Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

l-ordinamento-della-cultura-manuale-di-legislazione-dei-beni-culturali, Sintesi del corso di Diritto dei beni culturali

legislazione dei beni culturali

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 31/07/2019

Enzfar
Enzfar 🇮🇹

4.6

(13)

23 documenti

1 / 36

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica l-ordinamento-della-cultura-manuale-di-legislazione-dei-beni-culturali e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dei beni culturali solo su Docsity! ARTICOLO 9 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA “La repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico nazionale”. L'articolo in esame costituisce la sede di alcuni beni e valori rilevanti che interessano e definiscono il rapporto fra uomo e natura. A questa norma si è spesso richiamata la Corte costituzionale per legittimare il valore dell'ambiente, da intendersi come bene primario e valore assoluto cui si ricollegano interessi non solo naturalistici e sanitari, ma anche culturali, educativi e ricreativi. La nozione di ambiente concentra e unifica discipline settoriali quali la gestione dei rifiuti, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche, la difesa del suolo, la tutela dell'aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera, gli strumenti rivolti alla tutela degli equilibri ecologici quali la valutazione di impatto ambientale o il risarcimento del danno ambientale. In questa accezione la tutela dell'ambiente trova esplicito riferimento nell'art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Il paesaggio identifica l'ambiente visibile, vale a dire gli aspetti del rapporto fra uomo e natura che si estrinsecano nella forma del territorio. Infine, i beni culturali, che compongono il patrimonio storico e artistico nazionale, sono tutti quei beni mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e gli altri beni individuati dalla legge come testimonianze aventi valore di civiltà. La Carta Costituzionale contiene, all'interno dei primi dodici articoli, i principi fondamentali dell'ordinamento repubblicano. A differenza di altre Costituzioni straniere, tali principi sono inseriti direttamente nel testo della Carta fondamentale, senza cioè essere relegati in una sezione separata, al fine di evitare qualsiasi dubbio su efficacia e applicabilità. La norma costituzionale in esame sancisce il principio culturale ed ambientalista cui lo Stato deve tendere. Essa è posta in simbiosi con l'art. 117, che attribuisce alle Regioni la promozione, l'organizzazione delle attività culturali e la ricerca scientifica e tecnologica. La Costituzione proclama l'assoluta libertà della cultura, in tutte le forme in cui si esprime, e l'autonomia delle strutture che si dedicano alla promozione della stessa o alla ricerca scientifica e tecnologica. L'intervento dei pubblici poteri non può intaccare la libertà di cultura o ricerca, poichè solo salvaguardando tale libertà è possibile indirizzare il progresso del Paese verso la promozione dell'uomo, come richiesto dal principio personalistico che permea l'intera Costituzione. L'attività di ricerca, d'altra parte, è indispensabile per rinnovare i contenuti dell' insegnamento, favorire l'elevazione professionale dei lavoratori e assicurare una sempre più adeguata sicurezza sociale e sul lavoro. La Repubblica deve sempre trovare un equilibrio costituzionalmente compatibile con la libertà della cultura e della ricerca, evitando che queste ultime siano soggette a direttive e imposizioni del potere politico o si sgancino dal contesto della società e dei suoi problemi. Troviamo nella norma due principi fondamentali: • la tutela del paesaggio e dei beni culturali ed ambientali, grazie ai quali la Repubblica si deve attivare per permetterne lo sviluppo e la promozione. La tutela del paesaggio consiste nella regolazione degli interventi, della costruzione del paesaggio, nella scelta fra i diversi interessi e le diverse possibilità di uso e di destinazione (PREDIERI). I beni culturali ed ambientali devono essere preservati e valorizzati, consentendone la massima fruibilità e la promozione da parte dello Stato; • la promozione e lo sviluppo della cultura e della ricerca, tramite la valorizzazione del progresso culturale, scientifico e tecnico del Paese, salvaguardando la libertà dell'arte e della scienza. Assemblea Costituente della Repubblica Italiana Fu l'organo legislativo elettivo preposto alla stesura di una Costituzione per la neonata Repubblica e che diede vita alla Costituzione della Repubblica Italiana nella sua forma originaria. Le sedute si svolsero fra il 25 giugno 1946 e il 31 gennaio 1948. Il 2 giugno 1946 si celebrarono le prime libere elezioni, in seguito al ventennio di dittatura fascista che aveva interessato il Paese a partire dal 1924. Ebbero diritto di voto tutti i cittadini italiani maggiorenni (cioè, all'epoca, d'età superiore a 21 anni) di ambo i sessi. Vennero consegnate contemporaneamente agli elettori una scheda per la scelta fra Monarchia e Repubblica, cosiddetto Referendum Istituzionale, e una per l'elezione dei deputati dell'Assemblea Costituente, a cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale, come stabilito con il Decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 16 marzo 1946. Al referendum istituzionale la maggioranza dei votanti scelse la Repubblica con circa 12.700.000 voti, contro i 10.700.000 per la monarchia. Il 18 giugno 1946 la Corte di Cassazione nella Sala della Lupa a Montecitorio ufficializzò i risultati del Referendum. La proclamazione formale della Repubblica, invece, non ebbe luogo. Il Decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 16 marzo 1946 apportava modifiche e integrazioni a quello precedente n. 151 del 25 giugno 1944. Mediante quest'ultimo era concessa al popolo italiano la facoltà di eleggere "una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato". L'elezione era prevista dopo la liberazione e avrebbe dovuto svolgersi "a suffragio universale diretto e segreto". L'assemblea però aveva anche altri tre compiti: votare la fiducia al governo, approvare le leggi di bilancio e ratificare i trattati internazionali. Diversamente dal Parlamento istituito dalla Costituzione repubblicana, i 2 decreti luogotenenziali non obbligavano il Governo a sottoporre i propri provvedimenti al voto dell'Assemblea. Anzi, l'approvazione era di volta in volta rimessa alla discrezione del potere esecutivo. Il Decreto n.151 del 1944 fu invocato da Umberto di Savoia, Luogotenente Generale del Regno, come fondamento giuridico della sua autorità per l'approvazione degli stati di previsione di bilancio dell'entrata e della spesa finanziaria dei Ministeri e delle Amministrazioni autonome. Per quanto normato "sull’ordinamento provvisorio dello Stato", la Costituzione promulgata il 27 dicembre 1947 recita che "con l’entrata in vigore della Costituzione si ha per convertito in legge il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151". I risultati elettorali dei Partiti Le consultazioni videro il successo dei tre grandi partiti di massa del tempo, la somma dei cui voti raggiunse circa il 75%: La Democrazia Cristiana, partito di centro, ottenne la maggioranza relativa col 35% dei voti, e i partiti di sinistra, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e il Partito Comunista Italiano che raggiunsero insieme quasi il 40% dei voti. Nettamente minoritario si rivelò il peso della destra, divisa tra liberali (Unione Democratica Nazionale), qualunquisti ( Fronte dell'Uomo Qualunque) e monarchici (Blocco Nazionale della Libertà). Le elezioni sancirono comunque la presenza di altre culture politiche fra cui, oltre ai partiti precedentemente menzionati, il Partito Repubblicano Italiano e il Partito d'Azione. Il 25 giugno 1946 venne insediata l'Assemblea Costituente con Giuseppe Saragat alla presidenza. Come suo primo atto, il 28 giugno elesse Enrico de Nicola come Capo provvisorio dello Stato. L'Assemblea Costituente votò la fiducia ai Governi De Gasperi II, III e IV (1946-48), approvò le leggi di bilancio per il 1947 e il 1948 e ratificò i trattati di pace firmati a Parigi il 10 febbraio 1947. Roma, Il potere politico e le distorsioni della prassi La traduzione nella prassi di quanto enunciato non si è mai compiuta per intero. L’esperienza dell’intervento pubblico in materia culturale presenta infatti zone d’ombra, innanzitutto in merito all’ausilio degli esperti. Il principio dell’autonomia della cultura imporrebbe non solo d’affidargli per intero ogni valutazione di pregevolezza artistica e scientifica, ma imporrebbe anche che gli esperti venissero designati da altri esperti. Succede invece che la loro nomina sia quasi sempre ad opera della politica. Anche per il finanziamento pubblico alle attività cinematografiche opera una sola commissione, i cui membri sono tutti designati dal ministro, che esercita anche funzioni di vigilanza e d’indirizzo sull’Ente teatrale italiano. Anche la periferia del resto coltiva a propria volta gli stessi vizi del centro. Ad esempio, una legge regionale del Molise ha istituito un Comitato tecnico-scientifico per le attività culturali, affidandone la nomina alla Giunta regionale. La Basilicata vara un importante premio culturale, ma ancora una volta la commissione che lo assegna è composta da politici e da esperti designati da politici. È chiaro, dunque, constatare come, a livello di prassi, la politica eserciti il suo potere aldilà dei limiti espressi. LA LIBERTA' DELL'ARTE E DELLA SCIENZA Definizioni e inquadramento costituzionale La libertà dell’arte e della scienza conosce due principali poli di attrazione costituzionale: l’art.9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, e tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione”) e l’art.33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). È innanzitutto estremamente difficile, però, definire arte e scienza. Secondo le opinioni prevalenti, l’arte non è più traguardo dell’eccezionale, del sublime, ma apertura interpretativa dell’immaginazione individuale a una molteplicità di significati possibili. La scienza invece è data da quel complesso di attività volte a riconoscere la realtà secondo regole che verificano i risultati delle ipotesi formulate. Così le nozioni non potranno che essere aperte a un vasto ventaglio di definizioni, specialmente all’interno dell’ordinamento giuridico. La scienza raggrupperà tutto quel sapere in grado di illuminare l’uomo nella conoscenza di sé e della realtà che lo circonda, mentre l’arte raggrupperà ogni manifestazione creativa in grado di rappresentare l’evoluzione intellettuale delle generazioni umane. Per cui l’arte e la scienza più che bisognose di tutela in sé, hanno necessità di essere assicurate e garantite nelle loro divulgazioni e nel loro insegnamento. Inoltre l’attività per conseguire un’espressione artistica originale va non solo tutelata (libertà da), ma anche promossa e incoraggiata dalle pubbliche autorità (libertà di). I limiti alla libertà artistica L’intervento pubblico chiesto dall’art.9 presuppone un’intromissione nella crescita della vita culturale, mentre l’art.33 sancisce che l’arte e la scienza sono libere. Tale proclamazione di libertà sostanzialmente vieta la formazione di un’arte o d’una scienza ufficiali, “di Stato”, tali da venire condizionate nella loro libera espressione. Il riconoscimento di questa libertà spetta a tutti, ne è garantito tanto il profilo positivo che negativo (creare o non creare opere d’arte, effettuare studi o rifiutarsi di farlo), come ne è garantita anche la tutela dei risultati. Non è previsto all’interno dell’art.33, invece, il limite del buon costume sancito dall’art.21. Forse ciò è dovuto al fatto che il fine estetico esclude a priori una perversione dei costumi, senza contare che il linguaggio osceno rappresenta solo una delle molteplici chiavi di lettura. In definitiva, l’arte non può essere oscena, anzi apre alla promozione più alta dei valori umani. I limiti alla libertà scientifica La scienza non è fatta solo di ricerca teorica, ma anche di sperimentazione pratica, divulgazione dei risultati ottenuti, sfruttamento commerciale, ecc. È chiaro che l’assoluta libertà di ricerca può riguardare solo la teoria, mentre nella sperimentazione delle ipotesi scientifiche si devono tenere in conto altri principi, come il valore primario della persona (vi sono garanzie per i singoli per sperimentare nuovi farmaci). Gli interventi di sperimentazione dovrebbero sempre avvenire legalmente, ma ciò non sempre è stato rispettato in passato. Fino a pochi anni fa era difficile individuare norme che limitassero la libertà della scienza: non è un caso che il primo decreto legislativo che poneva limiti alla ricerca scientifica fu quello del 22 gennaio 1992, sulla protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali. La situazione è cambiata oggi con la diffusione delle biotecnologie, quel complesso di tecniche scientifiche che si servono di sistemi biologici e organismi viventi al fine di ottenere beni o servizi utili al soddisfacimento dei bisogni della società. Si tratta di traguardi avanzati che hanno suscitato nella scienza giuridica una miriade di problemi (diritti di quarta generazione). Tuttavia non sono ancora stati elaborati con precisione essendo un fenomeno molto recente: i diritti di quarta generazione sono quelli relativi al campo delle manipolazioni genetiche, della bioetica e delle nuove tecnologie di comunicazione. La nascita di questi nuovi diritti è una conseguenza della scoperta e della minaccia di nuove tecnologie. Si pensi ai danni che possono causare alla salute i cibi geneticamente modificati, oppure ai pericoli in cui possono incorrere specialmente i bambini utilizzando internet. Essendo una nuova categoria occorrerà un po’ di tempo perché questi diritti vengano formulati con precisione ed ufficializzati. La frontiera delle biotecnologie La questione ha dapprima riguardato gli organismi geneticamente modificati. Non conoscendosi ancora gli esiti della loro commercializzazione il legislatore deve imporre misure di precauzione e di cautela. La nuova frontiera delle biotecnologie è costituita soprattutto dalla sperimentazione sugli embrioni umani. Oggi l’art.13 della legge del 2004 n°40 vieta qualsiasi sperimentazione sugli embrioni umani. La ricerca clinica e sperimentale è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute. Sono vietati: la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o sperimentazione e interventi di clonazione. La violazione del divieto di sperimentazione sull’embrione è sanzionata con la reclusione da due a sei anni ed è inoltre disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale sanitario. La libertà d’insegnamento L’insegnamento è l'attività attraverso cui il docente divulga e trasmette cultura; l’istruzione è quell’insieme di insegnamenti organizzati e coordinati al fine di rendere istruiti i discenti; la scuola è quell’apparato organizzativo composto da elementi materiali, tecnici e soprattutto personali in cui l’insegnamento si esplica. L’insegnamento è strumento per il conseguimento dell’istruzione; ad esso si affianca lo studio e la ricerca; mentre l’istruzione si consegue anche all’esterno delle scuole. La libertà riguarda sia i metodi che i contenuti dell’insegnamento che è personale, individuale e irrinunciabile. Libertà del docente significa non solo garanzia per il singolo insegnante ma anche per l’insegnamento in sé. Tuttavia quando si svolge nell’ambito scolastico, l’insegnamento deve rispettare gli obiettivi del legislatore. Il docente non può avere libertà di non insegnare. Oltre alla libertà del docente, va poi tenuta in conto la libertà del discente. Quindi il docente ha diritto a una libertà di pensiero, ma non di propaganda, e ha l’obiettivo di formare una coscienza individuale critica, aperta e libera, nello studente. La cultura in altre parole deve liberare e non incatenare. Diritto all’istruzione e diritto allo studio La Costituzione affida alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, fissando regole dirette a tutte le istituzioni scolastiche, sia pubbliche che private. Ma le attribuisce pure l’obbligo di garantire l’istruzione mediante l’istituzione di scuole statali per tutti gli ordini e gradi. L’istruzione non può essere lasciata ai privati: è obbligo delle istituzioni assicurare una effettiva capacità di scelta alle famiglie. Principio cardine è l’uguaglianza nell’accesso alla scuola (divieto di discriminazioni per sesso, handicap, ecc). Altra espressione del diritto di uguaglianza è il diritto all’istruzione, oggi proclamato dall’art.14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui l’istruzione inferiore (obbligatoria e gratuita) deve essere impartita per almeno 8 anni. Inoltre i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a conseguire più alti gradi di studi (es: borse di studio). Il diritto all’istruzione va garantito malgrado ogni possibile ostacolo: l’istruzione obbligatoria è gratuita; l’istruzione superiore è garantita anche a chi, capace e meritevole, sia privo di mezzi economici. Il pluralismo scolastico Il principio del pluralismo scolastico ammette la coesistenza tra scuole pubbliche e private. Alle scuole private si assicura la parità riguardo i titoli rilasciati e anche la piena libertà di orientamento culturale e per l’indirizzo pedagogico-didattico (l’insegnamento va però improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione; inoltre le scuole devono comunque accogliere chiunque). Tale principio di libertà si estende anche alle università, che hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti delle leggi stabilite dallo Stato. Le università sono enti autonomi e ognuna di esse ha diritto di governarsi liberamente (autonomia riconosciuta dalla legge del 9 maggio 1989). La promozione dell’arte e della scienza. Il ruolo dei pubblici poteri L’azione dei pubblici poteri sulla cultura deve essere finalizzata ad estenderne gli spazi di realizzazione e a liberarla dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo. Dunque le istituzioni devono intervenire riguardo allo sviluppo delle espressioni culturali meno forti, traendone esiti neutrali. Quel che conta infatti non è la produzione di espressioni creative di eccellenza, bensì la condivisione di pari opportunità e di pari condizioni di partenza. Gli unici interventi promozionali non ammissibili in una democrazia costituzionale stanno in quelle attività creative che mostrino finalità antidemocratiche, in evidente contraddizione con i principi fondamentali della Costituzione (e queste possono solo non essere incoraggiate, ma non vietate). Per quanto concerne poi la scienza, si distingue tra ricerca scientifica libera (area in cui opera l’università attraverso docenti e ricercatori,) e ricerca strumentale (affidata ad enti che curano in maniera autonoma una ricerca scientifica destinata però ad obiettivi determinati: ad es. Enea). In conclusione, arte e scienza rientrano nella nozione di cultura di cui si occupa l’art.9: questa nozione partecipa al processo di formazione intellettuale del cittadino, e con la promozione di arte e scienza le istituzioni si prefiggono per l’appunto di formare cittadini colti. Le istituzioni dunque non solo sono tenute a preservare la memoria storica ereditata dalle epoche precedenti sotto forma di patrimonio culturale, ma devono anche far emergere nuove espressioni creative cui si manifesta l’identità delle generazioni contemporanee. I BENI CULTURALI  Nel diritto romano esistevano norme volte alla conservazione e alla tutela dei beni culturali, prevalentemente per finalità di pubblico servizio (esigenze economiche, religiose, estetiche). Ciò non implicava una consapevolezza del valore culturale di quei beni, ma il popolo era sempre più cosciente di dover difendere il proprio patrimonio. Nel 45 d.C. il senatusconsultum Hosidianum vietava l'acquisto di immobili a chi voleva demolirli per riutilizzare i materiali di costruzione. Nel 122 d.C. il senatusconsultum Acilianum vietava i testamenti che disponevano la separazione di elementi ornamentali. Ma l’eredità più sostanziosa lasciataci dal diritto romano in materia di legislazione sui beni culturali riguarda i due concetti di dicatio ad patriam e di deputatio ad cultum. – DICATIO AD PATRIAM: “servitù di uso pubblico”, “limitazione al diritto di proprietà”, tuttora operante nella legislazione dei beni culturali. Il proprietario di un bene culturale lo pone a disposizione della collettività (più che ai beni di carattere storico-artistico, si fa riferimento a terreni ed edifici). Si crea in questo modo il consolidamento e l'irrevocabilità della posizione del bene per garantirne l'accessibilità e la fruizione pubblica. La dicatio però, non sortisce alcun effetto traslativo del bene, il quale continua a restare di proprietà del soggetto privato. In ultima analisi, il Consiglio di Stato considera ammissibile anche l’acquisto per usucapione del diritto di uso pubblico da parte della collettività. – DEPUTATIO AD CULTUM: deriva dall’istituto della dicatio, ma ha una minore estensione di utilizzo collettivo. Suo tratto distintivo è l'uso culturale cui il bene è destinato. È un provvedimento ecclesiastico che richiede il consenso da parte del proprietario del bene all’uso religioso. Ha per oggetto opere d'arte con immagini sacre che venivano apposte su edifici pubblici o privati, e cappelle. Profili storici della legislazione sui beni culturali  Negli stati preunitari a partire dal 1500 il corpus di norme in materia di beni culturali diviene sempre più complesso ed articolato. A Roma si ebbero le prime e più significative forme di intervento sovrano, volte ad impedire la distruzione e la dispersione delle ricchezze dell’arte e dei resti archeologici. Vennero emanate norme che introducevano controlli e divieti in materia di conservazione e commercio di antichità e di oggetti d’arte. Si comprende allora che le prime misure di tutela del patrimonio culturale italiano risalgono agli stati preunitari e sono caratterizzate dalla preoccupazione di contrastare la spoliazione dei beni artistici ed archeologici, impedendone o almeno limitandone il trasferimento all’estero. Tuttavia la nascita della normativa di tutela sui beni culturali si può identificare in alcuni provvedimenti adottati in Toscana agli inizi del 1500. Già nel 1571 si vietava la rimozione di insegne e iscrizioni dei palazzi antichi. In Lombardia bisognerà attendere il 13 aprile 1745 perché fosse adottato un provvedimento che sancisse il divieto di esportare opere d’arte. I provvedimenti di salvaguardia adottati nel corso del 700 furono tuttavia di natura frammentaria e caratterizzati essenzialmente dalla necessità di impedire l'esportazione di opere artistiche e reperti archeologici di recente individuazione, con misure intervenute quando la maggior parte di tali beni aveva già irrimediabilmente preso la via dell’estero. Dove invece si ravvisa per la prima volta un provvedimento organico di salvaguardia di beni artistici e storici è nell’editto del cardinal Pacca, emanato a Roma, sotto il pontificato di Pio VII, il 7 aprile 1820: con esso furono disposte misure restrittive contro la spoliazione delle raccolte artistiche capitoline. Furono poi anche previste regole per la conservazione e il restauro dei beni, per la regolamentazione degli scavi nel sottosuolo, per la catalogazione degli oggetti d’arte situati nelle chiese ed edifici assimilati, prevedendone l’obbligo di denuncia alla Commissione delle belle arti, facendo così emergere un’idea nuova della politica di tutela dei beni culturali. La legislazione postunitaria Contrariamente alle aspettative, il conseguimento dell’unità d’Italia non rappresentò affatto un miglioramento delle forme di tutela dei beni culturali, anzi costituì un’inversione di tendenza rispetto alla prima metà dell’800: la dispersione dei beni culturali non si arrestò per nulla. Legge Nasi n.158 del 1902 Fu la prima legge organica dell’Italia unita riguardante i Beni ed istituiva un “Catalogo Unico” nazionale (opere artistiche e storiche dello Stato). Espressamente dedicata ai beni culturali, è del 1902 (n.185) conosciuta come “Legge Nasi” dal nome del Ministro della pubblica Istruzione in carica al momento dell’approvazione. Questa legge, oltre a definire la tutela dei monumenti e dei reperti archeologici, ancora oggi sorprende per gli spunti di interesse in essa rinvenibili che introducono temi attuali come: il limite dei 50 anni dalla produzione dell’oggetto perché la tutela potesse svolgere i suoi effetti, o il discusso concetto della cosiddetta “tutela indiretta” consistente nella possibilità di regolamentare, previo indennizzo, l’edificazione nelle vicinanze di monumenti tutelati. Con questa legge fu introdotto il diritto di prelazione a parità di offerta da parte dello Stato nella compravendita di beni oggetto di tutela e il divieto di esportazione per tali oggetti. Ma la legge Nasi, sia pur dalla portata innovativa, non fu efficace perchè conseguire un catalogo dei monumenti, ove includere tutti i beni da tutelare, era un'operazione troppo difficile qualora posta nei confronti di un patrimonio storico culturale come il nostro, lasciando tempi di attuazione assolutamente non sostenibili. Alla necessità di una disposizione legislativa si cercò di provvedere con un regolamento di attuazione che vide la luce nel 1904, ma che appariva anch’esso di difficile applicazione essendo più monumentale dei monumenti che doveva proteggere: fu istituito il catalogo nazionale dei beni culturali composto da ben 418 articoli, non sempre coerenti fra loro, e con cui veniva proibita l’esportazione delle opere in esso menzionate, se qualificate di “grande pregio”. Questa legge tuttavia ebbe vita effimera. Pertanto già nel 1906 venne costituita una commissione con l’incarico di dettare una nuova disciplina organica per la tutela dei beni culturali. Legge Rosadi-Rava n.364 del 1909 I lavori di questa sfociarono nella legge Rosadi-Rava del 20 giugno 1909, che ampliò l’ambito dei beni culturali includendovi anche i codici, i manoscritti, le stampe, ecc. Per quanto riguardava il trasferimento dei beni si stabilì l’inalienabilità (se appartenenti allo Stato ed enti pubblici e privati) e l’obbligo di denuncia per ogni trasmissione di beni appartenenti a privati; si sancì il divieto di demolizione, rimozione, modificazione e restauro, senza autorizzazione del ministro. L’incremento dell’azione di tutela si accentua nel corso del regime autoritario. Leggi Bottai del 1939 Nel 1939 vedono la luce due leggi volute dal ministro Bottai (legge 1089 e legge 1497) dedicate rispettivamente alle cose d’arte e alle bellezze naturali, e che colmano le lacune ereditate dalle frammentarie normative preunitarie. LEGGE 1089 - ha assicurato per 60 anni la protezione del nostro patrimonio, allargando la tutela amministrativa delle cose immobili o mobili di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico. Questa legge era mirata a reprimere usi impropri o illeciti del patrimonio artistico in proprietà privata. Essa estendeva il divieto di demolizione o restauro dei beni, senza prima l'autorizzazione del ministero, anche alle cose di proprietà privata. LEGGE 1497 - ammetteva l’espropriazione dei beni mobili e immobili qualora ci fosse un importante interesse in relazione alla conservazione o all’incremento del patrimonio nazionale. Con questa legge si interviene sulla protezione delle bellezze naturali e si inizia a pensare al paesaggio come a un bene da tutelare quanto un quadro. Va notato come queste norme esprimessero anche una particolare concezione del bene culturale: i beni tutelati si caratterizzavano per il pregio e la rarità e si distinguevano per la loro “non comune bellezza”. A causa della guerra le leggi Bottai vengono divulgate solo nel secondo dopoguerra; costituiscono l’unico strumento con cui si provano ad arginare i danni causati dalla speculazione edilizia. La legislazione repubblicana  Commissione Franceschini Nonostante la Carta costituzionale ricomprendesse tra i fini essenziali dello Stato la promozione e lo sviluppo della cultura, i pericoli non riguardano più solo la dispersione del patrimonio, quanto piuttosto l’espansione urbanistica incontrollata e un’insufficiente conservazione della raccolte pubbliche. Una nuova fase della politica culturale si aprì il 26 aprile 1964 con l’istituzione della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, artistico, archeologico e del paesaggio, la cosiddetta Commissione Franceschini. Essa pubblicò gli esiti dei suoi lavori registrando le condizioni drammatiche di deterioramento in cui versava il patrimonio culturale italiano: la devastazione degli antichi siti archeologici, l’insufficiente catalogazione dei beni storici ed artistici, la carenza di sicurezza e custodia nei musei, ecc. La commissione espresse diverse proposte d’intervento legislativo dando anche una definizione di bene culturale: ogni bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà. Purtroppo però, le esortazioni e i contributi della Commissione Franceschini non hanno dato i risultati pratici sperati. Nel corso degli anni 90 si realizzò un mercato interno senza frontiere per la libera circolazione (ci fu un regolamento delle esportazioni al di fuori dell’Unione Europea), oltre alla necessità di una nuova disciplina dei beni culturali, improntata all’apertura nei confronti della società civile e ad un modello di relazione cooperativa tra centro e periferia. Tra i vari provvedimenti, nel 1997 viene conferita autonomia organizzativa, scientifica, amministrativa e finanziaria alla sovrintendenza di Pompei ed fu costituita la Sibec (Società italiana per i beni culturali), avente ad oggetto la promozione e il sostegno di progetti finalizzati al restauro e alla valorizzazione dei beni. Passaggio importante di questa spinta riformatrice è costituito poi dal decreto legislativo del 29 ottobre 1999 che ha dettato il testo unico in materia di beni culturali e ambientali. A questo punto nuovi problematici scenari sono sorti con la legge del 2002 che ha istituito una società per azioni, la Patrimonio dello Stato Spa, alla quale possono essere trasferiti diritti sui beni immobili statali, per la valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio in questione. Legge che ha suscitato numerose polemiche in Parlamento e fra l’opinione pubblica, essendo stato paventato il rischio di svendita dei beni culturali che diverrebbero riserva di pericolose speculazioni. Nel gennaio 2004 invece è emanato il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, caratterizzato dall’estensione dei beni oggetto di tutela, da nuovi procedimenti nella verifica dell’interesse culturale, dalla semplificazione del regime di conservazione e restauro e dall’arricchimento del patrimonio fruibile attraverso la valorizzazione. In conclusione, si è realizzata negli ultimi anni una riforma normativa ad ampio raggio, dagli sbocchi applicativi ancora imprevedibili e probabilmente non ancora conclusa. I beni culturali inoltre vengono talvolta trattati come merce di scambio e consumo dagli opposti schieramenti politici. Un quadro attuale insomma poco confortante. disposizioni in materia di beni culturali e beni paesaggistici della Repubblica Italiana; emanato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42, il codice ha sostituito il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato nel 1999 dal Consiglio dei Ministri. Lo statuto dei beni dopo il Codice Il Codice dei beni culturali e ambientali dà della nozione di bene culturale una definizione mista e aperta. Mista perché diventano beni culturali “le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, ecc.” E aperta perché sono beni culturali anche “le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge, ossia quelle testimonianze aventi valore di civiltà” (prospettiva di ulteriore arricchimento futuro dei beni). Quindi sono due i requisiti necessari perché si possa parlare di bene culturale: un riferimento normativo e la materialità del bene. L'immaterialità dei beni non è priva di strumenti di garanzia, essendo essi compresi pienamente nei fattori identitari del patrimonio culturale; soltanto che li si individua come rappresentativi di interessi da assicurare attraverso attività (come l’organizzazione, la promozione, la valorizzazione) diverse dalle funzioni classiche di tutela degli oggetti materiali. Secondo l’art.10 del Codice sono dunque qualificati beni culturali: le cose mobili e immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad altro ente ed istituto pubblico e che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. Questi beni sono tutti culturali, salvo il caso che vi sia bisogno della verifica dell’interesse culturale, in mancanza della quale interverrà la sdemanializzazione del bene; e purchè si tratti di opere, ultracinquantenarie, di autore non vivente. Sono inoltre beni culturali, senza alcun bisogno di verifica dell’interesse: le raccolte di musei, gallerie, ed altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, ecc.; gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, ecc.; le raccolte librarie, salvo alcune eccezioni, delle biblioteche dello Stato, regioni, ecc. Si tratta, a ben vedere, sempre di beni di amministrazione pubblica. Non vale, inoltre, per questa tipologia, il limite dell’esecuzione ultracinquantenaria e l’appartenenza ad autore non più vivente. Dopo che sia intervenuta invece la dichiarazione di interesse culturale, sono qualificati beni anche : le cose immobili e mobili che presentino interesse artistico, storico, ecc. appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati; gli archivi e i singoli documenti appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; le raccolte librarie appartenenti a privati; le collezioni o serie di oggetti a chiunque appartenenti che, per tradizione, fama o particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, ecc. rivestono un eccezionale interesse. Non sono in questo caso soggette alla disciplina in esame le cose che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni. Un importante elenco esemplificativo è contenuto poi nell’art.10, comma 4, e comprende: le cose che interessano la preistoria e le primitive civiltà; i manoscritti, gli autografi, le incisioni, aventi carattere di rarità e pregio; le carte geografiche e gli spartiti musicali rari e prestigiosi; le fotografie, con negativi e matrici, le pellicole cinematografiche, sempre con carattere di rarità e pregio; le ville, i parchi, le piazze, le vie, e altri spazi urbani di interesse artistico o storico; ecc. Un’estensione, dunque, dei beni sottoponibili a tutela, che si associa anche ad un allargamento dei soggetti destinatari della nuova disciplina (privati, altre amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali e territoriali). In sintesi quel che si evince dal nuovo Codice è una nozione di beni culturali dalla difficile configurazione unitaria. Nel complesso lo statuto che viene fuori è quello di un bene culturale che continua ad essere destinato alla pubblica fruizione, ma ha perso il connotato dell’immaterialità. IL TRATTAMENTO GIURIDICO DEI BENI CULTURALI La tutela Il regime giuridico delle diverse tipologie d’intervento del legislatore nel settore culturale è focalizzato dal decreto legislativo del 1998 sulla ripartizione tutela/gestione/valorizzazione. Carattere strutturale della tutela è la conservazione e protezione del bene dai rischi di alterazione, modifica e distruzione. Questa caratterizzazione minimale della tutela è stata però allargata negli anni sia alla fruizione collettiva che al divieto di circolazione del bene al di fuori del territorio in cui è stato prodotto. Una definizione di “tutela” è presente all’art.148 del decreto legislativo del 1998: “ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali”. In seguito, invece, con la sentenza del 13 gennaio 2004, pochi giorni prima dell’abrogazione dell’art.148 da parte del Codice dei beni culturali, si afferma che la tutela “è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica, e la prima attività di tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale”; mentre la valorizzazione “è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale ed al miglioramento del proprio stato di conservazione”. Il Codice considerava la tutela sia come disciplina normativa (“regolazione”), che come amministrazione concreta (“esercizio delle funzioni”). Tre sono le finalità direttamente perseguite attraverso l’esercizio della tutela: l’individuazione dei beni che entrano a far parte del patrimonio culturale; la garanzia della protezione degli stessi; e infine la loro conservazione. Funzioni e attività di tutela devono essere finalizzate infatti a consentire la fruizione pubblica dei beni. E questa a sua volta deve preservare la memoria nazionale e promuovere lo sviluppo della cultura. Va detto che sino al testo unico del 1999, l’individuazione dei beni culturali di proprietà pubblica si fondava sull’obbligo di redazione di elenchi descrittivi dei beni da parte degli enti titolari dei beni stessi. Non esisteva dunque alcuna procedura finalizzata alla verifica dell’interesse culturale, a differenza dei beni mobili e immobili di proprietà privata. Con il Codice dei beni culturali invece, la verifica dell’interesse avviene ad opera degli organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai proprietari delle cose stesse. Nel caso di verifica con esito negativo su cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali (non riconosciute dunque di pubblico interesse), se ne dispone la sdemanializzazione e a quel punto gli oggetti in esame diventano alienabili. Il caso di verifica con esito positivo, viceversa, costituisce “dichiarazione dell’interesse culturale”. Il procedimento di verifica dell'interesse culturale si conclude entro 120 giorni dal ricevimento della richiesta. La mancata comunicazione entro questo termine equivale ad esito negativo della verifica (il cosiddetto “silenzio assenso”). L’allarme generale insorto però nell’opinione pubblica, condusse alla rettifica di questo passo, limitando il legislatore al mantenimento del termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento di verifica, ma senza trarne automatiche deduzioni sull’interesse culturale (il rischio infatti era quello di rendere alienabile un bene di interesse culturale per inadempienza della pubblica amministrazione). La dichiarazione di interesse culturale La dichiarazione d’interesse culturale diventa un procedimento di cui l’imposizione del vincolo è solo il provvedimento conclusivo (l’imposizione del vincolo comporta per il proprietario l’imprescindibile dovere di conservazione, l’obbligo di autorizzazione preventiva per ogni intervento sul manufatto, il diritto ad esercitare la prelazione da parte dello Stato o degli enti locali in caso di trasferimento del bene). La non comunicazione di avvio di procedimento è causa di illegittimità del vincolo d’interesse culturale. Il d.lgs. del 1998 riservava allo Stato la competenza in materia di apposizione del vincolo. La norma, ancora oggi vigente, attribuisce al Ministero la competenza ad emettere la dichiarazione di interesse culturale dei beni privati, attraverso un procedimento che si può aprire anche su istanza della regione di altro ente territoriale autonomo. L’avvio del procedimento va dunque comunicato al proprietario, e da quel momento il bene viene sottoposto al controllo dell’amministrazione, in via cautelare. È ammissibile, a distanza di tempo, una differente e anche contrapposta valutazione degli interessi culturali in esame. Il procedimento si chiude con la notifica della dichiarazione che va indifferentemente indirizzata al proprietario, possessore o detentore: da quel momento scaturiscono per il destinatario tutte le limitazioni alla disposizione del bene. All’imposizione del vincolo derivano dunque per i titolari di diritti di proprietà privata diversi obblighi, tra i quali ad esempio: uso compatibile con il valore storico e artistico del bene; denuncia al Ministero in caso di trasferimento degli stessi; assoggettamento a interventi conservativi imposti; obbligo di autorizzazione per il restauro, lo spostamento o lo smembramento di collezioni e raccolte. Riguardo le misure di conservazione del patrimonio culturale, merita attenzione, all’interno del Codice, l’interesse rivolto al restauro, quale “intervento diretto sul bene attraverso operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali”. La regolazione del restauro a iniziativa del proprietario, è sottoposta ad una procedura revisionata dal soprintendente. Questi approva il progetto di restauro; si pronuncia, su richiesta dell’interessato, in merito all’ammissibilità di contributi statali; certifica la necessità del restauro ai fini delle agevolazioni tributarie previste dalla legge. Fra le altre misure di tutela va ricordata la parte relativa alle ricerche archeologiche e, in genere, alle opere per il ritrovamento delle cose