘mandare avanti i propri affari’). Ma c’è di più. In questa scena per noi cominciava il Calvario di Cesare, in un percorso cristologico in cui abbiamo
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved