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L’oggetto-persona. Rito Memoria Immagine di Carlo Severi, Sintesi del corso di Arte

Riassunto fino al capitolo 8 del libro L'oggetto-persona. Testo del corso Arte dell'America indigena UNIBO

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica L’oggetto-persona. Rito Memoria Immagine di Carlo Severi e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! L’oggetto-persona. Rito Memoria Immagine Carlo Severi Introduzione Kafka → la bambina che perde la bambola. Kafka inscena una finzione, la bambola non è persa ma sta facendo un viaggio. Scrive delle lettere per la bambina dando voce alla bambola e raccontando del suo viaggio per il mondo, del castello in cui vive e del principe che sposa. → Oggetto trasformato in persona, una volta persa la bambola cessa di essere inanimata e diventa una fanciulla. L’autore ha utilizzato la letteratura come magia, un modo per entrare nell’universo della fanciulla e far evolvere i suoi pensieri e dare forma a un ordine capace di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Grazie a queste lettere nasce uno spazio di pensiero condiviso tra Kafka, la bambina e la testimone, all’interno di questo spazio viene a stabilirsi una relazione complessa. La prima conseguenza è che la bambola non scompare senza spiegazioni. Attraverso le lettere la bambola rimane presente e attraverso la voce di Kafka la bambola spiega cosa le è accaduto. L’oggetto dunque è divenuto, in un certo arco di tempo e all’interno di uno spazio dato, una persona. Antropomorfismo dell’oggetto che invade lo spazio delle conoscenze condivise, e quindi della memoria sociale, in un gran numero di società umane. Quel tipo di presenza dell’oggetto è al cuore dell’azione rituale, ne costituisce lo spazio di pensiero. Questo oggetto è una sostituzione diretta poiché corrisponde a quella persona e viceversa. Nell’ambito di un rito, tra il celebrante di una cerimonia e l’oggetto che ne assume le funzioni sussiste un rapporto di equivalenza assoluta. L’oggetto animato nell’ambito rituale somiglia molto di più a un cristallo che ad uno specchio, è un’immagine multipla, composta da più tratti parziali e incompleti che provengono da identità differenti e talvolta antagoniste. Spazio di pensiero → genera la presenza e l’immagine Azione rituale Legame di credenza che si stabilisce tra gli oggetti e le persone La narrazione è un atto, le lettere della bambola sono una finzione ma esprimono anche la presenza di un narratore, o addirittura la presenza di Dora che narra questo strano episodio. Esistono situazioni in cui il pensiero antropomorfico si intensifica, si fa serio, solenne, indiscutibile, l’atteggiamento mentale che attribuisce una vita all’oggetto smette di essere provvisorio e revocabile. L’antropomorfismo si presenta allora come un gioco serio, del quale si possono seguire o trasgredire le regole. Esempio → ERNST GOMBRICH → hobby horse → il manico di scopa che un bambino può cavalcare. Il pensiero antropomorfico fa di quel oggetto l’ultimo termine di una catena di pensieri. RITUALE → luogo in cui emergono identità al tempo stesse complesse, plurali e contraddittorie, capaci di dar vita a una dimensione ontologica parallela a quella che informa la vita sociale. L’esercizio dell’antropomorfismo nel contesto rituale → esempio qui sviluppato i minkisi africani e dei kouroi greci. Esistono altri contesti in cui si possono esprimersi l’agentività di un sostituto, tra esseri umani e oggetti, ma anche tra umani e umani → giochi di sostituzione e di identificazione parziale. Dunque vengono definiti come quasi rituali. TEORIA RELAZIONALE → l’agentività di un oggetto dipende dal contesto relazionale nel quale essa viene esercitata. Esempi nel testo: il gioco funebre omerico nell’Iliade, l’arte occidentale come luogo in cui può esprimersi l’agentività e persino una specifica forme di vita degli oggetti inanimati. CAPITOLO PRIMO L’empatia primitivi sta Intensificazione dell’immagine e decifrazione dello spazio All’inizio del secolo scorso, in modo quasi simultaneo, Die Brucke in Germania e i Fauves in Francia, scoprono l’arte primitiva → cercano una via per pervenire a una nuova intensità dell’opera d’arte. Correnti di avanguardia → introducono una rottura, affrancamento dalle regole accademiche dell’imitazione della natura, l’arte deve dare sensazioni che prima non si conoscevano, allo stesso tempo bisogna trovare una forza nuova che renda l’opera capace di andare al di là dei registri emozionali propri dell’universo chiuso dell’arte accademica. XX secolo → oggetti africani, asiatici o oceaniani → arte primitiva → diventa una delle modalità attraverso cui questi artisti tentano di raggiungere quell’intensità emotiva ricercata. Immagini liberate da qualsiasi riferimento al reale. L’immagine viene semplificata. Si riduce il tema del quadro a una sola scena, semplice e dominante. Lo sguardo dell’osservatore va direttamente all’essenziale. Semplificazione progressiva del soggetto che si accompagna a un’intensificazione graduale del risultato visivo. Ridurre il soggetto all’essenziale non è che una prima tappa per arrivare a questa intensità la seconda procedura consiste nel generalizzare lo spazio, le figure, in modo da sottrargli ogni aspetto circostanziale, che sia legato a uno stato d’animo, a un luogo o tempo definito. Si mette a bando l’episodio, quello che veniva chiamato il romanzo dipinto, per puntare all’immagine simbolica. Affinché un’immagine sia intensa non c’è bisogno di insistere sulla caratterizzazione psicologica della figura umana, al contrario occorre che sia più impersonale, anonima → esempio maschere africane, non sono un ritratto. In questo modo è generalizzabile alla stessa maniera di un simbolo. Dunque si omettono dettagli, non suscita identificazione. Spazio rarefatto e simbolico così le figure. Primi decenni del XIX secolo → problema dell’origine dell’arte, studio della storia comparata degli stili dell’arte primitiva → esplorare forme espressive dello spirito umano. Forme elementari che fondano qualsiasi rappresentazione artistica. SEMPER → ogni stili non testimonia una tappa dell’evoluzione culturale, ma una sintesi fra tecniche soggette a evoluzione e le forme mentali di organizzazione dello spazio che la rappresentazione presuppone. Museo non in base cronologica ma seguendo una sistematica delle forme → l’ideale di una psicologia universale. Psicologia delle idee elementari dell’umanità. Capanna carib → sintesi dei quattro elementi fondamentali di ogni architettura: tetto, recinto, il muro e il focolare o centro. La capanna per Semper mostra un esempio di perfezione formale che non può essere superata da alcuna successiva evoluzione. Le forme non sono altro che idee della natura → vicino a Goethe. In quanto puro fatto del pensiero sfugge ad ogni evoluzione. Il cambiamento incessante delle forme, a livello delle tecniche, mentre a livello del pensiero si registra non una evoluzione, bensì le possibili varianti di un modello logico. Tre modalità proprie delle poetiche primitiviste: - L’attenuazione progressiva della distanza psichica tra osservatore e immagine - La realizzazione (attraverso un affrancamento dell’occhio dalla percezione frontale della profondità) di un’estasi immobile legata all’utopia di una percezione assoluta - Il lavoro di proiezione che implica il processo di elaborazione degli indizi che secondo Florenskji, Kandinskji e Newman investe lo sguardo di memoria e permette di far emergere gli aspetti invisibili inerenti all’immagine. Iconografia e gioco Lo svolgersi di un gioco genera l’universo di una tradizione iconografica. CAPITOLO SECONDO L’UNIVERSO DELLE ARTI DELLA MEMORIA Un esercizio di metodo Mito delle lingua universale comune a tutta l’umanità. Come preservare la memoria senza l’ausilio della scrittura? VICO → Scienza nuova 1744 → la prima memoria dell’umanità affidata a emblemi e figure simboliche, poiché l’immagine costituisce la lingua mentale che fonda, per tutte le nazioni, il principio di tutti i geroglifici. Il primo modello storico di questa lingua per lui è stato, forse, il geroglifico egiziano. Nel pensiero goethiano il geroglifico diventa il prototipo della forma originaria degli esseri viventi. Nasce dunque l’idea di un geroglifico mentale, o carattere universale, che potrà esprimersi in una forma linguistica o matematica. → questa idea contrassegnerebbe una relazione diretta tra il concetto e l’immagine escludendo qualsiasi mediazione linguistica. Alla fine del 19 secolo per i linguisti, antropologi, archeologi, in tutte le culture primitive l’immagine emblematica precede, da sempre, il segno. Si afferma che questo principio sia universale poiché deriva dalla natura stessa del corpo umano. Per Vico il geroglifico è il modello del principio di unità del genere umano → ha generato il dizionario mentale che caratterizza tutte le culture umane. Secondo il mito della lingua universale all’origine dei tempi la memoria degli uomini era affidata all’immagine → scritture delle cose vs scrittura delle parole, più tarda ed evoluta. Studiare la memoria significa sempre studiare un pensiero in azione. Non si può parlare al singolare di arte della memoria. In questo capitolo ci proponiamo di studiare un insieme di tecniche di memorizzazione, nell’ambito di un certo numero di tradizioni amerindiane. L’utilizzo di una iconografia legato all’esercizio della memoria. Bisogna riconoscere l’esistenza di varie arti della memoria la quale comporta la connessione tra memoria, classificazione e inferenza da una parte e evocazione, ideazione e immaginazione dall’altra. L’idea di una logica della memorizzazione che possa orientare le tradizioni cosiddette orali. La contrapposizione tra tradizione orale e scritta → le tradizioni orlai sono anche molto spesso iconografiche, il ruolo dell’immagine è costitutivo del processo di trasmissione della conoscenza. La parola detta e l’immagine articolata insieme in una tecnica della memoria, in particolare nell’ambito dell’enunciazione rituale, ha prevalso sull’esercizio della scrittura in molte società. ARTE DELLA MEMORIA QUIPUS andini → cordicelle segnate con differenti tipi di nodi che servivano a trasmettere messaggi e a memorizzare dati nel contesto amministrativo dell’Impero Inca. Le ricerche sono basate sul fatto che i quipus erano essenzialmente strumenti numerici il cui utilizzo era legato alla gestione di vari insiemi → individui, merci, offerte rituali, tributi, unità di tempo e di spazio, nel quadro amministrativo dello Stato inca. Questo è confermato da molte fonti antiche, il termine quipu significa tanto nodo quanto calcolo. Questa interpretazione tuttavia può essere applicata soltanto a una parte di quipus cioè quegli insiemi di cordicelle in cui si possono riscontrare regolari rapporti di ordine numerico tra nodi diversi, tra segmenti o insieme di cordicelle. In questo caso permettono di registrare insiemi quantitativi importanti, su base decimale, e un piccolo numero di categorie qualitative contrassegnate per esempio dal colore, dalla piega dei nodi e dalla direzione delle cordicelle. GARY URTON ha verificato che esistono dei quipus conservati nei musei che non posseggono questa regolarità e il cui utilizzo non può essere associato al calcolo. Alcune fonti storiche attestano che servivano a memorizzare testi che comprendevano nomi di persone e luoghi, ma è difficile arrivare a capire come funzionasse questo processo di memorizzazione. I quipus sono una vera e propria scrittura o una mneomotecnica? Urton per dimostrare che non si possono ridurre a una semplice tecnica mnemonica ha proposto di distinguere i differenti tipi di quipu, gli uni di uso popolare a carattere mnemonico e gli altri, decisamente più codificati, a servizio dell’amministrazione dello stato inca. Mette in evidenza la capacità di alcuni quipus di registrare verbi o frasi, affermando che erano un sistema assai più vicino alla scrittura di quanto non si sia voluto credere. Le cordicelle quipus, disposte secondo una serie di successioni ad alberi logici, mostrano un processo di pensiero e quasi niente dei suoi eventuali contenuti. Non cercheremo di scoprire se pittografie o quipus sono vere e proprie scritture o soltanto delle mnemotecniche, ma ci chiederemo si esse, in quanto insieme grafici organizzati per uso mnemonico, posseggano tratti formali comuni e se siano implicate operazioni mentali simili. Studiando le operazioni mentali che esse implicano cercheremo di stabilire se appartengano a uno stesso universo concettuale, a una lingua mentale (Vico), che caratterizzerebbe le arti amerindiane della memoria. Queste analisi ci condurranno a evidenziare gli elementi logici che definiscono l’universo di quelle arti della memoria anzitutto nell’area amerindiana. Arti amerindiane della memoria: un esempio Le categorie semiotiche tradizionali (disegno, pittografia, ideografia, ecc) si applicano male alle tecniche di memorizzazione non occidentale. Prendiamo in considerazione L’ICONOGRAFIA MITICA DEGLI YEKWANA → Amazzonia meridionale, gruppo di lingua carib, oggi abitanti tra il Venezuela e il Brasile, cacciatori e agricoltori. MITOLOGIA → ciclo di storie che riportano sanguinosi episodi del conflitto che secondo gli Indiani regge l’universo. Questo conflitto contrappone Wanadi → personaggio positivo associato al Sole che presiede alla cultura degli uomini a Odosha → incarna il male, le disgrazie, la malattia e la morte. La lotta tra i fratelli ha avuto origine all’inizio dei tempi, non è mai finita e segna la vita quotidiana degli uomini. Dissimmetria originaria tra bene e male → tra umani e i loro potenziali nemici, ovvero animali o vegetali. Per gli Yekwana il male prevale sempre sul bene. Odosha è rappresentato tramite una lunga serie di esseri malefici: scimmie, serpenti, giaguari, stranieri cannibali, ecc, mentre Wandi è rifugiato nel suo cielo lontano dagli uomini, è il solo a difendere gli Indiani. Ogni azione legata alla pesca, alla caccia o alla coltivazione presuppone un’azione contro la volontà di Odosha e le sue manifestazioni → ogni azione necessaria alla vita degli uomini suscita dunque una vendetta, che si cerca di scongiurare attraverso canti. Qualsiasi acquisizione culturale è per gli Yekwana il risultato di una trasformazione del male o degli esseri che da lui dipendono. Nella società Yekwana esistevano solo due contesti di elaborazione tradizionale di queste storie: i disegni che decoravano i cesti in vimini e certi canti, anch’essi costituiti quasi esclusivamente da liste di nomi di spiriti. Le forme tradizionali erano fondate sulla tecnica dell’intreccio del vimini → apparenza regolare, astratta e geometrica. L’etnografo GUSS rilevò una trentina di temi grafici, distinti e ben identificabili. L’iconografia scoperta da Guss compariva sui cesti con rappresentazioni dall’aspetto geometrico, astratte o debolmente iconiche, che mostravano un numero definito di personaggi ben identificati nella mitologia come Rospo, Serpente, Avvoltoio o Pipistrello. I pittogrammi degli yekwana così come i canti rivolti ai signori della selvaggina e delle piante coltivate, tengono soltanto memoria dei propri nomi. Queste liste di nomi rappresentavano il focolaio di memoria delle narrazioni mitiche. Infatti è attraverso i toponimi che possono essere indicate le epoche successive della mitologia ed è attraverso i nomi dei personaggi che si possono memorizzare le loro storie. I pittogrammi yekwana riflettono un livello più profondo di organizzazione del sapere mitologico. I due grandi motivi sono l’opposizione dei due personaggi e l’idea che tutti siano soggetti a un processo di trasformazione. Questa metamorfosi ha due modalità: da una parte possiamo avere la nozione di una figura multipla come Odosha che prende forma di tutta una serie di esseri. Dall’altra parte il processo di trasformazione (l’idea del bene è il risultato di un processo di addomesticazione del male) può portare ad investire una stessa creatura di ambiguità che ne fa contemporaneamente un’istanza positiva e negativa. I termini visivi traducono i nomi degli spiriti che derivano tutti da uno stesso tema grafico che rappresenta Odosha. Grazie ad alcune semplici trasformazioni geometriche, tutta la serie degli altri personaggi viene generata a partire da questo tema grafico → forme derivate dallo stesso essere originario, dalla forma base. Questo sistema permette di identificare anche le relazioni tra i personaggi → indicano un’organizzazione interna, propria di un sistema di rappresentazione che si fonda su un criterio unitario. La tecnica descritta implica anche un gioco tra sfondo e forme che consente di raffigurare uno specifico essere e allo stesso modo una delle sue possibili metamorfosi. All’interno di questo spazio qualsiasi essere, compreso Wanadi, deriva dalla forma di Odosha. → L’universo della mitologia viene tradotto in termini visivi. Con le immagini non si rappresenta tutto, esiste un ambito rappresentabile, in questo caso la mitologia al quale l’iconografia sii applica in maniera pressoché esclusiva. Il pittogramma va concepito come la cifra di una relazione tra un insieme di conoscenze, le operazioni mentali che quell’insieme presuppone, e una traccia grafica orientata da una tradizione iconografica. Pittografia e memoria: un modello La pittografia amerindiana si sviluppa su due assi paralleli → da una parte abbiamo la definizione di un’iconografia, dall’altra parte l’organizzazione di conoscenze rappresentate attraverso pittogrammi. Abbiamo visto la rappresentazione pittografia del nome proprio del caso yekwana. La tradizione pittografica kuna → liste di nomi propri rappresentati con pittogrammi associate a formule narrative enunciate oralmente. Ad esempio abbiamo come nel Canto del demone nomi di villaggi accompagnati da certe formule, oppure i nomi di spiriti. Altri casi l’organizzazione è più complessa e gruppi di nomi di spiriti sono inclusi in un gruppo di nomi di villaggi. Gruppi di nomi propri accompagnati dalla propria forma verbale. → Questo è un gioco di inclusioni. In altri casi è sostituito da un gioco di alternanze → questi costituiscono i due poli di un ampio insieme di arti amerindiane della memoria. Con i quipus abbiano da una parte la memorizzazione di numeri e dall’altra di narrazioni. CAPITOLO TERZO AUTORITA SENZA AUTORE FORME DELL’AUTORITA NELLE TRADIZIONI ORALI Il concetto di autorità nella tradizione europea che venga definito come un diritto di comandare o di influenzare altri o come un potere che permette di influenzare o far credere, sembra essere profondamente legato all’esercizio della scrittura. L’autorità e la memoria delle tradizioni si sono costituite a partire dal processo di canonizzazione di un corpus di testi, la cui veridicità non viene più messa in dubbio una volta fissata per iscritto. L’esercizio di una qualsiasi autorità si ritrova legata necessariamente alla figura di autore → che diventa la fonte, reale o mitica → diritto di autorità garantito dalla tradizione. La funzione di autore non sempre corrisponde con la figura di chi compone materialmente un testo → il termine autore indica più una specifica posizione dell’enunciazione che un individuo reale: la relazione che si stabilisce tra un principio testuale e la sua fonte, mitica o reale, sembra proprio essere all’origine della nozione occidentale di autorità → nulla auctoritas sine auctore. E nelle società senza scrittura? Nelle tradizioni orali, evitando di applicare concetti occidentali, non cercheremo autori, né processi di canonizzazione di testi. Piuttosto cercheremo di definire le forme che possono assumere i principi e le fonti di autorità della tradizione. Forme dell’autorità Il valore di veridicità attribuito a una proposizione può emergere nell’esercizio stesso della lingua. In un certo numero di lingue amerindiane l’uso linguistico può prevedere alcune particelle lessicalizzate che chiameremo classificatori epistemici o evidenziali, la cui funzione è proprio quella di esplicitare il tipo di esperienza rappresentata dalla fonte e che fonda il valore di veridicità di una data proposizione. Esempio: il classificatore –quia segnala la credenza acquisita per sentito dire, –quin → esperienza diretta -quian → conoscenza diretta che non può essere condivisa con l’uditore. Sono distinzioni che riguardano la natura della fonte, ne definiscono l’autorità, viene qui espressa attraverso mezzi semantici. In altri casi questa valutazione del valore cognitivo di un enunciato può esprimersi a livello pragmatico → attraverso specifici mezzi di definizione di un enunciatore e delle condizioni della sua presa di parola. È il caso di molte tradizioni sciamaniche in cui una funzione di autorità si costituisce attraverso la definizione dell’identità dello sciamano-cantore. L’enunciatore, che può far ricorso a dorme di comunicazione insolite come una lingua speciale, la metafora esoterica, l’onomatopea o l’uso sonoro del respiro, viene concepita come appartenente a regimi ontologici differenti. Quando pronuncia la parola rituale lo sciamano è uomo e animale, animale e vegetale, ecc. Queste forme sono spesso riservate al contesto rituale. Un altro caso di autorità priva di autore e indipendente dalla scrittura → l’esercizio dell’autorità è trasferito su un oggetto. L’oggetto, con la sola presenza, esercita la funzione di autorità e dà l’avvio alla formazione di una credenza. Il sapere tradizionale si appoggia su una definizione anonima e non umana di autorità che ne costituisce la fonte. Esempi nella nostra cultura → a Roma il diritto non distingueva tra esseri umani e oggetti inanimati qualora si trattasse di stabilire responsabilità o infliggere pene → delle statue potevano con la loro presenza legittimare e far rispettare promesse o contratti. Viceversa molti processi fatti a statue. → Istanze indessicali di autorità, in cui l’identità viene preventivamente definita. Ora prendiamo in considerazioni alcune situazioni in cui la presenza dell’autorità e la persona umana non sono direttamente associate. Nel corso della celebrazione rituale o durante un canto mitico, a portare interamente la responsabilità e il peso dell’esercizio dell’autorità è l’oggetto stesso. In queste situazioni l’oggetto è anonimo, portatore di una identità opaca, misteriosa, indecifrabile, non riflettente di nessun essere umano: né quella di un partecipante al rituale né quella del suo autore materiale. In questo caso si avvicina a una definizione minima, prossima allo zero, dell’identità. 2. Il caso Fang Fang → Camerun → Boyer → vasto patrimonio di canti che narrano, alla maniera di un’epopea, i rapporti di alleanza e di guerra che hanno contrapposto tre tribù giganti ai tempi dell’origine del mondo → mvet → cantati da poeti musicisti che si accompagnano suonando strumenti simili all’arpa. Modalità di trasmissione di questo sapere tradizionale e il rapporto che si instaura, nel momento dell’enunciazione del canto, tra il cantore di mvet, il racconto che ha il compito di riportare e il suo strumento. La padronanza del mvet passa attraverso l’acquisizione di una voce specifica che necessita di una iniziazione, individuale e segreta, che implica il contatto con un’entità soprannaturale. Per diventare cantore di mvet bisogna acquisire una identità specifica, rispetto a un principio indeterminato o paradossale, la cui natura rimane sempre sconosciuta. Colui che canta dovrà sempre possedere un evour o un byang → sostanze soprannaturali che si nascondono al fondo del ventre di un cantore iniziato, una forza magica. Bisogna anche aver ricevuto il byang cioè essere passati attraverso le specifiche prove di una iniziazione. Il mvet è pensato al pari di quelle sostanze che rappresentano, in una forma misteriosa e non fisica, la verità, la fedeltà alla tradizione e l’efficacia del canto. Il poeta deve stabilire una relazione con gli spiriti di cui il mvet enuncia la parola. Il cantore afferma che il contatto con la parola degli antenati lo fa ammalare e persino morire → questa morte trasforma l’identità del cantore → questo contatto con il mvet produce una progressiva de- individuazione del poeta che diventa un mero strumento della voce degli spiriti → l’acquisizione iniziatica della verità coincide con una sorta di annullamento dell’identità umana del cantore. Dopo l’iniziazione il cantore, la sua voce e la parola, lo strumento, il racconto stesso, diventano un solo essere. La verità e l’efficacia del mvet non si esprimono grazie alla sua persona, ma grazie allo strumento che il cantore maneggia, l’arpa. Si definisce come il tasto di uno strumento che fa emergere la voce nascosta degli spiriti, questa voce è quella della tradizione, rappresenta l’autorità in atto. OGGETTI CHIMERA → Rappresentazioni visive, plastiche o pittoriche, questi oggetti sono composti da frammenti che derivano dalla rappresentazione di esseri diversi. Grazie a questo doppio o multiplo riferimento (es immagine umano e corvo) questi oggetti fanno emergere una presenza che non è materialmente inscritta nella superficie dipinta o nell’oggetto scolpito. Ciò che si vede ne fa necessariamente da richiamo all’interpretazione di qualcosa di implicito. Questa parte invisibile dell’immagine è totalmente generata in uno spazio mentale → la condensazione dell’immagine in alcuni tratti essenziali presuppone sempre l’interpretazione della forma per proiezione e per completamento delle parti mancanti. Questo principio può avere un ruolo chiave nella memorizzazione e formazione di un sapere tradizionale. 