indicate all’art.10: esse, in qualunque parte del territorio nazionale si svolgano, sono riservate al Ministero. Questo ha la facoltà, con suo decreto, di ordinare l’occupazione temporanea degli immobili dove devono eseguirsi i lavori; mentre il proprietario dell’immobile ha diritto a un’indennità per l’occupazione. Il Ministero può inoltre rilasciare al proprietario che ne faccia richiesta i beni ritrovati, o parte di essi, quando non interessino le raccolte dello Stato. La ricerca archeologica dunque spetta allo Stato; quella privata può avvenire solo in regime di concessione. Sono previste delle sanzioni penali per chiunque eseguisse ricerche archeologiche senza concessione, chiunque s’impossessi di beni culturali appartenenti allo Stato, chiunque non denunciasse cose di interesse culturale rinvenute casualmente e non prevedesse alla loro conservazione temporanea. Per ciò che riguarda invece l’espropriazione, secondo quanto stabilito dalle norme, i beni culturali possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione sia rivolta a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi. La normativa sulla tutela dei beni culturali prevede una tripartizione tra espropriazione del bene già dichiarato di interesse culturale, espropriazione per fini strumentali, ed espropriazione per interesse archeologico. Questi si differenziano per funzione, oggetto e in parte anche per la procedura seguita. Per l’espropriazione del bene culturale (primo caso), il fine è di assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene, già dichiarato di interesse culturale e perciò vincolato. È previsto quindi l’acquisto al demanio pubblico, mentre non è richiesta la previa autorizzazione di un progetto di intervento. Per l’espropriazione per fini strumentali, possono essere espropriate aree ed edifici quando sia necessario per isolare o restaurare monumenti, accrescerne il decoro o il godimento pubblico, e facilitarne l’accesso. Per l’espropriazione per interesse archeologico, il fine può essere quello di eseguire ricerche archeologiche. In questi ultimi due casi l’oggetto è un immobile o un’area non ancora dichiarata di interesse culturale, per cui la dichiarazione di La circolazione L’art.17 della legge 88 del 1998 ha vietato, se ciò costituiva un danno per il patrimonio storico e culturale nazionale, l’uscita dal territorio della Repubblica di quei beni che avessero presentato interesse artistico, archeologico, etnografico, ecc. Questa legge ebbe origine dal processo di unificazione europea. Infatti la creazione del Mercato unico, dal 1°gennaio 1993, ha prodotto insieme alla caduta delle barriere doganali alle frontiere, anche la fine dei controlli sulle esportazioni clandestine di opere d’arte. In materia di circolazione bisogna oggi distinguere fra la circolazione “in ambito nazionale” e la circolazione “in ambito internazionale”. Per quanto riguarda la prima, nel Codice si afferma che i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli enti pubblici territoriali costituiscono quello che è definito “il demanio culturale”. I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi previsti dal Codice. Secondo l’art.54 sono poi totalmente inalienabili: gli immobili e le aree di interesse archeologico; gli immobili riconosciuti monumenti nazionali; le raccolte di musei, pinacoteche, ecc; gli archivi. Sono ugualmente inalienabili, al di fuori dei beni demaniali classici, ad esempio: le cose mobili e immobili opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre 50 anni, se concluso favorevolmente il procedimento di verifica. Se invece non sia ancora stato concluso il procedimento di verifica, si può parlare di inalienabilità provvisoria. Detto questo, il regime previsto per i beni culturali di proprietà pubblica è quella della alienazione (o della permuta), anche se il Ministero in caso di beni sdemanializzati deve comunque garantire la tutela, la valorizzazione e il pubblico godimento, senza però vincolo di destinazione d’uso del bene. Dunque per il Codice, gli atti che trasferiscono la proprietà o la detenzione di beni culturali vanno denunciati al Ministero. La denuncia va effettuata entro 30 giorni. Il Ministero, o altri enti pubblici territoriali interessati, hanno la facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento. Il diritto di prelazione (quel diritto di un medesimo soggetto ad essere preferito, rispetto ad un altro a parità di condizioni, nella costituzione di un negozio giuridico) va esercitato entro 2 mesi dalla data di ricezione della denuncia di trasferimento. La circolazione dei beni in ambito internazionale, invece, è regolata dal cap. V della seconda parte del Codice. È vietata l’uscita: delle cose mobili che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre 50 anni, fino all'effettuazione della verifica; dei beni a chiunque appartenenti, che il Ministero abbia escluso dall’uscita perché dannosa per il patrimonio culturale. L’uscita di alcune categorie di beni dal territorio nazionale è ammessa previa autorizzazione. Non è soggetta invece ad autorizzazione l’uscita delle opere o di qualsiasi oggetto di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni. Per i soli beni la cui uscita è sottoposta ad autorizzazione, è previsto un attestato di libera circolazione per chi intenda farli uscire in via definitiva. L’interessato deve farne denuncia e presentarli al competente ufficio di esportazione, indicando per ciascuno il valore venale. L’ufficio di esportazione, entro 3 giorni dall’avvenuta presentazione della cosa o del bene, ne dà notizia ai competenti uffici del Ministero, che rilascia o nega l’attestato di libera circolazione entro 40 giorni. L’attestato di libera circolazione ha validità triennale. Sempre entro 40 giorni dalla presentazione all’ufficio di esportazione, questo può proporre al Ministero l’acquisto coattivo della cosa o del bene, dandone comunicazione alla regione e all’interessato, il quale può rinunciare all’uscita dell’oggetto e provvedere al ritiro del medesimo fino alla notifica del provvedimento di acquisto. Mentre per i Paesi infracomunitari è previsto l’attestato di libera circolazione, per i Paesi extracomunitari è richiesta anche la licenza di esportazione. In caso di trasferimento di beni senza aver ottenuto l’attestato o la licenza, il responsabile è punito con la reclusione o con la multa; il bene viene confiscato, a meno che non appartenga a persona estranea al reato. Il Codice prevede poi che i beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, siano restituiti allo Stato richiedente. La disciplina comunitaria e internazionale Secondo l’art. 151 del trattato sull’Unione europea, la Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando, nello stesso tempo, il retaggio comune. Lentamente la dimensione culturale ha assunto un carattere di interesse nettamente più significativo della mera deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. Il trattato Ue prevede una cooperazione fra gli stati membri nei seguenti settori: miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei; conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale d’importanza europea; scambi culturali non commerciali; creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. Il principio fondamentale cui si ispira l’azione dell’Unione in materia culturale è quello di sussidiarietà. Essa si concretizza in politiche di sostegno, integrazione e contributi alle politiche culturali nazionali. La normativa internazionale ha promosso lo sviluppo di convenzioni rivolte a rafforzare la protezione dei beni, lasciando però allo stato membro il regime di tutela dei beni culturali. Fra questi accordi internazionali spiccano la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, sottoscritta all’Aja nel 1954, la convenzione Unesco per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (1972), la convenzione dell’Unidroit sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati (Roma, 1995). La convenzione dell’Aja, ad esempio, parte dal presupposto che i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera. Essa vieta innanzitutto il “diritto di preda”(ovvero la potestà riconosciuta allo Stato belligerante di impadronirsi di beni appartenenti ad uno Stato nemico) , impegnando così le parti a proibire qualsiasi atto di furto, saccheggio o sottrazione di beni culturali ai danni dei beni dei paesi nemici. Con la convenzione Unesco, si afferma il principio che tutti i popoli del mondo sono interessati alla conservazione dei beni culturali, avendone in comune i valori di civiltà. Inoltre questa prevede anche l’istituzione di un comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale, composto da 21 Stati membri. Compito del comitato è quello di definire ed aggiornare un elenco di beni culturali reputati di valore eccezionale e perciò meritevoli di particolare tutela al fine di assicurarne la conservazione per le generazioni future. Infine molto importante è anche la convenzione Unidroit, che distingue fra restituzione dei beni culturali rubati e il loro ritorno, in caso di esportazione illecita. Essa offre al possessore la possibilità di restare proprietario del bene trasferendone la collocazione nello Stato d’origine; il bene esportato illecitamente viene equiparato a quello recuperato mediante scavi abusivi. IL GOVERNO DEI BENI CULTURALI Le competenze dello Stato Il primo organico riparto di competenze fra Stato e enti locali è quello prospettato da un decreto legislativo del 1998, che innanzitutto riservava allo Stato funzioni e compiti di tutela dei beni culturali (la funzione di tutela veniva dunque imputata alla potestà dello Stato). La gestione dei beni culturali era invece ripartita tra Stato ed enti autonomi territoriali, mentre la valorizzazione veniva affidata alla cura dello Stato, insieme a regioni ed enti locali, ciascuno nel proprio ambito; ciò sarebbe dovuto avvenire mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali, tra Stato, regioni ed enti locali, avvalendosi delle “commissioni regionali per i beni e le attività culturali”. Questo quadro risulta notevolmente rinnovato dalla riforma del titolo V della Costituzione, approvata con la legge costituzionale del 2001. La tutela resta affidata alla legislazione statale, ma la valorizzazione (come pure la promozione ed organizzazione delle attività) è affidata alla potestà concorrente fra Stato e regioni, residuando alla legislazione statale il compito esclusivo di stabilire i principi fondamentali in materia. Le funzioni amministrative, sia per ciò che concerne la tutela che la valorizzazione, sono attribuite ai comuni. È dunque sciolto il legame fra funzioni legislative e funzioni amministrative. Ma le aspettative prospettate dalla riforma, sono state solo parzialmente soddisfatte dal nuovo Codice dei beni culturali (2004). Questo innanzitutto ha disposto che tutti gli enti territoriali (Stato, Regioni, città metropolitane, province, comuni) assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione. E anche gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, devono assicurare la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale. Novità assoluta è che anche i privati proprietari, possessori o detentori di beni, sono tenuti a garantirne la conservazione. Dopodiché il Codice precisa però che, al fine di garantire l’esercizio unitario delle funzioni di tutela, le funzioni stesse sono attribuite al Ministero per i beni e le attività culturali, che le esercita direttamente o ne conferisce l’esercizio alle regioni. Il Codice reintroduce dunque il legame delle funzioni legislative ed amministrative e pone in una posizione di centralità il Ministero stesso, anziché lo Stato, per l’eventuale conferimento dell’esercizio alle regioni. Le competenze di regioni, province e comuni Il decreto legislativo 112 del 1998 ha disposto, in merito alla tutela, con norma ancora vigente, che le regioni, le province e i comuni concorrono all’attività di conservazione dei beni culturali; possono formulare proposte per l’apposizione del vincolo di interesse storico o artistico e di vigilanza, in merito all’espropriazione dei beni mobili e immobili, in merito al diritto di prelazione, sino all’esercizio del diritto di acquisto, previa rinuncia dello Stato. Inoltre cooperano per definire l’attività di catalogazione e tecnico scientifica di restauro. Il decreto disponeva l’autonomia d’esercizio delle attività concernenti l’organizzazione, i servizi aggiuntivi, la riproduzione e le concessioni d’uso dei beni. In merito alla valorizzazione, oltre a quanto detto sopra, un ruolo importante era svolto dalla commissione per i beni e le attività culturali, istituita in ogni regione a statuto ordinario. Essa formulava una proposta di piano pluriennale e annuale di valorizzazione dei beni culturali, perseguendo lo scopo di armonizzazione e coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati. Insomma ciò che si auspicava era un modello di cooperazione e collaborazione tra centro e periferia. La legge costituzionale del 2001 fu seguita dalla legge del 5 giugno 2003, la quale dispone che le normative statali vigenti continuano ad applicarsi, in ciascuna regione, fino all'entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia. E viceversa che le regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato. Ma se lo Stato omette di farlo allora la regione potrà fare riferimento ai principi desumibili dalle leggi statali vigenti. In realtà la giurisprudenza costituzionale successiva al 2001 ha riconosciuto la legittimità dell’intervento statale anche in materia di valorizzazione, quando si tratti di beni culturali di cui l’amministrazione centrale abbia la titolarità. Alle Direzioni viene affidata: la cura dei rapporti del Ministero con le regioni, gli enti locali e le altre istituzioni presenti nella regione; la proposta al capo del Dipartimento degli interventi da inserire nei programmi annuali e pluriennali e nei relativi piani di spesa; l’autorizzazione all’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali; l’imposizione ai proprietari, possessori o detentori di beni culturali degli interventi necessari per garantirne la conservazione; l’occupazione temporanea di immobili per l’esecuzione di ricerche archeologiche o di opere dirette al ritrovamento dei beni culturali. È evidente, rispetto alle soprintendenze regionali, il notevole ampliamento dei compiti tecnici, amministrativi e di organizzazione-gestione delle risorse umane e strumentali. In materia è intervenuto anche il regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali approvato il 30 ottobre 2007. Alle direzioni sono riconosciute funzioni di indirizzo, coordinamento e controllo dell’attività di tutte le strutture periferiche del Ministero; la funzione di rappresentanza istituzionale del Ministero nei rapporti con le regioni e le altre realtà locali; funzioni di servizio e supporto rispetto agli altri uffici periferici. Alle soprintendenze è invece assicurato sul territorio un ruolo tecnico-scientifico primario a presidio della funzione di tutela. Le strutture autonome Già in passato il legislatore aveva attribuito alla soprintendenza di Pompei, per la straordinarietà del sito archeologico di riferimento, autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria per l’espletamento della propria attività istituzionale. Tutte le soprintendenze possono essere trasformate in soprintendenze dotate di autonomia purchè abbiano competenza su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico; l’autonomia può essere attribuita anche a musei, biblioteche pubbliche statali, archivi di Stato e soprintendenze archivistiche. Di grande interesse è pertanto la costituzione nel 2001, con decreto ministeriale, di soprintendenze autonome per la gestione di musei e grandi complessi archeologici e monumentali a Napoli, Roma, Firenze e Venezia. LE ATTIVITÀ CULTURALI L’inquadramento costituzionale Secondo la definizione contenuta nell’art.148 del d.lgs. del marzo 1998, sono attività culturali “quelle rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte”. Per funzione di promozione si intende invece “ogni attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali”. L’art.9 della Costituzione definiva forme di tutela e cercava di permettere la fruizione collettiva dei beni, ma si sanciva anche il sostegno delle istituzioni al progresso. Si faceva riferimento quindi non solo alla promozione culturale, ma anche allo “sviluppo della cultura”, a un’idea avanzata di cultura manifestata da prosa, musica, teatro, tradizioni popolari. L’azione dei pubblici poteri deve essere finalizzata ad estenderne gli spazi di realizzazione e liberarla dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo e che faticano a trovare spazi per i loro costi o per la loro scarsa idoneità ad attrarre un ampio consenso di pubblico. Il fine perseguito dalla Costituzione è la crescita del pluralismo culturale, in quanto strumento di sviluppo della personalità dei singoli e quindi della collettività. La cultura di cui si occupa l’art.9, infatti, partecipa alla formazione intellettuale del cittadino e, nello stesso tempo, incoraggia e persegue il progresso culturale della comunità politica. Dunque, da una parte una funzione attiva delle istituzioni riguardo alla crescita delle espressioni culturali meno forti; dall’altra neutralità rispetto agli esiti. La Carta fondamentale impone una funzione di riequilibrio fra le espressioni creative volta a ripristinare fra esse una condizione di eguaglianza: ma si tratta di un’uguaglianza di opportunità, non di risultati. Se si vuole individuare un limite agli interventi promozionali, esso sta nel non incoraggiare l’affermazione, ma non nel vietare l’espressione di quelle attività creative. Infine tutela e promozione vivono in una traiettoria circolare, poiché non si può parlare di promozione prescindendo dalla tutela e valorizzazione, e poiché comunque è auspicabile che la promozione sfoci nella tutela di un bene culturale futuro. Il trattamento giuridico Il decreto presidenziale del luglio 1977, sul trasferimento delle funzioni alle regioni ordinarie, ha attribuito a queste poteri d’intervento, nell’ambito delle loro competenze in materia di beni culturali, anche sulle attività di prosa, musicali e cinematografiche. Si è trattato di un decreto legislativo per l’epoca di grande interesse: innanzitutto per il rilievo concesso alle manifestazioni immateriali della cultura; ma anche per le novità prodotte dal nuovo ordinamento governativo, teso a compensare, sul piano delle attività, il mantenimento di politiche di tutela dei beni culturali. Ha avuto il merito inoltre di sancire l’ingresso delle attività culturali nell’ordinamento giuridico italiano e vi è stata un’estensione della tipologia delle attività, tra le quali molto presto sarebbero state ricomprese anche le tradizioni orali, il folklore, le tradizioni culinarie. Infine è riconosciuta la necessità di tutelare e conservare, accanto alla consistenza materiale dei beni culturali, anche le attività in essi svolte (generalmente antiche librerie, caffè, ecc.), collegate alla vita sociale, civile o culturale del centro urbano. È questo il dibattuto problema del vincolo d’uso dei beni storici: il vincolo di continuazione serve ad impedire che la fine dell’attività commerciale si traduca in un danno al patrimonio culturale nazionale, attraverso un divieto di alterazione che rappresenta per il proprietario anche un limite alle facoltà di disposizione di locali e arredi. La struttura materiale deve rappresentare una testimonianza attuale di valori culturali idonei a perpetuarsi nel tempo. Tuttavia il vincolo non può spingersi a costituire un obbligo di continuazione dell’attività, magari anche qualora si tratti di attività divenuta ormai antieconomica. Comunque, per concludere, nel complesso gli interventi dello Stato e degli enti locali a garanzia delle attività sono stati sinora lenti, frammentari ed episodici. Le leggi di finanziamento Non sono mancate in passato leggi di sostegno delle arti figurative, teatrali, musicali. Per le arti figurative, la legge 29 luglio 1949, per la quale le amministrazioni dello Stato e tutti gli enti pubblici che provvedano all’esecuzione di nuove costruzioni di edifici pubblici, ed alla ricostruzione di quelli distrutti per cause di guerra, devono destinare all’abbellimento di essi, mediante opere d’arte, una quota non inferiore al 2% della spesa totale prevista nel progetto. Nell’ambito della prosa, invece, si ricordi il ruolo dell’ETI (Ente teatrale