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L'ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali. III edizione, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto dei primi 6 capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 21/08/2022

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Scarica L'ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali. III edizione e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! L’ORDINAMENTO DELLA CULTURA Manuale di legislazione dei beni culturali III edizione I. Per una storia costituzionale dell’arte 1) La funzione pedagogica dell’arte → 1.1 Il “contagio” dell’arte: è dalla consapevolezza dei connotati ideologici dell’arte, e dunque della sua forza persuasiva, che prendono le mosse i tentativi di funzionalizzazione delle attività artistiche a scopi politici, di cui la storia offre esempi numerosi. La funzione pedagogica dell’arte ha rischiato spesso di diventarne la tomba. Se difatti l’arte rappresenta un valore, questo valore non è però neutrale o equidistante rispetto alle varie componenti della società civile; al contrario, esso è stato posto il più delle volte al servizio delle forze dominanti, che non di rado ne hanno approfittato a fini di manipolazione del consenso. 1.3 Arte e sistema politico: l’arte è dotata di un’innegabile forza persuasiva, e essa rappresenta insomma un veicolo privilegiato di comunicazione sociale e di diffusione delle idee; e tale suo attributo spiega poi l’attenzione da sempre riservata alle attività artistiche in seno agli ordinamenti positivi. Nelle società industriali avanzate l’arte subisce appunto l’impronta della c.d. “tolleranza repressiva”: essa vive una stagione di libertà sconosciuta alle epoche precedenti, ma in cambio offre una resa della propria vocazione critica e trasgressiva. D'altra parte occorre riconoscere che negli stessi ordinamenti più evoluti e garantisti il cammino verso la totale emancipazione dell’arte da controlli autoritari è ben lungi dall’essere stato percorso per intero. Quasi ovunque sopravvivono difatti residue forme di censura. La censura stessa può rappresentare il sintomo di un estremo isolamento delle forze di governo; oppure d’un consenso generalizzato attraverso il sistema di potere costituito, che con questo strumento intende per l’appunto espugnare “l’altro”, il diverso. 2) Dalle carte rivoluzionarie dell’epoca dei Lumi ai lavori dell’Assemblea costituente: genesi d’una libertà → 2.1 Gli esordi: giusnaturalismo, contrattualismo e introduzione della libertà d’espressione artistica nelle costituzioni di fine Settecento: l’art. 355 della costituzione francese del 22 agosto 1795 costituisce un fatto straordinariamente progressivo per l’emancipazione dell’arte e la sua definitiva affrancazione delle doppie pastoie che in precedenza le venivano imposte dalla stretta unione con le corporazioni da un lato, dal controllo del clero e dall’aristocrazia dall’altro. Questo principio era stato in parte preannunziato nella costituzione che gli Stati Uniti d’America avevano adottato al termine della guerra d’indipendenza. E fu appunto in quelle temperie politico-culturali che l’arte riuscì ad affrancarsi dei vincoli secolari che per l’innanzi ne avevano compromesso l’espressione. Ovviamente l’introduzione di questa libertà nelle carte rivoluzionarie di fine Settecento non deve indurre nell’errore di sopravvalutare il dato giuridico formale, trascurando il peso delle vicende storiche concrete. Per restituire il clima che permise il primo riconoscimento costituzionale della libertà dell’arte è necessario tuttavia un rapido cenno sulla teoria del contratto sociale, le cui ascendenze giusnaturalistiche sono del resto diffusamente segnalate, non meno dell’incidenza che questa teoria ha spiegato sulle carte dei diritti. 2.2 Mutamenti nella condizione dell’arte: un atto di straordinaria importanza fu il conferimento a tutti gli artisti, nel 1791, del diritto di esporre nel Salon. Dopo la Rivoluzione l’artista fu libero di scegliere i propri temi e il modo di trattarli. Tuttavia sarebbe errato credere che la Rivoluzione si sia astenuta da qualunque intervento in materia artistica: l’arte divenne anzi un fondamentale strumento di governo. Il classicismo di Vien apparve lo stile più adeguato ad esporre i nuovi sentimenti repubblicani e libertari; non a caso l’opera più famosa di quegli anni, il Giuramento degli Orazi di David, fu dipinta per conto del ministero delle belle arti. L'art pour l’art sarebbe stata invece un lusso impensabile per un paese circondato da un mondo diverso e ostile. Durante il periodo rivoluzionario, al contrario, si fece strada in ogni artista la consapevolezza che la propria attività implicava una professione di fede politica. La Francia rivoluzionaria chiese insomma all’arte di farsi “militante”, ponendo la propria forza persuasiva al servizio degli ideali giacobini: l’uso pedagogico dell’arte conobbe dunque in quel tempo una fra le sue applicazioni più efficaci. 2.3 Le costituzioni giacobine e l’istanza per l’impegno civile degli artisti: i principi della costituzione francese dell’anno III penetrarono in Italia attraverso le costituzioni delle repubbliche giacobine degli anni 1796/99. “Non vi è né privilegio, né maestranza né diritto di corporazione né limitazione alla libertà della stampa e del commercio, né all’esercizio dell’industria e delle arti d’ogni specie. Qualunque legge proibitiva in questo genere, quando le circostanze la rendono necessaria, è essenzialmente provvisoria, e non ha effetto che per un anno al più, purché non sia formalmente rinnovata”. Nel clima di alta tensione civile e di progettazione costituzionale che accompagnò il triennio rivoluzionario italiano, l’affermazione della libertà d’espressione artistica non corrispose però alla presa di coscienza della neutralità dell’arte, ma piuttosto all’istanza di un suo impegno militante in favore dei nuovi ideali liberali. Il giacobino napoletano Vincenzo Russo propose di distruggere la quasi totalità delle opere di Omero e di Virgilio, giacché “nel primo sta l’elogio di un brutale e di un versipelle, nel secondo quello di un tiranno”; ed eguale sorte sarebbe dovuta toccare a ogni altra opera d’arte contrastante con i principi rivoluzionari. La funzione pedagogica dell’arte venne fissata in una norma costituzionale: si tratta dell’art. 299 della costituzione della repubblica Napoletana dove si legge che “vi sono de’ teatri repubblicani, in cui le rappresentazioni son dirette a promuovere lo spirito della libertà”. provvide a potenziare la rete di istituiti culturali ereditata dallo Stato liberale, affiancandovene altri di nuova formazione. Gli apparati ideologici predisposti dal regime per consolidare la propria presa sulle masse furono dunque molti e tra loro eterogenei: alcuni di tipo tradizionale, altri inediti e con tratti da operetta. Quanto poi alle “pubbliche manifestazioni di scienza, di arte o di intellettualità”, ferree disposizioni regolavano la materia. L'arte per l’arte si intensificò proprio negli anni immediatamente precedenti l’ingresso in guerra. Una politica della carota e del bastone: ma probabilmente la necessità di assicurarsi il consenso degli artisti trasse fondamento soprattutto dall’emergenza stabilita dalle nuove vicende di politica internazionale. Nel giugno 1939 venne così emanata la legislazione di tutela sul patrimonio artistico, storico e paesistico; nel 1940 si decise d’istituire un Ufficio per l’arte contemporanea. Sussidi e premi d’incoraggiamento per gli artisti vennero disposti dal 1941; e sempre nel 1941 si approvò la nuova normativa per la protezione del diritto d’autore. L'iniziativa più importante del periodo fu costituita però dalla promulgazione della c.d. legge del due per cento: i progetti di ogni opera pubblica dovevano impegnare “una quota non inferiore al 2 per cento dell’importo preventivo dei lavori da destinare all’esecuzione di opere d’arte figurativa”. Questa norma si prefiggeva di rendere definitiva e irreversibile la comunione tra gli artisti e i pubblici poteri; sicché Bottai poté dichiarare che “esigendo la collaborazione dell’artista nelle opere da tramandare al futuro, lo Stato assume direttamente la responsabilità di quell’arte, che ora soltanto possiamo, in senso più che cronologico chiamare contemporanea”. 2.8 L’intervento del regime nel settore degli spettacoli: il regime si rese conto assai presto che il mezzo cinematografico rappresentava un’arma propagandistica senza eguali, e non esitò a valersene per i propri scopi. L'attività cinematografica finì pertanto per essere considerata “attività di interesse pubblico”. Nel 1924 veniva creato l’Istituto Luce, portavoce della cinematografia ufficiale del fascismo. La presa del regime sul cinema fu molto ampia e articolata: la sua efficacia crebbe nel volgere degli anni, culminando nella creazione della Direzione generale per la cinematografia, cui vennero assegnate funzioni d’impulso e direzione economica e ideologica. Luigi Freddi propose di varare una legge orgiaca, che avrebbe dovuto assicurare allo Stato il controllo assoluto sul cinema nazionale, questa incontrò il veto del Minculpop; e probabilmente fu lo stesso Mussolini a sottoscriverlo. 2.9 Il funzionamento e gli obiettivi della censura fascista: eccetto qualche nuova proibizione, come “l’incitamento all’odio tra le classi sociali”, i divieti restarono i medesimi del periodo liberale; a cambiare su invece la formulazione delle leggi e soprattutto la loro applicazione. La disciplina degli spettacoli continuò ad essere il bersaglio preferito. Strumenti censori vecchi e nuovi vennero piegati dal regime ad assolvere una funzione progressiva: il fascismo, cioè, intese utilizzare la censura non a fini meramente repressivi, ma piuttosto come “positivo strumento di cultura”. La censura intesa come strumento direttivo non poteva che avere natura preventiva, risolvendosi dunque, piuttosto, in un’autorizzazione; e ciò ne potenziava l’efficacia. Nel campo letterario, l’azione della censura è riassunta in ricordi dell’editore Bompiani. “Come operava la censura fascista? Ufficialmente non esisteva: esisteva il sequestro come provvedimento di polizia, o il silenzio ordinato ai giornali”. Non esisteva, comunque, una censura preventiva vera e propria in materia letteraria: per lo più infatti lo Stato esaminava il materiale a pubblicazione avvenuta. Quanto ai criteri che animavano la censura sulle opere letterarie, si direbbe che non ve ne fossero: la censura pareva riflettere umori sporadici e incoerenti, piuttosto che un disegno preordinato. La censura continuò stancamente ad operare anche durante la breve esistenza della Repubblica di Salò. 2.10 La libertà d’espressione artistica nei lavori preparatori della costituzione vigente: dopo la guerra di liberazione, il principio della libertà d’espressione artistica è stato consacrato infine nella costituzione del 1948: l’art. 33, primo comma, dispone infatti che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Questa norma (come venne affermato dallo stesso Concetto Marchesi, che ne fu il proponente) aveva il suo antecedente immediato nell’art. 142 della costituzione di Weimar. Benché il testo tedesco si arricchisse di un inciso ulteriore rispetto all’italiano la riproduzione è quasi fotografica. II. Le libertà culturali 2. I lavori dell’Assemblea costituente → La prima versione del futuro art. 9 (quale venne presentata nella prima sottocommissione della Commissione dei settantacinque, durante la seduta del 18 ottobre 1946, a firma congiunta di un democristiano e un comunista, Aldo Moro e Concetto Marchesi) suonava in questi termini: “I monumenti artistici, storici e nazionali del Paese costituiscono patrimonio nazionale in qualsiasi parte del territorio della Repubblica e sono sotto la protezione dello Stato”. È interessante osservare come non vi figuri alcun accenno alla libertà della cultura, né all’impegno di sostenere lo sviluppo da parte dei pubblici poteri. La ragione di questa persistente diffidenza era: un articolo pleonastico, ridondante, inutile, come se la materia culturale non possedesse sufficiente dignità per venire inclusa nella nuova Costituzione di Stato. D'altronde si trattava d’una critica non nuova, avanzata già a proposito delle costituzioni di fine Settecento. E comunque la Commissione de settantacinque approvò questa prima bozza dell’art. 9 senza quasi mai discuterla, come osservò più tardi Clerici, nella seduta del 30 aprile 1947. Il 30 aprile Clerici nei riguardi del futuro art. 9: un enunciato “superfluo, inutile ed alquanto ridicolo, tale da essere annoverato fra quelli che non danno prestigio alla Costituente ed a questa nostra fatica […] Altrimenti, se dovessimo mettere nella Costituzione tutto ciò che è evidente e pacifico, per quale ragione non dovremmo dire che la lingua che usiamo è la lingua italiana, e che usiamo latine e le cifre arabe?”. Un articolo, dunque, da abolire, “per la serietà stessa dei nostri lavori”. Quell'intervento fu salutato dagli applausi. Fu di Concetto Marchesi la difesa più vibrante. Nel suo volume di memorie Meuccio Ruini (che presiedette il Comitato di redazione, dopo aver guidato la Commissione dei settantacinque) ricorda che il Comitato tentò invano d’espellere l’art. 9, non essendovi a suo dire alcuna ragione costituzionale per affermare che lo Stato debba occuparsi dele faccende culturali o del paesaggio. Non vi riuscì, e allora scelse di condensarlo in “un’espressione più breve e sintetica”, come il medesimo Ruini dichiarò dinanzi all’assemblea il 22 dicembre 1947, alla vigilia del voto finale: la promozione della “cultura”, per l’appunto. E sempre in sede di coordinamento finale si scelse inoltre di situare quell’articolo fra i “Principi fondamentali” della Costituzione, probabilmente per una mera assonanza con le altre disposizioni normative che v’erano già incluse. 3. Disgrazia e fortuna dell’art. 9 Cost. → Fu a sua volta fredda, quando non apertamente ostile, anche l’accoglienza tributata alla nuova disposizione da parte dei primi commentatori che ne misurarono il significato normativo; sicché le critiche avanzate in Assemblea costituente trovarono immediatamente un’eco nella letteratura pubblicista. È di Vezio Crisafulli il giudizio più netto e lapidario: una “pseudo-disposizione”, priva di valore normativo a causa dell’eccessiva indeterminatezza del suo oggetto. È decisivo constatare che la svalutazione dell’art. 9 Cost. Riecheggi pressoché in tutti i commenti dati alla stampa durante gli anni Cinquanta. Negli anni Settanta l’azione d’impulso culturale entra nell’orizzonte pubblico, nel campo d’intervento consegnato ai pubblici poteri. Questo battesimo si deve a Giovanni Spadolini, in un primo tempo designato ministro senza portafoglio per i Beni culturali, poi promotore d’un decreto legge che introdusse in Italia il ministro per i Beni culturali e ambientali. Da quel momento in avanti la “politica culturale” formava ormai un capitolo della politica generale del governo. III. La libertà dell’arte e della scienza 1. Definizioni e inquadramento costituzionale → La libertà dell’arte e della scienza conosce due principali poli di attrazione costituzionale: innanzitutto l’art. 9 Cost.; e poi l’art. 33 Cost. L’art. 9 Cost. e l’art. 33 Cost. esprimono valori ambedue qualificati dal giudice delle leggi come di “fondamentale rilevanza costituzionale”. È estremamente difficile tuttavia definire arte e scienza, se non attingendo a giudizi di valore che contemplino i risultati più avanzati offerti dall’epistemologia e dall’estetica. Secondo le opinioni oggi prevalenti, l’arte, in quanto visione del mondo che si esplica nel realizzarsi di forma o manifestazione del reale nel linguaggio della metafora, non è più traguardo dell’eccezionale, straordinario o sublime, ma apertura interpretativa dell’immaginazione individuale a una molteplicità di significati possibili. Là scienza è invece data da quel complesso di attività volte a riconoscere il reale secondo regole metodologiche che verificano i risultati delle ipotesi formulate alla luce dell’esperienza. Sicché la scienza comprenderà le conoscenze formali (o logico matematiche). Mentre l’arte raggrupperà ogni manifestazione creativa. 