Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

l'ordinamento della cultura riassunto, Dispense di Diritto dei beni culturali

Riassunto del libro "l'ordinamento della cultura" per il corso di legislazione dei beni culturali di Roma tre.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 25/12/2023

anna-bianchetti
anna-bianchetti 🇮🇹

4

(1)

3 documenti

1 / 48

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica l'ordinamento della cultura riassunto e più Dispense in PDF di Diritto dei beni culturali solo su Docsity! Il sistema giuridico italiano è organizzato secondo una scala gerarchica tra le fonti del diritto che hanno più o meno forza all’interno dell’ordinamento a seconda dell’organo che le emana. Le possibili antinomie tra fonti eguali si risolvono, invece, attraverso il criterio di specialità o il criterio cronologico, ossia dando prevalenza, rispettivamente, alla fonte speciale sulla fonte generale o a quella più recente su quella più remota. COSTITUZIONE, LEGGI COSTITUZINALI, LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE La costituzione è una fonte rigida composta da 139 articoli ed è la carta fondamentale dei principi e dei valori in cui viene delineata la forma di stato e di governo italiana. (entrata in vigore il 1 gennaio 1948). Tutte le fonti del diritto devono essere subordinate alla Costituzione altrimenti vengono considerate illegittime. (art 9, art 33, art 117 alla lettera s sono quelli che ci interessano di più) Le leggi costituzionali sono quelle che integrano la costituzione in quanto alcune materie necessitano di essere regolamentate da leggi con la stessa valenza della costituzione. Le leggi di revisione costituzionale sono quelle che vanno a modificarla. LEGGI ORDINARIE, DECRETI LEGISLATIVI, DECRETI LEGGE (sono sempre fonti primarie ma sono subordinate alla costituzione fonte superprimaria). Le leggi ordinarie sono l’espressione dell’organo rappresentativo della volontà popolare ovvero il parlamento (legislatura 5 anni) e rinnovano l’ordinamento per tutte le fonti sottostanti o antecedenti (fenomeno di abrogazione che può essere parziale se non c’è totale sovrapposizione o totale e non è necessariamente espressa ovvero tacita). I decreti legislativi, o decreti delegati, vengono emanati dal governo nel momento in cui il parlamento delega l’esercizio della sua funzione legislativa, definendo l’oggetto, il tempo (massimo 5 anni) e altri criteri. (ART 76 COST) Se il governo non rispetta i criteri del parlamento il suo lavoro verrà dichiarato illegittimo dalla corte costituzionale. Anche se il parlamento fa la delega il governo non è obbligato a creare il d.lgs. I decreti legge non prevedono la delega del parlamento ma sono emanati autonomamente dal governo in caso eccezionali (ART 77 COST), per esempio per fronteggiare tempestivamente delle emergenze che non potrebbero aspettare tutto l’iter del parlamento. Il decreto legge è sotto la responsabilità del governo che lo deve presentare alle camere (anche se sciolte; in quel caso si devono riunire entro 5 giorni) il giorno stesso per farlo convertire in legge. Il parlamento può discutere per 60 giorni e non è costretto a convertirlo; se non lo fa il decreto perde efficacia sin dall’inizio. Decreti legge e decreti legislativi hanno la stessa forza attiva e passiva ovvero innovano l’ordinamento allo stesso modo e resistono alle fonti contrastanti allo stesso modo e hanno la stessa forza di una legge ordinaria quindi la possono anche abrogare. REGOLAMENTI, FONTI EUROPEE. I regolamenti sono atti emanati dal governo che danno concretezza e applicano le leggi, che per principio devono essere astratte e generali, attaccandole alla realtà essendo più specifici. I trattati comunitari (c.d. fonti primarie o originarie) designano l’Unione Europea conferendo alle Istituzioni che la compongono alcuni poteri assimilabili a quelli di uno Stato sovrano, tra cui, in particolare, il potere di emanare atti vincolanti (c.d. fonti secondarie o derivate) e di garantire la corretta e uniforme interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione. I trattati designano, quindi, un vero e proprio ordinamento giuridico. È oggi pacifico che i rapporti tra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione siano regolati mediante ripartizione di competenze per materia (c.d. principio di attribuzione) – secondo cui l’U.E. può agire esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono conferite dai Trattati e nell’ambito degli obiettivi da essi previsti – e che nell’ambito delle materie di competenza comunitaria, esclusiva o concorrente, eventuali conflitti tra diritto interno e diritto dell’Unione vada risolto assegnando prevalenza a quest’ultimo (c.d. primato del diritto comunitario). Quindi una normativa interna in rapporto con una europea viene disapplicata ovvero resta in vigore, esiste, ma non produce effetti. Se la normativa europea poi viene abrogata ritorna in vigore la normativa interna che era stata disapplicata. I limiti dell’applicabilità delle normative europee sono dettati dalla costituzione che è quindi un controlimite. Il parlamento europeo emana delle leggi dette regolamenti europei che devono essere applicate così come sono dagli stati membri. Le direttive europee invece sono indicazioni per i paesi membri che hanno l’obbligo di provvedere alla disposizione di leggi nazionali entro un lasso di tempo limitato (massimo 5 anni); in genere da queste direttive vengono ricavati dei decreti legislativi. L’ORDINAMENTO DELLA CULTURA CAP 1. PER UNA STORIA COSTITUZIONALE DELL’ARTE 1 funzione pedagogica dell’arte 1.1 Anche se non tutta la popolazione ha le conoscenze per capire approfonditamente l’arte tutti ne riconoscono il valore e ne rimangono in qualche modo affascinati. È proprio per la loro grande forza persuasiva che le attività artistiche sono state strumentalizzate per scopi politici nel corso della storia, tuttavia la capacità di un’opera di suscitare emozioni non è dettata puramente dal messaggio politico che vuole veicolare ma dalla forma finale che assumerà che le permetterà di radicarsi nel tessuto sociale conferendole efficacia e la capacità di suscitare reazione emotiva. Tolstoj definiva questa capacità il contagio dell’arte. La forza straniante che assale lo spettatore non è sempre stata vista di buon occhio, anzi nel corso della storia gli artisti sono stati accusati più volte di distogliere le persone dalla realtà corrompendola fomentando le passioni. Il rifiuto per l’arte era in qualche modo un rifiuto nei confronti del piacere e infatti ricompare nel pensiero di vari puristi come Sant’Agostino, Kant, Tolstoj in quanto pensavano l’arte a carattere edonistico degradasse gli uomini invece di elevarne lo spirito, loro cercavano la funzione educativa dell’arte. La funzione pedagogica dell’arte venne usata sin dall’antichità: dai greci che usavano i poemi omerici per educare il popolo. Ma venne usata anche come legittimazione del potere, come propaganda e come “oppio che stordisce i sudditi”(cit. Hauser). E’ con l’avvento del Cristianesimo che l’arte diventa il più efficace mezzo di indottrinamento delle masse popolari e l’artista deve quindi lavorare a stretto contatto col teologo. Col rinascimento l’arte viene slegata dalla metafisica ma nacque in questo modo la figura dell’artista di corte che paga i suoi nuovi privilegi economici e sociali con la strumentalizzazione della sua arte da parte delle varie fazioni detentrici del potere; così rimarrà la situazione fino alla Rivoluzione francese (1789). Negli ultimi due secoli invece le avanguardie artistiche hanno cercato di dare un’immagine fuori dagli schemi e dai valori tradizionali rifiutandone il linguaggio specifico, ma così facendo adottano un linguaggio estraneo e distante dalle masse rimanendo inevitabilmente di nicchia e di difficile comprensioni per i molti, isolandosi e perdendo il loro potenziale rivoluzionario diventando innocue. 1.2 Il libro afferma che, per quanto tutti i generi artistici siano stati sfruttati nel corso tempo, i più efficaci e incisivi per controlli autoritari siano stati teatro, cinema e letteratura ovvero espressioni veicolati dal linguaggio in quanto codice simbolico di immediata comprensione. Oltre al fattore della comprensibilità c’è anche quello della potenzialità riproduttiva: uno spettacolo teatrale è fatto per essere messo in scena quante volte si vuole; un quadro se 2.5 Le classi dirigenti dell’Italia unita incoraggiavano l’impegno civile dell’arte con varie iniziative. Indicono concorsi, solitamente a tema di rilevanza politica nazionale (concorso Ricasoli 1860 per un dipinto sulla battaglia di Magenta poi vinto da Fattori); aprono musei e gallerie pubbliche per avvicinare l’arte al popolo e creare posti di lavoro; vengono chiamati ad insegnare nelle accademie insegnanti specializzati e questo comporta anche il cambiamento dei criteri di formazione professionale degli artisti; nel 1861 viene istituito un comitato per rappresentare l’Italia nell’Esposizione universale di Londra del 1862 per portare le esperienze artistiche anche all’estero. La promozione delle attività artistiche è stato un impegno assiduo nel Regno d’Italia che stanzia fondi appositi e istituisce le pensioni di belle arti. Queste pensioni davano l’opportunità a pochi e meritevoli artisti di perfezionare le loro capacità senza pressioni economiche e consentivano anche l’esenzione dal servizio militare. Queste pensioni vengono abolite, perché ritenute superate, e al loro posto vengono istituiti premi di incoraggiamento in base all’età o al merito che vengono a loro volta aboliti nel 1881 per tornare di nuovo al pensionamento artistico, reintrodotto nel 1891, lasciando alle accademie la possibilità di stanziare premi (pochi) ai meritevoli. Il settore teatrale aveva beneficiato di aiuti economici sporadici fino al 1921 in cui vengono stanziati 200.000 lire con lo scopo di sostenere teatri lirici e drammatici conformi ai programmi del ministero o che avessero finalità pedagogiche; stessa cosa per la musica e il canto. 2.6 Se da un lato lo stato finanzia dall’altro reprime duramente l’espressione artistica. Tra la proclamazione del Regno d’Italia e l’avvento del fascismo le norme censorie più rigide vengono emanate proprio per disciplinare gli spettacoli, considerati evidentemente un sistema di diffusione delle idee potenzialmente pericoloso per la pubblica moralità. La prima legge riguardante la tutela della moralità nelle rappresentazioni teatrali è del 1859, segue poi la legge del 20 marzo 1865 che conferisce alle forze di polizia locali (non competenti in materia) poteri normativi per la disciplina degli spettacoli teatrali, per salvaguardare il pudore e la sicurezza pubblica, emanando anche il regolamento d’esecuzione che stabiliva l’obbligo di una licenza per gli spettacoli e il libero accesso delle forze pubbliche alle rappresentazioni. Al diffondersi dell’esperienza cinematografica vengono introdotte nuove censure (la legge 25 giugno 1913 n785 e il relativo regolamento d’esecuzione il r.d. 31 maggio 1914 n 532) di cui si occupa la Direzione generale della pubblica sicurezza. Queste restrizioni valgono sia per i film italiani che di importazione e contemporaneamente viene fissata una tassa di 10 centesimi per ogni centimetro di pellicola. In quel periodo ancora non si comprendeva il potenziale artistico del cinema quindi non ci furono proteste contro le stringenti limitazioni imposte; la tutela dei film in quanto opere creative sarà soddisfatta solo nel 1925 con la legge sul diritto d’autore. Con il decreto 9 ottobre 1919 n 1953 si estende la lista dei divieti e viene introdotta la censura preventiva sui copioni destinati al cinema per il grande pubblico; viene resa anche più difficile la possibilità di concessione del nulla osta necessario. Gli ambienti culturali non prendono bene l’emanazione del decreto del 1919 e chiedono che il controllo passi dalla Direzione generale della pubblica sicurezza a un comitato competente; purtroppo l’instabilità politica e l’ascesa del fascismo porta al regolamento del 1923, ancora più rigido della disciplina precedente. Per quanto riguarda la stampa invece vigeva l’editto del 26 marzo 1848 in cui si contemplava il sequestro giudiziario degli stampati (usato in modo indiscriminato soprattutto nella seconda metà dell’800), poi fortunatamente sostituito con la legge n 278 del 28 giugno 1906 che abolisce il sequestro se non per quanto riguarda “gli stampati ed oggetti che si riconoscessero offensivi del buon costume o del pudore”. Sempre per quanto riguarda la politica culturale entra in vigore il 19 maggio 1918 il codex iuris canonici che aggiorna la normativa censoria del diritto canonico con cui vennero proibiti i libri osceni, atei, sacrileghi, che difendevano temi come il divorzio, il suicidio, la superstizione, la massoneria, ecc... che costituisce una grande limitazione del pensiero. 