italiano), che contribuisce alla valorizzazione e diffusione della cultura e delle attività teatrali e di danza. Qualche battuta in più va dedicata all'interessante evoluzione della cinematografia, per lunghi anni retta dalla legge del 4 novembre 1965. Essa disponeva consistenti incentivazioni: per gli esercenti che avessero proiettato soltanto lungometraggi nazionali; per i produttori; nonché attestati e premi di qualità. La concessione di queste misure era resa dalle autorità pubbliche, dietro parere della “Commissione per i lungometraggi, i cortometraggi ed i film per ragazzi”. Nell’ambito delle attività cinematografiche il d.lgs. n.28 del gennaio 2004 ha istituito un’unica commissione di valutazione (Commissione per la Cinematografia) chiamata all’individuazione dell’interesse culturale e alla definizione della quota massima di finanziamento assegnabile. Dal punto di vista organizzativo, la Consulta territoriale per le attività cinematografiche elabora un piano triennale contenente: l’individuazione di aree geografiche per la realizzazione delle opere; l’individuazione degli obiettivi per la promozione di attività cinematografiche (quali il sostegno a iniziative, manifestazioni, concessione di premi, ecc.). La Consulta è composta da rappresentanti delle regioni e altri enti locali, ma circoscrive l’operato delle autonomie a un ruolo essenzialmente consultivo rispetto alla potestà in materia dello Stato centrale. Il d.lgs. 31 marzo 1998, n.112 L’apice dell’attenzione del legislatore per le attività culturali si raggiunge con questo decreto, con cui si tenta per la prima volta una sistemazione organica delle attività culturali (e tutto questo marcando la dualità tra beni e attività). Dopo aver individuato nei beni culturali ciò che componeva il patrimonio storico, artistico, ecc., si ravvisavano nelle attività culturali quelle attività rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte. Da una parte si rappresentava la tutela, costituita da ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali; dall’altra la promozione, avente di mira il sostegno alle attività culturali in via di formazione. Il riparto di competenze, ovvero la suddivisione territoriale delle attribuzioni in materia promozionale, veniva svolta in cooperazione fra lo Stato e gli altri enti territoriali che si impegnano a suscitare e sostenere le energie intellettuali in via di formazione. Prospettiva, quella del decreto, notevolmente originale dunque rispetto al passato, per il coordinamento delle funzioni, per le innovazioni prodotte in merito all’armonizzazione delle competenze fra i vari enti territoriali e anche dal punto di vista della tipologia dei beni interessati. Il governo delle attività culturali In realtà la legislazione successiva non sembra aver mantenuto del tutto queste promesse, e la nozione di attività culturale tornerà ancora, ma in maniera spesso incerta, come si può evincere sin dal d.lgs. 368 del 98, che istituisce il Ministero per i beni e le attività culturali. Il Ministero esercita le funzioni amministrative statali in materia di promozione delle attività culturali “in tutte le loro manifestazioni” (è compreso anche il settore dello spettacolo), per cui deve operare per la più ampia promozione delle attività culturali garantendone il pluralismo e l’equilibrato sviluppo in relazione alle diverse aree territoriali e ai diversi settori. Esso, nell’esercizio delle sue funzioni, deve privilegiare il metodo della programmazione favorendo la cooperazione con le regioni e gli enti locali. D’altra parte non si ravvisano riferimenti alle attività culturali nemmeno all’interno del d.lgs. 490 del 1999, che ad appena un anno dall’istituzione del nuovo Ministero, dettava il testo unico in materia di beni culturali e ambientali. La riforma del titolo V Il riparto delle competenza tra i vari livelli territoriali in materia culturale compie un salto significativo nel 2001. Dopo la riforma del titolo V della Costituzione, mentre la tutela resta tra le competenze esclusive dello Stato, la promozione e l’organizzazione delle attività culturali è affidata alla potestà concorrente Stato-Regioni. È vero però che se la potestà regolamentare spettava ancora allo Stato, salvo delega, nelle materie di legislazione esclusiva (come per la tutela), essa era invece affidata alle regioni per ogni altra materia, col trasferimento integrale di funzioni e risorse alle regioni e agli altri enti territoriali. Il filo conduttore di tale riordino va necessariamente individuato nel principio di sussidiarietà, già presente nell’ordinamento italiano. specifico interesse ambientale. La legge Galasso interviene per la prima volta in modo incisivo sulla realtà ambientale italiana, ma con la sentenza del 27 giugno 1986 la Corte cost. sottolinea che la legge Galasso disegna una regolazione paesaggistica “improntata a integralità e globalità”, in funzione di un modello operativo non più conservativo e statico, ma gestionale e dinamico. Il paesaggio dopo la riforma del titolo V. La centralità del patrimonio culturale Secondo l’art.117 della Costituzione, dopo la riforma prodotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, oltre a quanto già detto, va aggiunto che tutte le funzioni amministrative sono attribuite al livello di governo che più sia in grado di garantirne la gestione ottimale in quanto maggiormente vicino ai bisogni del Comune. Per la riuscita della nuova politica costituzionale dei beni ambientali, fondamentali sono coordinamento e cooperazione. La nozione di beni ambientali non è in realtà di nuovissimo conio. Infatti tale termine aveva già avuto una chiara definizione dall’art.148 del d.lgs. n.112 del 1998: “beni individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell’ambiente nei suoi valori naturali o culturali”. Il rapporto fra beni culturali e paesaggio trova infine un chiaro riscontro nel d.lgs. 41 del 22 gennaio 2004, recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Per la prima volta viene offerta una definizione di paesaggio inteso come “parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”. Il Codice è importante anche perchè connette beni culturali e paesaggio attraverso il genere comune del “patrimonio culturale”, costituito da beni culturali e beni paesaggistici. Un Codice che fa propri, dopo oltre mezzo secolo di servizio delle leggi Bottai, i principi della Costituzione. Patrimonio culturale è il luogo della memoria della comunità, proiettato in una prospettiva di promozione dello sviluppo culturale dei suoi cittadini. Va accomunato al latino patrimonium: un lasciato dei padri che si conserva per essere trasmesso, dopo un processo di sedimentazione storica nella coscienza collettiva, ai figli e alle generazioni future. Beni e piani paesaggistici I beni paesaggistici oggi ricomprendono “gli immobili e le aree costituenti espressioni dei valori storici, culturali, naturali, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”. L’art.134 del Codice stabilisce che sono beni paesaggistici: le tradizionali “bellezze naturali”; le “zone Galasso”; gli immobili e le aree tipizzati, identificati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici. Sono quindi assoggettati a vincolo paesaggistico: i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri; i territori confinanti con i laghi; fiumi, torrenti, corsi d’acqua pubblici; montagne; ghiacciai; parchi e riserve; territori coperti da foreste e da boschi; vulcani; zone archeologiche. Il d.lgs. 157 del 2006 riconduce sia allo Stato che alle regioni il compito di assicurare che il paesaggio “sia adeguatamente conosciuto, tutelato e valorizzato”. Le attribuzioni alle regioni in materia di piani paesaggistici sanciscono l’affermazione di un’idea “plurale” del paesaggio, sia dal punto di vista dei livelli istituzionali interessati, sia da quello della tutela. In materia di tutela la competenza è statale, ma le regioni sono chiamate a cooperarvi attraverso i piani paesaggistici. Ovviamente la tutela del paesaggio costituisce valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente. CITTÀ D'ARTE E MUSEI Una premessa “Città d’arte” è un concetto il cui eco risuona sempre più frequentemente sui mass media, ma che stenta a farsi largo nel vivo dell’ordinamento. Alcune eccezioni al riguardo possono essere rinvenute nella legislazione regionale, tra cui si può ricordare la legge 40 del luglio 1984 approvata dall’Emilia Romagna, che utilizza tale locuzione a proposito dell’orario d’apertura e chiusura degli esercizi commerciali in talune località turistiche denominate appunto “città d’arte”. Ben maggiore è invece la penetrazione raggiunta dal concetto di bene culturale, che fa ormai parte dell’esperienza legislativa statale e regionale, tant’è che alla cura de beni culturali è stato anche destinato un Ministero ad hoc (Il Ministero per i beni culturali e ambientali che è diventato il Ministero per i beni e le attività culturali). Il concetto di città d’arte La definizione si presenta piena di difficoltà: per solito si tende a identificare le città d’arte con i nuclei urbani dotati d’una spiccata vocazione turistica, finendo per immettere in un solo calderone situazioni fin troppo eterogenee. Per restringere il campo, si potrebbe forse applicare la nozione soltanto alle città particolarmente ricche di tesori antichi, ma anche in questo caso gli esiti sarebbero troppo generici. La città d’arte sembra insomma una figura ermetica e sfuggente; ma l’introduzione del concetto denota se non altro l’insoddisfazione verso nozioni affini come quella di centro storico. A tal proposito, si incontra innanzitutto la nozione di centro abitato, nel testo unico delle leggi sanitarie, nel codice della strada, in materia di espropriazione e soprattutto nelle leggi urbanistiche. A tale nozione s’apparenta poi quella di vecchio centro abitato, utilizzata per esempio nelle leggi antisismiche allo scopo di indicare gli aggregati urbani rimasti indenni. Infine vi è anche il centro storico, che in via generale designa quella parte della città che ne documenta uno stadio diverso dall’attuale, anche se tale nozione, per la verità, si adatta a usi piuttosto eterogenei. A questo scopo va messa a frutto la distinzione tra l’accezione culturale e quella urbanistica di centro storico: la prima mette radici nella legge del primo giugno 1939 concernente la tutela delle bellezze naturali, e identifica i valori storici intorno ai quali si è raccolta la comunità cittadina; la seconda invece trae alimento dalla legge-ponte urbanistica, e risponde ad una logica tutta interna al piano regolatore. Tale distinzione mette a nudo l’ambivalenza del concetto di centro storico; ed anzi queste due accezioni andrebbero integrate con la nozione di centro storico in senso socio- economico ovvero politico, segnalata da Benvenuti per esprimere la sua funzione originaria di luogo d’incontro della comunità. Comunque è chiaro che solo nel primo di questi tre significati il centro storico rientra a buon diritto nel novero dei beni culturali; ma allora è bene riservargli la più esatta denominazione di centro antico. La distinzione tra centro storico e centro antico proietta la sua luce sullo stesso concetto di città d’arte. A tale proposito, non resta che far leva sulla differenza sussistente tra la nozione di città e quella di centro urbano, il quale occupa solo una porzione del territorio cittadino. In sintesi, potremmo dire che: ogni aggregato urbano ha un centro storico che va tutelato perché vi si conserva la memoria storica del luogo, e quindi la sua identità; taluni insediamenti dispongono poi d’un centro storico ricco di testimonianze artistiche del passato e v’è allora più propriamente un centro antico; altrove, infine, il centro antico finisce per coincidere con tutto il centro abitato, ed affiora allora la nozione di città d’arte. Fra centro antico e città d’arte si pone dunque, in primo luogo, una differenza di proporzioni: è lecito concludere che la città d’arte è formata dal solo centro antico, ossia da un centro antico straordinariamente esteso. L’elemento decisivo risiede insomma nel continuum, nel contesto urbano, che dev’essere intimamente coeso ed omogeneo, pur senza recare a tutti i costi i segni di una sola epoca: perciò è città d’arte per esempio Gubbio, ma non Roma, che pure ha un centro antico probabilmente senza eguali. Proprio nella continuità degli elementi architettonici risiede il potere di suggestione che le città d’arte esercitano sul visitatore. Per queste ragioni la funzione culturale acquista nelle città d’arte uno spessore eccezionale. Esse infatti per un verso partecipano del concetto di cultura come memoria del passato; per altro verso, si risolvono in uno strumento di sviluppo intellettuale per coloro che ne vengano a contatto. È evidente allora come nelle città d’arte siano presenti entrambi i requisiti del concetto di bene culturale. Le città d’arte, insomma, non si esauriscono nella somma dei beni culturali ospitati all’interno, ma rappresentano esse stesse un bene culturale nuovo. Nulla vieta poi di considerare città d’arte anche i luoghi che non siano stati protagonisti della storia o in cui non sia rimasta traccia di artisti insigni, se il tessuto urbano risulta esteticamente connotato. Insomma può qualificarsi città d’arte Venezia, ma anche una piccola cittadina siciliana d’impronta barocca come Noto. Dal concetto non sono neanche escluse le città moderne, se rivestono un particolare pregio estetico (es: Brasilia). Infine, la nozione non deve essere confusa con la città-museo, ricca di testimonianze artistiche ma orfana della propria eredità di relazioni e costumi; altrimenti si finirebbe per definire città d’arte anche reperti archeologici come Pompei. Prospettive di tutela Riconoscere dignità giuridica alla città d’arte significa estendere a tale fattispecie i principi espressi dal tribunale costituzionale; significa quindi assicurare la preminenza del valore estetico-culturale all’interno del perimetro urbano, sacrificandogli ogni esigenza che si ponga in situazione di conflitto. Pertanto un’adeguata normativa di tutela non po’ che agire su due fronti: da un lato potrà giustificarsi una speciale regolamentazione del traffico stradale, dell’edilizia, degli esercizi commerciali, del turismo; dall’altro tale valore solleciterà interventi di restauro e di valorizzazione del patrimonio architettonico. Benché primario (come dichiarato dall’art.9), il valore estetico- culturale tuttavia non è certo in grado di resistere alla pressione d’interessi ancora più fondamentali: l’interesse alla salute, all’incolumità dei cittadini, alla difesa. Perciò nel caso di aggressione esterna al territorio dello Stato, le istanze della cultura e dell’arte non possono che cedere il passo alle esigenze della difesa militare. Ciò nonostante è possibile intraprendere almeno qualche precauzione: promuovendo ad esempio i necessari accordi internazionali allo scopo di scongiurare i danni recati dalle guerre. Infine potremmo dire che, poiché la città d’arte descrive una nozione unitaria, anche il suo trattamento normativo non può che essere omogeneo. Ciò significa, da un lato, che bisogna superare la logica delle leggi speciali per singole città (che finora hanno interessato centri come Loreto, Siena, Assisi, Urbino, Ancona, ecc.); dall’altro significa che l’intervento va concentrato nelle mani del legislatore nazionale. Spetta allo Stato insomma varare una normativa che fissi le coordinate del concetto e provveda a stilare un elenco dei centri abitati da considerare città d’arte. All’ente regionale potrebbe invece riconoscersi il potere di proposta e quello d’emanare una disciplina di dettaglio, ma non attribuzioni sostanziali. I musei Una prima definizione organica può essere ricavata nell’art.99 del T.U., che definiva il museo come “struttura organizzata per la conservazione, la valorizzazione e la fruizione pubblica di raccolte di beni culturali”. A questo oggi va aggiunto l’art.101 del nuovo Codice dei beni culturali che intende articola nel diritto ad ottenere la riproduzione delle cose esposte, nel diritto a usarle per esigenze di ricerca quando ciò risulti compatibile con la conservazione del bene. Nel secondo caso, invece, il Ministero per i beni e le attività culturali può stipulare convenzioni con le scuole al fine di favorire la fruizione del patrimonio culturale e scientifico da parte degli studenti. Infine, viene in evidenza il diritto a fruire di un soggiorno confortevole nei locali del museo, godendo di spazi e allestimenti per il riposo e le attività di ricreazione, e insomma rendendo la visita al museo non soltanto un’occasione di arricchimento culturale, ma altresì di svago e distensione. Il governo dei musei Proprio dall’autonomia di cui i musei devono considerarsi titolari possono trarsi alcune indicazioni circa la loro organizzazione interna. Tuttavia su questo punto il quadro legislativo si rivela alquanto reticente: in Italia manca ancora una chiara scelta normativa che stabilisca la “forma di governo” del museo, tant’è che la stessa legislazione regionale propone ora moduli di gestione collegiale (conferendo una posizione di supremazia all’organo consiliare), ora modelli monocratici, incentrati sul ruolo del direttore del museo. Nella prassi, è comunque il direttore l’autentico padrone della sede museale: il caso opposto è molto raro, specie all’interno dei musei statali. Stando al dettato costituzionale, i singoli musei dovrebbero disporre della scelta concernente il proprio ordinamento interno. Quanto ai musei statali, un’esperienza importante è stata la “legge per Pompei”, il cui art.9 dota di autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria la soprintendenza di Pompei, istituendovi un consiglio d’amministrazione. Oggi sono costituite altre 4 soprintendenze autonome, analoghe a quella di Pompei, per la gestione di musei e grandi complessi archeologici e monumentali a Napoli, Roma, Firenze e Venezia. L’istanza di autonomia non investe solo i rapporti tra gli organi di vertice del museo: un nodo altrettanto deciso ha per oggetto il personale, che in Italia è mal distribuito tra le diverse sedi museali, ma che soprattutto è formato prevalentemente da custodi, a scapito della percentuale assai più modesta occupata dal personale tecnico e scientifico. Il Ministero ha poi la facoltà di stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato, e utilizzare il personale così reclutato “ad integrazione del personale dell’Amministrazione dei beni culturali e ambientali”. Gestione e circolazione del patrimonio museale Allo stato attuale, il regime dei beni culturali ospitati nei musei statali o degli enti pubblici territoriali è quello della demanialità (il demanio è, in senso generico, l'insieme di tutti i beni inalienabili che appartengono a uno Stato); i beni culturali dunque non possono essere smembrati senza l’autorizzazione del Ministero. Il quadro normativo è cambiato invece per quanto riguarda le cose d’interesse storico-artistico raccolte nei musei privati o degli enti pubblici non territoriali: possono uscire dal regime della demanialità. Ora, l’inalienabilità dei beni museali pubblici senza dubbio soddisfa l’esigenza di sottrarli alla circolazione giuridica, consentendone in tal modo la fruizione collettiva; ma questa speciale protezione normativa può talvolta rivelarsi troppo rigida, per esempio nel caso in cui il museo intenda privarsi delle opere di minor pregio ricevute attraverso lasciti o donazione, per recuperare risorse finanziarie destinandole ad interventi di restauro, o anche al miglioramento della sede e delle sale espositive. Tra le pieghe dell’ordinamento esistono però almeno due istituti che in qualche misura permettono ai musei di riappropriarsi delle scelte circa la propria dotazione culturale. In primo luogo, viene difatti in gioco il procedimento di “sdemanializzazione”. In secondo luogo, vi è lo strumento della permuta (contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti da un contraente all'altro) di beni culturali (procedimenti sottoposti comunque all’autorizzazione del Ministro). Risulta viceversa difficile la capacità di effettuare acquisti direttamente sul mercato da parte dei musei, tutt’oggi regolata da una norma ormai obsoleta. Di fatto, la politica degli acquisti viene gestita dall’amministrazione centrale attraverso un ampio ventaglio di strumenti: espropriazione; diritto di prelazione; acquisizione dei ritrovamenti e delle scoperte dei beni culturali; ecc.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved