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L’ordinamento della cultura. Manuale di Legislazione dei Beni Culturali, Sintesi del corso di Legge

Riassunto completo del libro L’ordinamento della cultura per l’esame di Legislazione dei beni culturali.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 07/09/2022

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Scarica L’ordinamento della cultura. Manuale di Legislazione dei Beni Culturali e più Sintesi del corso in PDF di Legge solo su Docsity! L’ORDINAMENTO DELLA CULTURA Per una storia costituzionale dell’arte La funzione pedagogica dell’arte Arte considerata da sempre valore anche per chi non ha strumenti critici, dunque consapevolezza; questa consapevolezza porta a tentativi di funzionalizzare le attività artistiche a scopi politici. L’arte viene a compimento nella forma e il suo radicarsi nel tessuto sociale si manifesta attraverso la mediazione estetica, dalla quale deriva il contagio dell’arte (Tolstoj); da una valutazione negativa del contagio dell’arte nasce la condanna dell’arte, secondo cui gli artisti ci introducono in un mondo fittizio per distoglierci dal vero sapere, l’arte inoltre è accusata di fomentare le passioni (teoria dunque secondo cui l’arte degrada gli uomini e non può svolgere funzioni educative). - Tiranni greci: primi a usare l’arte come strumento di gloria e propaganda. - Romani: usano arte durante cristianesimo come instrumentum regni, dunque arte diffusa anche per mezzo della religione. - Rinascimento: autonomia dell’arte e sua separazione dalla Metafisica; qui artista di corte diventa strumento nella lotta tra fazioni rivali. - Avanguardie: vogliono blocco dei valori tradizionali, ma di fatto messaggio reso innocuo; artisti d’avanguardia si oppongono alla tradizione rifiutandola, per fare questo però sono costretti ad adottare forme nuove e incomprensibili alle masse (rimangono estranei). Le arti più immediatamente rappresentative sono quelle maggiormente esposte a controlli, come teatro, letteratura, cinema: questo perché per ciascuna di esse è necessario il linguaggio per esprimerle. Le potenzialità divulgative dell’arte sono inoltre legate alla capacità delle singole espressioni artistiche di venir riprodotte: cinema deve essere riprodotto per forza e trae vantaggio da ciò, quadro se riprodotto perde la propria autenticità. La condizione complessiva dell’arte dipende dalla qualità e risonanza dei singoli generi artistici e dal tipo di organizzazione politica della società; la situazione più favorevole è quella in cui c’è un regime liberale che riconosce la libertà d’espressione e dunque tollera qualsiasi manifestazione artistica. Atteggiamento di neutralità verso l’arte ne depotenzia l’efficacia, mentre nelle società industriali avanzate l’arte subisce una tolleranza repressiva in quanto è libera, ma abbandona la propria vocazione critica e trasgressiva; vi sono inoltre ancora sparsi residui di censura. Dalle carte rivoluzionarie dell’epoca dei Lumi ai lavori dell’Assemblea costituente: genesi d’una libertà Costituzione francese 22 agosto 1795 già vi era la volontà di emancipazione dell’arte, anche se già lo notavamo nella costituzione americana del 1787: comune matrice ideale tra le due costituzioni in cui l’arte viene liberata dai vincoli che l’avevano oppressa per secoli. Per capire questo riconoscimento costituzionale della libertà dell’arte va introdotta la teoria del contratto sociale: idea del pactum subiectionis risale ai sofisti in opposizione allo Stato etico dei classici; il governo si regge sul consenso degli associati postulando i due principi di sovranità popolare e supremazia della legge. Bisogna focalizzarsi però sulla connessione tra la garanzia dei diritti di libertà e le teorie contrattualiste (cosa che fece Rousseau), dopo ciò i diritti essenziali degli individui furono concepiti come i cardini di quella stessa autorità e i nuovi valori di libertà furono sostenuti dalla rivoluzione industriale. Vi fu dunque l’affermazione delle libertà individuali, tra cui quella di manifestazione del pensiero e di espressione artistica, le quali trovarono riconoscimento formale nelle carte costituzionali. Inghilterra nel 1695 primo caso di abolizione degli strumenti censori nell’epoca moderna. 1791 conferimento a tutti gli artisti del diritto di esporre nel Salon, il quale era aperto dal 1673 (prima mostra pubblica) ma il privilegio di esporvi era riservato unicamente agli allievi dell’Accademia di belle arti. Dunque il Salon venne democratizzato e l’Accademia sostituita dalla Società popolare repubblicana dell’arte, e venne inoltre abolita la censura sulle opere letterarie; gli artisti quindi non erano più disposti a sottoporsi alle autorità, ma potevano seguire le proprie convinzioni e scegliere da sé i propri temi. L’arte però in questo contesto divenne uno strumento di governo, infatti il classicismo venne utilizzato per esprimere i nuovi sentimenti repubblicani e libertari, e gli artisti acquisirono la consapevolezza che la propria attività implicava una professione di fede politica; l’arte dunque pone la propria forza persuasiva al servizio degli ideali giacobini. In questo periodo abbiamo: risonanza sulla stampa delle polemiche tra le diverse correnti artistiche, insegnamento dell’arte nelle scuole private, apertura archivi e grandi musei (Louvre 1792), ma per gli artisti vi fu l’arrivo di una precarietà economica prima sconosciuta, in quanto si sono sottratti agli splendori della vita di corte. 1796/99 costituzioni delle repubbliche giacobine contenevano riferimenti alla libertà d’arte in forme analoghe a quelle dell’art. 355 della costituzione francese del 1795. Clima di tensione civile e progettazione costituzionale in cui la libertà d’espressione artistica corrispose all’impegno dell’arte in favore dei nuovi ideali liberali (con distruzione delle opere d’arte contrastanti con i principi rivoluzionari). Due aspetti in questo: 1. Esigenza di mobilitare ogni energia in soccorso della rivoluzione 2. Uso pedagogico dell’arte (tratto saliente dell’estetica giacobina); es. Galdi propose l’istituzione di teatri patriottici per istruire ed allettare il pubblico. Gli antichi governi presto ripresero il controllo della penisola e non rimase traccia di queste esperienze costituzionali, ma nel periodo della Restaurazione la censura venne ampliamente utilizzata. Lo statuto albertino del 1848 nell’editto del 26 marzo n. 695 non conteneva accenni alla libertà di creazione artistica e anche più generalmente la libertà di manifestazione del pensiero riceveva una tutela parziale e imperfetta. Ciò però non equivalse ad incuria e indifferenza dello Stato verso i problemi dell’arte: la promozione di attività artistiche fu di estrema importanza nella progettazione dello stato italiano (vedi la letteratura civile del Risorgimento con Alfieri, Foscolo, Manzoni). Questo ruolo trainante della cultura traeva alimento da alcune ragioni di fondo, tra cui spicca la questione della lingua: il superamento dell’arretratezza culturale era necessario poiché vi era il rischio che le forze clericali e reazionarie approfittassero dell’ignoranza delle masse popolari per mobilitarle contro il nuovo ordine politico; dunque diffuse in Lombardia, Toscana e Piemonte delle scuole di mutuo insegnamento su spinta di Federico Confalonieri. Dunque l’impegno civile delle arti era incoraggiato, non più dai mecenati, ma da ministri e commissioni giudicatrici dei concorsi, i cui temi erano tratti da episodi di rilevanza politica nazionale. L’apertura dei musei e delle gallerie pubbliche contribuì ad accelerare il processo di burocratizzazione dell’arte agevolandone la diffusione tra le masse e fornendo molti posti di lavoro agli artisti (es. vennero chiamati esperti per insegnare nelle accademie). Vennero poi stanziati fondi destinati all’incoraggiamento dell’arte e all’acquisto di opere d’arte; vennero istituiti concorsi per l’assegnazione di pensioni di belle arti col fine di favorire gli artisti più meritevoli, queste pensioni vennero poi abolite e ripristinate col r.d. 2 luglio 1891 n. 407, col quale inoltre i concorsi vennero affidati alle accademie e agli istituti di belle arti. Istituito poi l’Ente nazionale per la cinematografia (ENAC) al fine di controllare le relazioni economiche tra produttori italiani e stranieri, ma con pochi risultati; dunque dopo il fallimento il regime tentò di intervenire con leggi di finanziamento: Legge 18 giugno 1931 n. 918 ch concesse alle pellicole nazionali con dignità artistica un contributo fino al 10% degli incassi lordi; Legge 5 ottobre 1933 n. 1414 disciplinò la materia postulando criteri più esigenti per la fruizione delle somme; Legge 13 giugno 1935 n. 1143 che concesse anticipazioni a favore della produzione cinematografica nazionale, subordinate alla solidità economica della ditta produttrice e al giudizio sulle caratteristiche etiche della pellicola. Legge Alfieri del 1938 abolisce gli anticipi statali delle case cinematografiche introducendo un sistema di premi che dipendeva dall’incasso annuo del film; inoltre concede premi di qualità alle pellicole meritevoli. Il fascismo dunque non cercò di nazionalizzare le società cinematografiche, ma di costringere gli operatori del settore a uniformarsi alle direttive di governo in linea con i dettami di un progetto politico generale. 1942 fondato l’Ente Teatrale italiano che aveva funzioni di stimolo e controllo sull’attività teatrale e musicale; venne istituito inoltre il “sabato teatrale” per avvicinare le masse alla cultura e al diletto: vi era l’obbligo con questa iniziativa di rappresentare ogni sabato pomeriggio spettacoli gratuiti o a prezzi ridotti per i cittadini meno abbienti, ma in realtà vi erano dietro fini propagandistici (i programmi venivano scelti da una commissione composta da elementi ministeriali e di partito). - Attività musicali: legge 3 febbraio 1936 n. 438 riguarda la costituzione di enti lirici autonomi e senza fini di lucro da gestirsi secondo criteri d’arte e al fine di un’educazione musicale e teatrale del popolo. I nuovi enti però avevano un margine ridotto di autonomia, infatti era necessaria l’approvazione del ministero per la stampa e la propaganda. A cambiare nel periodo fascista fu la formulazione delle leggi e soprattutto la loro applicazione, improntata a criteri di efficienza poliziesca. Nel 1923 venne emanato il regolamento per la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche, che confermò i poteri alla Direzione generale di pubblica sicurezza, infatti la vera novità fu un doppio grado di controllo tramite una commissione di primo grado e una commissione di appello affidate a funzionari di pubblica sicurezza, mentre l’esperto in materia artistica e letteraria (che era incluso prima nella commissione di vigilanza) venne sostituito da un professore, dunque legato ai ruoli di Stato. Il fascismo in ogni caso non intese utilizzare la censura con fini repressivi, ma piuttosto come strumento positivo di cultura, dunque avendo natura preventiva si risolveva in un’autorizzazione (quindi più efficace poiché si limitavano le spese superflue ai produttori). Per quanto riguarda la materia letteraria non vi era una censura preventiva poiché lo Stato esaminava il materiale dopo la pubblicazione e solo nel 1938 venne creata una Commissione per la bonifica libraria con la fissazione di criteri per la censura, ma con pochi risultati. La censura invece su radio e rappresentazioni teatrali e cinematografiche era più rigida: no attori di colore, scene di suicidio, conflitti di classe o contro clero e autorità. Anche durante la Repubblica di Salò continuò la censura, in questo periodo inoltre il Minculpop venne riorganizzato e rafforzato, ma si limitò semplicemente alla propaganda, poiché le attività culturali erano molto scarse. Il principio della libertà d’espressione artistica venne consacrato però nell’art. 33 primo comma della costituzione del 1948: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Questo articolo aveva il suo antecedente nell’art. 142 della Costituzione di Weimar, a cui si fece riferimento anche per l’art. 9 che indica tra gli obiettivi dello Stato la promozione della cultura e della ricerca scientifica, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico nazionale. Inoltre troviamo affinità anche nell’art. 21 sesto comma con l’art. 118 di Weimar, in cui si dice che la manifestazione di pensiero è libera ed è inammissibile la censura. Nessuno si dichiarò contrario alla condizione di libertà concessa all’espressione artistica nel nuovo ordinamento costituzionale (era viva nei costituenti la memoria del fascismo). I costituenti però non si posero il problema degli artisti: se lasciarli in balia delle leggi del mercato o se fare opere di promozione e sostegno; collegando però la difesa dell’art. 33 all’impegno di promuovere la cultura dell’art. 9 si intende la doverosità dell’intervento di sostegno e la scelta a favore delle espressioni artistiche più povere. Inoltre il costituente non si pose il problema dei limiti inerenti alla libertà dell’arte e vi sono due ipotesi sul perché: 1. Predominava una visione ideale dell’arte. 2. Si volle che la libertà d’espressione artistica fosse virtualmente illimitata. Nessuno avanzò dunque la questione dei limiti perché l’arte era vista talmente al di sopra di ogni vincolo che menzionarne la libertà parve inutile. Le libertà culturali I lavori dell’Assemblea costituente La prima versione dell’art. 9 fu firmata da Aldo Moro e Concetto Marchesi e non faceva cenni alla libertà della cultura o all’impegno di sostenerne lo sviluppo da parte dei pubblici poteri (considerato un articolo pleonastico); fu poi Lombardi a proporlo. L’11 dicembre 1946 venne recuperata la formula iniziale su impulso di Marchesi e Tupini per porre un argine alla competenza regionale sulla cura dei monumenti; questa bozza venne approvata dalla commissione dei 75 senza discuterla e vi figuravano sia la libertà dell’arte e della scienza (in funzione della libertà di istituire scuole non statali), sia l’impegno a tutelare il nostro patrimonio culturale (per eliminare le competenze regionali in questo campo). 4 giugno 1947 discorso di Di Fausto: necessaria competenza dello Stato per evitare l’incuria dei governi regionali, una tutela frammentaria e policentrica e dunque un cambiamento nella concezione stessa dei beni culturali. 22 aprile 1947 intervento di Pignedoli per quanto riguarda la promozione del lavoro artistico e scientifico: “la Repubblica protegge e promuove con ogni possibile aiuto la creazione artistica e la ricerca scientifica”. Pignedoli argomentò dicendo che era necessario evitare la fuga dei ricercatori dall’Italia; divenne poi un emendamento. 30 aprile 1947 intervento di Firrao: consapevolezza che il progresso tecnico e scientifico postula mezzi finanziari ben superiori alle risorse di cui dispongono i singoli studiosi. Un altro tema affrontato fu quello della condizione degli artisti: Rivera nel suo discorso del 22 aprile dice che arte e scienza sono libere e incoercibili se la loro libertà non attinge ad alcuna disposizione normativa, ma artisti e scienziati possono essere minacciati e irreggimentati; c’è la volontà dei costituenti di non ripetere più la condizione a cui era sottoposta la cultura durante il fascismo, ma si avvertiva comunque la necessità di non sottrarre dignità al nuovo testo che si stava elaborando. In sede di coordinamento finale si decise di collocare l’art. 9 tra i Principi fondamentali della Costituzione, vista l’assonanza con le altre disposizioni normative che vi erano già incluse. Disgrazia e fortuna dell’art. 9 Cost. Nel primo commentario della Costituzione la forma dell’articolo venne definita “infelice” e si disse che stonava con gli altri principi fondamentali poiché non ospitava precetti normativi, ma dichiarazione di valore etico-politico e dunque senza alcun effetto vincolante. Alla rivalutazione dell’art. 9 concorsero due fattori: 1. La preoccupazione per la tutela dell’ecosistema, poiché l’ambientalismo basò la sua normativa su quella dichiarazione; da qui Predieri suggerì di leggere il “paesaggio” citato nell’art. 9 come “forma del paese”, dunque giustificando la concezione estetizzante in favore di una nozione di tipo ambientalista dei beni culturali. 2. L’avvio dell’esperienza regionale: le regioni infatti approfittarono delle carte statuarie delle regioni a statuto speciale (che si occupavano di pubblici spettacoli, patrimonio storico artistico e popolare) per rivendicare a se stesse un ruolo attivo di gestione e promozione culturale. Venne concepito dunque il progresso culturale delle comunità regionali come obiettivo permanente della regione (es. associazioni culturali contribuiscono alla determinazione politica regionale creando istituti culturali e ricreativi). Anni 70 ogni Consiglio regionale aveva le proprie regole su usi e costumi locali, editoria, televisione ecc. Giovanni Spadolini, inizialmente ministro senza portafoglio dei Beni culturali, fu promotore del d.l. dicembre 1974, che diventò poi legge del 1975 n. 5 ed introdusse in Italia il ministero per i Beni culturali e ambientali. Per una ricostruzione del modello costituzionale Bobbio distinse: - Politica della cultura: “politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura”; è in sintonia con i principi di un ordinamento liberale. - Politica culturale: “pianificazione della cultura da parte dei politici”; si traduce in partiticità della cultura. Ogni attività promozionale è selettiva per quanto riguarda i settori sui quali intervenire, le modalità d’intervento, gli obiettivi; in questo caso il diritto premiale valuta e sceglie secondo una scala di priorità, dunque la politica culturale è doverosa poiché ogni azione di politica culturale modifica le forze culturali in campo alterando la spontanea evoluzione della vita artistica e scientifica. Inoltre si può programmare l’intervento pubblico sulla cultura, ma non sulle produzioni artistiche e infine il sostegno pubblico alle espressioni artistiche e scientifiche rischia di impoverirle ed asservirle al sistema politico, dunque di negarne la funzione critica introducendo una forma di censura. L’intervento pubblico è giustificato solo se riesce ad aumentare il pluralismo delle espressioni culturali, in quanto anche la cultura ha bisogno di concorrenza per spiegare tutte le proprie potenzialità mettendole al servizio dello sviluppo del paese; ma per fare ciò bisogna attuare un intervento pubblico di tipo suppletivo, ovvero un aiuto alle energie intellettuali più deboli così da avere equilibrio. Il ruolo delle regioni per quanto riguarda l’intervento culturale dunque trova fondamento nel bilanciamento tra libertà dai poteri pubblici e sostegno degli stessi; dunque non è concepibile una politica di sostegno pubblico che non abbia per terminali le regioni. Il ruolo delle regioni è essenziale per la tutela dei beni culturali, ovvero il patrimonio storico e artistico che le nuove generazioni ereditano da quelle precedenti; il bene culturale inoltre è radicato in un determinato territorio e ambiente sociale, del quale testimonia la cultura, dunque la sua conservazione è un dovere da parte della popolazione interessata. Dunque le regioni hanno un ruolo fondamentale nell’attività di promozione culturale (art. 117 attribuisce alla loro potestà legislativa promozione e organizzazione della vita culturale) e spetta al legislatore identificare i campi della politica culturale e la strategia dell’intervento, ma l’ultima parola sta agli esperti del settore per quanto riguarda la distribuzione delle risorse all’interno di un Istruzione: insieme di insegnamenti organizzati e coordinati al fine di rendere istruiti i discenti; può essere conseguita anche all’esterno delle comunità scolastiche. Scuola: apparato organizzativo composto da elementi materiali, tecnici e personali in cui l’insegnamento normalmente si esplica (ma non necessariamente). L’indipendenza dell’insegnante ha un ruolo assolutamente centrale, infatti significa garanzia per il singolo docente e per l’insegnamento in sé, per la scuola e per l’intera comunità politica; l’insegnamento in ogni caso deve essere rispettoso degli obiettivi prefigurati dal legislatore, dunque il docente può insegnare nei limiti del buon costume, in vista della tutela dell’infanzia e della gioventù e nel limite dell’ordinamento costituzionale. Infine l’istruzione non può limitarsi a trasmettere nozioni senza considerare la formazione dei destinatari in quanto persone, dunque va tenuto conto non solo della libertà del docente, ma anche della libertà del discente: la libertà di pensiero del docente dunque è diversa dalla libertà di propaganda; inoltre egli deve tener presente l’obiettivo dell’istruzione in un ordinamento democratico. Diritto all’istruzione e diritto allo studio La Costituzione affida nell’art. 33 comma 2 alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull’istruzione fissando le regole per tutte le istituzioni scolastiche (pubbliche e private), ma gli attribuisce anche l’obbligo di garantire l’istruzione tramite l’istituzione di scuole statali di ogni ordine e grado. L’istruzione infatti non può essere lasciata ai privati. Principio cardine per quanto riguarda l’istruzione è l’uguaglianza nell’accesso alla scuola, dunque senza discriminazioni per sesso o portatori di handicap (art. 34 comma 1 Cost.: “la scuola è aperta a tutti). Espressione del diritto d’uguaglianza è dunque il diritto all’istruzione, oggi proclamato anche dall’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui l’istruzione inferiore, obbligatoria e gratuita, deve essere impartita per almeno 8 anni. Secondo l’art. 34 comma 3 Cost. coloro che sono capaci e meritevoli, ma privi di mezzi, hanno comunque diritto a conseguire i titoli più alti negli studi, dunque la Costituzione si preoccupa di sancire un obbligo di prestazioni da parte dello Stato attraverso sostegni finanziari (borse di studio, assegni alle famiglie ecc.). Secondo l’art. 33 comma 5 Cost. è previsto il superamento di un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole, per la conclusione dei cicli scolastici e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Il diritto all’istruzione dunque va garantito oltre ogni possibile ostacolo. Il pluralismo scolastico Accanto alle scuole pubbliche coesistono anche quelle private, eventualmente parificate; questo sistema misto ha come fine la libera scelta da parte dei cittadini del modello di istruzione preferito. Alle scuole private paritarie è assicurata anche la piena libertà culturale, dunque il progetto formativo può basarsi su una specifica scelta ideologica, religiosa o morale; l’insegnamento va però improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione, inoltre anche le scuole paritarie fornendo un servizio pubblico devono accogliere chiunque richieda di iscriversi accettando il progetto formativo. Le università poi hanno il diritto di darsi orientamenti autonomi nei limiti decisi dallo Stato, dunque possono governarsi liberamente (sempre nell’ambito di una legge regolativa della propria azione), mentre la posizione dei docenti è garantita dagli attacchi alla propria libertà d’insegnamento. La legge 9 maggio 1989 n. 168 riconosce esplicitamente l’autonomia didattica, scientifica, organizzativa e finanziaria di ogni università, in quanto comunità accademica e luogo di promozione della cultura e della ricerca scientifica scritta tra i principi fondamentali della Costituzione. La promozione dell’arte e della scienza. Il ruolo dei pubblici poteri L’azione dei pubblici poteri sulla cultura deve estenderne gli spazi di realizzazione e liberarla dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo; ciò che conta è lo sforzo di condividere un’uguaglianza di opportunità e di condizioni di partenza. Gli unici interventi promozionali non ammissibili sono quelle attività che mostrano finalità antidemocratiche in contraddizione con i principi della Costituzione; essi non sono da incoraggiare, ma da eliminare in toto. Promozione della scienza: sia mediante centri di ricerca che con la predisposizione di strumenti di supporto per lo svolgimento dell’attività scientifica svolta dai centri privati, pubblici, pertinenti ad istituti d’istruzione ecc. Si distingue: - Ricerca scientifica libera: attività scientifica in sé, in quest’area opera l’università in quanto sede della ricerca scientifica - Ricerca scientifica strumentale: affidata ad enti che curano in maniera autonoma una ricerca scientifica destinata ad obiettivi determinati (es. Enea: Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente). Gli organi politici non possono intervenire nello svolgimento dell’attività di ricerca scientifica in quanto tale, poiché resta sempre garantita dall’art. 33 Cost., ma può esserci la leva del finanziamento pubblico sulla ricerca, che può rappresentare l’attentato più forte alla libertà di ricerca scientifica. Il traguardo della Costituzione è la crescita del pluralismo culturale come strumento di sviluppo della personalità del singolo e della collettività; è solo questo che deve muovere le istituzioni nel campo culturale. Le istituzione invece sono tenute a preservare la memoria storica ereditata dalle epoche precedenti, ovvero il patrimonio culturale, e ad offrire un impulso alle nuove espressioni creative che sono manifesto della società contemporanea. La promozione della scienza Scienza e politica Secondo alcuni scienza e politica fanno parte di due mondi totalmente separati, essendo la prima attività speculativa e la seconda basata sulla prassi. Grazie al fenomeno dell’”istituzionalizzazione” della scienza la comunità di studiosi si è dotata di regole vincolanti: - Pubblicità dei risultati conseguiti - Principio che il valore di un’asserzione scientifica non dipende dal suo autore - Scetticismo dinanzi ai risultati altrui In seguito da tali postulati si è tratta la nozione del carattere auto correttivo del sapere scientifico, fenomeno che si manifesta nel XVI sec., quando la scienza inizia ad essere indipendente rispetto alla Chiesa e allo Stato. In realtà non c’è una netta scissione tra scienza e politica per due ragioni: 1. Anche la politica descrive una scienza (quella dell’interazione umana) o ne coltiva l’ambizione. 2. Ogni acquisizione scientifica parte da teorie che vanno poi dimostrate tramite la verifica sperimentale e la dimostrazione di una teoria è attività pratica e non speculativa. L’interesse pubblico verso la scienza nasce dall’esigenza di controllarne le ricadute applicative, in quanto da essa nascono il diverso e il nuovo, avvertiti dalle autorità politiche come insidia. La sollecitudine verso le attività di ricerca si manifestano dai regni barbarici e feudali, anche se con lo Stato assoluto e il Polizeirecht si avrà un’elaborazione teorica; durante il periodo degli ordinamenti liberali si afferma la “professionalizzazione” degli uomini di scienza, verso cui comincia a svilupparsi una domanda di mercato più consistente, in modo da trasformarli da dilettanti in forza-lavoro stipendiata. Nelle società contemporanee ciò che cambia è il rapporto tra scienza e politica, il quale diventa più intenso poiché il dispendio di mezzi necessari alla scienza (specialmente per la ricerca fondamentale) lo spinge verso la mano pubblica; da ciò ne deriva un complesso di programmi e controlli che si risolvono in condizionamenti per la libertà della ricerca scientifica (intesa come facoltà di orientare in modo autonomo le proprie indagini). La scienza contemporanea ha quindi scoperto di avere una vocazione autoritaria con effetti devastanti sui sistemi democratici, e ciò porta ad un sentimento di diffidenza verso la scienza, alimentata dal fatto che essa utilizzi linguaggi sempre più sofisticati e inaccessibili; in questo contesto lo stereotipo di scienza come ricerca disinteressata della verità non esiste più, eliminando anche i suoi valori fondamentali che sono razionalità e universalità. Comunque gli ordinamenti positivi hanno un comportamento bivalente verso la scienza: - Politica per la ricerca: insieme delle attività intraprese dallo Stato per incoraggiarne lo sviluppo. - Politica attraverso la ricerca: utilizzazione dei risultati conseguiti dalla scienza per fini politici generali. Infine per quanto riguarda i rapporti tra scienza e politica vi sono 2 modelli: 1. Decisionistico: le forze di governo stabiliscono fini e campi d’intervento. 2. Tecnocratico: il rapporto si rovescia in nome dell’autonomia della scienza. L’autonomia della scienza comunque viene percepita comunemente come un valore e dichiarata dell’art. 33 Cost. Sulla doverosità dell’intervento pubblico Art. 9: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”; presto questo enunciato caduto in disgrazia presso gli studiosi per: - Ciò che dice: visto come vuota proclamazione innalzata dai Costituenti per polemica verso le ideologie fascista e liberale con l’intenzione di risolvere i problemi tra scienza e politica, dunque una disposizione inutile. In realtà il fatto che i pubblici poteri si siano occupati di promozione culturale non rende la norma inutile, ma va colto il segno della promozione. - Come lo dice: poiché investe alla radice la struttura programmatica della dichiarazione costituzionale, dunque vista come una pseudodisposizione a cui andrebbe attribuito un valore meramente etico-politico e non con effetti pienamente vincolanti. In realtà è nota la distinzione tra norme costituzionali precettive e programmatiche (vietano o impongono qualcosa), la quale nasce dalla diversa struttura nomologica dei due tipi di disposizione. Nessuna delle due critiche però ha impedito la rivalutazione dell’art. 9 per quanto riguarda l’esigenza di tutela del paesaggio. La mortificazione dell’art. 9 è stata accompagnata però dall’accentuazione dell’art. 33 (primo comma in particolare), considerato indispensabile contro la creazione di dottrine artistiche e scientifiche ufficiali (di Stato), e dunque contro qualsiasi forma di dirigismo pubblico nel settore della cultura; Romagnosi infatti sottolinea come le istituzioni pubbliche debbano limitarsi fornire i presupposti del libero sviluppo della cultura senza condizionarne gli esiti. È possibile un modello che si astenga totalmente riguardo le questioni culturali? Anche un atteggiamento di laissez-faire diventerebbe una scelta di politica culturale che andrebbe a vantaggio delle espressioni intellettuali. All’interprete del dato costituzionale interessa in ogni caso il significato del verbo “promuovere” dell’art. 9: è un termine che evoca il diritto premiale, cioè l’adozione di specifiche tecniche d’incoraggiamento (premi) per propiziare i comportamenti nella norma, ma che si aggiungano 5. Nella prassi parlamentare della Repubblica l’italiano è già lingua ufficiale e nella Carta del 1947 non vi è la norma dell’art. 62 dello statuto albertino che consentiva ai deputati e senatori di parlare in francese; inoltre se un parlamentare interviene in dialetto il presidente gli toglie la parola. Inoltre mentre si redigeva il nuovo testo costituzionale vi era la necessità di non sottrarre dignità alla materia trattata con elementi minori e di dettaglio, ma di includere cose che devono essere politicamente affermate come novità o oggetti di conquista. 26 luglio 2000 la Camera approva una riformulazione dell’art. 12 per aggiungere alla protezione costituzionale della bandiera anche quella della lingua, questa proposta venne fatta anche successivamente fino al 7 maggio 2008; in realtà però la sede più adatta al riconoscimento costituzionale della lingua è l’art. 9, essendo la lingua un bene culturale. Le leggi sulle minoranze linguistiche Fra i costituenti era viva la memoria della politica fascista contro i territori conquistati, dunque si avvertiva l’esigenza di segnare una linea di demarcazione tramite l’art. 6: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”; queste ultime possono essere volontarie (scelgono di non farsi assimilare dalla maggioranza) e necessarie (restano separate per volontà della maggioranza). Vari problemi: 1. Il concetto di minoranza linguistica pone l’esigenza di distinguere lingue da dialetti e non è risolutivo né l’elemento di statualità (non tutte le lingue hanno uno Stato di riferimento) né l’elemento culturale (poiché anche il dialetto riflette una cultura tipica). 2. La tutela costituzionale viene declinata attraverso due sistemi: - Bilinguismo: minoranza francofona il Valle d’Aosta, dove ci si può rivolgere alle autorità in italiano e in francese e l’insegnamento andrebbe impartito in entrambe le lingue (può eliminare le differenze culturali). - Separatismo linguistico: tedeschi in Alto Adige hanno diritto ad insegnanti madrelingua (può acuire le tensioni tra i diversi gruppi); questa è la minoranza linguistica più protetta in Italia e su scala mondiale, anche in virtù della “proporzionale etnica” che gli riserva una quota di posti in organico negli uffici statali in provincia di Bolzano. 3. Per applicare questa normativa bisogna verificare se si appartiene all’uno o all’altro gruppo, dunque si usa il censimento linguistico, il quale però può diventare fattore di discriminazione, porre problemi di veridicità o andare contro il principio costituzionale che prospetta l’adesione volontaria ad ogni gruppo linguistico. 4. Quale eguaglianza si riflette nell’art. 6 della Costituzione? Le politiche linguistiche verso gli immigrati Una storia legislativa in questo contesto non esiste né per quanto riguarda l’uso della propria lingua d’origine nelle comunicazioni con i nostri uffici pubblici, né per la valorizzazione delle loro identità linguistiche. Cenni vari: Legge Turco-Napolitano n. 40/1998: realizzazione di corsi in italiano per favorire l’integrazione nel nostro territorio. Legge Bossi-Fini n.189/2002: visto d’ingresso rilasciato allo straniero in una lingua a lui comprensibile. Legge Maroni (pacchetto sicurezza) n. 94/2009: introduce reato di immigrazione clandestina ed esige dagli immigrati un test di conoscenza della lingua italiana per ottenere il permesso di soggiorno. Il modello costituzionale La politica linguistica pone la lingua al servizio del potere politico e dunque di una determinata strategia di governo; essa dunque è una categoria della politica culturale, che è secondo Bobbio “la pianificazione della cultura da parte dei politici” per marcare l’egemonia su un popolo colonizzato, o per decidere le sorti di un territorio o per soggiogare le minoranze interne. Può esserci spazio per una politica linguistica al servizio di ideali democratici e non nazionalistici? Secondo l’art. 3 tutti sono uguali senza distinzione di lingua, quest’ultima dunque sarebbe giuridicamente irrilevante e non può causare una discriminazione normativa: in questo caso la lingua si configura come libertà e dunque libertà di parola. Nell’art. 6 però si reclama un intervento a favore delle minoranze linguistiche, dunque qui la lingua è effettivamente rilevante e deve occupare gli interessi del governo: la lingua è nelle mani del potere. In conclusione la lingua resta giuridicamente irrilevante come scelta individuale e non patrimonio collettivo; la libertà della lingua dunque significa astensione da parte dello Stato, mentre l’appartenenza ad un gruppo linguistico significa obbligo di intervento. L’intervento è doveroso anche se il gruppo coincide con la maggioranza della popolazione? Un esempio è il Consiglio superiore della lingua italiana, che era guidato dal presidente del Consiglio con vari ministri e aveva tra i suoi compiti quello di dettare una “grammatica ufficiale” della lingua italiana. I beni culturali Le fonti La legislazione preunitaria Nel 1728 Montesquieu durante il grand tour dice che in tutta Italia vengono portati via quadri e statue dagli inglesi, dunque le prime misure di tutela del patrimonio culturale risalgono proprio al periodo degli Stati preunitari e si preoccupano di contrastare la spoliazione dei beni artistici e archeologici e il loro trasferimento all’estero. La vera nascita della normativa sui beni culturali però è in Toscana, dove già dal 1571 fu vietata la rimozione di insegne ed iscrizioni sui palazzi antichi e il 24 ottobre 1602 venne vietata anche l’esportazione dei dipinti senza la concessione della licenza del luogotenente dell’accademia del disegno. Era vietata inoltre l’esportazione di tute le opere di 18 sommi artisti (defunti) nominativamente indicati, mentre per gli altri la concessione della licenza veniva rimessa alla scelta di 12 pittori viventi che esprimevano al luogotenente un parere tecnico sul trasferimento dell’opera. Nel 1754 il Consiglio toscano di reggenza estese il divieto di esportazione dal di intere categorie di beni artistici definite “cose rare”; la Toscana dunque in questo periodo gode di una posizione di avanguardia sul fronte della tutela dei beni artistici, questo perché fu centrale la posizione dei Medici, che si impegnarono per la salvaguardia dei beni artistici locali (ultima granduchessa di Toscana Anna Maria lasciò le raccolte granducali degli Uffizi a funzioni museali e nel testamento lasciò a Firenze le sue opere d’arte a condizione che non venissero portate fuori dal granducato). Il primo provvedimento organico di salvaguardia di beni artistici e storici è l’editto del cardinal Pacca: emanato a Roma sotto Pio VII il 7 aprile 1820 e correlato al regolamento d’esecuzione del 6 agosto 1821; disposte misure molto restrittive contro la spoliazione delle raccolte artistiche capitoline, prevedendo anche un divieto di esportazione dalla capitale allo Stato pontificio. Previste inoltre regole per la conservazione e il restauro dei beni, per le modalità di accertamento della consistenza dei patrimoni, per la catalogazione di oggetti d’arte in chiese ed edifici assimilati con obbligo di denuncia alla Commissione delle belle arti. Questo decreto tracciò un solco per tutta la legislazione successiva degli Stati italiani, sensibilizzati all’argomento dopo le depredazioni napoleoniche; dunque vari interventi: 13 maggio 1822 Ferdinando I di Borbone emana decreto che riprende Editto Pacca specificandone le misure per il restauro dei beni e le prime regole per gli scavi archeologici. 1827 nel regno delle Due Sicilie stabilito diritto di prelazione a favore dello Stato per tutti i beni di interesse culturale. 1832 nel regno di Sardegna istituita la giunta di antichità e belle arti col compito di provvedere alla conservazione di oggetti antichi ed opere d’arte. 18 aprile 1857 granduca Leopoldo di Toscana emana decreto per impedire la rimozione e la distruzione degli oggetti d’arte, di pittura, scultura e plastica destinati ad ornamento pubblico o esposti alla vista del pubblico. Il patrimonio culturale in questo contesto diventa principio di identità civica e concetto di cittadinanza. La legislazione postunitaria L’unità d’Italia non fu però un miglioramento nelle forme di tutela dei beni culturali, ma piuttosto un’inversione di tendenze rispetto alle misure raggiunte. La dispersione del patrimonio culturale non si arrestò e la classe governativa si limitava al riconoscimento del rispetto dell’ornato di città (divieto di trasformazione o demolizione di edifici urbani di grande pregio artistico); al bene culturale non si riconosce necessità di una specifica regolazione poiché già sottoponibile alla disciplina negoziale prevista dal codice civile (il suo valore è quello del mercato). Dunque ci si adoperò per eliminare i residui vincolistici al principio del libero scambio, anche se essi erano l’unica garanzia di conservazione dei beni culturali, un esempio ne è il fedecommesso: vincolo reputato un residuo feudale contrario alla circolazione dei beni, all’economia pubblica e alla morale, dunque il codice civile ne sanzionò nel 1865 il divieto; questo espediente però era stato l’unico ad aver permesso la conservazione inalterata di raccolte d’arte, pinacoteche e collezioni. In ogni caso non si riuscì ad andare oltre provvedimenti “tampone” e le conseguenze di ciò furono molto gravi, come le esportazioni all’estero di capolavori italiani. Nei 10 anni successivi alla formazione del regno d’Italia l’unico provvedimento di politica culturale fu la legge 25 giugno 1865 n. 2359: l’amministrazione doveva disporre l’espropriazione dei monumenti se mandati in rovina per incuria dei proprietari. Per quanto riguarda l’esportazione all’estero era invece necessaria una legge organica, ma bisognerà attendere l’inizio del nuovo secolo con la legge 17 luglio 1904 n. 431: istituito il catalogo nazionale dei beni culturali e proibita l’esportazione delle opere in esso menzionate se qualificate come “grande pregio”. 1906 costituita una commissione con l’incarico di dettare una disciplina organica per la tutela dei beni culturali e ciò portò alla legge 20 giugno 1909 n. 364 (legge Rosadi): amplia l’ambito dei beni culturali comprendendovi codici, manoscritti, stampe ecc.; venne poi stabilito un doppio regime giuridico per il trasferimento dei beni: - Inalienabilità se appartenenti allo Stato e ad enti pubblici e privati. - Obbligo di denuncia per ogni trasmissione di beni appartenenti a privati, con previsione del diritto di prelazione a favore dello Stato. Si sancì inoltre il divieto di demolizione, rimozione, modificazione e restauro senza autorizzazione del ministro. L’incremento della tutela però si accentua durante il regime autoritario con due leggi volute dal ministro Bottai: Legge 1 giugno 1939 n. 1089: ha assicurato per 60 anni la protezione del nostro patrimonio culturale allargando la tutela alle cose mobili e immobili di interesse artistico, archeologico ed etnografico; estendeva il divieto di demolizione o restauro dei beni (senza autorizzazione del ministro) anche alle cose di proprietà privata. Il ministero acquistava la facoltà di provvedere direttamente alle opere necessarie per assicurare la conservazione, e venne ammessa l’espropriazione dei beni mobili e immobili se fosse per interesse legato alla conservazione, all’incremento del patrimonio nazionale o necessaria per isolare o restaurare monumenti o eseguire ricerche archeologiche. L’immaterialità e la pubblicità Tra le caratteristiche dei beni culturali vi sono in primo piano: - Immaterialità: la necessità di comprendere nel concetto di bene culturale anche le manifestazioni immateriali della cultura è stata segnalata da Cassese. Il concetto di attività culturali menzionato per la prima volta nel d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 comprende i beni tradizionalmente iscritti nel patrimonio culturale + le attività di prosa, musicali e cinematografiche, vi si sono poi aggiunte le tradizioni orali e ogni fenomeno culturale che non avesse valore puramente estetico (proverbi, canti, musiche popolari ecc.). D.lgs. n. 112/1998 art. 148 fa una differenziazione tra beni e attività culturali: 1. Bene: ciò che compone il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo antropologico, archeologico, archivistico, librario e quanto costituisce una testimonianza di civiltà; le memorie del passato la cui custodia è affidata allo Stato che si impegna a riconoscerle, conservarle e proteggerle. 2. Attività: ciò che è rivolto al futuro per formare e diffondere le espressioni più avanzate della cultura e dell’arte, ovvero quella cultura contemporanea che lo Stato e gli enti autonomi territoriali dovranno promuovere. - Pubblicità: secondo Giannini “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione”; dunque tutti devono poterne fruire, senza che esso sia in mano a privati proprietari. L’uso collettivo dei beni culturali raggiunge la massima espansione quando essi entrano a far parte del patrimonio dello Stato o di altri soggetti pubblici. Dunque va sempre assicurata fruibilità del bene culturale, oltre al suo mantenimento nello stato originario, e ciò porta ad una compressione dei poteri del proprietario (la proprietà privata sui beni culturali è definita “una disgrazia costituzionalmente sancita”). Lo statuto dei beni dopo il Codice Il Codice dei beni culturali da’ della nozione di bene culturale una definizione: - Mista: poiché sono beni culturali “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico”. - Aperta: poiché lo sono anche “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”, dando rilievo dunque ad una qualificazione normativa che ha una prospettiva di arricchimento futuro dei beni. Dunque oltre a questi due requisiti fondamentali affinché si possa parlare di beni culturali vi è anche il principio della materialità del bene: sono beni culturali le cose che possono essere toccate, rinunciando così ad identificare una disciplina comune per i beni immateriali. Alla luce dell’art. 10 del Codice sono qualificati beni culturali: 1. Cose mobili e immobili appartenenti allo Stato, regioni ed enti pubblici territoriali; per lo più sono beni di appartenenza pubblica e tutti presuntivamente culturali, salvo quelli senza la verifica dell’interesse culturale (per cui ci sarà dunque una sdemanializzazione del bene), purché poi si tratti di opere ultracinquantenarie (mobili), ultrasettantenarie (immobili) o di autore non vivente. 2. Senza bisogno di verifica dell’interesse: raccolte di musei, pinacoteche, archivi, biblioteche e raccolte librarie dello Stato, delle regioni o degli enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro istituto pubblico. 3. Con la dichiarazione di interesse: cose mobili e immobili di appartenenza diversa a quelli sopra del comma 1; archivi e raccolte librarie appartenenti a privati; cose mobili e immobili che hanno interesse particolarmente importante poiché legate alla storia politica, militare, letteraria ecc.; collezioni e oggetti vari non comprese nel comma 2. 4. Cose che interessano paleontologia, preistoria e prime civiltà; numismatica; manoscritti, autografi, stampe e incisioni; carte geografiche e spartiti musicali; fotografie e pellicole cinematografiche; ville, parchi e giardini; pubbliche piazze e spazi urbani vari; siti minerari; navi e galleggianti; architetture rurali; tutto ciò avente carattere di rarità e pregio. Il trattamento giuridico dei beni culturali La tutela Le diverse tipologie di intervento nel settore culturale sono regolate dal Codice dei beni culturali e sulla Costituzione, e sulla dicotomia tutela-valorizzazione: Tutela: ha come carattere strutturale la conservazione e protezione del bene dai rischi di alterazione, modifica, distruzione, definizione poi allargata anche alla fruizione collettiva e al divieto di circolazione del bene al di fuori del territorio in cui è stato prodotto. Una prima definizione della tutela è da ravvisarsi nel d.lgs. n. 112/1998 art. 148 comma 1, dove era “ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali ed ambientali”.; l’importanza di questa definizione viene sancita con la sentenza della Corte costituzionale del 13 gennaio 2004 n. 9: “la tutela è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale”. Il Codice dei beni culturali ha poi abrogato l’art. 148 (vedi poco sopra), definendo la tutela “esercizio delle funzioni” (=amministrazione concreta) e “disciplina (=regolazione normativa) delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” (art. 3 comma 1). In conclusione sono 3 le finalità perseguite attraverso l’esercizio della tutela: 1. Individuazione dei beni che entrano a far parte del patrimonio culturale 2. Protezione di essi 3. Conservazione di essi La dichiarazione di interesse culturale Dichiarazione di interesse culturale: al di fuori dell’elenco dei beni dell’art. 10 comma 2 Cod., per gli altri beni il Codice prevede una dichiarazione che va “notificata” al proprietario delle cose che ne formano l’oggetto (art. 14) risolvendo così la questione dell’avvio della procedura di tutela del bene culturale; questa dichiarazione può anche essere formulata dalla regione per particolari categorie di beni non appartenenti allo Stato. L’imposizione del vincolo è la parte finale del processo, questo procedimento infatti si basa sui principi di partecipazione, efficacia e tempestività (l. 7 agosto 1990 n. 241) e l’omissione di comunicazione per l’avvio del procedimento significa illegittimità del vincolo di interesse culturale. Dopo aver dato comunicazione al proprietario il bene viene sottoposto al controllo dell’amministrazione in via cautelare; il provvedimento inoltre deve essere motivato secondo le regole dell’art. 111 Cost. Il procedimento si chiude con la notifica della dichiarazione, che può essere indirizzata al proprietario, al possessore o detentore; da questo momento scaturiscono in capo al destinatario tutte le limitazioni alla disposizione del bene (se è soggetto a pubblicità immobiliare la dichiarazione va trascritta nei registri immobiliari). Questi obblighi per i titolari di diritto di proprietà privata sono: - Obblighi positivi e negativi di comportamento sui beni suddetti - La denuncia al Ministero in caso di trasferimento degli stessi - Assoggettamento a interventi conservativi imposti In relazione alle misure di protezione sono subordinate all’autorizzazione del Ministero: - Rimozione e demolizione delle cose costituenti beni culturali, anche con successiva ricostituzione. - Spostamento anche temporaneo dei beni culturali (tranne archivi correnti o beni derivanti da mutazioni di dimora e sede del detentore, che richiedono solo la comunicazione al ministero per le attività di vigilanza). - Smembramento (separazione di una parte dal suo intero) di collezioni, serie o raccolte. Al di fuori dei casi elencati l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata all’autorizzazione del soprintendente, e sono concessi anche interventi di “modificazione”. In relazione alle misure di conservazione, esse sono assicurate mediante un’attività di: - Studio - Prevenzione: “complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto”. - Manutenzione: “complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti”. - Restauro: “intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali” (in caso di rischio sismico necessario anche provvedimento strutturale). In relazione alle ricerche archeologiche, in qualunque parte del territorio nazionale si trovino sono riservate al Ministero, che ha facoltà di ordinare l’occupazione temporanea degli immobili dove vanno eseguiti i lavori, mentre il proprietario dell’immobile ha diritto ad un’indennità per l’occupazione e il Ministero può anche rilasciargli i beni ritrovati (se il proprietario lo richiede e non sono interessanti per le raccolte dello Stato). Dunque tutte le cose indicate nell’art. 10 del Codice, ritrovate da chiunque e in qualunque modo, nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato (tranne in Sicilia) e, a seconda che siano mobili o immobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indispensabile (art. 822 e 826 codice civile); la ricerca archeologica privata invece può avvenire solo in regime di concessione (art. 89) e l’obbligo di denuncia può avvenire entro 24h. Punito con l’arresto fino ad un anno e ammenda da 310 a 3099 euro: - Chi esegue ricerche archeologiche senza concessione dell’amministrazione. - Chi non denuncia nel termine prescritto dall’art. 90 comma 1 le cose indicate nell’art. 10 o non provvede alla loro conservazione temporanea. È punito con reclusione fino a 3 anni e multa da 31 a 516,60 euro chi si impossessa di beni culturali (art. 10) appartenenti allo Stato “furto d’arte” (impossessamento illecito di beni culturali). È punito inoltre mediante confisca del bene chiunque danneggi il patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, ed è proprietario del bene in questione. Espropriazione: i beni culturali mobili e immobili possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’azione è necessaria a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica degli stessi beni. Si distinguono per funzione, oggetto e procedura seguita: 1. Espropriazione del bene già dichiarato di interesse culturale (art. 95): il fine è assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene, già dichiarato interesse culturale e dunque vincolato; non è richiesta la previa approvazione di un progetto di intervento, ma è sufficiente un atto autonomo di valutazione dell’utilità pubblica dell’esproprio del bene culturale. 2. Espropriazione per fini strumentali (art. 96): espropriazione di aree ed edifici per isolare o restaurare monumenti, assicurarne luce e prospettiva, accrescerne decoro e godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso. 3. Espropriazione per interesse archeologico (art. 97): al fine di eseguire ricerche archeologiche. Nei casi 2 e 3 l’oggetto è un immobile o un’area non ancora dichiarata o priva di interesse culturale, confinante o vicino a quello vincolato, oppure un’area su cui vanno eseguite ricerche archeologiche; pubblico o la cui conservazione sia riconosciuta dal Ministero per i beni e le attività culturali di pubblico interesse (se gestisci un parco senza fine di lucro non ci pago le tasse). Legge 30 dicembre 1991 n. 413 art. 11 comma 2: il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico è determinato sulla base della minore delle tariffe d’estimo (tariffario, valore commerciale in base alla zona) previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato, mediante una rendita figurativa che prescinde dal reale utilizzo dell’immobile e da eventuali redditi derivati dalla locazione del bene. D.l. 2 marzo 2012 n. 16: abrogato articolo sopra e introdotti criteri di tassazione differenziati in ragione dell’uso impresso dal proprietario all’immobile; ne deriva una differenziazione tra bene locato, non locato o locato con cedolare secca (non si va a sommare agli altri redditi, ma ci paghi 21% se decidi tu il canone d’affitto, ovvero canone libero, altrimenti con un canone concordato con le associazioni di categoria la cedolare è al 10%), nonché una diversa imposizione ai fini di I.R.E.S. (imposta sui redditi delle società, imposta dunque non sulla persona fisica, ma sugli utili delle società) e I.M.U. (imposta municipale unica, tassa sugli immobili posseduti tranne quella principale). Legge n. 512/1982 art. 3: deducibilità delle spese sostenute (scalare spese sostenute) dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione e restauro delle cose vincolate, nella misura effettivamente rimasta a loro carico; la necessità delle spese deve essere certificata da una soprintendenza previo accertamento della loro congruità. D.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346: esclude dall’eredità attiva i beni culturali, comprensivamente definiti con un richiamo alla legge di sistema, purché sottoposti a vincolo prima dell’apertura della successione e a condizione che fossero stati assolti obblighi di conservazione e protezione del bene; inoltre il decreto ammette la cessione allo Stato di beni culturali, in pagamento totale o parziale dell’imposta di successione. Il Codice stabilisce che, previa autorizzazione, il soprintendente si pronunci a richiesta dell’interessato riguardo l’ammissibilità dell’intervento ai contributi statali (art. 35-37), e certifichi il carattere necessario all’intervento stesso ai fini della concessione delle agevolazioni tributarie previste dalla legge sulla base delle risorse disponibili annualmente; inoltre il soprintendente deve decidere riguardo la proposta di restauro ad iniziativa del proprietario, possessore o detentore del bene, inoltre confermi il carattere di necessità dell’intervento ai fini della concessione delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 35. Infine lo Stato deve concorrere alla spesa, anche sino al suo integrale ammontare, qualora vi sia un interesse pubblico dato dalla particolare rilevanza dell’opera (opere eseguite su beni in uso o godimento pubblico). Recenti politiche economiche dopo la nuova formulazione dell’art. 81 Cost.: pesanti restrizioni alla partecipazione finanziaria statale nelle attività di conservazione. La circolazione Circolazione: le norme del Codice riguardo la circolazione partono dalla legge n. 88/1998 art. 17: vieta l’uscita dal territorio della Repubblica quei beni d’interesse artistico, storico, archeologico, etnografico, bibliografico, documentale o archivistico; questa legge si basava su una difficile unificazione europea poiché il Mercato unico del 1993 ha prodotto la caduta delle barriere doganali e la fine dei controlli sulle esportazioni clandestine delle opere d’arte. Riguardo la circolazione bisogna distinguere: - In ambito nazionale: art. 53 Codice dice che i beni culturali appartenenti a Stato, regioni e ad altri enti pubblici territoriali costituiscono “demanio culturale”, dunque non possono essere alienati o formare oggetto di diritti a favore di terzi. Art. 54: inalienabili immobili e aree di interesse archeologico, quelli dichiarati monumenti nazionali, raccolte di musei ecc., cose mobili opera di autore vivente o di entro 50 anni prima, o di autore non vivente la cui opera superi i 50 dalla realizzazione (per questi ultimi c’è anche l’inalienabilità provvisoria a fini cautelari), archivi e singoli documenti. Sempre art. 54 comma 4: i beni in questione possono essere oggetto di trasferimento tra Stato, regioni ed altri enti pubblici territoriali, tranne se questa operazione pregiudichi regime giuridico e la pubblica fruizione. Per i beni culturali di proprietà pubblica è l’alienazione secondo un regime autorizzatorio del Ministero, che nel caso dei beni sdemanializzati deve garantirne tutela, valorizzazione e pubblico godimento, senza vincoli di destinazione d’uso del bene. Per il Codice gli atti che trasferiscono la proprietà o la detenzione dei beni culturali vanno denunciati al Ministero entro 30 giorni: 1. dall’alienazione in caso di alienazione a titolo oneroso, gratuito o di trasferimento della detenzione. 2. dall’acquirente se il trasferimento è avvenuto con procedure di vendita forzata o fallimentare (secondo sentenza che produce effetti di un contratto di alienazione non concluso). 3. dall’erede o legatario in caso di successione a causa di morte. Ministero ed enti pubblici territoriali possono acquistare in via di prelazione (diritto di essere informato per primo) i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, o al medesimo prezzo di alienazione o al medesimo valore attribuito durante il conferimento. Il diritto di prelazione va esercitato entro 60 giorni dalla data di ricezione della denuncia del trasferimento, ma se la denuncia è stata omessa, presentata tardi o incompleta il termine sarà di 180 giorni da momento in cui il Ministero riceve la denuncia o ha acquisito tutti gli elementi. - In ambito internazionale: regolata dal capo V titolo I della parte II del Codice che distingue: 1. Uscita dal territorio nazionale: art. 65 vieta uscita dal territorio nazionale dei beni culturali mobili dell’art. 10 commi 1-2-3. Ammessa l’uscita con autorizzazione a cose di interesse culturale opera di autore non vivente e di oltre 50 anni, di archivi e documenti di privati di particolare interesse culturale, cose rientranti nell’art. 11 comma 1 lett. f-g-h a chiunque appartenenti. Per questi beni è previsto un attestato di libera circolazione se devono uscire definitivamente dal territorio nazionale, va fatta denuncia e presentati all’ufficio di esportazione indicando il valore venale. L’attestato di libera circolazione ha valore di 3 anni ed entro 40 giorni dalla presentazione all’ufficio di esportazione esso può proporre al Ministero l’acquisto coattivo della cosa in questione per il valore indicato nella denuncia; il provvedimento d’acquisto è notificato all’interessato entro 90 giorni dalla denuncia (l’interessato può anche rinunciare all’uscita dell’oggetto e ritirarlo). Uscita libera invece vietata uscita delle cose dell’art. 11 comma 1 lett. d. (opere di pittura, scultura, grafica o oggetti d’arte di autore vivente o eseguiti entro 50 anni), ma va comprovato che le opere appartengano a questa categoria. 2. Ingresso nel territorio nazionale 3. Esportazione dal territorio dell’Unione europea 4. Restituzione di beni illecitamente usciti dal territorio di uno Stato membro 5. Ritorno dei beni culturali rubati o illecitamente esportati La circolazione poi ruota attorno a due alternative: - Attestato di libera circolazione per i paesi intracomunitari - Attestato + richiesta di esportazione per i paesi extracomunitari (rilasciata dagli uffici di esportazione). Beni usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro: vanno restituiti allo Stato che li richiede poiché appartenenti al patrimonio culturale nazionale; è importante in questo caso l’illiceità della provenienza del bene e il dato obiettivo della sua presenza in uno Stato membro differente da quello dove era originariamente collocato. La restituzione può avvenire di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria, davanti al tribunale del luogo in cui il bene si trova. Presso il Ministero è stata istituita una banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, anche se un adeguato funzionamento presupporrebbe una catalogazione completa del patrimonio italiano. La disciplina europea ed internazionale Disciplina europea ed internazionale: il Trattato sull’Unione europea prevedeva un contributo rivolto all’istruzione e alla formazione di qualità e al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri; in realtà già il fatto di istituire una cittadinanza dell’Unione presupponeva un modo di sentirsi europeo, che doveva dunque includere i beni culturali che rappresentano una testimonianza di una memoria comune. Oggi obiettivi dell’Unione: rispetto per la ricchezza della diversità culturale e linguistica, vigilanza e salvaguardia dello sviluppo del patrimonio culturale europeo; la cultura dunque considerata oggetto di azioni che sostengono, coordinano e completano l’azione degli Stati membri, mentre la necessità di valorizzazione viene ribadito nell’art. 22 della Carta di Nizza. Il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) vuole incoraggiare la cooperazione tra gli stati membri nei seguenti settori: - Miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei - Conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea - Scambi culturali non commerciali - Creazione artistica e letteraria, compreso settore audiovisivo Nell’art. 167 del TFUE uso del termine “patrimonio culturale d’importanza europea”: cerca di superare l’idea di patrimonio culturale di esclusivo interesse nazionale nel nome di un retaggio comune e di una sovranità culturale condivisa. Principio fondamentale è comunque la sussidiarietà: politiche di sostegno, integrazione e contributi alle politiche culturali nazionali. L’Unione non può non considerare gli aspetti culturali, nemmeno quando svolga azioni a norma di altre disposizioni, da qui capiamo la natura trasversale della dimensione culturale a livello europeo; inoltre l’art. 107 TFUE riconosce la compatibilità con il mercato interno degli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, a meno che non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza dell’Unione in misura contraria all’interesse comune. Vediamo dunque come la dimensione culturale abbia lentamente assunto un carattere più significativo della mera deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. Adottati poi: Re. CE n. 3911/1992: per impedire l’esportazione di beni culturali in Paesi fuori dall’Unione. Dir. Ce n. 7/1993: per arginare il traffico illecito di beni all’interno dell’Unione stessa. Viene attribuita dunque una speciale tutela per determinare categorie di beni, che si concretizza in un procedimento di restituzione e che si aggiunge alla legislazione nazionale. Reg. CE n. 116/2009: esportazione al di fuori del territorio della Comunità solo previa presentazione di una licenza di esportazione, rilasciata su richiesta dell’interessato da un’autorità competente dello Stato membro in cui il bene si trova lecitamente e definitivamente. Dir. n. 60/2014: nuova direttiva per la restituzione dei beni culturali, infatti viene estesa la tutela a qualsiasi bene definito culturale dal singolo Stato membro (a prescindere dalla riconducibilità a categorie predeterminate, collezioni pubbliche o istituzioni ecclesiastiche); la direttiva si occupa anche della necessità di una maggiore responsabilizzazione in capo agli acquirenti dei beni, Per quanto riguarda la valorizzazione il Codice invoca principio di cooperazione fra Stato, regioni ed enti locali: - Art. 7: Ministero, regioni ed enti pubblici territoriali perseguono coordinamento, armonizzazione ed integrazione delle attività di valorizzazione dei beni pubblici. - Art. 112 comma 4: Stato ed enti pubblici territoriali devono stipulare accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione. Dunque è un sistema integrativo di valorizzazione fra enti territoriali mediante accordi su base regionale e sub regionale, fondato sulla priorità dello strumento partecipativo e consensuale, e che possono riguardare anche beni di proprietà privata (previo consenso degli interessati). L’amministrazione dei beni culturali Il Ministero per i beni e le attività culturali D.lgs. n.368/1998 istituisce il nuovo Ministero per i beni e le attività culturali; esso deve provvedere alla tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, e alla promozione delle attività culturali, oltre che alle attività di studio, ricerca, innovazione e diffusione dell’arte e della cultura italiana all’estero. Ha inoltre una serie di funzioni amministrative riguardo la promozione delle attività culturali in tutte le loro manifestazioni, e approva il programma triennale degli interventi nel settore dei beni culturali. Al Ministero erano devolute le attribuzioni spettanti al Ministero per i beni culturali e ambientali (tranne quelle di competenza delle regioni a statuto speciale, delle province autonome e degli enti locali) e le attribuzioni in materia di spettacolo, sport e impiantistica sportiva che spettavano alla presidenza del Consiglio dei Ministri. In questo decreto dunque il ruolo centrale era del Ministero, ma doveva privilegiare il metodo della programmazione e favorire la cooperazione con regioni ed enti locali. Inoltre d.lgs. 30 luglio 1999 n. 303 all’art 10: trasferiva al Ministero dei beni e delle attività culturali funzioni, strutture e risorse relative al diritto d’autore, alla disciplina della proprietà letteraria e alla promozione delle attività culturali, che fino a quel momento erano di competenza del dipartimento per l’informazione ed editoria della presidenza del Consiglio dei Ministri. Le strutture centrali Il Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo (MiBACT) viene qualificato come organo di direzione politico-amministrativa del Ministero, che determina gli indirizzi, gli obiettivi e i programmi e verifica la rispondenza a questi dei risultati conseguiti; per le funzioni di indirizzo ci sono organi di consulenza del Ministro: il Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, i comitati tecnico-scientifici, i comitati regionali e di coordinamento ed altri organi costituiti in attuazione della legge. Il d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171 riformula il Consiglio superiore dei Beni culturali e paesaggistici e i Comitati tecnico-scientifici, inoltre ridisegna l’intera struttura organizzativa del Ministero. Il Consiglio superiore, un organo consultivo dei Ministero a carattere tecnico scientifico in materia di beni culturali e paesaggistici, ha durata triennale ed è composto dai 7 presidenti dei Comitati tecnico-scientifici e da 8 eminenti personalità del mondo della cultura nominate dal Ministro, 3 della quali su designazione della Conferenza unificata. Esso formula pareri obbligatori sui programmi nazionali per i beni culturali e paesaggistici e sui relativi piani di spesa, inoltre esprime su richiesta del direttore generale pareri su piano strategici di sviluppo culturale e programmi di valorizzazione dei beni culturali; il Ministro nomina il presidente del Consiglio superiore tra gli esperti (chiamati “personalità”) ed il Consiglio superire elegge a maggioranza tra i propri componenti il vice presidente e adotta un regolamento interno. Oggi ha superato il modello di “Parlamento della cultura” che era alla sua nascita ed ha una funzione essenzialmente ausiliaria del Ministero. Segretario generale: opera per il Ministro, doveva assicurare il mantenimento dell’unità dell’azione amministrativa coordinando gli uffici e le attività del Ministero e vigilando sulla loro efficienza e rendimento. Col d.lgs. 8 gennaio 2004 n. 3 veniva soppressa questa figura introducendo al suo posto 4 dipartimenti, uno per ciascuna area funzionale: 1. Beni culturali e paesaggistici 2. Beni archivistici e librari 3. Ricerca, innovazione ed organizzazione 4. Spettacolo e sport In questo modo però venivano fusi campi separabili e separati campi omogenei (es. beni archivistici e culturali), dunque col d.l. 18 maggio 2006 n. 181 veniva rimodellato il quadro dei Ministeri e assegnate al presidente del Consiglio funzioni in materia di sport, mentre al Ministero dei beni culturali venivano attribuite strutture e risorse in materia di turismo. La figura del Segretario generale veniva reintrodotta con la l. 24 novembre 2006 n. 286, articolando il Ministero in 10 uffici dirigenziali generali centrali e 17 uffici dirigenziali generali periferici (coordinati dal Segretario) e da 2 uffici dirigenziali generali presso il Gabinetto del Ministro. L’amministrazione dei beni culturali però viene successivamente stravolta fino ad arrivare al d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171: nuovo regolamento di organizzazione del Ministero, viene puntualizzata la collocazione del Segretario generale come vertice amministrativo del Ministero ribadendone la funzione di coordinamento verso uffici dirigenziali (centrali e periferici); snellite le strutture centrali a 12 uffici dirigenziali di livello generale centrali + 9 uffici dirigenziali periferici. Gli organi periferici Secondo art. 30 del d.P.R. n. 805/1975 erano organi periferici dello Stato: archivi di Stato, biblioteche pubbliche e statali e soprintendenze. La dislocazione del patrimonio culturale italiano e l’esigenza di accrescerne i livelli di responsabilità nella gestione ha indotto il legislatore ad affidare il coordinamento regionale a un soprintendente, il quale ha il compito di coordinare le attività delle soprintendenze operanti nella regione e che svincolava l’idea di soprintendenza da una dimensione esclusivamente localistica; nelle regioni a statuto ordinario ad un dirigente delle soprintendenze alle antichità e belle arti veniva conferito l’incarico aggiuntivo di “Soprintendente regionale” per i beni culturali e ambientali. Il d.lgs. n. 3/2004 istituiva nelle regioni a statuto ordinario le Direzioni generali per i beni culturali e paesaggistici come articolazioni territoriali, di livello dirigenziale generale, del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, aventi sede nel capoluogo della rispettiva regione. Col d.P.R. n. 173/2004 venivano precisate funzioni della direzione generale armonizzando le funzioni con la normativa del Codice appena varato, e concependo un ventaglio di funzioni al di là del coordinamento e la programmazione attribuite alle soprintendenze regionali, esplicandosi in funzioni di più stretta natura decisionale e propositiva: i direttori generali così avevano più compiti tecnici e acquisivano compiti amministrativi e di organizzazione-gestione delle risorse umane e strumentali. Oggi il d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171 individua 8 organi periferici: 1. Segretariati regionali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo 2. Soprintendenze Archeologia 3. Soprintendenze Belle arti e paesaggio 4. Poli museali regionali 5. Musei 6. Soprintendenze archivistiche 7. Archivi di Stato 8. Biblioteche Le Direzioni regionali preesistenti vengono sostituite dai Segretari regionali, che devono assicurare il coordinamento dell’attività delle strutture periferiche del Ministero presenti nel territorio regionale e i rapporti del Ministero e delle strutture periferiche con Regioni, enti locali e altre istituzioni regionali. Tra i loro doveri: - Quelli legati alla Commissione regionale per il patrimonio culturale, che è lui a convocare e per cui istruisce la documentazione relativa alle proposte di interventi da inserire nei programmi annuali e pluriennali e nei relativi piani di spesa - Riferisce al Segretario generale e ai direttori generali centrali riguardo le attività degli uffici periferici del Ministero operanti nella Regione - Dispone il concorso del Ministero nelle spese effettuate dai proprietari, possessori o detentori dei beni per interventi conservativi - Stipula (su istruzioni della soprintendenza) accordi e convenzioni con i proprietari dei beni culturali oggetto di interventi conservativi, alla cui spesa ha contribuito il Ministero - Trasmette al competente direttore generale centrale le proposte di prelazione che gli pervengono dalle soprintendenze destinatarie (art. 62 comma 1 Cod.) Per quanto riguarda le soprintendenze: - Ruolo tecnico-scientifico sul territorio a presidio della funzione di tutela - Occupazione temporanea di immobili - Istruzione e proposta alla direzione generale centrale competente dell’esercizio del diritto di prelazione - Rappresentanza del Ministero nelle conferenze di servizi - Facoltà di autorizzare l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali - Proposta e istruttoria nei procedimenti di verifica dell’interesse culturale Riforma 2014: soprintendenze accorpate e semplificate mediante un riordino della materia con l’istituzione di 2 sole soprintendenze, Archeologia e Belle arti e paesaggio, a cui è affidata la tutela sul territorio del patrimonio culturale; vengono poi ad esse affiancate quelle archivistiche. D.l. 31 maggio 2014 n. 83: il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo può adottare un decreto con cui trasforma in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile ed organizzativa i poli museali, gli istituti e i luoghi della cultura statali e gli uffici competenti su complessi di beni di eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico; l’autonomia poteva essere attribuita anche a musei, biblioteche pubbliche e statali, archivi di Stato e soprintendenze archivistiche. Poli museali regionali: organi che devono promuovere sul territorio la costituzione di un sistema museale integrato per favorire la creazione di poli comprendenti gli istituti e i luoghi di cultura statali e quelli delle amministrazioni pubbliche, promuovendo una comunicazione fra realtà museali private e pubbliche in grado di dialogare anche col territorio e di valorizzarlo attraverso la propria offerta culturale. Le strutture autonome Vedi sopra d.l. 31 maggio 2014 n. 83. Costituzione nel 2001 di soprintendenze autonome analoghe a quella di Pompei per la gestione di musei e grandi complessi archeologici e monumentali a Napoli, Roma, Firenze e Venezia; queste aspettative però sono andate deluse dopo il fallimento dell’esperimento di Pompei poiché il 4 luglio 2008 venne dichiarato lo stato di emergenza (dal ministro per i Beni e le Attività culturali, dal Prefetto di Napoli e dalla Regione Campania) dell’area archeologica per la sua situazione di criticità. d.P.C.M. n. 171 del 2014 art. 30: riforma soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, e l’art. 41 comma 2 le affida la qualifica di ufficio dirigenziale generale alla conclusione del “Grande Progetto Pompei” (rinascita del sito col finanziamento di 105 milioni da parte dell’Ue), approvato dalla Commissione europea con decisione n. C(2012) 2154 del 29 marzo 2012. diverse aree territoriali e ai diversi settori, esso inoltre esercita funzioni amministrative statali in materia di promozione delle attività culturali in tutte le loro manifestazioni. D.lgs. n. 300/1999: sottolinea che il Ministero svolge funzioni di tutela, gestione e valorizzazione, ma anche quelle relative alla promozione delle attività culturali (art. 53). Il ruolo centrale del Ministero sembra temperato dal fatto che esso deve privilegiare il metodo della programmazione, favorire la cooperazione con le regioni e gli enti locali e operare per la promozione delle attività culturali garantendone il pluralismo e lo sviluppo. La riforma del titolo V Con la riforma del titolo V del 2001 la tutela resta fra le competenze legislative dello Stato, la promozione è affidata alla potestà concorrente di Stato-Regioni, lasciando alla legislazione statale il compito di stabilire i principi fondamentali in materia. Viene sciolto il tradizionale parallelismo tra funzioni legislative e amministrative, e, mentre la potestà regolamentare spetta ancora allo Stato nelle materie di legislazione, nelle altre viene affidata alle regioni (ciò già preludeva un trasferimento totale delle funzioni e risorse alle regioni ed enti locali). La sussidiarietà è parte integrante del titolo V: introduce nella Carta fondamentale l’allocazione delle funzioni al più decentrato livello costituzionale o al livello territoriale più adeguato rispetto alle finalità perseguite; l’art. 118 Cost. infatti affida le funzioni amministrative ai Comuni salvo che vengano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato per assicurarne l’esercizio unitario, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. L’inserimento della promozione ed organizzazione delle attività culturali fra le materie legislative pone un vincolo alla legislazione successiva, impegnando lo Stato a porre i soli principi fondamentali in materia; inoltre non rimangono riferimenti espliciti alla categoria dell’interesse nazionale e sono esclusi gli apparati centrali da qualunque ruolo funzionale amministrativo. Tutti i progetti di riforma culturale mirano ad efficienza, razionalizzazione delle risorse e integrazione fra i livelli di governo nel campo del coordinamento e della cooperazione; gli esiti però sono imprevedibili sia per le prospettive di revisione, sia per le difficoltà di delineare una strategia limpida delle politiche culturali, le difficoltà storiche di modernizzazione dell’amministrazione e l’incapacità della classe politica di percepire la dimensione culturale come luogo del consenso istituzionale. Le attività culturali dopo il Codice dei beni culturali Legge 6 luglio 2002 n. 137 art. 10: aggiornamento degli strumenti legislativi del settore culturale; Governo doveva adottare entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge uno o più decreti legislativi per il riassetto e la codificazione delle disposizioni legislative in materia di: - Beni culturali e ambientali - Cinematografia - Teatro, musica, danza ed altre forme di spettacolo dal vivo - Sport - Proprietà letteraria e diritto d’autore Le attività culturali non trovano posto all’interno delle tipologie di beni descritte (art. 10-11) nel nuovo Codice, che è strutturato sul criterio di materialità del bene. Dopo il Codice è stato forte l’intervento della Corte Costituzionale per quanto riguarda sia una riqualificazione delle attività culturali, sia la delimitazione dei loro confini, sia per la cooperazione fra Stato e regioni nella determinazione delle nuove potestà ripartite: il giudice delle leggi prima di tutto ha affermato che le attività culturali riguardano tutte le attività riconducibili all’elaborazione e diffusione della cultura; viene poi negato che lo spettacolo rappresenti, in mancanza di una collocazione all’interno delle materie di competenza statale, una potestà residuale (esclusiva) delle regioni, dunque le azioni di sostegno dello spettacolo vanno comprese nell’ambito della promozione ed organizzazione delle attività culturali. Il diritto comunitario La promozione delle attività culturali ha trovato risalto a livello comunitario: il Trattato dell’Ue ha compreso tra gli obiettivi dell’azione comunitaria un contributo rivolto ad un’istruzione e ad una formazione di qualità e al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri. Il principio fondamentale a cui si ispira oggi l’azione dell’Unione è quello della sussidiarietà, che si concretizza in politiche di sostegno, integrazione e contributi alle politiche culturali nazionali. Art. 167 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea: la Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, mentre l’azione della Comunità è intesa ad incoraggiare la cooperazione degli Stati membri e, se necessario, appoggiare e integrare l’azione di questi ultimi. Il Trattato prevede un’azione della Comunità nei seguenti settori: - Miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei. - Conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale d’importanza europea. - Scambi culturali non commerciali. - Creazione artistica e letteraria (compreso settore audiovisivo). L’azione di incentivazione della creazione artistica e letteraria non è limitata dal vincolo di appartenenza del bene (a differenza della tutela che è vincolata al patrimonio d’”importanza europea”). In passato l’attività di promozione comunitaria era limitata al conferimento di borse di studio ad artisti o al finanziamento di particolari eventi culturali, ma dalla seconda metà degli anni ’90 l’Ue si è impegnata a sostegno di programmi culturali più ampi a scopo di incoraggiare la creazione artistica e promuovere conoscenza e diffusione della cultura dei popoli europei, un esempio è il “Programma Cultura 2000”, sostituito poi dal “Programma Cultura 2007” con validità fino al 2013, poi sostituito a sua volta dal “Programma Europa Creativa 2014-2020”: 1.46 miliardi di euro destinati a rafforzare il settore culturale e creativo per il 2014-2020; gli obiettivi sono proteggere, sviluppare e promuovere la diversità culturale e linguistica europea e promuovere il patrimonio culturale dell’Europa. Il paesaggio La nozione costituzionale di paesaggio Art. 9 comma 2 Cost.: la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. La nozione di “paesaggio” coinciderebbe con quella di “bellezze naturali” contenuta nella l. 1497/1939, e sarebbe utilizzata per indicare in modo generico il complesso dei beni che la tradizione legislativa ha fatto oggetto di protezione particolare. La nozione di paesaggio viene fatta ricomprendere tra i “quadri naturali” espressi dai valori paesistici, mentre non ricadrebbe all’interno della disciplina costituzionale la fauna, la flora e tutto quanto prescinde dalla “natura in quanto tale”: ne deriva che i beni costituenti il paesaggio sono tali in virtù di caratteristiche intrinseche e predefinite, mentre la disciplina regolativa sarà attestata sulle tradizionali funzioni conservative e di tutela. A questa prima interpretazione è stata contrapposta una differente teorizzazione in cui la locuzione “paesaggio” viene imputata a un processo creativo che interessa l’uomo non meno che la natura, nel senso di un’incessante correlazione fra comunità umana e ambiente che la circonda; s’intende quindi ogni insediamento naturale ove l’operato umano lasci segni tangibili della propria storia. Quest’ultima concezione ha permesso di superare definitivamente la dicotomia tra “bello” prodotto dall’uomo e “bellezza” della natura che aveva ispirato la l. 1 giugno 1939 n. 1089 e la l. 29 giugno 1939, n. 1497 (Leggi Bottai), dedicate rispettivamente alle cose d’arte e alle bellezze naturali. Il paesaggio nell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale Agli inizi degli anni 70 il giudice delle leggi è ancora ancorato a una concezione estetica del paesaggio: nella sent. 141/1972 la Corte sancisce un regime di separazione fra urbanistica e paesaggio, congiungendo quest’ultimo alla nozione di bellezze naturali. La svolta avviene con l’entrata in vigore della legge 431/1985 (Legge Galasso), che introduce un’innovativa concezione della tutela del paesaggio, assoggettando a vincoli paesaggistici intere categorie di beni in ragione del loro specifico interesse ambientale. La legge Galasso interviene per la prima volta in modo incisivo sulla realtà ambientale italiana ed estende la disciplina vincolistica del 1939 a intere aree territoriali; inoltre, questa legge disegna una regolazione paesaggistica improntata a integralità e globalità, secondo un valore culturale equiparato a quello estetico, in funzione di un modello operativo non più conservativo e statico, ma gestionale e dinamico. Il paesaggio dopo la riforma del titolo V della Costituzione. La centralità del patrimonio culturale La disciplina del paesaggio ha conosciuto un ulteriore sviluppo di modello e problematiche negli ultimi decenni: tanto il legislatore quanto la giurisprudenza si sono trovati a ridefinire i criteri di riparto della funzione legislativa e di quella amministrativa in materia. Si è rivelato imprescindibile disegnare i confini tra la nozione di paesaggio e quelle limitrofe, quali l’ambiente e il governo del territorio; in secondo luogo si è trattato di ridefinire le esigenze di tutela paesaggistica con la presenza umana e le sue correlate esigenze, per stabilire un bilanciamento degli interessi in gioco. Non è un caso che la “Convenzione europea del paesaggio”, alla quale il Codice dei beni culturali e del paesaggio si è ampiamente ispirato, parli espressamente di “gestione di paesaggi”, cioè di azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici e ambientali. Il paesaggio, infatti, non è statico ma vive in una condizione di temporalità: la sua descrizione ha pertanto la forma narrativa del racconto, in quanto ogni singolo elemento può essere considerato in un altro momento presente o futuro. Esso va senz’altro preservato in quanto tale, ma è chiamato anche a un’inesorabile e paziente convivenza con l’uomo, la quale lo assoggetta a fruizione, ne modifica lo stile e ne fa evolvere le sembianze. La riforma del titolo V della Costituzione ha ridistribuito le competenze in materia e posto una quantità di questioni interpretative, sia in merito alla scissione operata tra tutela e valorizzazione, sia in relazione alla qualificazione terminologica di bene ambientale introdotta in materia di valorizzazione, e infine per quanto concerne il rapporto tra paesaggio e beni culturali.: secondo l’art. 117 comma 2 Cost. la tutela di ambiente ed ecosistema è inserita fra le materie a potestà primaria dello Stato, mentre la valorizzazione dei beni ambientali è contenuta fra le materie a potestà legislativa concorrente con conseguente attribuzione allo Stato della competenza a stabilire i principi fondamentali. La Corte costituzionale ha poi precisato che la tutela ambientale e paesaggistica precede e costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Questa pronuncia e altre consimili hanno poi ispirato il d.lgs. 63/2008 che ha riscritto l’art. 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio: il nuovo testo prevede che la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio costituisca un limite all’esercizio delle attribuzioni delle regioni sul territorio e che le norme del Codice definiscano i principi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici. La tutela del paesaggio (art. 131 Cod.), è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime; tutti i soggetti pubblici che intervengono sul territorio sono pertanto chiamati ad assicurare la conservazione dei suoi aspetti e caratteri peculiari. Quanto alla valorizzazione del paesaggio, l’art. 6 del Codice vi riconduce l’adeguata fruizione e la conservazione del patrimonio in generale, gli interventi aventi ad oggetto culturale in generale e quelli aventi ad oggetto il solo paesaggio. d’intervento al fine di ottenere l’autorizzazione paesaggistica: una valutazione tecnica il cui rilascio presuppone un controllo di conformità del progetto presentato alle prescrizioni del piano paesaggistico; sull’istanza di autorizzazione si pronuncia la regione, dopo aver acquisito il parere del soprintendente sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento. In conclusione, le attribuzioni alle regioni in materia di piani paesaggistici sanciscono l’affermazione di un’idea plurale di paesaggio, parlando così di paesaggi, come felice sintesi di natura e cultura che caratterizza il territorio e come fattore primario d’identità del patrimonio culturale della Repubblica. In materia di tutela la competenza è statale, ma le regioni sono chiamate a cooperarvi attraverso piani paesaggistici purché l’intervento normativo si risolva in una maggior protezione dell’interesse ambientale; la pianificazione paesaggistica è dunque disegnata dalle regioni attraverso piani paesaggistici tipici o piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (l’opzione per questo secondo strumento impone che la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente). I più recenti interventi legislativi riflettono questo spirito di conservazione? D.l. 133/2014 (Decreto Sblocca Italia), poi convertito in l. 164/2014, ove compare il rinvio a un regolamento che escluderebbe l’autorizzazione paesaggistica per tipologie d’interventi minori e di lieve entità; nel mentre viene circoscritto il ruolo delle soprintendenze, attraverso un meccanismo di silenzio-assenso che si traduce nell’automatica possibilità per l’amministrazione competente di provvedere sull’autorizzazione paesaggistica nel caso in cui, decorsi 60 giorni, il soprintendente non abbia reso il proprio potere. Le città d’arte Una premessa La nozione di città d’arte evoca un universo concettuale estraneo alla scienza del diritto. Si tratta di un concetto la cui eco risuona sempre più frequentemente sui mass media, ma che stenta a farsi largo nel vivo dell’ordinamento. Alcune eccezioni a riguardo possono essere rinvenute nella legislazione regionale, dove si può ricordare la legge della Regione Emilia-Romagna 14/1999, che utilizza tale locuzione a proposito dei giorni di chiusura degli esercizi commerciali in talune località turistiche denominate “città d’arte”. Il concetto di città d’arte Si tende a identificare le città d’arte con i nuclei urbani dotati di una spiccata vocazione turistica, finendo per immettere in un solo calderone situazioni fin troppo eterogenee, dalla metropoli abitata da milioni di abitanti al borgo medievale umbro o toscano. Per restringere il campo, si potrebbe forse applicare la nozione solo alle città particolarmente ricche di tesori artistici, ma anche così gli esiti sarebbero troppo generici e onnicomprensivi, dato che in Italia si trova conservato il 30% del patrimonio artistico mondiale. Non resta quindi che esplorare i reciproci rapporti che s’instaurano fra il concetto d’arte e quello di città. Entrambi sono provvisti di una forte apertura semantica, al punto di formare oggetto di discipline specifiche: estetica e urbanistica. Non esistono dunque criteri sicuri per distinguere la città dal villaggio, o l’arte dall’artigianato. Questo fondo opaco insito nei concetti di arte e città rende la città d’arte una figura ermetica e sfuggente. 1. Centro abitato: di esso vi è traccia nel testo unico delle leggi sanitarie, nel codice della strada e nelle leggi urbanistiche, ove il nucleo essenziale del concetto riposa sul fatto che queste ultime siano munite di un sistema apprezzabile d’impianti e servizi. 1. Vecchio centro abitato: nozione utilizzata allo scopo d’indicare aggregati urbani rimasti indenni dopo un movimento tellurico a carattere distruttivo. 2. Centro storico: designa quella parte della città che ne documenta uno stadio diverso dall’attuale. Tale nozione si adatta a usi piuttosto eterogenei, anche perché non ne esistono definizioni normative. Se si vuole guadagnare una maggiore precisione concettuale, è necessario tenere separati i diversi livelli semantici riassunti dal termine in questione tenendo in considerazione la distinzione di Giannini fra: - Accezione culturale: mette le radici nella l. 1089/1939 (Bottai) concernente la tutela delle bellezze naturali e identifica i valori storici intorno ai quali si è raccolta la comunità cittadini. - Accezione urbanistica: trae alimento dalla legge-ponte urbanistica e risponde a una logica interna al piano regolatore. Di norma le due nozioni risultano coincidenti, ma può anche prospettarsi l’ipotesi d’un aggregato abitativo privo di centro storico culturale, o i cui valori storici costituiscano degli episodi periferici rispetto alla conformazione del tessuto urbano. Tale distinzione mette a nudo l’ambivalenza del concetto di centro storico in senso politico: segnalata da Benvenuti per esprimere la sua originaria funzione di luogo d’incontro della comunità e sede di partecipazione popolare alle sorti della cosa pubblica. Solo nel primo di questi 3 casi il centro storico rientra nel novero dei beni culturali; ma allora è bene riservargli la più esatta denominazione di centro antico: Il termine “antico” rende l’idea di un ciclo di storia oramai concluso e dunque espone al meglio il concetto di centro storico in senso culturale; questa nozione consente inoltre di non lasciare in ombra i pregi estetici propri dei centri storici in senso culturale. L’aggettivo “antico” inoltre contiene un’espressione di elogio e pertanto è divenuto sinonimo di bello. Non resta che far leva sulla differenza sussistente tra la nozione di città e quella di centro urbano, il quale occupa solo una porzione del territorio cittadino: dunque il punto d’utilità connesso all’introduzione del concetto di città d’arte sta nel fatto che quest’ultimo permette di superare le angustie del concetto di centro storico in situazioni nelle quali l’intero territorio urbano è dotato di pregio storico-artistico (Venezia). In sintesi, ogni aggregato ha un centro storico che va tutelato perché vi si conserva la memoria storica del luogo e quindi la sua identità; taluni insediamenti dispongono poi d’un centro storico ricco di testimonianze artistiche del passato, e vi è allora più propriamente un centro antico; altrove, il centro antico finisce per coincidere con tutto il centro abitato, e affiora pertanto la nozione di città d’arte. Fra centro antico e città d’arte si pone dunque una differenza di proporzioni: la città d’arte è formata dal solo centro antico, ossia da un centro antico estremamente esteso, compatto e pregevole: l’elemento decisivo risiede nel continuum, nel contesto urbano, pur senza recare a tutti i costi i segni di una sola epoca (è il caso di Gubbio, ma non di Roma). Proprio nella comunità degli elementi architettonici risiede invece il potere di suggestione che le città d’arte esercitano sul visitatore, per queste ragioni la funzione culturale acquista nelle città d’arte uno spessore eccezionale: esse infatti per un verso partecipano del concetto di cultura come memoria del passato e anche come attività esteticamente connotata; per altro verso si risolvono in uno strumento di sviluppo intellettuale per coloro che ne vengano a contatto. Nelle città d’arte sono presenti entrambi i requisiti del concetto di bene culturale; oltretutto la particolare qualità storica e artistica del tessuto urbano si lega non di rado alla cura di salde tradizioni culturale da parte della comunità civile (caso di Firenze). Ciò permette di concludere che le città d’arte non si esauriscono nella somma dei beni culturali ospitati all’interno del perimetro urbano, ma rappresentano esse stesse un bene culturale nuovo e ulteriore. L’innesto delle città d’arte nel genus dei beni culturali consente poi d’estendervi le competenze e gli strumenti di tutela concepiti per questi ultimi; tuttavia è bene completarne la definizione con talune precisazioni concettuali: nulla vieta di considerare città d’arte anche luoghi che non siano stati protagonisti della storia o in cui non sia rimasta traccia di artisti celebrati, purché il tessuto urbano risulti esteticamente connotato (es. Venezia, ma anche Noto), altrimenti si riesumerebbe il concetto elitario di bene culturale; in secondo luogo, benché la nozione di città d’arte sia il più delle volte collegata a siti di antica costruzione, non esistono regioni di principio per respingere dalla categoria in questione la città moderna come tale, nei casi in cui essa rivesta un particolare pregio estetico (Brasilia o Leningrado, costruita nel 1700). Inoltre, la nozione di città d’arte non deve essere confusa con la città-museo, ricca di testimonianze artistiche ma organa della propria eredità di relazioni e costumi; altrimenti si finirebbe per definire città d’arte anche reperti archeologici come Paestum o Pompei. Ciò significa che qualsiasi intervento di tutela deve rispettarne l’identità sociale (Bologna è riuscita a risanare il centro storico mantenendone al contempo inalterata la composizione sociale). Prospettive di tutela L’ingresso della città d’arte nel mondo del diritto esprime la necessità di sostenerne a pieno la vocazione culturale. A tale riguardo, possono mettersi a profitto alcuni spunti contenuti nella sentenza 151/1986 concernente il “decreto Galasso” sulla protezione delle zone d’interesse ambientale: la Corte ha ravvisato l’elemento di novità della normativa nel fatto che quest’ultima per la prima volta si preoccupa di difendere il paesaggio nella sua globalità anziché in particelle isolate: ciò pone un’analogia con l’istanza di preservare l’intera città d’arte, anziché singoli quartieri o monumenti. Inoltre, il tribunale costituzionale ha dichiarato la primarietà del valore estetico- culturale (esso non può essere subordinato a qualsiasi altro), che deriva dalla collocazione dell’art. 9 tra i principi fondamentali della Costituzione. Un’adeguata normativa di tutela non può che agire su due fronti: - In nome del valore estetico-culturale potrà giustificarsi una speciale regolamentazione del traffico stradale, dell’edilizia, degli esercizi commerciali, del turismo. - Tale valore solleciterà interventi di restauro e di valorizzazione del patrimonio architettonico. Benché primario, il valore estetico culturale non è certo in grado di resistere alla pressione d’interessi ancora più fondamentali, quali l’interesse alla salute, all’incolumità dei cittadini, alla difesa, dunque rimane pur sempre assoggettato alle regole che governano i conflitti tra valori costituzionali. Tuttavia ci sono casi in cui la Carta costituzionale circonda di speciale rilevanza talune sue disposizioni; ad esempio quando essa qualifica come inviolabili i diritti di libertà, o detta un catalogo di principi fondamentali; proprio l’inserzione dell’art. 9 Cost. nel novero di tali principi giustifica la preminenza del valore estetico – culturale rispetto a interessi di minore profilo costituzionale. Talvolta però i valori fondamentali dell’ordinamento entrano in frizione con istanze situate sul medesimo livello assiologico, e in questo caso è possibile dirimere il conflitto applicando le regole della specialità e assegnando perciò la prevalenza della norma specifica piuttosto che a quella generale; altrimenti occorre arrendersi all’esistenza d’una zona franca nel tessuto costituzionale, in seno alla quale ha campo libero la scelta del legislatore. Non vi è dubbio che il valore estetico-culturale costituisca l’anello debole del rapporto ogni qualvolta sia minacciata l’identità della nazione o la sua sopravvivenza: quest’ultima ne rappresenta difatti il presupposto. Perciò nel caso di aggressione esterna al territorio dello Stato, le istanze della cultura e dell’arte non possono che cedere il passo alle esigenze della difesa militari, delle quali vi è traccia nell’art. 11 Cost.; ciononostante è possibile intraprendere qualche precauzione: tale ad esempio quella di proclamare “città aperte” tutte le città d’arte, promovendo i necessari accordi internazionali allo scopo di scongiurare danni recati dalle guerre. Quanto alla tutela indiretta dei beni culturali, sussiste la possibilità di applicare a tale fattispecie il vincolo in passato previsto dall’art. 21 della l. 1089/1939, formando una zona di rispetto intorno ai beni immobili d’interesse storico o artistico. Tuttavia, per risolvere i problemi degli insediamenti urbani esteticamente connotati, è necessario richiedere una legge nuova e organicamente concepita: ciò significa che bisogna superare la logica della legge regionale censurata. Quanto ai beni museali che appartengono a enti diversi dallo Stato, si ricorda la l. 1080/1960, che suddivide in 4 classi i musei, a seconda dell’importanza della loro collezione e in rapporto a un’adeguata organizzazione rispondente all’interesse nazionale che essi rivestono: - Musei multipli. - Musei grandi. - Musei medi. - Musei minori. In merito a ciascuna di tali categorie è determinante inoltre il ruolo rivestito dagli enti regionali. A norma dell’art. 7 del d.P.R. 3/1972, essi avevano ottenuto una somma di funzioni concernenti sia “l’istituzione, ordinamento e funzionamento” dei musei di enti locali, sia la “manutenzione,, integrità, sicurezza e godimento pubblico delle cose raccolte nei musei”, sia “interventi finanziari” necessari a potenziare il patrimonio museale. Restavano però allo Stato le funzioni più tipicamente protettive, ed era discusso inoltre se la competenza regionale si estendesse anche ai musei degli enti pubblici non territoriali. Una notevole espansione dell’area normativa consegnata alle regioni era avvenuta tuttavia con l’art. 47 del d.P.R. 616/1977, che ha precisato come quest’ultima investa tutti i servizi e le attività riguardanti l’esistenza, la conservazione, il funzionamento, il pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, nonché il loro coordinamento reciproco con le altre istituzioni culturali operanti nella regione. Le funzioni di coordinamento sono tutt’altro che marginali rispetto ai poteri d’impulso e di gestione, dal momento che il pluralismo dei musei può ben determinare situazioni di sovraffollamento, duplicazioni inutili o gravi lacune. All’indomani del varo del d.lgs. 112/1998 è stato attuato il trasferimento di molteplici funzioni amministrative alle regioni, tra cui quelle attinenti alla valorizzazione, alla fruizione e alla gestione dei beni culturali. In realtà la disciplina dei musei e biblioteche di enti locali appartiene tradizionalmente alla competenza regionale: il trasferimento delle relative funzioni amministrative dallo Stato alle regioni era avvenuto già con il d.P.R 3/1972. Sempre nella prospettiva del decentramento può essere inquadrata l’istituzione delle soprintendenze regionali avvenuta con d.P.R. 441/2000. In base al nuovo regolamento di organizzazione del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, esse restano organi periferici del Ministero e dipendono dalla competente Direzione Generale. Svolgono le funzioni elencate negli artt. 33 e 36 del regolamento citato, tra le quali rileva quella, attribuita alle Soprintendenze Archeologia e Belle arti e paesaggio, di istruire e proporre la dichiarazione dell’interesse culturale; e quella, assegnata alle Soprintendenze archivistiche, di accertare e dichiarare l’interesse storico particolarmente importante di archivi e singoli documenti appartenenti a privati (ciò che in passato competeva al Ministro). Le garanzie di sicurezza Con riguardo alla sua specifica natura di sede per la raccolta di beni culturali e talvolta di bene culturale esso stesso, il ruolo del museo si riassume in due termini: conservare e valorizzare. Quanto al primo aspetto, è evidente come gli episodi del “terrorismo culturale” e i ripetuti furti di opere d’arte nei musei pongono l’esigenza di potenziare gli organici delle istituzioni museali. A tal proposito, la l. 4/1993 ha dettato un primo gruppo di misure normative, il cui fine consiste nella necessità di assicurare “una più intensa sorveglianza” nei musei. E infatti la legge in questione: - Autorizza il controllo ininterrotto delle opere esposte o depositate in tutti i musei dove siano istallati impianti audiovisivi di sicurezza. - Consente l’assegnazione temporanea negli istituti museali di unità dipendenti da altro ufficio, presso il quale il personale risulti in esubero rispetto alla dotazione organica. - Permette di utilizzare il personale delle organizzazioni di volontariato a integrazione del personale dell’Amministrazione dei beni culturali e ambientali. Già il t.u. aveva rafforzato l’apparato sanzionatorio contro le offese ai beni d’interesse storico e artistico appartenenti al patrimonio museale, la cui salvaguardia fino al 1999 poggiava sull’art. 733 c.p., che contempla il reato di danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, e sulla l. 1062/1971 sulla contraffazione o alterazione di opere d’arte. Già la l. 352/1997 all’art. 13 conteneva disposizioni sul danneggiamento dei beni culturali; in particolare, intendeva contrastare il fenomeno dei graffiti, che recano offesa alle opere d’arte praticandone l’imbrattamento attraverso bombolette spray. Oggi il Codice dei beni culturali dedica l’intera parte IV alle sanzioni a difesa dei beni culturali, richiamando le incriminatrici previste dal t.u. e mostrando tutto il carattere specialistico della materia a motivo dell’irripetibilità dei beni tutelati. I “diritti culturali” del pubblico di visitatori del museo Affinché l’esposizione dei beni conservati nel museo si risolva in un veicolo di effettiva promozione culturale, è necessario assicurare un soggiorno gradevole e informato al pubblico dei visitatori. Se lo scopo al quale si rivolgono le norme dettate dal costituente per la disciplina dei fenomeni artistici e scientifici, e in particolare l’art. 9 Cost., consiste nel miglioramento del livello culturale dei consociati, in nessun caso l’intervento dei pubblici poteri può ridursi alla semplice gestione del patrimonio ereditato dalle generazioni precedenti: tale intervento deve invece offrire impulso alla creazione e alla distribuzione dei fatti culturali. Il godimento collettivo dei beni museali dà luogo a un insieme variegato di diritti culturali, che a loro volta possono accorparsi in 3 categorie distinte: 1. Diritto di accesso: in primo luogo viene in evidenza il diritto di accesso ai locali e alle opere esposte nel museo, che in Italia ha incontrato e continua ad incontrare non pochi ostacoli. Dalla ricerca dell’Istat emerge che nel 1992 su 100 musei 28 sono totalmente chiusi e 72 erano aperti solo un giorno l’anno. Tali disfunzioni recano in sé una grave responsabilità delle istituzioni di governo, specialmente quando il museo è di proprietà dello Stato o di altre collettività territoriale, ma anche nel caso di musei privati può lamentarsi una qualche negligenza da parte dell’amministrazione pubblica, nonostante sia stato ribadito il potere del Ministro di “costringere” i privati titolari di beni culturali che rivestano un rilevante interesse storico-artistico ad ammettere il libero accesso del pubblico. A queste critiche si replica per solito argomentando dalla cronica penuria di risorse finanziarie, ma l’obiezione è alquanto fragile per almeno due ragioni: - Possono ben ottenersi dei risparmi accorpando le sedi museali, a meno che non costituiscano anch’esse beni immobili di valore storico o artistico. - L’obbligo di consentire la fruizione pubblica del bene museale non comporta necessariamente l’accesso gratuito per tutti: mentre il museo che rimanga chiuso non merita più il nome stesso di museo, perché ne tradisce la vocazione pubblica e perché contraddice in ogni caso il valore della promozione culturale sancito dalla Costituzione. Servirebbe un bilanciamento fra le strettoie della copertura finanziaria e l’esigenza di estendere quanto più possibile il pubblico dei consumatori di cultura. Il legislatore nel t.u. aveva attribuito espressamente alla potestà regolamentare del Ministro per i beni e le attività culturali la disciplina dell’apertura al pubblico dei musei, reinserendo il biglietto d’ingresso che invece era stato soppresso dalla l. 78/1997. Aveva inoltre previsto che fosse sempre il regolamento a determinare i casi d’ingresso gratuito oltre che i criteri per la fissazione del prezzo. La Corte di Giustizia delle Comunità europee aveva condannato l’Italia per aver riservato tariffe d’ingresso ai musei più favorevoli ai soli cittadini italiani, violando le norme del Trattato ch vietano discriminazioni ai danni di cittadini stranieri. Sulle modalità d’ingresso, il Codice ha scelto (art. 103) una soluzione mediana, lasciando l’alternativa fra l’accesso gratuito e a pagamento per gli istituti di cultura, secondo il giudizio dell’ente titolare dell’istituto. Nei casi di accesso a pagamento, il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali determinano: - I casi di libero accesso e d’ingresso gratuito. - Le categorie di biglietti e i criteri per la determinazione del relativo prezzo. - Le modalità di emissione, distribuzione e vendita del biglietto d’ingresso e di riscossione del corrispettivo. - L’eventuale percentuale dei proventi dei biglietti da assegnare all’Ente nazionale di assistenza e previdenza per i pittori, scultori, musicisti, scrittori e autori drammatici. I proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso agli istituti di cultura dello stato sono destinati alla realizzazione di interventi per la sicurezza per la conservazione dei luoghi medesimi, nonché all’espropriazione e all’acquisto di beni culturali, anche mediante esercizio della prelazione. Mentre i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso agli istituti e ai luoghi appartenenti o in consegna ad altri soggetti pubblici sono destinati all’incremento e alla valorizzazione del patrimonio culturale. La Relazione della Corte dei Conti sui musei locali del 2005 mostra che oggi la media nazionale di entrate provenienti dalla vendita dei biglietti d’ingresso rappresenta il 22% delle entrate complessive. 2. Diritto all’informazione e allo studio: nessun atto normativo potrà indicare agli operatori museali quali opere essi debbano esibire, ove gli spazi non siano sufficienti a contenere l’intera collezione del museo; e non lo sono infatti, tant’è che nel Rapporto sull’economia della cultura 1980-1990 i prezzi giacenti nei depositi vengono stimati in 40 milioni. Ma è altrettanto ovvio che i beni storici o artistici messi in mostra nelle sale espositive devono essere dotasti di apparati didascalici e inoltre il pubblico durante il suo soggiorno deve poter fruire di visite guidate o comunque di altri strumenti informativi (audio guide, videotapes, poster o altre riproduzioni). Già l’art. 5 del r.d. 363/1913 aveva prescritto che “ogni oggetto d’arte recherà l’indicazione del luogo di provenienza,del soggetto rappresentato, della scuola e del secolo a cui appartiene e dell’autore”, nonché “quant’altro può giovare alla sommaria illustrazione storica” del bene culturale in mostra. Il diritto all’informazione del visitatore è stato rafforzato dal CdBC, che detta la disciplina in merito ai servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico, la cui gestione può essere concessa anche a terzi (gestione indiretta). Rientrano tra i servizi aggiuntivi: - Il servizio editoriale e di vendita riguardante cataloghi e sussidi catalografici, audiovisivi e informativi, ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali. - Servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario. - Gestione di raccolte discografiche, diapoteche e biblioteche museali. - Gestione dei punti vendita e utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni. - Servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e intrattenimento per l’infanzia, servizi d’informazione, guida e assistenza didattica e centri d’incontro. - Servizi di caffetteria, ristorazione e guardaroba. - Organizzazione di mostre e manifestazioni culturali. Si tratta di gestioni realizzabili in forma indiretta, circostanza che induce a rilevare una sorta d’ibridazione tra forme pubbliche e private di organizzazione museale. Accanto a queste forme d’uso generale del bene museale si configura altresì un suo uso speciale, che a sua volta può fondarsi su una finalità scientifica o didattica. Nel primo caso esso si articola nel diritto a ottenere la riproduzione delle cose esposte, nel diritto a usarne per esigenze di ricerca quando ciò risulti compatibile con la conservazione del bene, nella facoltà di promuovere iniziative culturali nel contesto dell’istituzione museale; a tale riguardo si ricordano gli artt. 107.108-109 del Codice, che disciplinano l’uso strumentale dei beni culturali sotto forma di riproduzione, riprese e catalogo di immagini fotografici. L’art. 108 esclude la necessità di pagare alcun canone per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, o da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione (anche se i richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente). Questa seconda ipotesi investe più direttamente il rapporto tra museo e scuola. A norma dell’art. 119 Cod., il Ministero per i beni e le attività culturali può stipulare convenzioni con le scuole al fine di favorire la fruizione del patrimonio culturale e scientifico da parte degli studenti. A norma del comma 3-bis, l’autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d’uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizi alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo. Il Ministero ha facoltà di incitare destinazioni d’uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conversazione. Infine, in base al comma 3-ter dell’articolo in questione, il Ministero ha la facoltà di concordare con il soggetto interessato il contenuto del provvedimento richiesto, sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate con la richiesta di autorizzazione e altre possibili modalità di valorizzazione del bene. 2. Art. 58 Cod. contempla lo strumento della permuta dei beni culturali, anch’essa peraltro sottoposta alla preventiva autorizzazione dei Ministro. Quest’ultimo strumento è tale da restituire margini sufficientemente elastici alle determinazioni culturali dei singoli musei, senza impoverirne il patrimonio ma migliorandolo. Risulta viceversa impervia la capacità di effettuare acquisti direttamente sul mercato da parte dei musei, tutt’oggi regolata da una norma macchinosa e obsoleta. Basti pensare che il Codice richiama ancora, all’art. 130, il r.d. 363/1913, che prevede che i soprintendenti e i direttori degli istituti museali possano comprare cose mobili fino a 1000 lire, o anche per una somma doppia, ma in questo caso dietro autorizzazione ministeriale. La norma è diventata chiaramente inapplicabile, benché essa conservi il merito di prevedere che il bilancio dei musei possa utilizzarsi anche per incrementarne il patrimonio culturale. La politica degli acquisti viene comunque gestita dall’amministrazione centrale attraverso un ampio ventaglio di strumenti che annovera l’espropriazione, il diritto di prelazione, l’acquisto coattivo all’esportazione, l’acquisizione dei ritrovamenti e delle scoperte dei bei culturali. Il patrimonio culturale europeo L’”eccezione culturale”: il patrimonio culturale degli stati europei Quando nel 1957 il trattato istitutivo della CEE (Trattato di Roma che istituisce la Comunità economica europea), all’art. 30 ammise il mantenimento per la circolazione comunitaria di restrizioni e divieti dettati da esigenze di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, sanciva la cosiddetta eccezione culturale: una deroga alle regole stabilite dai trattati dell’Unione in materia di libertà di scambio e concorrenza destinata a durare nel tempo. Tale deroga legittima l’intervento regolativo e finanziario dei poteri pubblici nazionali, sottrae la materia culturale alle decisioni degli organi comunitari e finisce col conoscere una dimensione sovracominutaria, potendo essere rivendicata sia nei confronti della Comunità che rispetto ai paesi extra Ue. Siamo assai lontani da un’idea di patrimonio culturale europeo, che prescinda dalle peculiarità degli stati membri. Nasce la Comunità europea nel segno della libera circolazione di merci e capitali, e in termini di patrimonio storico artistico si stabilisce il mantenimento del monopolio delle politiche nazionali di settore, insieme alla legittimazione di aiuti finanziari interni ai paesi membri. Ciò in un contesto in cui l’eccezione culturale viene vista con diffidenza e sospetto dalle istituzioni comunitarie. Le deroghe al principio della libera circolazione delle merci vanno interpretate in modo tassativo, devono essere proporzionalmente giustificate dagli obiettivi prefissati e devono riguardare beni di effettivo interesse culturale (viceversa l’eccezione è recessiva laddove appaia prevalente un interesse superiore di tutela dei diritti dei singoli). Si tratta di decisioni che rispecchiano lo scontro tra paesi membri (market nations) fautori di un approccio liberista nella disciplina della circolazione dei beni culturali, e paesi (source nations) come l’Italia, attestati verso un ferreo mantenimento dell’integrità del proprio patrimonio culturale. Il risultato in termini di governance culturale a livello comunitario è stato quello di una delimitazione fluida degli ambiti di competenza. La Corte di giustizia ha legittimato la regolamentazione comunitaria laddove fossero in gioco i principi comunitari del libero mercato e i diritti fondamentali; per il resto però operando un bilanciamento a favore dell’ordinamento statale. Solo in incedere di tempo la dimensione culturale ha assunto un carattere più significativo della deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. All’inizio degli anni 70 gli stati membri della comunità europea cominciano a percepire l’importanza della cultura per lo sviluppo di nuove forme di coesione tra le loro popolazioni e nel 1974 il Parlamento europeo approva una risoluzione a favore della salvaguardia del patrimonio culturale europeo, con le prime misure di finanziamento per il restauro dei beni culturali di grande rilievo simbolico (e nel 1976 il Parlamento istituisce l’Orchestra dei giovani dell’Unione europea). Iniziava dunque a farsi strada una formula destinata ad avere successo: quella di “Europa dei cittadini” e di “Europa dal volto umano”. Tuttavia, nonostante il rilievo dato dalla prima Commissione Delors del 1985 al patrimonio culturale, il tema non trova sbocchi normativi concreti per tutti gli anni 80, nemmeno in quella fase intermedia tra il trattato di Roma e quello di Maastricht, che fu l’Atto Unico del 1986. Atto unico europeo(1986): si proponeva di riesaminare i trattati di Roma che istituiscono la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica. Questo allo scopo di rilanciare l’integrazione europea e di completare il mercato interno (area senza confini interni in cui ci sia libera circolazione) entro il 1993. Ha modificato le norme che disciplinano il funzionamento delle istituzioni europee e ha ampliato i poteri dell’allora Comunità europea in una serie di ambiti d’azione. Ha inoltre aperto alla strada a un’ulteriore integrazione politica e all’unione economica monetaria che sarebbe stata sancita dal Trattato sull’Unione Europea. Trattati di Maastricht (1992) o Trattato sull’Unione europea (TUE): con questo trattato la CEE diventa l’Unione Europea. Esso proponeva che la futura Unione Europea fosse composta di 3 pilastri: la Comunità Europea, politica estera e sicurezza comune (PESC) e giustizia e affari interni (GAI). È stato firmato dai rappresentanti dei 12 paesi membri della CE: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna. La cultura dopo Maastricht: alla ricerca di un’anima per l’Europa Dopo l’Atto Unico europeo si diffonde sempre più la consapevolezza che l’Unione può sorgere effettivamente, come autentica comunità di popoli, solo trascendendo quella visione strettamente economicistica che ne aveva segnato la nascita. E che la promozione e tutela del patrimonio culturale e continentale possono diventare il fattore trainante. Sicché si afferma rapidamente in materia culturale un progetto d’”integrazione positiva”, implicante l’estensione dell’azione comunitaria a un livello non limitato alla mera abolizione degli ostacoli alla circolazione di beni e servizi. Su questi presupposti, il trattato UE del 1992: - Riconosce competenze specifiche all’Unione in materia di cultura. - Prevede un contributo rivolto a un’istruzione e formazione di qualità, e al pieno sviluppo delle culture degli stati membri. - Sancisce la piena compatibilità con il mercato comune degli aiuti di Stato in ambito culturale. Diventa quindi prioritario, all’interno della Comunità europea (che non perde casualmente l’aggettivazione di economica) l’interesse per il fattore culturale, individuato come determinante in funzione di quell’”unione sempre più stretta fra i popoli europei”. La sintesi di questo nuovo rilievo offerto al fattore culturale sta nell’ART. 128 TCE (ORA ART. 167 TFUE), come originato dal Trattato di Maastricht del 1992. Una disposizione organica all’interno del titolo XII, esplicitamente dedicato alla cultura, che regola finalità, obiettivi, ambito d’intervento e processo decisionale in materia. La Comunità deve contribuire al pieno sviluppo delle culture degli stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando anche il retaggio culturale comune. La sua azione sarà pertanto diretta a incoraggiare la cooperazione fra gli stati membri, integrandone e appoggiandone l’azione per: - Il miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei. - La conservazione e la salvaguardia del “patrimonio culturale d’importanza europea”. - Gli scambi culturali non commerciali. - La creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. La Comunità e gli stati membri devono inoltre favorire la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura, in particolare con il Consiglio d’Europa. Inoltre la Comunità deve anche tener conto degli aspetti culturali dell’azione che svolge a norma delle disposizioni del Trattato. Si tratta di disposizioni importanti che lasciano la netta sensazione di un’inversione di tendenza della Comunità in materia culturale. Pur approvato in una condizione di grandi difficoltà (per l’opposizione di paesi rilevanti come Germania e Gran Bretagna), l’art. 128 trasferisce per la prima volta a livello europeo un copioso elenco di competenze in materia culturale, disegna limiti e obblighi della Comunità rispetto a istituzioni e cittadini europei, e infine ricostruisce le funzioni ricadenti in tale ambito. È una costruzione normativa avanzata del fenomeno culturale. Il legislatore comunitario mostra consapevolezza dell’accezione plurale della cultura, senza attestazioni di privilegio per le più conclamate manifestazioni culturali prevalenti, egemoni o centrali. Ha poi ben chiare le virtualità e dunque e diverse articolazioni di finalità, di cui è suscettibile la materia culturale: da una parte richiama la tutela dei beni, dal’altra la promozione delle attività. E tutto ciò secondo una diversa sfera di imputazioni, dal momento che l’azione di incentivazione della creazione artistica e letteraria non è limitata dal vincolo di