2. I limiti della libertà artistica → L'intervento pubblico domandato dall’art. 9 Cost. presuppone necessariamente un’intromissione nella crescita della vita culturale, mentre l’art. 33 Cost. sancisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Tale proclamazione di libertà, oggi solennemente confermata anche nell’art. 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sostanzialmente vieta la formazione di un’arte o di una scienza ufficiali, “di Stato”, tali da venire tutela del patrimonio culturale italiano risalgono agli Stati preunitari e siano caratterizzate da una preoccupazione univoca e costante: contrastare la spoliazione dei beni artistici ed archeologici, impedendone, o almeno limitandone, il trasferimento all’estero. Tuttavia la data di nascita della normativa di tutela sui beni culturali si può identificare in alcuni provvedimenti adottati in Toscana agli inizi del sedicesimo secolo. 1.2 b) la legislazione postunitaria: contrariamente alle aspettative, il conseguimento dell’unità d’Italia non rappresentò affatto un miglioramento delle forme di tutela dei beni culturali, e semmai costituì una pericolosa inversione di tendenza rispetto alle misure, sia pure solo conservative, faticosamente raggiunte nel corso della prima metà dell’800. Al bene culturale non si riconosceva necessità di una specifica regolazione perché già sottoponibile alla disciplina negoziabile prevista dal codice civile: suo valore è essenzialmente quello offerto dal mercato. Di conseguenza, mentre veniva guardato con estremo sfavore qualunque regime limitativo della proprietà privata, ci si adoperò semmai per espellere dall’ordinamento gli ultimi residui vincolistici al principio del libero scambio, anche laddove determinati istituti avevano rappresentato l’unica garanzia di conservazione di beni culturali: è questo il caso del fedecommesso. Poiché i vincoli fedecommissari erano reputati un residuo feudale contrario alla circolazione dei beni, all’economia pubblica e persino alla morale, il codice civile del 1865 ne sanzionò il divieto. Sennonché tale strumento era stato l’unico ad aver permesso nei secoli di conservare inalterate raccolte d’arte, pinacoteche e collezioni, ed era facile individuare in questa politica liberalizzatrice un ulteriore fattore di dispersione del patrimonio italiano. Di fatto, nei primi dieci anni successivi alla formazione del regno d’Italia, l’unica misura di politica culturale sancì la facoltà da parte dell’amministrazione di disporre l’espropriazione dei “monumenti”, se mandati in rovina per incuria dei proprietari. In materia di alienazione all’estero delle cose d’arte, lo Stato italiano protrasse per tutto il secolo una disciplina assai diversificata all’interno del suo territorio, che andava dal divieto di esportazione di opere della Capitale all’ex Stato pontificio, sino alla totale libertà di commercio nei territori dell’ex regno sabaudo. Era indispensabile una legge organica. E nel tentativo di realizzarlo si impegnarono personaggi di grande valore della politica italiana di quel tempo. Ma per la difficoltà di conciliare l’ideologia liberale con l’interesse pubblico alla conservazione del patrimonio, tutti questi tentativi andarono a vuoto. Bisognerà attendere gli albori del nuovo secolo per ottenere una legislazione organica sulla materia fu istituito il catalogo nazionale dei beni culturali e proibita l’esportazione delle opere in esso menzionate, se qualificate dai connotati del “grande pregio”. Questa legge tuttavia ebbe vita effimera. Pertanto già nel 1906 venne costituita una commissione con l’incarico di dettare una nuova disciplina organica per la tutela dei beni culturali. I lavori di questa commissione sfociarono nella legge Rosadi (1909). Tale legge, che è la diretta progenitrice della normativa organica attualmente in vigore ampliò l’ambito dei beni culturali. L'incremento dell’azione di tutela si accentua nel corso del regime autoritario. Nello scorcio degli anni Trenta vedono la luce due leggi volute dal ministro Bottai: la l. 1 giugno 1939, n. 1089 e la l. 29 giugno 1939, n. 1497, dedicate rispettivamente alle cose d’arte e alle bellezze naturali. La prima ha assicurato per sessanta anni la protezione del nostro patrimonio culturale, allargando notevolmente la tutela amministrativa delle cose immobili o mobili di interesse artistico, archeologico e etnografico. 1.3 c) la legislazione repubblicana: i primi anni di regime repubblicano sono connotati dal silenzio del legislatore sulla materia. Una nuova fase della politica culturale si aprì però con l’istituzione della commissione d’indagine per la tutela delle cose di interesse la c.d. commissione Franceschini. La commissione espresse diverse proposte d’intervento legislativo, articolate in ottantaquattro dichiarazioni, che coprivano l’intera materia dei beni culturali. Di grande rilievo appare la prima dichiarazione, che offre una definizione giuridica unitaria dei beni culturali, affermando che “appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà”; e qualificando dunque come bene culturale ogni bene “che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Nel corso degli anni Novanta avviene una secca inversione di tendenza rispetto all’inerzia del passato. Ciò si verifica attraverso il concorso di due fattori. Innanzitutto per forte spinta innovativa esercitata dalle fonti comunitarie, nel contesto della creazione di un mercato interno senza frontiere per la libera circolazione. A ciò va aggiunta la consapevolezza della necessità di una nuova disciplina dei beni culturali, improntata all’apertura nei confronti della società civile e ad un modello di relazione c.d. cooperativa tra centro e periferia. 