3. Rileggendo Gell RITUALE MINKISI → Feticci a chiodi → area Africa Occidentale → avevano funzione essenzialmente giudiziaria secondo la tradizione, si ritenevano che registrassero o garantissero il rispetto di un accordo o una promessa e punissero coloro che non mantenessero la loro parola. Spesso si chiedeva a un nkisi di eseguire una vendetta. Fabbricazione e uso rituale. Durante un’assemblea si decide quale Kulu (spirito) debba entrare nell’albero Muamba e presiedere alla realizzazione del feticcio. Si sceglie un cacciatore, un ragazzo giovane coraggioso, i celebranti entrano nel bosco gridando il suo nome. Un sacerdote abbatte l’albero da cui si pensa sgorghi il sangue, poi si uccide un pollo e si mescola il sangue a quello dell’albero. Colui che è stato designato morirà nei 10 giorni successivi. Le persone supplicano il feticcio conficcando un chiodo in esso, il kulu di colui che è stato sacrificato mentre si abbatteva l’albero si incaricherà del resto. TEORIA DELL’ABDUZIONE DI SOGGETTIVITA’ Nell’utilizzo dell’oggetto si legge una serie di relazioni. Il feticcio è concepito come agente → l’azione rituale opera il passaggio del manufatti da una situazione di passività a una di attività. Piantare il chiodo nel feticcio è un’azione simbolica verso la vittima, l’oggetto reagirà passando da oggetto a soggetto di violenza. Identificazione parziale con il richiedente. È l’albero che causa la morte del cacciatore, l’albero concepito come corpo umano → processo di identificazione albero cacciatore. Seconda equivalenza che si associa il pollo all’albero, il loro sangue viene mescolato dal sacerdote. L’azione rituale dunque comporta dei cambiamenti che riguardano tutti gli elementi nella serie. Identificazione tra cacciatore e albero che più tardi diverrà il feticcio attraverso il sangue e il nome. Termini passivi → albero e pollo, termini attivi → kulu del cacciatore e nome. Alla fine sarà con questo feticcio che si potrà identificare il richiedente. Da ruolo passivo a ruolo attivo del feticciò può essere operato attraverso lo stabilirsi di una catena di identificazioni parziali che costituiscono gli anelli della catena delle trasformazioni che guidano il trasferimento simbolico del kulu dal corpo del cacciatore a quello del feticcio. Possiamo concludere che in una tradizione in cui non si dispone di testi, l’esercizio dell’autorità, lungi dal riferirsi alla figura di un autore, si definisce come una complessa rete di relazioni legate all’azione rituale. L’oggetto vi compare come l’immagine di una serie di relazioni e comporta la realizzazione di una serie di identificazioni parziali. CAPITOLO QUARTO LA PAROLA PRESTATA, OVVERO COME PARLANO LE IMMAGINI In seno all’azione rituale gli oggetti assumono un certo numero di funzioni proprie degli esseri viventi → pensare, agire o prendere la parola → si passa da una parola rivolta a una parola prestata. Nello spazio rituale oggetti sono considerati i rappresentanti di esseri, spiriti, divinità, antenati, costruiti a immagine e somiglianza di locutori umani. Quando agisce e prende la parola l’oggetto sostituisce l’essere rappresentato: ne restituisce la presenza. P arole e immagini rituali Atto verbale che ha luogo durante il rituale di travestimento chiamato Naven celebrato dagli Iatmul, Papua Nuova Guinea. Gli uomini si travestono da donna e le donne da uomo. Lo zio materno di ego si rivolge al lettore non rivolge soltanto un appello alla defunta, ma le dà anche parola, realizzando proprio l’azione che le è assegnata come dovere familiare. Kouros → il suo universo è quello della guerra, la sua bellezza incarna il fascino della giovinezza definitiva, poiché caduto sul campo di battaglia gli dà una condizione di splendore e prestigio. Giovinezza degli dei. La statua offre il modello del corpo intatto, non quello della battaglia. CAPITOLO QUINTO ESSERE PATROCLO: RITUALE E GIOCHI FUNEBRI NELL’ILIADE CAPITOLO SESTO ANTROPOLOGIA DELL’ARTE STRATTA PRINCIPI ANALITICI E SFIDE DELL’IMMAGINE IN CLAUDE LEVI-STRAUSS Un oggetto reso vivo dall’atto rituale non funziona come un’immagine a specchio, ma genera una forma più complessa di identità, paragonabile a quella di un cristallo. Il gioco mentale di trasformare un oggetto in persona segue diversi passaggi. La trasformazione progressiva delle indicazioni della presenza dell’oggetto, la saturazione dello spazio di pensiero che lo circonda, la definizione reciproca dell’oggetto e del suo soggetto e infine l’identificazione, sempre frammentaria e parziale, delle diverse soggettività con aspetti specifici dell’oggetto, costituiscono l’universo del gioco sinora studiato di attribuzione di soggettività all’oggetto inanimato. Qui andremo ad individuare alcune forme specifiche che il gioco di attribuzione di vita agli oggetti ha assunto nell’arte occidentale. studieremo in particolare due forme di spazio: lo spazio chimerico e lo spazio in prospettiva → che assoceremo alla forma di magia che esso implica: la parvenza di vita attribuita all’opera. TESI di Levi-Strauss sull’arte, in particolare per quanto riguarda lo statuto dell’arte astratta. Pensiero selvaggio → riconosceva l’arte come uno dei grandi temi soggetti alla riflessione antropologica, proprio come il mito, il gioco o il rituale. Mira a definire il prototipo, sempre e dovunque nell’opera d’arte. Negli anni 50 del 900 Breton→ Arte magica, fondatore del surrealismo, oppone una conoscenza lirica universale che consente una comprensione diretta di qualsiasi arte. Secondo lui, l’arte, sia essa primitiva o moderna, quali che siano tempi e luoghi, risponde a un istinto legato alla perennità di certe aspirazioni umane di ordine superiore. La magia risponde alle stesse aspirazioni della pratica d’arte e ha con essa rapporti stretti: ovunque l’opera d’arte obbedisce a leggi proprie, trae la propria origine dalla magia stessa. Afferma che il visibile sia manifestazione dell’invisibile. L’istinto che spinge alla manipolazione magica del mondo rimane vivo dappertutto. Alle domande poste da Breton Levi-Strauss rispondeva con una serie di riflessioni → bisogna qualificare la magia come un sistema d’operazioni e credenze che attribuiscono a certe azioni umane lo stesso valore delle cause naturali. Secondo l’estetica primitivista, che postulava l’universalità del linguaggio dell’arte, qualsiasi oggetto poteva essere compreso indipendentemente dal significato che rivestiva nella società in cui era stato concepito. Nel XIX secolo l’etnocentrismo occidentale aveva seriamente messo in discussione l’universalità dell’arte. Levi-Strauss definisce un concetto di stile che amplia incredibilmente la questione dell’analisi delle forme. Così, l’insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile ed è grazie allo stile che possiamo riconoscere che tali costumi compongono dei sistemi: questi sistemi non esistono in numero illimitato e le società umane non creano mai in modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale agevolmente ricostruibile. La sfida dell’universalità dell’arte come luogo di esplorazione del pensiero formale è quindi lanciata: se l’analisi strutturale è correttamente svolta, lo studio di una maschera amerindiana deve essere in grado di rivelare elementi astratti che potranno essere applicati ad altre manifestazioni artistiche. Levi-Strauss ammette che ogni arte è legata all’emozione estetica e riconosce che anche questa esperienza possa essere universale. LA RIDUZIONE IN SCALA → modelli di formato in ridotto. Prende come esempio il quadro di Coluet – ritratto di Elisabetta d’Austria, cos’è che rende efficace un’opera? Quel quadro mostra, in modo straordinariamente fedele, un modellino del mondo. Il modellino come prototipo d’opera d’arte. Per conoscere l’oggetto reale nella sua totalità, Levi-Strauss osserva che tendiamo sempre a partire dalle sue parti. Con un solo sguardo si ha l’insieme prima di comprenderne gli elementi che ne compongono il funzionamento. Questo modello ridotto del mondo presenta un’altra caratteristica: è esplicitamente costruito. Per L-S dunque non è una semplice proiezione, passiva, ma costituisce una vera e propria esperienza sull’oggetto. Questo duplice approccio consente di spiegare il potere attribuito alla rappresentazione plastica e la tentazione di assegnarle una soggettività. In questo modo possiamo meglio cogliere che cosa possa essere la magia dell’opera d’arte. È un processo specifico di interpretazione dell’immagine che porta alla costituzione di una soggettività. L’opera d’arte, sia una statuetta, un disegno o un dipinto, può acquisire una personalità prossima a quella di un essere umano. Se ne conclude che l’idea di una vita associata all’immagine non è una semplice credenza esotica, provenienti da paesi lontani o primitivi, è al contrario una delle radici universali dell’esperienza estetica. Al posto dello sguardo immediato, facente appello al lirismo privo di analisi esercitato da Breton, Levi-Strauss propone di valutare, per ogni immagine inventata, l’operazione mentale che comporta. → Ciò che è vero per un idolo africano o una mazza polinesiana può anche servire a illuminare l’arte europea. Si potrebbe obiettare che questo modello esplicativo, basato sull’imitazione della natura, non possa essere applicato sull’arte astratta. Levi-Strauss si espresse duramente contro l’arte non figurativa considerata da lui accademica e votata alle imitazioni realistiche di modelli inesistenti. . il problemma della rappresentazione astratta non è peculiare dell’arte moderna né della tradizione occidentale. Come può essere immaginata la magia di un’arte astratta? Quale costituzione della soggettività rende possibile? Di quale universo può rappresentare il modello ridotto? Kandinskji → Quadro con arciere → ha segnato una tappa fondamentale nella nascita dell’arte stratta. A partire dagli anni 10 del 900 l’oggetto della rappresentazione subì una trasformazione radicale. Non si ha più come riferimento il mondo esterno. ADOLF HILDEBRAND → qualsiasi percezione dello spazio e del movimento presuppone un’esperienza della forma, di fronte a questa esperienza il soggetto riveste un ruolo minore. Il soggetto diviene quasi inutile per l’esperienza estetica. È lo spazio → la percezione della luce, il rapporto tra superficie e volume, il movimento che sorprende gli oggetti in una strana immobilità – a decidere la natura della rappresentazione. Kandinskij e i suoi compagni propongono un cambiamento radicale nell’interpretazione dell’esperienza estetica → se ciò che conta in un’opera d’arte non è il soggetto, ma l’esperienza della forma che essa implica, perché non immaginare un’arte che prenda questa stessa esperienza come soggetto della rappresentazione? Per l’arte spirituale (astratta) di Kandinskij il mondo non è più il soggetto rappresentato, quello a cui l’artista deve mirare è l’atto mentale che la percezione del mondo presuppone. Nel Ritratto Elisabetta d’Austria il colore anima ancora, secondo il modello estetico tradizionale, uno spazio rappresentativo essenzialmente definito dal disegno. Nel Quadro con arciere Kandinskij opera un’inversione della funzione tradizionale del colore. Qui la funzione fondamentale del disegno viene messa in discussione, i ritmi che governano la percezione del paesaggio, espressi in termini cromatici, investono pienamente il soggetto della rappresentazione che il tradizionale equilibrio tra forma e lo sfondo dell’immagine inverte. Il concetto di forma implica la delimitazione come processo mentale → la forma si oppone al colore, la linea delimita. È la marcatura del contorno ad assumere il ruolo di motore della percezione dello spazio e dell’equilibrio dinamico tra la forma e lo sfondo. Nel Quadro con arciere nulla distingue i due piani → in distinzione tra paesaggio e soggetto segna la natura dello spazio. Luce e colore dominano. Il soggetto qui è difficile da percepire, dall’altra parte lo sfondo cromatico svolge pienamente il ruolo della forma, poiché costituisce il vero supporto dell’esperienza estetica dello spazio. È il colore che rivela la forma quale spazio, movimento e luce. È un’opera astratta non perché si riferisce ad un reale inesistente, ma perché il soggetto viene evocato solo come episodio, è un contenuto privo di una pertinenza diretta alla percezione dell’opera. Qui troviamo una riflessione sullo sguardo, indissociabile dal colore. Levi-Strauss osserva che dal punto di vista dell’antropologo la differenza tra l’arte occidentale e l’arte primitiva non riguarda né l’evoluzione delle tecniche, né la differenza di stile, essa rimanda al contrario alla natura del modello rappresentato attraverso l’opera → si può parlare di arte primitiva in due sensi: sia che l’insufficienza di abilità e mezzi tecnici impedisca all’artista di adempiere lo scopo proposto, di imitare il modello, dunque si limita a significarlo, sia che il modello presente nella sua mente, essendo sopranaturale, sfugga a modelli sensibili. Turner → ombra e tenebra (la sera del diluvio) e luce e colore (il mattino dopo il diluvio) → fa riferimento alla teoria dei colori di Goethe (colori caldi sentimenti vivaci, colori freddi inquietudine). In entrambe le composizione gli indici grafici sono ridotti, quasi inesistenti. I colori freddi segnano la distanza, quelli caldi la vicinanza. L’attrazione emanata dai colori freddi portano lo sguardo sullo sfondo, si contrappone poi al bagliore che emana dalle parti più luminosa. Si serve della teoria di Goethe per affrontare il problema di come affrontare le condizioni alle quali la luce riflessa diventa immagine? Si tratta per lui di immaginare uno spazio sferico nel quale le indicazioni sulla superficie piana diventano indice di profondità , usando esclusivamente il colore. Il metodo di Turner consiste nel giocare sull’influenza reciproca di colori primari in modo che la sfumatura non si produca sulla tela ma direttamente nell’occhio dell’osservatore. Non è più l’artista a produrre tutti i colori ma lo sguardo dell’osservatore che genererà almeno in parte i colori secondari. La nostra analisi dello spazio astratto e della sintesi mentale del colore che esso presuppone ci porta a individuare tre principi antropologici di intelligibilità delle immagini: - Lo studio delle operazioni mentali coinvolte nella rappresentazione iconica (e i processi di formazione della soggettività che queste operazioni implicano - La definizione dell’universo discorsivo che le è peculiare - La creazione di serie iconografiche che costituiscono, secondo la formula di Levi-Strauss, altrettante soluzioni visive ai problemi logici dati. lettura spaziale dell’apparenza che si compie inconsciamente e orienta così la posizione del corpo e dello sguardo. Juan de Flandes → dipinge una serie di composizioni in cui san Michele in armi, coperto da una corazza di metallo nera, schiaccia sotto i piedi un animale mostruoso. Sulla superficie della corazza, che riflette la luce, Juan dipinge visioni dell’Apocalisse → campi di battaglia devastati e città incendiate sembrano affiorare dallo spazio in cui si trova l’osservatore. Nuovo rapporto tra lo spazio della finzione e la posizione occupata dall’osservatore. La città incendiata si trova dietro alle spalle dell’osservatore → secondo fuoco della rappresentazione che l’immagine nello specchio pone all’esterno del quadro. GIOCHI RIFLESSIVI. Immagine ambigue e chimerica ELMO DI FILIPPO V DI MACEDONIA 300/350 a.C. → a prima vista si tratta di un’immagine multipla: sulla punta dell’elmo compare un animale mitico, un cavallo alato con un becco da uccello, probabilmente associato al culto di Perseo. Intorno al volto, nell’area liminale (che include la fronte e le sopraciglia), vi è inciso i contorni delle sopraciglia e traccia della capigliatura → segnano il confine tra l’oggetto e la persona di cui è significata la presenza → i capelli appartengono al giovane guerriero che avrebbe indossato il casco. Il principale effetto è quello di rendere percettibile uno spazio vuoto. Se si concentra lo sguardo sul contorno ad apparire nello spazio vuoto è un indice della sua presunta presenza. Abbiamo qui due radicali trasformazioni rispetto agli esempi di rappresentazione doppia o composita che abbia evocato. Da una parte non c’è alcun raddoppiamento dell’immagine, la rappresentazione plurale è sempre composta da un’immagine da vedere e una a pensare. Dall’altra parte, l’emergere della testa invisibile del giovane guerriero, anche se implicita, non appare come una discrepanza marginale rispetto a un modello di organizzazione spaziale che, come la prospettiva, possiede un’esistenza indipendente. Come in tutti gli esempi di rappresentazione chimerica presi in causa qui la pluralità è il principio stesso dell’organizzazione spaziale che orienta l’esercizio della percezione e della proiezione. Il legame tra il visibile e l’invisibile coincide con la definizione stessa dello spazio: senza questa pluralità di sguardo non potrebbe esistere alcuno spazio liminale tra ciò che si mostra alla vista e ciò che viene inferito. Ciò che caratterizza questa rappresentazione e la rende pienamente chimerica è il rimando, grazie a un’indicazione iconica frammentaria, a una presenza costruita per indici, che diventa immagine solo quando l’occhio la proietta. È chimerica qualsiasi immagine che, designando attraverso una singola rappresentazione un essere plurale, attiva, mediante mezzi puramente ottici o con una serie di inferenze, le sue parti invisibili. QUESTIONE MORFOLOGICA → dal punto di vista morfologico, la caratteristica di questo stile di rappresentazione è un principio organizzativo dello spazio che, pur innescando diversi tipi di proiezione, rende lo scarto tra forma offerta alla vista e la forma che le è ascritta il mezzo di dare vita a una specifica illusione. A una tipologia di iconografie qui si preferisce una tipologia degli spazi, definendola come l’insieme delle forme possibili della relazione tra forma e sfondo, che si stabilisce attraverso la semplice visione o per inferenza. QUESTIONE LOGICA → dal punto di vista logico, riserviamo il termine chimerico alla specifica articolazione che si determina tra la rappresentazione iconica e l’indicazione indessicale (visiva o tattile, o realizzata con altri mezzi) di una presenza la cui modalità di esistenza è soprattutto mentale e non materialmente realizzata. È un’immagine ascritta dal pensiero. QUESTIONE ESTETICA → dal punto di vista estetico, lo spazio chimerico non è caratterizzato da un rapporto di incassatura stabile tra percezione e proiezione, come accade per la rappresentazione simbolica nel quadro della prospettiva, né da uno slittamento per cui il quadro della percezione diventa l’oggetto stesso della proiezione. È piuttosto un rapporto instabile, ma per niente affidato al caso, di complementarietà alternata fra il tema iconografico e il suo spazio liminale. ILLUSIONE SENZA PROSPETTIVA → non più basato sulla percezione di una profondità, ma piuttosto sull’apprendimento dei limiti e delle possibili relazioni che possono emergere da una determinata immagine. Una chimera non rappresenta esseri, ma relazioni possibili, o concepiti come tali, tra di loro. L’idea della rappresentazione chimerica non si inserisce in una tipologia iconografica, ma in una logica delle relazioni iconografiche, che viene impiegato tanto nelle immagini, quanto negli atti dello sguardo che comportano. Yekwana e Wayana: chimere in Amazzonia La concezione iconografica degli Wayana è molto vicina a quella degli Yekwana. Anche per loro una rappresentazione iconografica è sempre organizzata intorno a modelli geometrici semplici. L’universo di queste rappresentazioni riguarda soltanto il racconto mitologico, il suo commento e la sua memoria. Tuttavia si distingue da quella degli yekwana per la complessità del discorso che sviluppa in merito alla rappresentazione visiva. Per i Wayana un tema geometrico non è soltanto il segno o l’emblema di un essere mitologico. Esso è anche il riflesso di una specifica conoscenza, chiamata wayaman, che è metaforicamente collocata nella pupilla di colui che conosce la tecnica dei vimini. Il wayaman è la figura rovesciata di uno spirito in forma umana che si presenta nella pupilla di colui che fabbrica un oggetto e costituisce il vero autore di quell’oggetto → guida la sua mano, questo oggetti si rivela soltanto quando è stato fatto seguendo la tecnica tradizionale. È quando la forma è compiuta che l’oggetto rivela la sua vera natura e si mostra simile a un essere vivente. Secondo la loro tradizione gli oggetti, gli esseri umani e non possono condividere la medesima decorazione, assumono la stessa pelle → per questo, in particolare gli oggetti di uso rituale, sono considerati come repliche di esseri ancestrali predatori, i cui modelli sono l’anaconda, il giaguaro o l’avvoltoio. Grazie a questa identità gli oggetti possono agire come fanno i predatori. Proprio perché possono portare sulla pelle grafismi simili sono dotati di parola, movimento o sesso. Nell’universo wayana l’identificazione tra esseri umani e oggetti non è fondata su una somiglianza diretta, quanto piuttosto sull’idea che ogni essere vivente sia definito da una decorazione o un disegno specifico, che rappresenta sia la pelle, che il suo emblema e il suo nome visivo. La produzione di qualsiasi individuo implica la produzione di una nuova pelle. Tutto ciò che nel loro universo esiste è coinvolto in un costante processo di trasformazione, in qualunque momento qualsiasi essere può assumere la pelle di un altro, talvolta di più esseri contemporaneamente. L’idea della potenziale incessante trasformazione è molto diffusa. Tra gli Yekwana si esprime attraverso la contrapposizione di Wanadi e di Odosha, il bene e il male. I Wayana condividono quest’idea di una dualità originaria degli esseri → si dividono in predatori e non- predatori. Ma non si tratta, come per gli yekwana, di esseri individuali, dotati di una personalità distinta. Essi distinguono diverse modalità di esistenza che possono caratterizzare qualsiasi individuo. Questa categorizzazione è anche lessicalizzata nella lingua → esempio dell’anaconda che rappresenta uno dei modelli predatore: può essere applicata a qualsiasi altra specie animale che manifesti istinti di predazione → l’anaconda porterà il nome e la pelle di quei animali. Si applica il suffisso okoin che significa in quanto anaconda al nome di una particolare specie → tucano in quanto anaconda → koime (kiapo e okoin). Questo è un esempio di chimere verbali → designa esseri multipli e mutevoli, in ragione del suffisso comune che ne rivela la categorizzazione. Gli Wayana passano dalla rappresentazione individuale degli esseri degli yekwana alla serie → esempio rappresentano con lo stesso grafismo, la freccia, tutto ciò che è in grado di pungere, perforare, ecc. Un tema grafico wayana può essere multiplo e riferirsi a diversi esseri contemporaneamente. L’iconografia wayana conosce anche il caso opposto: alcune serie di disegni indicano, collettivamente un solo essere. I nomi tradotti in termini visivi attraverso temi grafici operano, tra i wayana, come definizioni verbali che chiamano in causa vari nomi di specie. Dal punto di vista della memorizzazione dei nomi, si stabilisce un duplice processo: o un singolo tema grafico rappresenta il nome visivo di una serie di esseri, riuniti per l’occasione in un’unica classe attraverso l’utilizzo di criteri tassonomici distinti, o una serie di temi grafici, disposti in sequenza ordinata, illustra la serie di trasformazioni che delineano la vera natura di un solo essere. CAPITOLO OTTAVO LA PARVNZA DI VITA EPISTEMOLOGIA DELLA PROSPETTIVA OCCIDENTALE Il tema di una vita attribuita all’opera d’arte domina tutto il Rinascimento italiano. LEON BATTISTA ALBERTI → ogni dipinto che adotti il metodo della prospettiva deve far percepire il parer vivo. Se l’artista riesce nell’intento non solo farà percepire una corretta immagine della realtà, ma anche i moti degli animi che provano la presenza di vita. Il parer vivo non deve essere confuso con le regole geometriche, né con la decifrazione della profondità. Per Alberti la prospettiva è prima di tutto una scienza che applica le leggi dell’ottica e della geometria alla rappresentazione dello spazio. Realizza una verità visiva e partecipa dello stesso ideale della scienza moderna. Al contrario il parer vivo è una particolare forma di illusone → indica l’illusione della prospettiva, l’effetto di realtà che è in grado di provocare e che comprende non solo la costruzione di uno spazio verosimile, ma anche una percezione di una vita delle figure. Questi due aspetti sono legati. Le nostre analisi, in prima battuta dedicata all’arte astratta e poi allo spazio chimerico, ci ha portati a individuare tre principi antropologici di intelligibilità delle immagini: - Lo studio delle operazioni mentali coinvolte nella rappresentazione iconica e nei processi di costituzione della soggettività che queste operazioni presuppongono - La definizione di un loro specifico universo del discorso - La creazione di serie iconografiche che costituiscono, secondo la formula di Levi-Strauss, soluzioni visive a problemi logici. La prospettiva come forma simbolica. A partire dal trattato di Alberti l’idea di apparenza della vita è inerente al concetto stesso di prospettiva. Nella nostra analisi ci soffermiamo prima di tutto sulla prospettiva come un modello scientifico di conoscenza del reale per studiare poi lo statuto di illusione che innesca. Una scienza della descrizione: imitare e ritrarre Panofsky → la nascita della tecnica della prospettiva segna il passaggio da una tradizione artigianale, per lo meno in occidente, a una riflessione scientifica. Questo passaggio è stato realizzato in due tempi: primo avviato da Brunelleschi, poi con Alberti che pubblica il primo trattato sistematico dedicato alla prospettiva → descrive con precisione le regole geometriche che presiedono alla descrizione dello spazio, fascio di linee rette a partire da un punto centrale. Il parer vivo di cui parla Alberti è un principio filosofico, concetto
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