appartenenza del bene, mentre la tutela è spiccatamente vincolata al patrimonio d’importanza europea. Notevole inoltre il rilievo attribuito anche al dialogo interculturale di livello internazionale, prevedendo la cooperazione con paesi terzi e organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura. Ciò sul giusto fondamento che ogni Paese membro è dotato di un patrimonio di relazioni e legami propri e che tali conoscenze possono rappresentare un veicolo d’elezione non solo per accompagnare le più tradizionali relazioni di tipo politico o economico, ma anche per aprirsi all’esterno dei confini UE allo scambio interculturale. Molte aspettative sono infine sorte intorno alla previsione che l’UE tenga conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma di tutte le altre disposizioni del Trattato. Un obbligo, dunque, funzionalizzato alla promozione delle differenze culturali, dagli effetti dirompenti nel momento in cui introduce un impegno al bilanciamento fra interesse culturale e gli altri interessi, in primis quelli economici per cui la Comunità è nata, che il Trattato tutela. Si tratta di una cross selectional clause che avrebbe dovuto fare della cultura una materia trasversale e condizionante tutte le altre politiche dell’UE. In realtà la cultural rilevancy non ha poi trovato molti piani applicativi, al punto da non essere più reputata una priorità delle politiche europee. La prassi comunitaria si è quindi incaricata di ridimensionare molte delle aspettative sorte intorno a quest’ultima previsione che tuttavia resta utile e finalizzata a impedire l’adozione di disposizioni comunitarie suscettibili di produrre conseguenze negative in ambito culturale. Le nuove politiche culturali dell’Unione europea Prima del Trattato di Maastricht, gli interventi culturali si erano estrinsecati in progetti pilota e iniziative a tutela di siti europei di eccezionale valore culturale, e quindi significativi per il loro alto richiamo simbolico. Con l’entrata in vigore del Trattato, le iniziative culturali dell’Unione si trasformano invece in programmi pluriennali, perdendo il carattere frammentario che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Appunti su programmi Caleidoscopio, Arianna, Raffaello, Cultura 2000, Cultura 2017-2013 ed Europa Creativa a pag. 75-76-77. L’azione di sostegno dell’Unione alla cultura si traduce anche nel finanziamento della ricerca. Importante è stato il Settimo programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (7PQ) per il periodo 2007-2013, nell’ambito del quale è stato promosso il JHEP (Joint Heritage European Programme). Nel contesto di tale programma è stata pubblicata la call Heritage Plus per finanziare collaborazioni e progetti di natura internazionale e interdisciplinare, focalizzati sulla ricerca nel campo dei beni materiali del patrimonio culturale. É stato finanziato anche il progetto Charisma, con l’obiettivo di facilitare l’accesso a infrastrutture, strumenti e conoscenze più avanzate nel campo del restauro e della conservazione dei beni culturali. Un accenno anche va ad Horizon 2014-2020, il nuovo programma di finanziamento a gestione diretta della Commissione europea per la ricerca e l’innovazione. Nel 3. Qualora sia ordinata la restituzione del bene, il giudice competente dello Stato membro richiesto accorda al possessore un equo indennizzo in base alle circostanze del caso concreto, a condizione però che il possessore dimostri di aver usato la diligenza richiesta. Emerge un modello più fluido e variegato che, nel mentre rispetta le differenze nazionali e regionali al materia, nello stesso tempo sembra valorizzare gli elementi di ravvicinamento e coesione tra le comunità degli stati membri, nel nome di quel “retaggio comune” che, se ha unito l’Europa in relazione alle merci e ai mercati, non può non farlo dal punto di vista della cultura. In tal senso si ricorda la Risoluzione del 2003 sugli aspetti orizzontali della Cultura con cui il Consiglio ha invitato gli stati membri e la Commissione a esaminare i metodi attraverso cui potrebbe essere meglio sviluppato lo scambio di buone prassi per quanto concerne la dimensione economica e sociale della cultura. Si ricordi ancora il ruolo determinante che può avere la promozione della mobilità interna all’Unione: la mobilità di studenti, artisti e uomini di cultura è riconosciuta esplicitamente come azione da promuovere in via prioritaria, all’interno della Risoluzione del Consiglio del 2007. Altra rilevante iniziativa in tal senso è l’individuazione annuale della Capitale europea della cultura: inizialmente partita come iniziativa intergovernativa nell’85, poi trasformata in un’azione comunitaria per gli anni 2007-2019. Lo scopo è quello di contribuire a migliorare la comprensione reciproca tra i cittadini, oltre che di valorizzare la ricchezza, la diversità e le caratteristiche comuni delle culture europee. Nel 2014 è stato assegnato il titolo, per il 2019, alla città di Matera, prima città del meridione italiano a conquistare il titolo. Va anche segnalata la decisione 445/2014 che istituisce un’azione dell’Unione “capitali europee della cultura” per gli anni 2020-2033, avendo fra gli obiettivi generali la tutela e la promozione della diversità delle culture in Europa, ma anche la valorizzazione delle caratteristiche comuni delle culture europee, al fine di accrescere il senso di appartenenza dei cittadini europei a un’area culturale comune. Vanno anche segnalati gli itinerari culturali europei promossi dal Consiglio d’Europa sin dal 1987, fondata su un insieme di valori condivisi, incentivando itinerari che ripercorrono la storia delle influenze, degli scambi e dell’evoluzione delle culture in Europa (es cammino di Santiago, via Francigena). Si è affermata nell’UE un’articolazione di interventi in materia culturale che finisce col rafforzare il senso di appartenenza a un’identità comune. Non va trascurato che l’Unione rimane un work in progress, un soggetto politico in costante evoluzione, e in prospettiva innovazioni importante per il suo modello culturale possono derivare dalle trasformazioni istituzionali conseguenti all’approvazione del Trattato di Lisbona. Se dopo il trattato di Maastricht tutte le misure culturali erano soggette alla procedura di codecisione dal Parlamento europeo e del Consiglio, il Trattato di Lisbona prevede che dal 2014 il processo decisionale in seno al Consiglio sia soggetto al voto a maggioranza qualificata, senza richiedere più l’unanimità del consenso. Dalla cancellazione del potere di veto degli stati membri e dall’eliminazione dell’ostacolo principale alla realizzazione di efficaci politiche comunitarie in materia, potrebbero derivare ripercussioni forse decisive per il rafforzamento degli indirizzi comunitari in ambito culturale. Alla ricerca di un patrimonio culturale dell’Unione La nozione di “patrimonio culturale d’importanza europea” non ha acquisito un contenuto peculiare rispetto a ciascuna parte di patrimonio culturale nazionale. Per provare a raggiungere qualche esito concludente bisogna chiarire cosa esso non è. Innanzitutto, tale formula non può indurre a porre in contrapposizione l’identità culturale dell’Europa unita con quella dei singoli stati, nel senso di privilegiare le manifestazioni culturali di un Paese membro a discapito degli altri o di imporre il monopolio di una cultura europea omogenea e uniforme per tutti. Le motivazioni di quanto appena affermato sono evidenti: la ricchezza culturale dell’Europa sta esattamente nella varietà e molteplicità delle sue manifestazioni nei vari livelli territoriali che la compongono, e di ciò il legislatore europeo ha mostrato di avere piena consapevolezza nella normativa successiva al 92. Si ricordi la Carta dei diritti di Nizza del 2000 che, oltre a sancire all’art. 22 il rispetto della diversità culturale, ribadisce che lo sviluppo dei valori dell’Unione non possa andare a discapito delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa. Ne consegue che, come non può esistere una cultura europea intesa in modo uniforme, non sarebbe ammissibile una politica culturale europea interpretata come pianificazione culturale al servizio dell’autorità sovranazionale. Piuttosto quel che va perseguito è una politica delle culture europee, cioè un’azione di sostegno e aiuto, finalizzata al loro confronto, scambio e arricchimento reciproco. Rimane da porre la domanda se residuino spazi per l’individuazione di una cultural rilevancy non sommatoria dei patrimoni nazionali, ma indirizzata a quei beni qualificanti per la comune civiltà continentale. E dunque (assodato che al momento l’azione comunitaria non possa andare oltre azioni di sostegno e integrazione delle politiche comunitarie nazionali) immaginare un orizzonte nuovo, una prospettiva in cui l’UE apra a un regime normativo e funzionale originale. Un regime nuovo, il quale sia, in ultimo, destinato alla regolazione e amministrazione di un patrimonio culturale spiccatamente europeo. In tal senso si cominciano ad avvertire segnali importanti. Ciò sotto forma di promozione e valorizzazione di quei beni che, pur facenti parte del patrimonio culturale di uno Stato membro, rappresentino anche, nello stesso tempo, parte di un non ancora meglio identificato patrimonio culturale dell’Europa Unita. Si ravvisano infatti interessanti iniziative tese a valorizzare una nozione di patrimonio culturale europeo che trascenda i patrimoni culturali nazionali. Ad esempio la commissione europea ha proposto nel 2012 l’istituzione di un marchio per il patrimonio culturale europeo per dare rilievo ai luoghi che celebrano e simbolizzano l’integrazione, gli ideali e la storia d’Europa. La proposta di un marchio per il patrimonio culturale europeo differisce da altre iniziative sovranazionali in materia di eredità culturali, in quanto destinata ad individuare quei siti che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’Unione Europea. Con la decisione del Parlamento e del Consiglio 1194/2011 è stata istituita l’azione dell’Unione europea per il marchio del patrimonio europeo. L’azione mira al rafforzamento del senso di appartenenza dei cittadini europei all’Unione, in particolare dei giovani, e alla crescita della consapevolezza dei cittadini europei riguardo alla storia d’Europa e alla costruzione dell’Unione, nonché riguardo al loro patrimonio culturale comune. A dimostrazione della crescente importanza del marchio, il Consiglio nel 2014 ha nuovamente invitato gli Stati membri e la Commissione a continuare a sostenere l’azione dell’UE per il marchio del patrimonio europeo. La prima selezione si è svolta nel 2013, quando, su designazione degli stati membri, esperti indipendenti hanno valutato le candidature dei siti e selezionato quelli meritevoli del marchio europeo; nel 2014 la Commissione europea ha indicato i siti insigniti del marchio per il 2013. Nel 2015 il marchio è stato assegnato ad altri siti, in esito alla selezione del 2014 (a partire dalla selezione del 2015 si procede alla selezione di un sito per ciascun Stato membro). Per l’Italia abbiamo la casa museo di Alcide De Gasperi a Pieve Tesino, per la Francia la casa di Robert Schuman, per la Grecia l’Acropoli di Atene. In base all’originario progetto del 2006 avevano già ottenuto il marchio decine di altri siti; per l’Italia le case di Gioacchino Rossini a Pesaro, Giacomo Puccini a Lucca e Giuseppe Verdi a Busseo; il Palazzo del Campidoglio e l’isola di Ventotene. Ancora, per l’emersione d’indici ricostruttivi del patrimonio culturale d’importanza europea, un tentativo di grande interesse è quello proveniente dalla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005 (Convenzione di Faro), che definisce patrimonio comune dell’Europa tutte le manifestazioni che costituiscono nel loro insieme una fonte condivisa di ricordo, comprensione e identità. La Convenzione di Faro non fa parte del diritto comunitario e già individua una Common Heritage of Europe fondata sulla tutela di diritti e libertà fondamentali, col fine di promuovere lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto. Iniziative come il marchio culturale europeo o accordi come la Convenzione di Fao sono accenni che non possono essere trascurati, per quanto possono prefigurare e presagire nel futuro dell’Unione. Unità nella diversità: le identità concentriche del demos europeo È possibile ipotizzare una prospettiva in cui una Comunità meno gelosa dei propri privilegi nazionali possa regolare con fonti proprie un patrimonio culturale che rappresenti l’espressione diretta di quei principi e valori su cui essa fonda la sua esistenza? Al momento, si è visto come il presupposto indispensabile per l’individuazione di un “patrimonio culturale europeo” sia l’appartenenza di un bene al patrimonio di uno Stato membro (che ne disciplina a monte lo statuto giuridico e le funzioni di tutela, gestione e valorizzazione). Lo stato delle cose vuole dunque che, in mancanza di un riconoscimento giuridico nazionale, venga meno la possibilità di configurare il bene come parte integrante del patrimonio culturale dell’Unione. Tuttavia non può non essere sottolineato con favore l’affiorare di una dimensione di patrimonio culturale appartenente all’UE, alla sua storia e alla sua memoria. Dimensione che non risulta affatto sganciata dal regime culturale comunitario, perché in realtà ne valorizza in tal modo una lettura duale. È allora auspicabile e legittimo immaginare un futuro comunitario in cui la governance culturale si associata a uno statuto legislativo e funzionale peculiare dell’Unione. E ciò magari attingendo alle migliori esperienze istituzionali e funzionali degli stati membri. Nella vita civile ogni individuo sperimenta la condivisione di identità apparentemente contraddittorie e vive ruoli sociali differenziati; in tal senso va intesa l’affermazione del Trattato che la Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali; nel senso cioè della costruzione di un’identità europea priva di tentazioni esclusivistiche. La diversità fa allora parte dell’identità europea, come fa parte della cultura europea. Trattare con l’identità europea implicherà dunque riferirsi a un’unità da declinare nella diversità, richiamando da un lato la convergenza intorno a un core di valori culturali propri dei cittadini europei, dall’altro la capacità di accettare, apprezzare e valorizzare la ricchezza delle differenziazioni culturali di ogni paese membro. L’esame degli accordi internazionali degli ultimi anni mostra un modo di rapportarsi differente in confronto al tema della diversità. Dal rispetto della diversità intesa, in negativo, come strumento per limitare l’esercizio delle competenze nazionali, si è transitati a un atteggiamento più aperto e positivo in tema, come emerge dalla Convenzione sulla diversità culturale, approvata nel 2005 a Parigi e ratificata dal Parlamento italiano nel 2007, il cui obiettivo è il consolidamento di tutti i segmenti della catena creativa culturale (creazione, produzione, diffusione e fruizione dei beni culturali), con particolare riguardo ai Paesi in via di sviluppo. Significative della connessione sempre più stretta che viene individuata a livello sovranazionale fra i beni culturali e valori democratici, appaiono le linee direttrici primarie della convenzione, dove si afferma che la diversità culturale può essere protetta e promossa solo qualora vengano garantiti i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, quali la libertà d’espressione, dell’informazione e della comunicazione; il riconoscimento della pari dignità e del rispetto di tutte le culture; e il sostegno delle industrie culturali dei paesi in via di sviluppo. Da una comunità internazionale che si muove nel rispetto della diversità si è transitati ad una comunità che agisce per il rispetto delle diversità. Nation building e retaggio culturale comune Affiora oggi una nazione europea in cammino, la quale si auto percepisce come sintesi di generazioni passate, presenti e future, e dunque già si traduce nella volontà di vivere in un quadro di principi e valori condiviso. Vi sono in effetti esperienze storiche, tradizioni e conquiste che sono ormai espressione, allo stesso modo, di identità culturale nazionale e comunitaria; una dimensione fatta di arte, scienza, letteratura comuni, che oggi giunge a raccogliere anche le eredità politiche e costituzionali, riversando così sull’identità europea quanto di meglio le culture continentali hanno maturato dai travagli del passato. Un’identità ancora in evoluzione, ma sicuramente già acquisita sul piano di principi come la sovranità popolare, l’uguaglianza, i diritti inviolabili, la tutela delle minoranze e non ultimo il pacifismo, su cui si deve fondare l’azione dell’Unione sulla scena internazionale. Pochi decenni fa l’Europa ha conosciuto le devastazioni del totalitarismo e della sopraffazione nazionalistica o di classe; tuttavia, proprio in relazione alla forza distruttiva del totalitarismo, ha preso forma quel modello democratico pluralista che si fonda sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo e vive del pacifico componimento degli svariati interessi di natura economica, politica, sociale, religiosa, che attraversano la società europea. La democrazia pluralistica e costituzionale significa esattamente questo, ma la riscoperta della dimensione giurisdizionale per la loro risoluzione sul piano interno come pure internazionale, e agendo su un terreno che solo in ultimissima istanza può diventare bellico. L’UE rappresenta un’area
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