1.4 L’inquadramento costituzionale della cultura: promozione e libertà: è superfluo osservare come ogni intervento del legislatore su questa travagliata materia trovi poi nella Costituzione la sua legittimazione e il proprio quadro di riferimento generale. Le norme costituzionali sull’organizzazione della cultura e dell’arte si sistemano intorno a due distinti poli d’attenzione: da un lato l’art. 9 Cost., (“la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, e tutela altresì “il patrimonio storico e artistico della Nazione”); dall’altro l’art. 33 Cost., (secondo cui “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). Entrambe le disposizioni assolvono alla medesima funzione, che è quella di introdurre nel nucleo di fini-valori della Carta fondamentale il valore estetico-culturale. 2. Lo statuto dei beni culturali → 2.1 Definizione e modelli: dalla concezione estetizzante a quella antropologica: l’art. 148, comma 1, d. lgs n. 112/1998, offriva, per la prima volta nella storia legislativa nazionale, una definizione del concetto di beni culturali (“quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”). In questa norma si riflette l’eco della nozione a suo tempo elaborata dalla commissione Franceschini. Ma in realtà il debutto della locazione “bene culturale” risale ad una stagione ancora più anteriore, e precisamente alla convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, firmata a l’Aja nel 1954. La nozione di bene culturale cosi originata fece, per le sue doti di generalità e di sintesi, piuttosto rapidamente fortuna. Nonostante il suo successo nei sistemi giuridici continentali, in Italia bisognerà attendere i lavori della commissione Franceschini, nel 1964, per vedere ufficialmente adottata la formula “beni culturali” all’interno di un documento ufficiale dello Stato. L'attività della commissione Franceschini è importante anche perché rompe con l’accezione di cultura sino ad allora dominante e che si era rispecchiata nelle già richiamate leggi volute da Bottai sul volgere degli anni Trenta. Il beneficio della tutela era disposto a quei soli beni che possedevano in egual misura gli attributi del pregio e della rarità, e si distinguevano inoltre per la loro “non comune bellezza”. Il concetto di bene culturale finiva dunque per coincidere con una certa idea di patrimonio storico ed artistico e di paesaggio; non con l’intero comparto culturale-ambientale, ma soltanto con le sue espressioni eccezionali dunque un’interpretazione, per certi versi, estetizzante, e per altri elitaria. Tale concezione rimase ferma sino all’avvento della commissione Franceschini, che non soltanto introdusse ufficialmente il concetto di bene culturale, ma ne rivoluzionò il contenuto proponendone un’accezione radicalmente nuova. La commissione assoggettava per la prima volta il legislatore ad una fondamentale professione di umiltà: pretendere d’imporre una legge imperitura costituirebbe solo un imperdonabile atto di superbia, poiché in fatto di beni culturali ogni età vanta concezioni proprie. La definizione proposta dalla commissione Franceschini faceva leva sulla storicità del concetto di bene culturale, segnando il passaggio, come metro di riconoscimento della categoria, dal criterio estetico a quello storico. Nella sua parabola storica la nozione di bene culturale, partita dalle angustie della vecchia concezione estetizzante, varca pertanto oggi i confini delle più moderne accezioni culturali, sino a paventare il rischio di sfociare nell’eccesso opposto del panculturalismo. 2.2 L’immaterialità: tra i connotati della nozione di bene culturale più diffusamente discussi emergono in primo piano l’immaterialità e la pubblicità. Ma che cosa deve intendersi per “immaterialità”? In passato è stato considerevole lo sforzo della cultura giuridica per individuare un fondamento giuridico a quelle espressioni della vita culturale che appaiono avulse da un rapporto di coessenzialità con le cose. La necessità di rinnovare il concetto di bene culturale aprendolo alle manifestazioni immateriali della cultura è stata segnalata da Sabino Cassese, introducendo una definizione, quella di attività come specie del genere bene culturale. Ma la nozione di attività culturali descriveva una categoria “aperta”, che fatalmente si prestava, al di là della tipologia dello spettacolo, a sviluppi assai importanti: vi sono state via via incluse anche le tradizioni orali. È indubbia la carica fortemente innovativa di tale approdo, che liberava il bene culturale dagli impacci d’un legame necessario con le cose. Questo risultato provoca un mutamento d’orizzonte circa le modalità dell’intervento dei poteri pubblici. La nozione di “attività” culturale, sorta dall’analisi dottrinale nel grembo del genere “bene” culturale, si è definitivamente emancipata da quest’ultimo in via di diritto positivo. Dove bene culturale diventa ciò che compone il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoantropologico, archeologico, archivistico, liberario, e quanto costituisce in ogni caso una testimonianza di civiltà. In altri termini, sono “beni” le memorie ereditate dal passato, la cui custodia resta affidata allo Stato centrale, che si impegna a riconoscerle, conservarle, proteggerle: in sintesi, ad occuparsi della loro “tutela”. E dove attività culturale diventa tutto quanto sia rivolto al futuro, perché diretto a formare ed a diffondere le espressioni più avanzate della cultura e dell’arte: vale a dire quella cultura contemporanea che lo Stato dovrà farsi carico di promuovere, e cioè sostenere e suscitare. Carattere strutturale della tutela è la conservazione e protezione del bene dai rischi di alterazione, modifica, distruzione. Un tentativo di definizione compiuta della tutela era presente all’art. 148, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 112/1998, ove per “tutela” dei beni culturali si intendeva “ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali ed ambientali”. Il Codice dei beni culturali ha espressamente abrogato l’art. 148 del d.lgs. n. 112/1998, risparmiando due soli articoli (149 e 151) dell’intero capo V del decreto, e offrendo della tutela la definizione di “esercizio delle funzioni” e “disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantire la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” (art. 3, comma 1). Inoltre l’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale (art. 3, comma 2). Quindi, tutela sia come regolazione normativa che come amministrazione concreta, e con la precisazione che queste funzioni possono anche sacrificare diritti patrimoniali sui beni culturali. Sono tre le finalità direttamente perseguite attraverso l’esercizio della tutela l’individuazione dei beni che entrano a far parte del patrimonio culturale; la garanzia della protezione degli stessi; infine la loro conservazione. Una delle innovazioni più significative in materia di tutela si ravvisa nell’art. 12 Cod., in relazione alla verifica dell’interesse culturale sull’elenco dei beni richiamati all’art. 10. Recita innanzitutto l’art. 12 del Codice che le cose immobili e mobili indicate all’articolo 10, comma 1 che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre 50 anni, sono sottoposte alle disposizioni della parte II del Codice fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell’interesse culturale. Trattandosi di un richiamo alla “tutela” dei beni culturali, si tratta di una norma che afferma una presentazione di interesse culturale di questi beni, salvo il riscontro diverso della verifica. L'ultima parte dell’art. 12 stabiliva che la mancata comunicazione entro il termine complessivo di 120 giorni dalla ricezione della scheda “equivale ad esito negativo della verifica”. 3.2 Segue: la dichiarazione di interesse culturale: al di fuori dell’elenco dei beni che risultano tali ipso jure, per tutti gli altri beni il Codice prevede una dichiarazione, che va “notificata” al proprietario, possessore, detentore a qualsiasi titolo delle cose che ne formano l’oggetto, risolvendo in tal modo la vexata questio dell’avvio della procedura di tutela del bene culturale. Tale dichiarazione può essere anche formulata dalla regione per particolari categorie di beni non appartenenti allo Stato. Già il d. lgs. n. 112/1198 formulava un elenco di particolari funzioni di tutela. La norma va inquadrata alla luce del Codice, che all’art. 14 attribuisce al Ministero la competenza a emettere la dichiarazione di interesse culturale dei beni di privati. Dall'avvio del procedimento va data comunicazione al proprietario; dal momento di questa comunicazione il bene viene sottoposto al controllo dell’amministrazione, in via cautelare. Il procedimento si chiude con la notifica della dichiarazione. Dal momento della notificazione scaturiscono in capo al destinatario tutte le limitazioni alla disposizione del bene; e ove si tratti ci cose soggette a pubblicità immobiliare, la dichiarazione va trascritta nei registri immobiliari. All'imposizione del vincolo, derivano per i titolari di diritti di proprietà privata una quantità di obblighi. Obblighi negativi e positivi di comportamento sui beni suddetti. Le misure di conservazione del patrimonio culturale sono assicurata mediante una “coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro”. Per prevenzione si intende “il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto”. E per manutenzione “il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti”. Tutte le cose indicate nell’articolo 10 del Codice, da chiunque e in qualunque modo ritrovate, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio culturale o del patrimonio indispensabile, ai sensi degli articoli 822 e 826 del codice civile (art. 91). I beni culturali, mobili o immobili, possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione stessa risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi. La normativa in materia di tutela dei beni culturali ha conservato la tradizionale tripartizione tra  Espropriazione del bene già dichiarato di interesse culturale (art. 95) = il fine è di assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene, già conosciuto e dichiarato di interesse culturale, e perciò vincolato.  Espropriazione per fini strumentali (art. 96) = possono inoltre essere espropriate, per causa di pubblica utilità (c.d. espropriazione per fini strutturali), aree ed edifici quando sia necessario per isolare o restaurare monumenti, assicurando la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso.  Espropriazione per interesse archeologico (art. 97). Il fine generale resta quello della tutela\ fruizione del bene culturale; ma i tre istituti si differenziano per funzione, oggetto e in parte anche per la procedura seguita. In questi ultimi due casi l’oggetto è un immobile o un’area non ancora dichiarata di interesse culturale. La dichiarazione di pubblica utilità richiede l’approvazione di un progetto come espressamente previsto dall’art. 98, comma 2, del Codice. 3.3 La valorizzazione: sul piano legislativo la valorizzazione dei beni culturali è rimasta nettamente penalizzata rispetto all’attività di tutela, essendo stata storicamente solo quest’ultima compiutamente regolata dal diritto. La nozione di “valorizzazione” ha esordito nell’ordinamento dei beni culturali con l’art. 1 del d.P.R. 3 dicembre 1975, n. 805, che affidava all’istituendo Ministero dei beni culturali e ambientali il compito di provvedere “alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali”, senza che però si approdasse a una chiara identificazione semantica dei due concetti. Presto però il quid pluris della valorizzazione veniva individuato nell’incremento delle condizioni di godimento pubblico, e quindi nella naturale destinazione del bene alla fruizione collettiva. Affianco a questo significato ne emerge un altro, per cui l valorizzazione è strettamente legata all’incremento della qualità economica del bene, mediante l’assicurazione di maggiori entrate finanziarie. Non lontano da questa concezione si collocava l’art. 148, comma 1, lett. e, del d. lgs. N. 112/1998, quando qualificava quest’ultima come “ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali ed ambientali, e ad incrementare la fruizione”. La valorizzazione dei beni culturali veniva affidata alla cura dello Stato, delle regioni e degli enti locali: ciò mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali tra Stato, regioni ed enti locali. Il Codice dei beni culturali ha riqualificato la valorizzazione come l’esercizio delle funzioni e la disciplina delle attività “dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura”. In riferimento ai beni paesaggistici la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. La valorizzazione va infine attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze. Il Codice sulla scia della riforma costituzionale, chiarisce gli ambiti funzionali in cui dovrà muoversi il riparto di competenze fra i vari livelli di governo. E lo fa coniugando un criterio finalistico – lo “scopo” della valorizzazione che emerge all’art. 6 – con un criterio di appartenenza che viene fuori dagli artt. 102 e 112. Il Codice pone in una posizione di chiara subordinazione la valorizzazione rispetto alla tutela. Alla fine degli anni ‘90, anche la gestione dei beni culturali veniva definita in modo nuovo dall’art. 148, comma 1, lett. d), d.lgs.n. 122/1998; essa era qualificata come “ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali ed ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione”. La funzione di gestione veniva posta su di un livello di pari dignità rispetto alla tutela e alla valorizzazione. Il Codice dei beni culturali all’art. 115 distingue sempre sul terreno delle “attività di valorizzazione”, fra gestione in forma diretta o indiretta. La gestione diretta è svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni. La gestione indiretta è attuata tramite concessioni a soggetti terzi delle attività di valorizzazione. 3.4. Segue: la sponsorizzazione culturale: è stata la legge n 512/1982 che ha incoraggiato l’uso della sponsorizzazione. E infatti in Italia già nella seconda metà degli anni Ottanta gli sponsor privati avevano versato fino a 300 miliardi di lire l’anno, destinati in prevalenza ad opere di restauro. Il fenomeno della sponsorizzazione culturale vanta molteplici radici giù nella Costituzione. Interessanti appaiono le qualificazioni e gli spazi offerti dal Codice dei beni culturali, che dedica alla sponsorizzazione l’intero art. 120 Cod. In tale disposizione è definita sponsorizzazione di beni culturali ogni forma di contributo, anche in beni o servizi, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività dei soggetti medesimi. Dopo le modifiche del 2008 è stato cancellato nel Codice il richiamo alla sponsorizzazione dei soli soggetti privati, con l’apertura dunque anche ai soggetti pubblici nell’assunzione della qualifica di sponsor, inoltre possono essere oggetto di sponsorizzazione le iniziative di qualunque soggetto pubblico, essendo superata l’elencazione dei soggetti pubblici interessati, presenti nella prima formulazione del Codice; né il contributo dello sponsor è limitato alla sola senza reprimere, le diversità, viene poi ribadita dalla Carta di Nizza (art. 22) che ha ora la stessa efficacia giuridica dei Trattai. Fra questi accordi internazionali spiccano la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, sottoscritta all’Aja il 14 maggio 1954; la Convenzione Unesco per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, stipulata il 23 novembre 1972; la Convenzione dell’Unidroit sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, adottata a Roma il 24 giugno 1995. La Convenzione dell’Aja del 1954 parte da presupposti che i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, anticipando un dibattito, oggi molto acceso, soprattutto nei paesi anglosassoni, sulle possibilità di una fruizione collettiva che prescinda dal tradizionale approccio territoriale nella tutela dei beni culturali. La convenzione vieta innanzitutto il c.d. “diritto di preda”, impegnando le parti a proibire qualsiasi atto di furto, di saccheggio o di sottrazione di beni culturali ai danni dei beni dei Paesi nemici. La Convenzione dell’Aja del 1954 va oggi integrata con i successivi protocolli, e in particolare con il II Protocollo alla Convenzione, adottato, sempre all’Aja, il 26 marzo 1999, che presenta significative innovazioni rispetto al testo originario, come la parziale estensione dell’ambito di applicazione ai conflitti interni, e limitazioni alla “famigerata” deroga della “necessità militare”. La tutela internazionale dei beni culturali ha consegnato inoltre nuovi traguardi con la Convenzione Unesco del 1972, ove si afferma il principio che tutti i popoli del mondo sono interessati alla conservazione dei beni culturali, avendone in comune i valori di civiltà. Gli Stati aderenti alla convenzione s’impegnano a prestare il proprio concorso all’identificazione, protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale; e ciascuno Stato si obbliga ad astenersi deliberatamente da ogni provvedimento atto a danneggiare direttamente o indirettamente il patrimonio culturale. Significativa di un nuovo approccio della comunità internazionale nei confronti della cultura, è anche la Convenzione Unesco riguardante “la protezione e la promozione delle diversità culturali”. Va sottolineato che tale Convenzione è oggi richiamata anche dall’art. 7-bis del Codice dei beni culturali tra le espressioni di identità culturale collettiva, unitamente alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. A livello internazionale, molto importante è anche la Convenzione Unidroit del 1995, che distingue fra restituzione dei beni culturali rubati e il loro ritorno, in caso di esportazione illecita. A livello di disciplina sovranazionale dei beni culturali, una tappa assai significativa è, infine, la Convenzione quadro di Faro del 2005, sul valore del patrimonio culturale per la società sottoscritta dall’Italia il 27 febbraio 2013. Si tratta di uno strumento importante che mette in evidenza come il diritto all’eredità culturale sia inerente al diritto a partecipare alla vita culturale. Lo scopo ultimo della Convenzione è di costruire, attraverso la cultura, una società pacifica, democratica, sostenibile e rispettosa delle diversità. 4. Il governo dei beni culturali → 4.1 Le competenze dello Stato: il primo organico riparto di competenze fra Stato e enti locali è quello prospettato dal d.lgs.n. 112/1998, che innanzitutto riservava allo Stato funzioni e compiti di tutela dei beni culturali. 4.2 Le competenze di regioni, province e comuni: il d.lgs.n. 112/1998 ha disposto, in merito alla tutela, con norma ancora vigente, che le regioni, le province e i comuni concorrono all’attività di conservazione dei beni culturali; possono formulare proposte ai fini dell’apposizione del vincolo, diretto e indiretto, di interesse storico o artistico e di vigilanza; possono ancora formulare proposte in merito all’espropriazione dei beni mobili e immobili; le proposte possono essere espresse anche in merito al diritto di prelazione, sino all’esercizio del diritto di acquisto, previa rinuncia dello Stato. Inoltre cooperano nella definizione delle metodologie comuni per l’attività di catalogazione e tecnico-scientifica di restauro. Viene descritto nel Codice in materia di tutela un rapporto Stato- enti locali con una finestra aperta, però, rappresentata dalla possibilità di stringere accordi e intese, o altre forme di coordinamento, con quegli enti periferici in grado di dare risposte soddisfacenti alle necessità della tutela. Un regionalismo cooperativo delle prospettive, dunque, “puntiformi”, che lascia arbitro il Ministero delle risoluzioni da adottare in merito. In materia di valorizzazione, il Codice all’art. 7 si limita a registrare come principi fondamentali dell’ordinamento le norme in esso contenuto. A questa disposizione vanno comunque associati gli artt. 102 e 112, per i quali la legislazione regionale disciplina le funzioni e le attività di valorizzazione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato i dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente. Anche in materia di valorizzazione il Codice non manca di invocare, in più luoghi, il principio cooperativo fra Stato, regioni ed enti locali. L'art. 7 afferma che il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali perseguono il coordinamento, l’armonizzazione e l’integrazione dele attività di valorizzazione dei beni pubblici. Mentre l’art. 112, comma 4 stabilisce che lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione.
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