2.7 Nel ventennio fascista la carta fondamentale del regno era lo statuto albertino che era flessibile e quindi facilmente aggirabile con documenti di pari grado purché successivi. A livello di documenti normativi emanati pochi includono l’arte ma questo non corrisponde ad indifferenza da parte del regime, al contrario Mussolini voleva governare con l’appoggio degli intellettuali e degli artisti per creare consenso, quindi, nonostante l’inasprimento delle censure, non agisce in maniera repressiva ma formula un appello alla partecipazione attiva alla causa del fascismo. Viene emanata la legge 3 aprile 1926 n 563 il cui comma 2 riconosceva le associazioni di lavoratori o artisti in proprio da cui poi vengono riconosciuti 15 sindacati nazionali che formano la Confederazione nazionale dei sindacati fascisti degli intellettuali. Nel 1927 viene approvata dal Gran consiglio del fascismo la Carta del lavoro e trasformata nella legge 13 dicembre 1928 n 2832 che diceva che “coloro che esercitano una libera professione o un’arte e le associazioni di pubblici dipendenti concorrono alla tutela e al perfezionamento degli interessi dell’arte, della scienza e delle lettere al conseguimento dei fini morali dell’ordinamento corporativo”, tale provvedimento mira a inserire nella gerarchia del paese gli intellettuali con il ruolo di collaboratori tecnici della produzione. Uno dei personaggi più importanti del regime per quanto riguarda la cultura è stato Giuseppe Bottai ministro dell’educazione italiana dal 1936 al 1943 il quale affermava che il rapporto tra arte e stato comportava la viva partecipazione dell’artista nello stato. L’idea era quella di guadagnarsi le simpatie degli artisti tramite premi, committenze, acquisto da parte dello Stato di opere e mostre che registravano molta affluenza come la Biennale di Venezia e la mostra della Rivoluzione fascista a Roma per il decennale del regime. Per quanto riguarda i giovani vengono indetti nel 1934 i Littorali della cultura e dell’arte che erano dei concorsi annuali riservati ai giovani iscritti ai gruppi universitari fascisti ed erano una rara occasione per emergere. Nel 1986 viene ritrovato l’archivio dei fondi del Minculpop che fanno capire le proporzioni dell’intervento dello stato su artisti e intellettuali. I nomi su questi documenti sono più di 100 000 (Quasimodo, Ungaretti, Silone, ecc…) e in alcuni casi i versamenti di denaro erano regolari come una sorta di stipendio, in altri casi erano pagamenti per l’acquisto di opere ritenute utili per la propaganda. Con la legge n 90 del 12 gennaio 1934 viene attuata la revisioni dei regolamenti degli istituti sottoposti a tutela dello stato in modo da poter coordinare le attività e renderle più efficaci ed adeguate alle esigenze del regime. Durante il regime inoltre aumenta il numero degli istituti del paese per controllare sempre di più le forze intellettuali del paese: i più importanti sono l’Istituto nazionale fascista di cultura e l’Istituto di studi romani appositamente creato per dare prestigio al mito fascista della romanità. Tra le iniziative culturali che hanno avuto maggiore successo c’è sicuramente il dopolavoro, pensato per poter soddisfare i bisogni culturali, sportivi ed educativi delle masse, e i Carri di Tespi ovvero dei teatri ambulanti che portavano gli spettacoli anche nelle province più piccole tra il 1929 e il 1939. Le pubbliche manifestazioni erano regolate da rigide disposizioni come l’art 15 del r.d.l. 17 dicembre 1935 n 2082 che prevedeva un’autorizzazione del prefetto o del capo dello stato; l’art 16 diceva che tale autorizzazione doveva essere negata nel caso in cui la manifestazione andasse contro la coscienza nazionale, inoltre il governo aveva la possibilità di modificare i programmi e di unire anche più iniziative insieme. Negli anni 30, seguendo l’esempio di Goebbels, anche la compagine ministeriale italiana si vuole dare una struttura più funzionale. Nel 33 Galeazzo Ciano assume la direzione dell’ufficio stampa della presidenza del consiglio che viene trasformato prima nel sottosegretariato di stato per la stampa e propaganda e l’anno dopo nel ministero per la stampa e la propaganda, fino al 1937 in cui diventa il ministero per la cultura popolare (Minculpop). Negli anni subito precedenti alla guerra l’azione per l’arte si intensifica inasprendo la censura e il sostegno economico agli artisti per fronteggiare l’emergenza portata dalle vicende politiche internazionali. Nel 1939 vengono emanate le leggi di tutela per il patrimonio storico, artistico e paesaggistico: le cosiddette leggi Bottai che rappresentano le radici del nostro codice dei beni culturali. -legge 29 giugno 1939 n 1089: tutela delle cose di interesse artistico e storico -legge 29 giugno 1939 n 1497: protezione delle bellezze naturali Un’iniziativa importante è la cosiddetta legge del due per cento ovvero la l. 11 maggio 1942 n.839 che diceva che i progetti di ogni opera pubblica dovevano impegnare una quota minimo del 2% dell’importo preventivo dei lavori da destinare alle esecuzioni di opere d’art figurativa al fine di rendere irreversibile la comunione tra artisti e poteri pubblici. Gli artisti erano scelti solo tra gli iscritti al sindacato proposto dalla confederazione fascista dei professionisti e degli artisti. 2.8 Per la sua propaganda il regime punta soprattutto sul cinema. Nel 1924 viene fondato l’Istituto Luce che l’anno successivo diventa ente statale con l’incarico di diffondere la cultura popolare, viene affiancato da strutture tecniche come Cinecittà, di produzione (CINES), distribuzione (ENIC), e circuito (ECI). Per legge c’era l’obbligo per tutti gli esercenti di inserire in ogni spettacolo le pellicole dell’istituto luce per l’opera di fascistizzazione del popolo. Il fascismo introduce due idee-cardine nella politica di sostegno che verranno continuate anche dopo la caduta del regime: il sistema della “programmazione obbligatoria” e quello dei “ristorni” per fare concorrenza al cinema hollywoodiano. Vengono imposti limiti alla proiezione di produzioni straniere e offerti aiuti economici alle case di produzione italiane le cui pellicole rispecchiavano l’etica del regime. Nonostante tutte queste manipolazioni il regime non voleva sostituirsi all’iniziativa privata, nazionalizzando le società cinematografiche, ma che esse si uniformassero alle direttive del governo, quindi quando Luigi Freddi propone di varare una legge che avrebbe assicurato il controllo statale del cinema, il Minculpop e probabilmente Mussolini, mettono il veto. 2.9 I decreti censori costellano tutti gli anni 20 ma il regime non ha apportato modifiche sostanziali alle leggi precedenti, i divieti rimangono pressoché gli stessi, a cambiare è il modo in cui le leggi vengono formulate. Nel 1923 viene emanato il regolamento per la vigilanza governativa sulle pellicole Alberto Predieri nel 1969 suggerisce di interpretare il “paesaggio” dell’art 9 come “forma del paese” superando la concezione estetizzante in favore di una nozione di tipo ambientalista. -Il secondo fattore è l’avvio dell’esperienza regionale scandita dal varo di nuovi statuti che permettono alle Regioni di rivendicare un ruolo attivo sia di gestione che di promozione culturale maggiore rispetto a quello concesso nell’art 9, per questo ne viene cambiato il significato fino a concepire il progresso delle regioni come un obiettivo preminente. La legislazione successiva interviene con norme capillari, che vanno ben oltre le possibilità dell’art 117 della costituzione (che attribuiva alle regioni la sola cura di musei e biblioteche di enti locali). Già sul volgere degli anni 70 ogni Consiglio regionale aveva stabilito le proprie regole sulla disciplina degli usi e costumi locali, sulle associazioni culturali, sull’incentivazione dell’editoria, teatro, lirica e sui fenomeni artistici più acerbi e sperimentali, cui restava tradizionalmente sordo il legislatore nazionale. Alcuni definiscono questa politica regionale “aggressiva” ma la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto che, oltre che dalle dichiarazioni statutarie, è dall’art 9 che le regioni traggono alimento: quindi l’articolo creato dai legislatori appositamente per arginarle è proprio quello su cui basano la loro legittimità. Nel 1975 viene introdotto il ministero dei beni culturali e ambientali su impulso dell’allora ministro senza portafoglio per i beni culturali Giovanni Spadolini. Da quel momento in poi la “politica culturale” entra nella politica generale del governo. 4 Per una ricostruzione del modello costituzionale Nel saggio Politica e cultura del 1955 Norberto Bobbio definisce la distinzione tra “politica della cultura” e “politica culturale”: la prima è la politica degli uomini di cultura che vogliono difendere l’esistenza e lo sviluppo della cultura (con il pluralismo: sostenere le espressioni minoritarie che sono deboli sul mercato); la seconda è pianificazione della cultura da parte dei poteri politici. La Costituzione non respinge la politica culturale, anzi, la ritiene doverosa e ovviamente questo altera gli equilibri a discapito dell’autonomia delle discipline artistiche che sono già di per sé difficili da controllare per loro stessa natura, inoltre un sostegno politico potrebbe finire per asservirle agendo come una vera e propria censura. La risposta è: l’intervento pubblico si giustifica solo in quanto esso riesca ad alimentare il pluralismo, la pluralità delle espressioni culturali. Anche la cultura ha bisogno di concorrenza per esprimere tutte le sue potenzialità, per questo non bisogna incentivare i monopoli ma assicurare un posto anche alle espressioni che da sole non sopravvivrebbero quindi l’intervento pubblico è di tipo suppletivo, di riequilibrio. Per evitare lo squilibrio e l’accentramento dell’azione di impulso culturale entrano in gioco le regioni che hanno proprio lo scopo di bilanciare libertà e sviluppo con un’azione policentrica. Importantissime anche sotto il punto di vista della tutela in quanto il bene culturale è quasi sempre radicato nel territorio, in un particolare ambiente sociale di cui è testimone e che va salvaguardato innanzitutto dalla popolazione locale. La nuova formula dell’art 117 attribuisce alle regioni sia la promozione che l’organizzazione della vita culturale e pone al centro la figura dell’esperto che deve avere l’ultima parola circa la distribuzione delle risorse all’interno del campo già selezionato dal legislatore. 5 Le distorsioni della prassi Questo modello costituzionale però non è stato messo in pratica in maniera molto efficace. Innanzitutto perché la figura dell’esperto incaricato dovrebbe essere riconosciuto e selezionato a sua volta da un esperto invece queste nomine sono per lo più in mano alla politica e dagli organi politici statali o regionali. Preoccupante è anche la contaminazione fra le ragioni dell’arte e ragioni di mercato come, per esempio, la nuova legge sul cinema (27 settembre 2004) che lega la misura del contributo pubblico alla solidità economica dell’azienda produttrice e dagli incassi dell’anno precedente che è praticamente l’opposto di ciò che bisognerebbe fare. Da menzionare è anche la scelta governativa di rilanciare il settore cinematografico introducendo agevolazioni fiscali per le aziende cinematografiche straniere che si avvalgono di manodopera italiana. Cap. 3 LA LIBERTA’ DELL’ARTE E DELLA SCIENZA 1 L’arte e la scienza non possono essere definite oggettivamente quindi anche le nozioni dell’ordinamento che le riguardano sono aperte e contemplano molteplici definizioni. Essendo entrambe le discipline pensiero libero più che di tutela hanno bisogno della garanzia della loro divulgazione e del loro insegnamento. 2 I limiti della libertà artistica Nell’art 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si vieta sostanzialmente la formazione di un’arte e una scienza di stato. La libertà dell’arte e della scienza trova radici forti anche nell’art 21 della Costituzione, che tratta la libertà di pensiero sia in senso negativo che positivo (essere iberi di fare o non fare qualcosa), che vince sempre a meno di un conflitto con altri interessi costituzionalmente assicurati (tipo i minori vanno salvaguardati anche in caso di attività artistica, oppure caso di rappresentazioni iperrealistiche devono essere difesa l’integrità psico-fisica sia degli attori che degli spettatori, ecc..). Non è invece sancito nell’art 33 il limite al buon costume in quanto si è arrivati alla conclusione che l’arte non può essere oscena. 3 I limiti della libertà scientifica La scienza non è fatta solo di ricerca teorica ma anche di sperimentazione pratica, di divulgazione dei risultati, sfruttamento commerciale dei brevetti conseguiti, ecc… Quindi la libertà assoluta è possibile solo per la ricerca teorica, mentre in tutti gli altri casi va data la precedenza ad altri principi costituzionali come la salvaguardia della persona, la dignità personale, il diritto alla salute: da qui l’obbligo del consenso informato per i trattamenti medici. Ovviamente insieme al principio di dignità bisogna tenere in considerazione anche il principio d’uguaglianza che impone il divieto di discriminazione negativa nei confronti di “soggetti deboli” o positive verso i destinatari di mezzi terapeutici d’avanguardia. In realtà non esistevano, fino a poco tempo fa, normative dirette a limitare la libertà scientifica in quanto i traguardi scientifici sono sempre stati visti come un fattore di progresso e prestigio per lo stato; le cose cambiano con la diffusione delle biotecnologie ovvero quelle tecniche scientifiche che vanno ad incidere e modificare il patrimonio genetico della materia vivente suscitando molti problemi tra scienza, etica e diritto. 4 Le biotecnologie La questione ha prima riguardato gli organismi geneticamente modificati (OGM) cioè gli organismi vegetali il cui contenuto genetico è stato scientificamente modificato. Non conoscendosi gli effetti a lungo andare della loro commercializzazione, la disciplina nazionale ed europea si è improntata sul cosiddetto principio di precauzione che impone al legislatore misure di cautela per evitare ripercussioni sugli interessi costituzionali primari. La direttiva 2015/412 dell’11 marzo 2015 limita o vieta la coltivazione di ogm sul territorio; ma la sperimentazione sugli embrioni umani è la nuova sfida del settore, con tutto ciò implica a livello dei limiti della libertà della scienza. L’art 13 della legge 19 febbraio 2004 n 40 vieta qualsiasi sperimentazione sugli embrioni umani; sono vietati anche: produzione di embrioni umani a fine di ricerca e sperimentazione; ogni tipo di intervento per predeterminare le caratteristiche genetiche a meno che non sia per finalità diagnostiche o terapeutiche; interventi di clonazione con trasferimento di nucleo o scissione precoce dell’embrione sia a scopi procreativi che di ricerca; incrocio di gamete umano con specie diversa per creare ibridi. 5 Scienza e politica Secondo alcuni scienza e politica fanno parte di due mondi completamente diversi in quanto la prima è attività speculativa e non si può misurare con i criteri di giusto/sbagliato ma solo di vero/falso, e la seconda è basata sulla prassi. La scienza si basa sulla fiducia nella razionalità intrinseca nelle discipline scientifiche da cui viene fatta discendere la loro universalità. Proprio da questi due attributi è sorta l’istituzionalizzazione della scienza con la comunità scientifica che si è dotata di regole vincolanti: -pubblicazione dei risultati ottenuti, -scetticismo sui risultati altrui: il valore di un’asserzione scientifica non dipende dal suo autore. Da queste regole si è tratta la nozione di auto correzione del sapere scientifico e la separazione dalle non scienze avvenuta nel XVI sec quando la scienza inizia a essere indipendente da Stato e Chiesa. Ma scienza e politica non possono essere veramente separate per due motivi: innanzitutto anche la politica è una scienza (quella dell’interazione umana), e poi perché ogni scoperta teorica va dimostrata con un’attività pratica. Lo stato è interessato proprio alle possibilità applicative delle scienze, in quanto rappresentano “il nuovo” e “il diverso” avvertiti dalle autorità politiche come insidia e quindi devono essere controllate. Durante il periodo degli ordinamenti liberali avviene la professionalizzazione degli uomini di scienza che hanno una richiesta di mercato sempre più alta, tanto che passano da essere dilettanti a forza-lavoro stipendiata. Nella società contemporanea il rapporto tra scienza e politica si fa sempre più stretto a causa dei molti fondi necessari e che si traduce in condizionamento della libertà della ricerca scientifica. E’ emersa anche l’ambivalenza etica delle scienza, che da una parte può creare come distruggere, ha portato a un sentimento di diffidenza nella scienza accentuato da un linguaggio sempre più complicato e inaccessibile ai più; in questo contesto tramonta la concezione di scienza come ricerca disinteressata della verità, facendo cadere anche i suoi due principi cardine di razionalità e universalità. Per rispondere all’esigenza di stabilire un nuovo codice etico gli ordinamenti positivi hanno due approcci verso la scienza: la politica per la scienza che sono le attività intraprese dallo stato per incoraggiare lo sviluppo; e la politica attraverso la scienza che usa i risultati scientifici per fini politici generali. In particolare nelle dinamiche tra scienza e politica si possono isolare due modelli: decisionistico: in cui si accetta che le forze di governo decidano i fini e i campi d’intervento; tecnocratico: dove il rapporto si capovolge in favore dell’autonomia della scienza. L’autonomia della scienza viene in genere vista come un valore positivo, come anche recita l’art 33; sta allora allo stato trovare il modo di conciliare tale valore con le strettoie dell’intervento pubblico. CAP 4 LA LIBERTà DELL’INSEGNAMENTO 1 La libertà d’insegnamento, pur variando i suoi metodi in base ai vari gradi di istruzione, è statalità, in quanto non tutte le lingue hanno uno stato di riferimento, nè l’elemento culturale perché anche i dialetti riflettono una cultura tipica. Nella costituzione la tutela viene declinata attraverso due sistemi: -Il bilinguismo: come per la minoranza francofona in Valle d’Aosta dove ci si può rivolgere alle autorità pubbliche sia in italiano che in francese, e dove l’insegnamento andrebbe impartito in entrambe le lingue. -Il separatismo linguistico: come per i tedeschi dell’Alto Adige che hanno diritto a insegnanti madrelingua. Questi due sistemi però presentano dei rischi concreti, il primo rischia di annegare le differenze culturali, mentre il secondo di accentuare le tensioni fra i diversi gruppi. Per applicare queste norme bisogna sapere a quale gruppo si appartiene ricorrendo al censimento linguistico che però può diventare fattore di discriminazione, può porre problemi di veridicità e può andare contro il principio costituzionale di adesione volontaria ad ogni gruppo linguistico. Quindi che tipo di uguaglianza porta l’art6? Come si può giustificare il diverso tipo di trattamento fra l’una e l’altra minoranza? La storia legislativa dell’art 6 può essere divisa in 5 fasi: -Nel 1945 vengono riconosciute a livello legislativo le minoranze “superprotette” per smorzare le spinte separatistiche. -La pulizia legislativa per smantellare i vincoli più odiosi introdotti dal fascismo (come il divieto di mettere nomi stranieri ai bambini, o di dover parlare solo italiano ai processi). -Negli anni 70 le regioni si fanno carico delle minoranze all’interno del loro territorio ma le leggi rimangono superficiali a causa del contrasto col governo dell’epoca. -Nel ventennio successivo alla normativa statale subentra una massiccia normativa locale che ha mille rivolti e viene in continuazione plasmata e riplasmata. -Infine la legge 15 dicembre 1999 n 482 cerca di colmare il divario tra minoranze riconosciute e non riconosciute ma comunque include un elenco delle popolazioni tutelate. Insomma un putiferio. 5 Le politiche linguistiche verso gli immigrati Una storia legislativa su questo argomento non esiste, né per quanto riguarda l’uso della propria lingua d’origine nelle comunicazioni con i nostri uffici, né per la valorizzazione delle loro identità linguistiche. Legge Turco-Napolitano n 40/1998: realizzazione di corsi d’italiano per favorire l’integrazione. Legge Bossi-Fini n189/2002: visto d’ingresso rilasciato in una lingua che lo straniero possa comprendere. Legge Maroni (pacchetto sicurezza) n 94/2009: introduce il reato di immigrazione clandestina e impone agli immigrati un test di lingua italiana per avere il permesso di soggiorno. 6 Il modello costituzionale In senso proprio la politica linguistica esprime un nesso tra lingua e potere, o meglio, pone la lingua al servizio del potere politico. La politica linguistica è dunque una categoria della politica culturale che, secondo Bobbio, viene usata dai politici per marcare l’egemonia su un popolo colonizzato, per decidere le sorti di un territorio o per soggiogare delle minoranze interne. Può esserci una politica linguistica non nazionalista ma democratica? Secondo l’art 3 siamo tutti uguali senza distinzione di lingua, dunque essa non rappresenta una discriminazione normativa neppure in positivo: in questo caso la lingua si configura come libertà di parola. L’art 6 però reclama un intervento speciale per tutelare le minoranze linguistiche e quindi in questo caso la lingua è giuridicamente rilevante, quindi può e deve essere interesse del governo occuparsene. Occorre distinguere tra dimensione individuale e collettiva del fenomeno linguistico: la lingua resta irrilevante giuridicamente come scelta individuale, non come patrimoni collettivo; dunque la libertà di lingua introduce l’obbligo di astensione da parte dello stato, l’appartenenza a una gruppo linguistico introduce l’obbligo di intervento. L’intervento è doveroso anche se il gruppo coincide con la maggioranza della popolazione? Si rischia di marcare troppo la distanza tra lingua del potere e lingua del popolo. Bisogna accettare che la cultura non può essere pienamente pianificata, quindi anche la lingua va accettata per com’è e per come spontaneamente si evolve, perché è al tempo stesso bene culturale, e insieme memoria dei padri e orizzonte dei figli, ed è disgrazia per la Repubblica che non abbia cura del proprio patrimonio culturale. CAP 6 IL PATRIMONIO CULTURALE EUROPEO 1 Quando nel 1957 il trattato istitutivo della CEE (Trattato di Roma), all’art. 30 ammise il mantenimento per la circolazione comunitaria di restrizioni e divieti dettati da esigenze di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, sanciva la cosiddetta eccezione culturale: una deroga alle regole stabilite dai trattati dell’Unione in materia di libertà di scambio e concorrenza, destinata a durare nel tempo. Tale deroga legittima l’intervento regolativo e finanziario dei poteri pubblici nazionali, sottrae la materia culturale alle decisioni degli organi comunitari e finisce col conoscere una dimensione sovracominutaria, potendo essere rivendicata sia nei confronti della Comunità che rispetto ai paesi extra Ue. Siamo assai lontani da un’idea di patrimonio culturale europeo, che prescinda dalle peculiarità degli stati membri. Nasce la Comunità europea nel segno della libera circolazione di merci e capitali, e in termini di patrimonio storico artistico si stabilisce il mantenimento del monopolio delle politiche nazionali di settore, insieme alla legittimazione di aiuti finanziari interni ai paesi membri. Ciò in un contesto in cui l’eccezione culturale viene vista con diffidenza e sospetto dalle istituzioni comunitarie. Le deroghe al principio della libera circolazione delle merci vanno interpretate in modo tassativo, devono essere proporzionalmente giustificate dagli obiettivi prefissati e devono riguardare beni di effettivo interesse culturale (viceversa l’eccezione è recessiva laddove appaia prevalente un interesse superiore di tutela dei diritti dei singoli). Si tratta di decisioni che rispecchiano lo scontro tra paesi membri (market nations) fautori di un approccio liberista nella disciplina della circolazione dei beni culturali, e paesi (source nations) come l’Italia, attestati verso un ferreo mantenimento dell’integrità del proprio patrimonio culturale. Il risultato in termini di governance culturale a livello comunitario è stato quello di una delimitazione fluida degli ambiti di competenza. La Corte di giustizia ha legittimato la regolamentazione comunitaria laddove fossero in gioco i principi comunitari del libero mercato e i diritti fondamentali; per il resto però operando un bilanciamento a favore dell’ordinamento statale. Solo in incedere di tempo la dimensione culturale ha assunto un carattere più significativo della deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. All’inizio degli anni 70 gli stati membri della comunità europea cominciano a percepire l’importanza della cultura per lo sviluppo di nuove forme di coesione tra le loro popolazioni e nel 1974 il Parlamento europeo approva una risoluzione a favore della salvaguardia del patrimonio culturale europeo, con le prime misure di finanziamento per il restauro dei beni culturali di grande rilievo simbolico (e nel 1976 il Parlamento istituisce l’Orchestra dei giovani dell’Unione europea). Iniziava dunque a farsi strada una formula destinata ad avere successo: quella di “Europa dei cittadini” e di “Europa dal volto umano”. 2 La cultura dopo Maastricht Dopo l’Atto Unico europeo (1986) si diffonde sempre più la consapevolezza che l’Unione può sorgere effettivamente, come autentica comunità di popoli, solo trascendendo quella visione strettamente economicistica che ne aveva segnato la nascita. E che la promozione e tutela del patrimonio culturale e continentale possono diventare il fattore trainante. Il trattato di Maastricht del 1992: -Riconosce competenze specifiche all’Unione in materia di cultura. -Prevede un contributo rivolto a un’istruzione e formazione di qualità, e al pieno sviluppo delle culture degli stati membri. - Sancisce la piena compatibilità con il mercato comune degli aiuti di Stato in ambito culturale. Diventa quindi prioritario, all’interno della Comunità europea (che non perde casualmente l’aggettivazione di economica) l’interesse per il fattore culturale, individuato come determinante in funzione di quell’”unione sempre più stretta fra i popoli europei”. La Comunità deve contribuire al pieno sviluppo delle culture degli stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando anche il retaggio culturale comune. La sua azione sarà pertanto diretta a incoraggiare la cooperazione fra gli stati membri, integrandone e appoggiandone l’azione per: -Il miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei. -La conservazione e la salvaguardia del “patrimonio culturale d’importanza europea”. -Gli scambi culturali non commerciali. -La creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. Si tratta di disposizioni importanti che lasciano la netta sensazione di un’inversione di tendenza della Comunità in materia culturale. Pur approvato in una condizione di grandi difficoltà (per l’opposizione di paesi rilevanti come Germania e Gran Bretagna), l’art. 128 trasferisce per la prima volta a livello europeo un copioso elenco di competenze in materia culturale, disegna limiti e obblighi della Comunità rispetto a istituzioni e cittadini europei, e infine ricostruisce le funzioni ricadenti in tale ambito. Prima del Trattato di Maastricht, gli interventi culturali si erano estrinsecati in progetti pilota e iniziative a tutela di siti europei di eccezionale valore culturale, e quindi significativi per il loro alto richiamo simbolico. Con l’entrata in vigore del Trattato, le iniziative culturali dell’Unione si trasformano invece in programmi pluriennali, perdendo il carattere frammentario che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Questi programmi hanno lo scopo di preservare, valorizzare e promuovere il patrimonio e la diversità culturale e linguistica; e aumentare la competitività e il potenziale economico del settore culturale e creativo, in particolare nel settore audiovisivo. Quindi tutti incentivi a sostegno della cooperazione culturale. Principio fondamentale cui si ispira l’azione dell’Unione in materia culturale è sempre quello di sussidiarietà, fondato su una concorrenza di poteri in materia culturale fra Unione e Stati Membri, senza toccare le peculiarità normative di quest’ultimi. europei iniziati con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e culminati, nel 2000, nella Carta dei diritti di Nizza, ormai dotata di piena forza vincolante. Non par dubbio che questo patrimonio di principi, valori e ideali già da oggi rappresenti parte integrante di quel “retaggio culturale comune”, che l’art. 167 TFUE chiede di evidenziare: quel che resta da fare è ricondurre tali principi ad unità, incoraggiarne la loro conoscenza. CAP 7 LO STATUTO DEI BENI CULTURALI 1 Storia della legislazione dei beni culturali Le prime misure di tutela del patrimonio culturale italiano risalgono agli Stati preunitari e si preoccupavano di contrastare la spoliazione dei beni artistici e archeologici, impedendone o limitandole il trasferimento all’estero. In Toscana, dove già dal 1571 fu vietata la rimozione di insegne ed iscrizioni sui palazzi antichi e il 24 ottobre 1602 venne vietata anche l’esportazione dei dipinti senza la concessione della licenza del luogotenente dell’accademia del disegno. La normativa del 700 era frammentaria e repressiva. Il primo vero provvedimento organico di salvaguardia di beni artistici e storici è l’editto Pacca del cardinal camerlengo Pacca: emanato a Roma sotto Pio VII il 7 aprile 1820 e correlato al regolamento d’esecuzione del 6 agosto 1821di salvaguardia di beni artistici e storici è l’editto del cardinal Pacca: emanato a Roma sotto Pio VII il 7 aprile 1820 e correlato al regolamento d’esecuzione del 6 agosto 1821. Furono disposte misure molto restrittive contro la spoliazione delle raccolte artistiche capitoline, prevedendo anche un divieto di esportazione dalla capitale. Previste inoltre regole per la conservazione e il restauro dei beni, per le modalità di accertamento della consistenza dei patrimoni, per la catalogazione di oggetti d’arte in chiese ed edifici assimilati. L’unità d’Italia non fu però un miglioramento nelle forme di tutela dei beni culturali, ma piuttosto un’inversione di tendenze rispetto alle misure raggiunte. La dispersione del patrimonio culturale italiano non si arrestò e il tormentato iter seguito per l’approvazione della prima legge organica di tutela dimostra le forti resistenze politiche che una disciplina vincolistica dei beni culturali incontrò in seno alla classe dirigente dell’epoca. Questo accadde per l’ideologia liberale che ha segnato tutto l’800 e che si identificava nell’art 29 dello statuto albertino per cui “tutte le proprietà, senza alcuna eccezioni, sono inviolabili”, quindi la classe governativa si limitava al riconoscimento del rispetto dell’ornato di città; al bene culturale non si riconosce necessità di una specifica regolazione poiché già sottoponibile alla disciplina negoziale prevista dal codice civile (il suo valore è quello del mercato). La svolta arriva nel 1909 con la l. 20 giugno 1909 n 364 (cd Legge Rosadi): amplia l’ambito dei beni culturali comprendendovi codici, manoscritti, stampe ecc.; venne poi stabilito un doppio regime giuridico per il trasferimento dei beni: - Inalienabilità se appartenenti allo Stato e ad enti pubblici e privati. - Obbligo di denuncia per ogni trasmissione di beni appartenenti a privati, con previsione del diritto di prelazione a favore dello Stato. Si sancì inoltre il divieto di demolizione, rimozione, modificazione e restauro senza autorizzazione del ministro. L’incremento della tutela però si accentua durante il regime autoritario con due leggi volute dal ministro Bottai: Legge 1 giugno 1939 n. 1089: assicura la protezione del patrimonio culturale allargando la tutela alle cose mobili e immobili di interesse artistico, archeologico ed etnografico; estendeva il divieto di demolizione o restauro dei beni (senza autorizzazione del ministro) anche alle cose di proprietà privata. Il ministero acquistava la facoltà di provvedere direttamente alle opere necessarie per assicurare la conservazione, e venne ammessa l’espropriazione dei beni mobili e immobili se fosse per interesse legato alla conservazione, all’incremento del patrimonio nazionale o necessaria per isolare o restaurare monumenti o eseguire ricerche archeologiche. Legge 29 giugno 1939 n. 1497: dedicata alle bellezze naturali. In queste due leggi i beni tutelati (cose d’arte e bellezze naturali) si caratterizzavano per pregio e rarità e si distinguevano per la loro “non comune bellezza”; erano inoltre considerati oggetti statici ed inerti e l’unico intervento pubblico ammesso era destinato alla conservazione, assicurata da un sistema di polizia amministrativa (soprintendenze). Queste due leggi corrispondevano ai postulati della filosofia idealistica tedesca, che distingueva tra “bello fatto dall’uomo” e “bellezza per natura”, secondo una concezione estetica di antica tradizione. I primi anni della Repubblica non vedono numerosi interventi in materia di promozione e sviluppo della cultura (nonostante la portata radicale della carta costituzionale i primi anni di regime sono connotati dal silenzio del legislatore in materia) ma emergono nuovi problemi legati a questa nuova fase dell’evoluzione civile, ad esempio un’espansione urbanistica incontrollata ed un’insufficiente conservazione delle raccolte pubbliche. Una nuova fase della politica culturale però ce l’abbiamo con la legge 26 aprile 1964 n. 310: istituzione di una commissione di indagine per la tutela delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio, chiamata commissione Franceschini. Essa pubblica i suoi lavori registrando le pessime condizioni del patrimonio artistico ed esprime varie proposte per un intervento legislativo articolate in 84 dichiarazioni che ricoprivano tutta la materia dei beni culturali. Importante è la prima dichiarazione che offre una definizione giuridica unitaria di bene culturale: tutti i beni aventi “valore di civiltà”. Nonostante l’interesse sempre maggiore per la politica di salvaguardia, gli interventi politici rimangono episodici e localizzati territorialmente per far fronte all’emergenza. Negli anni 90 si ha un’inversione di tendenza per due fattori: 1) spinta innovativa delle fonti comunitarie per quanto riguarda la creazione di un mercato interno senza frontiere per la libera circolazione (reg. Cee 9 dicembre 1992 n 3911 che regola esportazioni al di fuori del territorio dell’UE). 2) consapevolezza della necessità di una nuova disciplina dei beni culturali, basata sull’apertura verso la società civile ed un modello leale di collaborazione tra centro e periferia; si imponeva quindi un differente e più moderno riparto di competenze tra stato ed enti locali. La legge 8 ottobre 1997 n 352 delega il governo di adottare un testo unico in materia di beni culturali e ambientali; nasce inoltre la Sibec (società italiana per i beni culturali) che era una società di capitali che aveva per oggetto la promozione e il sostegno di progetti finalizzati al restauro e alla valorizzazioni dei beni culturali. La legge 30 marzo 1998 n88 disciplina ex novo le azioni per la restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno stato membro dell’UE, prevedendo anche la creazione di una banca dati dei beni illecitamente sottratti. Importanti sono: il d.lgs 20 ottobre 1998 n 368 che istituisce il Ministero per i beni culturali e le attività culturali; e il d.lgs 29 ottobre 1999 n 490 che ha dettato il t.u.b.cult ovvero il testo unico in materia di beni culturali e ambientali (non stravolge l’impianto normativo stabilito dalla legge Bottai n 1089 del 1939 ma lo innova sia sul piano sostanziale che procedurale). La legge cost. 18 ottobre 2001 n 3 approva la riforma del titolo V della Costituzione, per cui alla legislazione delle regioni vengono affidate delle funzioni di valorizzazione dei beni culturali (art 117 comma 3, cost) e viene prevista una forma d’intesa e coordinamento centro- periferia nella materia di tutela dei beni. D.lgs. 22 gennaio 2004 n 42 reca il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (modifiche nel 2006, 2008, 2014 e 2022) e si caratterizza per:  estensione dei beni oggetto di tutela e dei destinatari della disciplina stessa  novità procedimentali nella verifica dell’interesse culturale  riordino della disciplina dell’alienazione dei beni pubblici con un catalogo dei beni inalienabili (art 54)  propone un quadro articolato sul regime di circolazione dei beni  semplificazione delle regole di conservazione e restauro  arricchimento del patrimonio fruibile attraverso misure di valorizzazione come il comodato dei beni appartenenti ai privati. Il Codice è stato un’operazione coraggiosa e ambiziosa che cerca di prefigurare prospettive normative e culturali più innovative in un periodo di forte frammentazione normativa. Inoltre in questo periodo si acquisisce la consapevolezza:  della necessità di integrazione fra i vari livelli di governo per la riuscita delle politiche culturali;  della necessità di sottoporre gli strumenti provvedimentali della pubblica amministrazione al principio di legalità;  della centralità del patrimonio culturale, quindi dei beni culturali e paesaggistici, che la Repubblica tutela e valorizza in coerenza con l’art 117 della Costituzione. 2 Definizione dei modelli: concezione estetizzante e quella antropologica Il d.lgs. n112/1998 art 148 comma 1 offre per la prima volta il concetto di bene culturale: “quelli che compongono il patrimonio artistico, storico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico e librario che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”. In realtà il termine “bene culturale” viene dalla convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, firmato dall’Aja nel 1954 ma già presente nel Rapporto degli esperti redatto nel 1949 per l’Unesco; in Italia bisognerà attendere la commissione Franceschini del 1964 per vedere adottato questa terminologia. La commissione Franceschini è importantissima perché rompe con l’accezione di cultura dominante delle leggi Bottai prediligendo la storicità del concetto di bene culturale segnando il passaggio dal criterio estetico a quello storico. (anche se comprendeva sia i beni culturali che paesaggistici e cultura e natura sono opposti. E mette molta enfasi sugli aspetti materiali della cultura). 3 L’immaterialità Tra le caratteristiche principali dei beni culturali risaltano: l’immaterialità: dovuta alla necessità di comprendere nel concetto di bene culturale anche le manifestazioni immateriali della cultura che è stata segnalata per la prima volta da Sabino Cassese che ha introdotto la definizione di attività culturali. Il concetto di attività culturali lo troviamo per la prima volta nel d.p.r. 24 luglio 1977 n 616 che comprende i beni tradizionalmente iscritti nel patrimonio + le attività di prosa, musicali e cinematografiche a cui si aggiungono le tradizioni orali e ogni fenomeno culturale non avente valore puramente estetico. Il d.lgs. 122/1998 art 148 invece fa una differenziazione fra i beni e le attività: bene: ciò che compone il patrimonio storico, artistico, archeologico, archivistico, librario e L’art 14 attribuisce al Ministero la competenza a emettere la dichiarazione di interesse culturale attraverso un procedimento che si può aprire d’ufficio. Questo procedimento si chiude con la notifica della dichiarazione di interesse culturale e la conseguente apposizione del vincolo, che è indirizzata al proprietario, al possessore o detentore; da questo momento scaturiscono in capo al destinatario tutte le limitazioni alla disposizione del bene. Gli obblighi per i titolari di diritto di proprietà privata sono: -Obblighi positivi e negativi di comportamento sui beni suddetti; -La denuncia al Ministero in caso di trasferimento degli stessi; -Assoggettamento a interventi conservativi imposti. Misure di protezione subordinate all’autorizzazione del Ministero: -Rimozione e demolizione delle cose costituenti beni culturali, anche con successiva ricostituzione. -Spostamento anche temporaneo dei beni culturali (tranne archivi correnti o beni derivanti da mutazioni di dimora e sede del detentore, che richiedono solo la comunicazione al ministero per le attività di vigilanza). -Smembramento (separazione di una parte dal suo intero) di collezioni, serie o raccolte. Al di fuori dei casi elencati l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata all’autorizzazione del soprintendente, e sono concessi anche interventi di “modificazione”. In relazione alle misure di conservazione (art 29 cbc), esse sono assicurate mediante un’attività di: -Studio. -Prevenzione: “complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto”. -Manutenzione: “complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti”. -Restauro: “intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali” (in caso di rischio sismico necessario anche provvedimento strutturale). In relazione alle ricerche archeologiche (artt 88), in qualunque parte del territorio nazionale si trovino sono riservate al Ministero, che ha facoltà di ordinare l’occupazione temporanea degli immobili dove vanno eseguiti i lavori, mentre il proprietario dell’immobile ha diritto ad un’indennità per l’occupazione e il Ministero può anche rilasciargli i beni ritrovati (se il proprietario lo richiede e non sono interessanti per le raccolte dello Stato). Dunque tutte le cose indicate nell’art. 10 del Codice, ritrovate da chiunque e in qualunque modo, nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato (tranne in Sicilia) e, a seconda che siano mobili o immobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indispensabile (art. 822 e 826 codice civile); la ricerca archeologica privata invece può avvenire solo in regime di concessione (art. 89) e l’obbligo di denuncia può avvenire entro 24h. Punito con l’arresto fino ad un anno e ammenda da 310 a 3099 euro: Chi esegue ricerche archeologiche senza concessione dell’amministrazione, chi non denuncia nel termine prescritto dall’art. 90 comma 1 le cose indicate nell’art.10 o non provvede alla loro conservazione temporanea. È punito con reclusione fino a 3 anni e multa da 31 a 516,60 euro chi si impossessa di beni culturali (art. 10) appartenenti allo Stato “furto d’arte” (impossessamento illecito di beni culturali), è punito inoltre mediante confisca del bene chiunque danneggi il patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, ed è proprietario del bene in questione. Espropriazione: i beni culturali mobili e immobili possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’azione è necessaria a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica degli stessi beni. Si distinguono per funzione, oggetto e procedura seguita: 1. Espropriazione del bene già dichiarato di interesse culturale (art. 95): il fine è assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene, già dichiarato interesse culturale e dunque vincolato; non è richiesta la previa approvazione di un progetto di intervento, ma è sufficiente un atto autonomo di valutazione dell’utilità pubblica dell’esproprio del bene culturale. 2. Espropriazione per fini strumentali (art. 96): espropriazione di aree ed edifici per isolare o restaurare monumenti, assicurarne luce e prospettiva, accrescerne decoro e godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso. 3. Espropriazione per interesse archeologico (art. 97): al fine di eseguire ricerche archeologiche. Nei casi 2 e 3 l’oggetto è un immobile o un’area non ancora dichiarata o priva di interesse culturale, confinante o vicino a quello vincolato, oppure un’area su cui vanno eseguite ricerche archeologiche; la dichiarazione di pubblica utilità richiede l’approvazione di un progetto (isolamento, restauro ecc,) come previsto dall’art. 98 comma 2 Cod. Vincolo indiretto: misure e norme del Ministero (non comprendenti la proprietà del bene) atte ad evitare che venga compromessa l’integrità dei beni, danneggiata la prospettiva o la luce o alterate le condizioni di ambiente e decoro; non rientra nei provvedimenti espropriativi poiché non prevede alcuna espropriazione del diritto di proprietà. 3 Valorizzazione Valorizzazione: penalizzata sul piano legislativo rispetto all’attività di tutela; il termine lo vediamo per la prima volta nell’ordinamento dei beni culturali con l’art. 1 del d.P.R. 3 dicembre 1975 n. 805: era compito del Ministero dei beni culturali e ambientali il provvedere “alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali”, senza però una chiara identificazione dei due concetti. In seguito si notò la naturale destinazione del bene alla fruizione collettiva, ma anche il fatto che la valorizzazione è legata all’incremento della qualità economica del bene tramite maggiori entrate finanziarie; un’idea di valorizzazione finalizzata al mero incremento economico del bene però sarebbe incostituzionale, infatti la valorizzazione in un ordinamento democratico e pluralistico è a beneficio della collettività e dunque ad una più ampia fruizione del bene. D.lgs. n. 112/1998 art 148 comma 1 lett. e: definisce valorizzazione “ogni attività dirette a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali ed ambientali, e ad incrementarne la fruizione” e la pone per la prima volta al paro della tutela. A questo punto il dibattito è sul pericolo di sovrapposizione delle funzioni in relazione alla concreta operatività: rischio di invasività della tutela rispetto a quelle di gestione e valorizzazione. Il punto sarebbe riuscire a dare un’interpretazione del nuovo ordinamento dei beni culturali in cui “tutela”, “valorizzazione” e “gestione” non siano staccate le une dalle altre, ma si armonizzino per uno sviluppo culturale. Con la riforma del titolo V della costituzione nel 2001 viene costituzionalizzata la valorizzazione e le funzioni vengono suddivise in base al principio di sussidiarietà. Il codice dei beni culturali ha poi riqualificato la valorizzazione come esercizio delle funzioni e la disciplina delle attività “dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. In riferimento al paesaggio la valorizzazione comprende la riqualificazione dei beni immobili e delle aree sottoposte a tutela compromessi o degradati. Infine la valorizzazione deve essere attuata sempre in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze: il codice pone in una chiara subordinazione la valorizzazione rispetto alla tutela (art 6 comma 2) ma solo in caso di impossibilità di convivenza tra la due funzioni. Il codice chiarisce gli ambiti funzionali ripartiti tra i vari livelli di governo: afferma che la legislazione regionale disciplina la fruizione (art 102) e la valorizzazione (art 122) dei beni presenti negli istituti e nei luoghi di cultura non appartenenti allo stato o dei quali lo stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente: chi oggi ha la disponibilità lo valorizza. Gestione: La riforma costituzionale del 2001 ignorava la gestione nel reparto di competenze introdotto dal titolo V e venne proposto di reintegrarla, ma il parere del Consiglio di Stato del 26 agosto 2002 n. 1794 sottolineava la scarsa autonomia concettuale della nozione, che non consentiva di trattarla come sfera a sé stante nel contesto della riforma costituzionale. Il Codice invece tratta della gestione nel contesto delle “forme di gestione” dell’art. 115 e distingue: - Gestione diretta: svolta mediante strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile e con un idoneo personale tecnico. - Gestione indiretta: attuata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione, mediante apposite procedure di evidenza pubbliche, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti. La gestione va attuata nel rispetto di livelli minimi uniformi di qualità ed esclusivamente nella forma di provvedimenti concessori. In sintesi dopo l’ampia riforma del d.lgs. N 156/2006 sono stai ulteriormente razionalizzati gli strumenti della valorizzazione, lasciando strategie e obiettivi comuni nelle mani di soggetti pubblici e permettendo a privati di entrare sia nella pianificazione strategica dello sviluppo sia nella concreta gestione delle attività, sempre nella forme di provvedimenti concessori. 4 Il ruolo dei privati: mecenatismo e sponsorizzazione. Il fenomeno della sponsorizzazione ha radici costituzionali: viene citato il valore della solidarietà sociale che funzionalizza i comportamenti individuali al perseguimento di interessi collettivi, o la libertà di disporre del proprio patrimonio sancita dall’art. 41 Cost. Non è lecito però affidarsi totalmente ai privati, poiché andrebbero premiate soprattutto le iniziative culturali più visibili e che assicurano un’immagine migliore al finanziatore, dunque va esclusa la sponsorizzazione totale; la disciplina italiana impone così precisi controlli e vincoli per evitare le erogazioni liberali che non siano esclusivamente per la realizzazione di operazioni culturali: obbligo che le mostre siano preventivamente autorizzate, che le erogazioni liberali siano destinate alle entrate dello Stato ecc. In tale contesto la legge m. 512/1982 ha incoraggiato la sponsorizzazione culturale introducendo la deducibilità delle erogazioni liberali in denaro a favore delle istituzioni pubbliche o private effettuate per acquisto, manutenzione, protezione o restauro dei beni di interesse artistico o storico, anche a scopo di organizzarne esposizioni e mostre. medesimo prezzo di alienazione o al medesimo valore attribuito durante il conferimento. Il diritto di prelazione va esercitato entro 60 giorni dalla data di ricezione della denuncia del trasferimento, ma se la denuncia è stata omessa, presentata tardi o incompleta il termine sarà di 180 giorni da momento in cui il Ministero riceve la denuncia o ha acquisito tutti gli elementi. -In ambito internazionale: regolata dal capo V titolo I della parte II del Codice che distingue: 1. Uscita dal territorio nazionale: art. 65 vieta uscita dal territorio nazionale dei beni culturali mobili dell’art. 10 commi 1-2-3. È vietata altresì l’uscita: a) delle cose mobili appartenenti a soggetti indicati nell’art 10 comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre 70 anni, fino a quando non sia stata effettuata la verifica prevista dall’art 12; b) dei beni a chiunque appartenenti, che rientrino nelle categorie indicate dall’art 10 comma 3, e che il ministero abbia preventivamente individuato e escluso dall’uscita perchè considerata dannosa per il patrimonio culturale. 2. È ammessa, previa autorizzazione, l’uscita definitiva dal territorio della Repubblica di altre categorie di beni: a) delle cose, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga ad oltre 70 anni e il cui valore sia superiore a 13500 euro (tranne reperti archeologici); b)degli archivi e dei singoli documenti, appartenenti a privati, che presentino interesse culturale; c) delle cose “oggetto di specifiche disposizioni di tutela” rientranti nelle categorie di cui all’art 11 comme 1 lettere f, g, h (che sarebbero fotografie, esemplari di opere cinematografiche, documentazioni di manifestazioni, mezzi di trasporto, beni e strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica ) a chiunque appartengano. 2. Non è soggetta ad autorizzazione l’uscita: a) delle cose di cui l’art 11 comma 1 lettera d del codice (opere di pittura, scultura, grafica e qualsiasi altro oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre 70 anni; b) delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risale a più di 70 anni, il cui valore sia inferiore a 13500 euro (sempre fatta eccezione per i reperti archeologici). In questo caso l’interessato ha l’onere di comprovare al competente ufficio di esportazione, mediante autocertificazione, che le cose da trasferire all’estero rientrino nelle ipotesi per le quali non è prevista autorizzazione. In caso di beni la cui uscita è sottoposta ad autorizzazione è previsto un attestato di libera circolazione per chi intenda farli uscire in via definitiva dal territorio della repubblica. L’interessato deve farne denuncia e presentarli al competente ufficio di esportazione indicando, per ciascuno di essi, il valore venale. Entro 3 giorni l’ufficio deve informare il ministero che ha 10 giorni per segnalare ogni elemento conoscitivo utile sugli oggetti che dovrebbero uscire definitivamente. L’ufficio deve accertare la congruità del valore indicato e rilascia o nega l’attestato di libera circolazione, che dura 5 anni. Entro 40 giorni dalla presentazione della domanda l’ufficio di esportazione può proporre al ministero, se ha rifiutato o ancora non ha rilasciato l’attestato di libera circolazione, l’acquisto coatto della cosa in questione, dando comunicazione alla regione e all’intestatario e prendendola in custodia fino alla fine del procedimento. Il ministero può acquistare la cosa per il valore indicato nella denuncia. Il provvedimento di acquisto deve essere notificato entro 90 giorni dalla denuncia, e il proprietario può decidere di vendere o ritirare la richiesta di di uscita dell’oggetto. La circolazione poi ruota attorno a due alternative: -Attestato di libera circolazione per i paesi intracomunitari; -Attestato + richiesta di esportazione per i paesi extracomunitari (rilasciata dagli uffici di esportazione). Vanno restituiti allo Stato che li richiede poiché appartenenti al patrimonio culturale nazionale; è importante in questo caso l’illiceità della provenienza del bene e il dato obiettivo della sua presenza in uno Stato membro differente da quello dove era originariamente collocato, lo spostamento deve essere stato effettuato dopo il 31 dicembre 1992, data di realizzazione del mercato unico. Presso il Ministero è stata istituita una banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, anche se un adeguato funzionamento presupporrebbe una catalogazione completa del patrimonio italiano. Chi non rispetta la normativa è punito con reclusione da 2 a 8 anni e a una multa fino a 80 000 euro. 7 La disciplina europea e internazionale Il Trattato sull’Unione europea prevedeva un contributo rivolto all’istruzione e alla formazione di qualità e al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri. Oggi il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) vuole incoraggiare la cooperazione tra gli stati membri nei seguenti settori: -Miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei -Conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea -Scambi culturali non commerciali -Creazione artistica e letteraria, compreso settore audiovisivo. Nell’art. 167 del TFUE uso del termine “patrimonio culturale d’importanza europea”: cerca di superare l’idea di patrimonio culturale di esclusivo interesse nazionale nel nome di un retaggio comune e di una sovranità culturale condivisa. Principio fondamentale è comunque la sussidiarietà: politiche di sostegno, integrazione e contributi alle politiche culturali nazionali. L’Unione non può non considerare gli aspetti culturali, nemmeno quando svolga azioni a norma di altre disposizioni, da qui capiamo la natura trasversale della dimensione culturale a livello europeo; inoltre l’art. 107 TFUE riconosce la compatibilità con il mercato interno degli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, a meno che non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza dell’Unione in misura contraria all’interesse comune. Vediamo dunque come la dimensione culturale abbia lentamente assunto un carattere più significativo della mera deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. Adottati poi: Re. CE n. 3911/1992: per impedire l’esportazione di beni culturali in Paesi fuori dall’Unione. Dir. Ce n. 7/1993: per arginare il traffico illecito di beni all’interno dell’Unione stessa. Viene attribuita dunque una speciale tutela per determinare categorie di beni, che si concretizza in un procedimento di restituzione e che si aggiunge alla legislazione nazionale. Reg. CE n. 116/2009: esportazione al di fuori del territorio della Comunità solo previa presentazione di una licenza di esportazione, rilasciata su richiesta dell’interessato da un’autorità competente dello Stato membro in cui il bene si trova lecitamente e definitivamente. Dir. n. 60/2014: nuova direttiva per la restituzione dei beni culturali, infatti viene estesa la tutela a qualsiasi bene definito culturale dal singolo Stato membro (a prescindere dalla riconducibilità a categorie predeterminate, collezioni pubbliche o istituzioni ecclesiastiche); la direttiva si occupa anche della necessità di una maggiore responsabilizzazione in capo agli acquirenti dei beni, spostando sul possessore l’onere di provare la diligenza al momento dell’acquisto e subordinando a tale prova l’attribuzione dell’indennizzo. È frequente, in materia culturale, la sovrapposizione della disciplina nazionale e quella internazionale: si tratta di convenzioni internazionali rivolte a rinforzare la protezione dei beni lasciando però allo stato membro la disciplina dello stretto regime di tutela dei beni culturali: -Convenzione dell’Aja: 1954, parte dal fatto che i danni arrecati ai beni culturali costituiscano danno al patrimonio culturale dell’umanità intera. La convenzione vieta il “diritto di preda”, ovvero sono proibiti atti di furto, saccheggio o sottrazione di beni culturali ai danni dei beni dei Paesi nemici; prevede la sottoposizione a protezione speciale di beni mobili, centri monumentali e immobili di altissima importanza, inoltre obbliga la potenza occupante a collaborare con l’autorità locale per salvaguardare i beni situati sul territorio di quest’ultima. Essa va però integrata con i protocolli successivi, in particolare col II Protocollo alla Convenzione, adottato dall’Aja il 26 marzo 1999: estensione dell’ambito di applicazione ai conflitti interni, limitazione alla deroga della “necessità militare”. In tale direzione l’unesco nel 2016 ha pubblicato un manuale sulla protezione dei beni culturali (protection of cultural property military manual) per rafforzare il coinvolgimento delle forze armate nella protezione del patrimonio culturale. È una guida pratica all’attuazione delle norme di diritto internazionale che disciplinano la protezione in caso di conflitto armato. -Convenzione Unesco: afferma il principio secondo cui tutti i popoli del mondo sono interessati alla conservazione dei beni culturali, poiché hanno in comune i valori di civiltà; in questo caso la definizione di “patrimonio culturale” è più ampia e comprende monumenti, agglomerati (gruppi di costruzioni isolate o riunite), siti (opere dell’uomo o di uomo + natura) che hanno in comune l’eccezionalità del valore dal punto di vista storico, estetico, etnologico e antropologico. Gli stati aderenti si impegnano a prestare il loro soccorso all’identificazione, protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e si astengono da ogni provvedimento che potrebbe danneggiarlo direttamente o indirettamente. Prevede inoltre l’istituzione di un comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale, composto da 21 Stati membri; questo comitato deve definire e aggiornare un elenco di beni culturali reputati di valore eccezionale e dunque meritevoli di tutela al fine di assicurarne la conservazione per le generazioni future, chiamato World heritage list. -Dichiarazione sulla distruzione internazionale del patrimonio culturale: adottata dall’Unesco il 17 ottobre 2003 a tutela del patrimonio culturale distrutto non in presenza di conflitti armati, ma intenzionalmente per motivazioni politico-religiose in seguito alla distruzione, da parte dei talebani, dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan. -Convenzione Unesco per la protezione e promozione delle diversità culturali: ratificata al Parlamento italiano il 31 gennaio 2007; mira al consolidamento di tutti i segmenti della catena creativa culturale (creazione, produzione, diffusione e fruizione dei beni culturali) con particolare riguardo ai paesi in via di sviluppo (tale Convenzione è richiamata anche dall’art. 7-bis del Codice). -Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo: Parigi 2 novembre 2001. -Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile: Parigi 17 ottobre 2003. -Convenzione Unidroit: 1995, distingue fra restituzione dei beni rubati e loro ritorno in caso di esportazione illecita; prescinde dalla tutela del possessore in buona fede, gli offre la possibilità di restare proprietario del bene trasferendone la collocazione nello Stato d’origine, mentre il bene esportato illecitamente viene equiparato a quello recuperato mediante scavi abusivi. I Paesi sottoscrittori sono però molto pochi e dunque è un numero non rilevante dal punto di vista del mercato internazionale dei beni culturali. Avrebbe dovuto privilegiare il metodo della programmazione favorendo la cooperazione con le regioni e gli enti locali. 3.2 Le strutture centrali Il Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo (MiBACT) viene qualificato come organo di direzione politico-amministrativa del Ministero, che determina gli indirizzi, gli obiettivi e i programmi e verifica la rispondenza a questi dei risultati conseguiti; per le funzioni di indirizzo ci sono organi di consulenza del Ministro: il Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, i comitati tecnico-scientifici, i comitati regionali e di coordinamento ed altri organi costituiti in attuazione della legge. Il d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171 riformula il Consiglio superiore dei Beni culturali e paesaggistici e i Comitati tecnico-scientifici, inoltre ridisegna l’intera struttura organizzativa del Ministero. Il Consiglio superiore, un organo consultivo del Ministero a carattere tecnico scientifico in materia di beni culturali e paesaggistici, ha durata triennale ed è composto dai 7 presidenti dei Comitati tecnico-scientifici e da 8 eminenti personalità del mondo della cultura nominate dal Ministro. Esso formula pareri obbligatori sui programmi nazionali per i beni culturali e paesaggistici e sui relativi piani di spesa, inoltre esprime su richiesta del direttore generale pareri su piani strategici di sviluppo culturale e programmi di valorizzazione dei beni culturali; il Ministro nomina il presidente del Consiglio superiore tra gli esperti (chiamati “personalità”) ed il Consiglio superiore elegge a maggioranza tra i propri componenti il vice presidente e adotta un regolamento interno. Oggi ha superato il modello di “Parlamento della cultura” che aveva alla sua nascita ed ha una funzione essenzialmente ausiliaria del Ministero. Segretario generale: carica istituita dal d.lgs n 368/1998, operante alle dirette dipendenze del Ministero, doveva assicurare il mantenimento dell’unità dell’azione amministrativa coordinando gli uffici e le attività del Ministero e vigilando sulla loro efficienza e rendimento. Col d.lgs. 8 gennaio 2004 n. 3 veniva soppressa questa figura introducendo al suo posto 4 dipartimenti, uno per ciascuna area funzionale: 1. Beni culturali e paesaggistici 2. Beni archivistici e librari 3. Ricerca, innovazione ed organizzazione 4. Spettacolo e sport In questo modo però venivano fusi campi separabili e separati campi omogenei (es. beni archivistici e culturali), dunque col d.l. 18 maggio 2006 n. 181 veniva rimodellato il quadro dei Ministeri e assegnate al presidente del Consiglio funzioni in materia di sport, mentre al Ministero dei beni culturali venivano attribuite strutture e risorse in materia di turismo (da ultimo col d.l 1 marzo 2021 n 22 il Governo Draghi ha istituito il Ministero del turismo). La figura del Segretario generale veniva reintrodotta con la l. 24 novembre 2006 n. 286, articolando il Ministero in 10 uffici dirigenziali generali centrali e 17 uffici dirigenziali generali periferici (coordinati dal Segretario) e da 2 uffici dirigenziali generali presso il Gabinetto del Ministro. Nel 2013 viene insediata una commissione cd D’Alberti, per rilanciare la politica della cultura in equilibrio con le esigenze di restrizione del bilancio pubblico, che richiama la necessità di superare la logica organizzativa sino a quel momento in atto, restituendo autonomia alle strutture periferiche e sviluppando i rapporti “esterni” al ministero. L’amministrazione dei beni culturali però viene successivamente stravolta fino ad arrivare al d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171: nuovo regolamento di organizzazione del Ministero, viene puntualizzata la collocazione del Segretario generale come vertice amministrativo del Ministero ribadendone la funzione di coordinamento verso uffici dirigenziali (centrali e periferici). Questa riforma ha presentato diversi fattori d’interesse che hanno mostrato la consapevolezza della necessità di realizzare interazioni diffuse tra amministrazione dei beni culturali, ricerca scientifica e fruizione collettiva nell’ottica di “sviluppo della cultura”. Infine, dopo il d.P.C.M 2 dicembre 2019 n 169, il Ministero si articola in 11 uffici centrali, 2 uffici centrali straordinari e 14 uffici generali periferici; a ciò vanno aggiunti anche gli uffici dirigenziali di livello generale straordinario per l’attuazione del PNRR, introdotti dopo il d.P.C.R del 24 giugno 2021. Questa normativa presenta a livello di amministrazione centrale profili di notevole interesse, per esempio con la previsione di una direzione innovativa dedicata alla sicurezza del patrimonio culturale e per l’attenzione rivolta alla direzione per la creatività contemporanea. Tuttavia questo andirivieni di ordini e contrordini non giova alla stabilità di apparati e istituzioni e non rispetta quel principio cardine di efficienza e semplificazione delle procedure contenuto nel d.lgs n 368/1998; in più sembra ancora restare sullo sfondo la questione della carenza di personale qualificato negli apparati pubblici del settore culturale. 3.3 Gli organi periferici Secondo art. 30 del d.P.R. n. 805/1975 erano organi periferici dello Stato: archivi di Stato, biblioteche pubbliche e statali e soprintendenze. La dislocazione del patrimonio culturale italiano e l’esigenza di accrescerne i livelli di responsabilità nella gestione ha indotto il legislatore ad affidare il coordinamento regionale a un soprintendente, il quale ha il compito di coordinare le attività delle soprintendenze operanti nella regione e che svincolava l’idea di soprintendenza da una dimensione esclusivamente localistica; nelle regioni a statuto ordinario ad un dirigente delle soprintendenze alle antichità e belle arti veniva conferito l’incarico aggiuntivo di “Soprintendente regionale” per i beni culturali e ambientali. Il d.lgs. n. 3/2004 istituiva nelle regioni a statuto ordinario le Direzioni generali per i beni culturali e paesaggistici come articolazioni territoriali, di livello dirigenziale generale, del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, aventi sede nel capoluogo della rispettiva regione. Col d.P.R. n. 173/2004 venivano precisate funzioni della direzione generale armonizzando le funzioni con la normativa del Codice appena varato, e concependo un ventaglio di funzioni al di là del coordinamento e la programmazione attribuite alle soprintendenze regionali, esplicandosi in funzioni di più stretta natura decisionale e propositiva: i direttori generali così avevano più compiti tecnici e acquisivano compiti amministrativi e di organizzazione- gestione delle risorse umane e strumentali. Sono chiamati ad assicurare il coordinamento delle attività delle strutture periferiche del ministero presenti su territorio regionale e i rapporti del MiC con le regioni, gli enti locali e le altre istituzioni presenti nella regione. Il d.P.C.M 29 agosto 2014 n 171 segna un momento di ripensamento degli organi periferici, individuando un elenco di 8 organi periferici e sostituiva le preesistenti direzioni regionali con i segretariati regionali, quali uffici di livello dirigenziale non generale. La riforma del 2014 ha interessato le soprintendenze in un’ottica di accorpamento e semplificazione ma anche di rilancio, riordinando la materia in due sole soprintendenze: quella “archeologica” e quella delle “belle arti e del paesaggio”, alle quali veniva affidata la tutela sul territorio del patrimonio culturale. Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio: assicurano sul territorio la tutela del patrimonio culturale, con un ruolo tecnico-scientifico primario a presidio della funzione di tutela. Funzioni “aperte” affidando i compiti in base al codice dei beni culturali e alle altre norme vigenti. Direzioni regionali musei: sono articolazioni periferiche della Direzione generale Musei, che assicurano sul territorio l’espletamento del servizio pubblico di fruizione e valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo stato. Istituite in numero non superiore alle 20 unità, esse hanno sede in quasi tutti i capoluoghi di regione. Obiettivo di coordinamento tra tra realtà museali pubbliche e private e dialogo con il territorio con la prospettiva di un sistema museale integrato nazionale. 3.4 Le strutture autonome Già alla fine del secolo scorso il legislatore aveva attribuito alla soprintendenza di Pompei autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria in in ragione della straordinarietà del sito archeologico. Dopo le modifiche recate nel 2004/2005 si estendeva questa possibilità ad altri siti “dall’eccezionale valore archeologico, storico, artistico e architettonico”. Purtroppo questa audace politica si è rivelata non soddisfacente in quanto nel 2008 si dichiara lo stato di emergenza dell’area archeologica pompeiana. Il d.PCM del 29 agosto 2014 n171, ha riformato la soprintendenza speciale di Pompei, Ercolano e Stabia, che prevedeva la qualifica di un ufficio dirigenziale generale e l’avviamento del “Grande progetto Pompei” approvato e finanziato dalla commissione europea. Associava inoltre la soprintendenza speciale per il Colosseo, il museo nazionale romano e l’area archeologica di Roma. Uno status autonomo che incardinava la nomina del direttore a una commissione di esperti e attribuiva al soprintendente un nutrito corpus di competenze gestionali e di valorizzazione che arriva anche alla tutela. Nel 2019 viene conferita l’autonomia ad un nutrito elenco di musei, parchi archeologici e altri luoghi di cultura di rilevante interesse nazionale. Oltre al direttore, selezionato con bando internazionale, ogni museo autonomo è dotato di consiglio di amministrazione, di comitato scientifico, di collegio di revisione dei conti che sono incaricati di verificare l’efficienza, l’efficacia delle attività e la qualità scientifica dell’offerta culturale. CAP 10 I MUSEI 1 definizione giuridica di museo Oggi il riferimento principale sulla definizione di museo è l’art 101 del codice dei beni culturali: “una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina e espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”. La normativa del codice ha ampliato la precedente concezione statica del bene museale, tutta legata alla custodia e alla conservazione. In passato l’assenza di una definizione specifica di museo lasciava presumere la volontà di non irrigidire troppo la relativa disciplina permettendole di adattarsi alla rapida evoluzione della museologia moderna. L’art 822 c.c distingueva tra museo e altri istituti come le biblioteche, pinacoteche, archivi, ecc, lasciando intendere che il museo fosse una raccolta non omogenea di beni. Con il codice viene confermato il carattere di istituto culturale dei musei, dunque non hanno solo il compito di custodia dei beni ma anche la promozione a tutto tondo della cultura. Si può affermare che l’art 101 del codice abbandoni definitivamente la nozione oggettiva (una concezione di museo catalizzata sui beni in esso contenuti) a favore di un’idea soggettiva o istituzionale. Secondo l’Icom (international council of museums) per museo si deve intendere “un’istituzione permanente senza scopo di lucro, aperta al pubblico, al servizio della società e anch’esse beni immobili di valore storico o artistico. -L’obbligo di consentire la fruizione pubblica del bene museale non comporta necessariamente l’accesso gratuito per tutti: mentre il museo che rimanga chiuso non merita più il nome stesso di museo, perché ne tradisce la vocazione pubblica e perché contraddice in ogni caso il valore della promozione culturale sancito dalla Costituzione. Sulle modalità d’ingresso, il codice art 103 ha scelto una situazione mediana, lasciando un’alternativa fra l’accesso gratuito e a pagamento per gli istituti di cultura, secondo il giudizio dell’ente titolare dell’istituto. Nei casi di pagamento, il ministro, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali determinano: i casi di libero accesso e accesso gratuito; le modalità di emissione, distribuzione e vendita dei biglietti; le categorie di biglietti e i criteri per la determinazione del relativo prezzo; l’eventuale percentuale dei proventi dei biglietti all’ente nazionale di assistenza e previdenza per i pittori, scultori, musicisti, scrittori e autori drammatici. I proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso agli istituti di cultura dello stato sono destinati alla realizzazione di interventi per la sicurezza per la conservazione dei luoghi medesimi, nonché all’espropriazione e all’acquisto di beni culturali, anche mediante esercizio della prelazione. Mentre i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso agli istituti e ai luoghi appartenenti o in consegna ad altri soggetti pubblici sono destinati all’incremento e alla valorizzazione del patrimonio culturale. 2. Diritto all’informazione e allo studio: nessun atto normativo potrà indicare agli operatori museali quali opere essi debbano esibire, ove gli spazi non siano sufficienti a contenere l’intera collezione del museo; e non lo sono infatti, tant’è che nel Rapporto sull’economia della cultura 1980-1990 i prezzi giacenti nei depositi vengono stimati in 40 milioni. Ovviamente i beni storici o artistici messi in mostra nelle sale espositive devono essere dotati di apparati didascalici e inoltre il pubblico durante il suo soggiorno deve poter fruire di visite guidate o comunque di altri strumenti informativi (audio guide, videotapes, ecc). Già l’art. 5 del r.d. 363/1913 aveva prescritto che “ogni oggetto d’arte recherà l’indicazione del luogo di provenienza,del soggetto rappresentato, della scuola e del secolo a cui appartiene e dell’autore”, nonché “quant’altro può giovare alla sommaria illustrazione storica” del bene culturale in mostra. Il diritto all’informazione del visitatore è stato rafforzato dal cbc, che detta la disciplina in merito ai servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico, la cui gestione può essere concessa anche a terzi (gestione indiretta). Rientrano tra i servizi aggiuntivi: -Il servizio editoriale e di vendita riguardante cataloghi e sussidi catalografici, audiovisivi e informativi, ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali. -Servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario. -Gestione di raccolte discografiche, diapoteche e biblioteche museali. -Gestione dei punti vendita e utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni. -Servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e intrattenimento per l’infanzia, servizi d’informazione, guida e assistenza didattica e centri d’incontro. -Servizi di caffetteria, ristorazione e guardaroba. -Organizzazione di mostre e manifestazioni culturali. Si tratta di gestioni realizzabili in forma indiretta, circostanza che induce a rilevare una sorta d’ibridazione tra forme pubbliche e private di organizzazione museale. Accanto a queste forme d’uso generale del bene museale si configura altresì un suo uso speciale, che a sua volta può fondarsi su una finalità scientifica o didattica. Nel primo caso esso si articola nel diritto a ottenere la riproduzione delle cose esposte, nel diritto a usarne per esigenze di ricerca quando ciò risulti compatibile con la conservazione del bene, nella facoltà di promuovere iniziative culturali nel contesto dell’istituzione museale. L’art. 108 esclude la necessità di pagare alcun canone per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, o da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. Questa seconda ipotesi investe più direttamente il rapporto tra museo e scuola. A norma dell’art. 119 Cod., il Ministero per i beni e le attività culturali può stipulare convenzioni con le scuole al fine di favorire la fruizione del patrimonio culturale e scientifico da parte degli studenti. 3. Diritto a fruire di un soggiorno confortevole: nei locali del museo, godendo di spazi e allestimenti per il riposo e per le attività di ricreazione, rendendo la visita non solo un’occasione di arricchimento culturale ma anche di svago e distensione. Su questo punto va richiamato l’art. 117 Cod., che prevede servizi di caffetteria, ristorazione, guardaroba e vendita di ogni altro bene correlato all’informazione museale. 5 Il governo dei musei In Italia manca ancora una chiara scelta normativa che stabilisca la “forma di governo” del museo, tant’è che la stessa legislazione regionale propone ora moduli di gestione collegiale, ora modelli monocratici, incentrati sul ruolo del direttore del museo. Nella prassi, è comunque il direttore l’autentico dominus della sede museale, il caso opposto è molto raro. È evidente dove risieda il fondamento costituzionale dell’autonomia di ogni soggetto culturale: quest’ultima è un corollario del più grande principio di libertà della cultura e si esprime attraverso un’istanza di autogoverno della comunità artistica e scientifica. Ne consegue dunque che i singoli musei dovrebbero disporre della scelta concernente il proprio ordinamento interno. L’istanza di autonomia non investe solo i rapporti fra gli organi di vertice del museo: un nodo altrettanto decisivo ha per oggetto il personale, che in Italia è mal distribuito tra le diverse sedi museali ed è formato prevalentemente da custodi a scapito della % più modesta del personale tecnico e scientifico. C’è allora un nesso fra la cattiva distribuzione del personale e il sistema di reclutamento, che continua ad essere fin troppo centralizzato e burocratico? Se la diagnosi si rivelasse esatta, il conferimento di un’effettiva autonomia gestionale in capo a ogni museo non soddisferebbe allora solo il valore della libertà della cultura, ma risponderebbe a un bisogno di efficienza. A norma dell’art. 3 della l. 4/1993, il Ministero ha la facoltà di stipulare convenzioni con le organizzazione di volontariato e utilizzare il personale reclutato a integrazione del personale dell’amministrazione dei beni culturali e ambientali: formula che avrebbe dovuto permettere di sopperire ai vuoti o alle carenze di organico in base alle necessità locali, ma che non ha potuto garantire a pieno circa la qualificazione tecnica dei nuovi entrati. Eppure una normativa analoga funziona ottimamente negli Stati Uniti, i cui musei vengono gestiti in maggioranza da direttori che prestano servizio volontario e in cui è comunque altissima la % di personale proveniente dal mondo del volontariato. In conclusione, la doppia questione sulla politica da realizzare al fine di incentivare lo sviluppo e il sostegno della domanda di cultura, nonché il contributo che in relazione alla gestione dei musei possono dare i privati, rappresenta un capitolo ancora da approfondire. CAP 11 LE ATTIVITà CULTURALI 1 l’inquadramento costituzionale Artt 9 e 33 della costituzione sono i cardini della legislazione in materia. L’art 9 sancisce la biforcazione di funzioni, promozionale e conservativa, della Repubblica, sottolineando il sostegno delle istituzioni al progresso, e quindi il loro ruolo attivo nell’ambito della cultura. Il fine della costituzione è la crescita del pluralismo culturale, in quanto strumento della crescita personale del singolo e quindi della collettività. La carta fondamentale impone una funzione di riequilibrio fra le espressioni creative, tesa a ripristinare fra esse una condizione di uguaglianza di opportunità. In definitiva tutela e promozione vivono in una traiettoria circolare perché non si può parlare di promozione se si tralascia la tutela e la valorizzazione. 2 il trattamento giuridico Nelle attività culturali andavano ravvisate quelle manifestazioni della cultura umana genericamente senza un rilievo patrimoniale, poiché prive di una relazione organica con le cose fisiche. D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 sul trasferimento delle funzioni alle regioni ordinarie attribuisce a queste poteri di intervento nell’ambito delle loro competenze in materia di beni culturali, anche sulle attività di prosa, musicali e cinematografiche (ovvero le manifestazioni culturali rientranti nel settore dello spettacolo); legge interessante perché: -Rilievo dato alle manifestazioni immateriali della cultura -Novità prodotte sui diversi livelli di governo Sancisce inoltre l’ingresso delle attività culturali nell’ordinamento giuridico italiano, provocando dunque un’estensione delle attività (tradizioni orali, fenomeni folcloristici, manifestazioni artistiche e scientifiche più avanzate ecc.), inoltre era inevitabile che il loro regime giuridico venisse improntato su profili organizzatori che presuppongono un diverso modus operandi dell’amministrazione pubblica, che deve assicurarne la promozione mediante strumenti di garanzia flessibili. È riconosciuta inoltre la necessità di tutelare e conservare non solo la materialità dei beni culturali, ma anche le attività in essi svolte in misura in cui esse siano collegate alla vita sociale, culturale o civile del centro urbano. 3 il governo delle attività culturali Si tenta di dare una sistemazione organica delle attività culturali a livello di definizione, di dinamiche funzionali e nell’assetto delle competenze; ciò lo faceva ponendo una distinzione netta tra beni e attività. Da una parte dunque vi era la tutela, avente per oggetto i beni (la cui consistenza materiale non appariva più obbligata) che doveva riconoscere, conservare e proteggere; dall’altra vi era la promozione, che mirava al sostegno delle attività culturali in via di formazione. D.lgs. 112/1998: designa la suddivisione territoriale delle attribuzioni in materia promozionale in funzione di un modello cooperativo in cui Stato ed enti territoriali si impegnano a suscitare e sostenere le energie intellettuali in via di formazione, in funzione delle specifiche esigenze collegate al loro sviluppo e al ruolo affidato dalla Costituzione. D.lgs. 20 ottobre 1998 n. 368: istituisce il Ministero per i beni e le attività culturali innestando un processo di riforma dell’apparato organizzativo ministeriale; il Ministero deve operare per la più ampia promozione delle attività culturali garantendone il pluralismo e lo sviluppo in relazione alle diverse aree territoriali e ai diversi settori, esso inoltre esercita funzioni amministrative statali in materia di promozione delle attività culturali in tutte le loro manifestazioni. D.lgs. n. 300/1999: sottolinea che il Ministero svolge funzioni di tutela, gestione e valorizzazione, ma anche quelle relative alla promozione delle attività culturali (art. 53). Il ruolo centrale del Ministero sembra temperato dal fatto che esso deve privilegiare il metodo della programmazione, favorire la cooperazione con le regioni e gli enti locali e operare per la promozione delle attività culturali garantendone il pluralismo e lo sviluppo. 4 la riforma del titolo V Con la riforma del titolo V del 2001 la tutela resta fra le competenze legislative dello Stato, la potestà legislativa concorrente con conseguente attribuzione allo Stato della competenza a stabilire i principi fondamentali. La Corte costituzionale ha poi precisato che la tutela ambientale e paesaggistica precede e costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Questa pronuncia e altre consimili hanno poi ispirato il d.lgs. 63/2008 che ha riscritto l’art. 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio: il nuovo testo prevede che la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio costituisca un limite all’esercizio delle attribuzioni delle regioni sul territorio e che le norme del Codice definiscano i principi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici. La tutela del paesaggio (art. 131 Cod.), è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime; tutti i soggetti pubblici che intervengono sul territorio sono pertanto chiamati ad assicurare la conservazione dei suoi aspetti e caratteri peculiari. Quanto alla valorizzazione del paesaggio, l’art. 6 del Codice vi riconduce l’adeguata fruizione e la conservazione del patrimonio in generale, gli interventi aventi ad oggetto culturale in generale e quelli aventi ad oggetto il solo paesaggio. Sembra dunque che la tutela si traduca in un’attività ricognitiva, di protezione e conservazione del paesaggio; la valorizzazione, invece, consiste nello svolgersi dinamico di molteplici attività finalizzate a promuovere la fruizione, il recupero, il miglioramento e l’innovazione. Quanto alla potestà regolamentare, salvo il caso di delega, essa spetta ancora allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, ma viene attribuita alle regioni per ogni altra materia; a ciò va aggiunto che tutte le funzioni amministrative sono attribuite al livello di governo più in grado di garantirne la legislazione ottimale, in quanto maggiormente vicino ai bisogni della comunità locale e cioè il Comune (sussidiarietà verticale). Tuttavia l’art. 6 Cod. intende incentivare, in materia di valorizzazione, anche una sussidiarietà orizzontale, aperta alla partecipazione di soggetti privati. La Corte costituzionale aveva già affermato che nel nostro ordinamento tutte le amministrazioni pubbliche devono impegnarsi in un vincolo reciproco di leale collaborazione, finalizzato all’affermazione del valore del paesaggio, dunque il metodo migliore per attenersi allo spirito della Costituzione è quello della collaborazione nel perseguimento dell’interesse comune. Il rapporto fra beni culturali e paesaggio trova infine un chiaro riscontro nel Codice dei beni culturali: per la prima volta viene offerta una definizione di paesaggio espressivo d’identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. La vocazione culturale del paesaggio emerge anche dall’art. 131 Cod.: il paesaggio è associato “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. Il Codice è importante anche per la connessione che individua tra beni culturali e paesaggio attraverso il genus comune del “patrimonio culturale”, costituito dai “beni culturali e dai beni paesaggistico” (Art. 2 Cod.), che la Repubblica tutela e valorizza “in coerenza con le attribuzioni di cui all’art. 117 Cost.”. Assume quindi un assoluto rilievo la nozione di “patrimonio culturale”, comprensiva non solo più dei beni culturali tradizionali, ma anche dei beni paesaggistici. Patrimonio culturale è il luogo della memoria della comunità, proiettato in una prospettiva della promozione dello sviluppo culturale dei suoi cittadini; la formula “patrimonio culturale” è da intendere in modo diverso da quanto avviene nella teoria civilistica (patrimonio come aggregato di rapporti giuridici, a contenuto economico, di un soggetto), come pure dalla nozione di “patrimonio storico artistico” nell’art. 9 Cost., in alternativa al “paesaggio”: il patrimonio culturale ricomprende infatti sia il patrimonio storico artistico che il paesaggio. Da ultimo, la l. sost. 11 febbraio 2022 n.1, ha aggiunto un ulteriore comma all’art 9 della cost, affiancando al paesaggio e al patrimonio storico artistico la tutela “dell’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. Una riforma che per la prima volta innova i principi fondamentali della costituzione e pone delicati problemi di bilanciamento fra tutela dell’ambiente e tutela del paesaggio, riconosciuto già negli anni 80 come “valore costituzionale primario”. 4 beni e piani paesaggistici La nozione di beni paesaggistici, già introdotta dal d.lgs. 368/1998, tende oggi ad assumere un ruolo prevalente rispetto al concetto di beni ambientali, senza però una totale confluenza di significati: i beni paesaggistici comprendono gli immobili e le aree indicati all’art. 134, costituenti espressioni di valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge, ma senza operare più il richiamo alla “significatività” della testimonianza che ha caratterizzato i beni ambientali, lasciando la categoria ad un’evoluzione futura della materia. Stabilisce l’art. 134 del Codice che sono beni paesaggistici della prima categoria (a): -Immobili e aree di cui all’art. 136 (di notevole interesse pubblico), cioè le tradizionali bellezze naturali. -Aree indicate dall’art. 142 (“zone Galasso” individuate dalla l . 431/1985). -Ulteriori immobili e aree specificatamente individuati, a termini dell’art. 136, e sottoposti a tutela dai piani paesaggisti previsti dagli artt. 143 e 156. Dunque permangono senza rettifiche il richiamo alle bellezze naturali e ai vincoli derivanti dalla legge Galasso; quest’ultima è frutto della riforma del Codice operata dal d.lgs. 157/2006, in quanto originariamente l’identificazione delle aree tutelate per legge rimaneva in essere solo sino all’approvazione del piano paesistico regionale. Oltre alla tipologia d’immobili e aree di notevole interesse pubblico, alla seconda categoria (b) appartengono: -Territori costieri compresi in 300m dalla linea di battigia, anche per terreni elevati sul mare. -Territori contermini ai laghi compresi entro 300m, anche per terreni elevati sui laghi. -Fiumi, torrenti, corsi d’acqua pubblici iscritti negli elenchi previsti dal test unico sulle acque e impianti elettrici, e le relative sponde o piedi degli argini entro 150m ciascuna. -Montagne per la parte eccedente 1600m sul livello del mare per la catena alpina e dei 1200m sul livello del mare per la catena appenninica e le isole. -Ghiacciai e circhi glaciali. -Parchi e riserve nazionali/regionali, nonché territori di protezione esterna dei parchi. -Territori coperti da foreste e boschi e quelli sottoposti al vincolo di rimboschimento. -Aree assegnate alle università agrarie e zone gravate da usi civici. -Zone umide. -Vulcani. -Zone d’interesse archeologico. Quanto alla terza categoria (c), di essa fanno parte i beni che vengono vincolati ex novo dai piani paesaggistici. Se ne ricava che il piano paesaggistico non abbia solo una funzione ricognitiva di aree già vincolate, ma possa anche indicare nuove aree da vincolare; esso è inoltre chiamato a individuare eventuali e ulteriori contesti, diversi da quelli elencati dall’art. 134 Cod., da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e utilizzazione. Il piano paesaggistico comprende sia previsioni supponenti il vincolo paesaggistico che altre estensibili anche alla restante parte di territorio integrante; sono considerati beni paesaggistici: -Quelli oggetto di dichiarazione di notevole interesse pubblico all’esito di un procedimento amministrativo. -Beni individuati e tutelati ope legis. -Beni individuati e tutelati in base ai piani paesaggistici. Il d.lgs. 157/2006 (riforma Codice) ha ricondotto inoltre sia allo Stato che alle regioni il compito di assicurare che il paesaggio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tal fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante l’approvazione dei piani paesaggistici, che dovranno definire per ciascun ambito previsioni e prescrizioni ordinate: -Alla conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela. -Alla riqualificazione delle aree compromesse o degradate. -Alla salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche degli altri ambiti territoriali, assicurando al contempo il minor consumo del territorio. -All’individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio. Il Codice specifica che l’elaborazione dei piani paesaggistici avvenga congiuntamente tra Ministero e regioni; una volta elaborato il piano, il progetto concordato tra regione e Ministero dei beni e delle attività culturali forma oggetto di apposito accordo di programma fra pubbliche amministrazioni (con tale accordo si fissa anche il termine entro il quale il piano deve essere approvato con provvedimento regionale). I soggetti proprietari, possessori e detentori di immobili o aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge o in base alla legge, qualora intendano a intraprendere interventi che possano trasformare il paesaggio, dovranno presentare alle amministrazioni competenti il progetto d’intervento al fine di ottenere l’autorizzazione paesaggistica:una valutazione tecnica il cui rilascio presuppone un controllo di conformità del progetto presentato alle prescrizioni del piano paesaggistico; sull’istanza di autorizzazione si pronuncia la regione, dopo aver acquisito il parere del soprintendente sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento. In conclusione, le attribuzioni alle regioni in materia di piani paesaggistici sanciscono l’affermazione di un’idea plurale di paesaggio, parlando così di paesaggi, come felice sintesi di natura e cultura che caratterizza il territorio e come fattore primario d’identità del patrimonio culturale della Repubblica. In materia di tutela la competenza è statale, ma le regioni sono chiamate a cooperarvi attraverso piani paesaggistici purché l’intervento normativo si risolva in una maggior protezione dell’interesse ambientale; la pianificazione paesaggistica è dunque disegnata dalle regioni attraverso piani paesaggistici tipici o piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (l’opzione per questo secondo strumento impone che la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente). I più recenti interventi legislativi riflettono questo spirito di conservazione? D.l. 133/2014 (Decreto Sblocca Italia), poi convertito in l. 164/2014, ove compare il rinvio a un regolamento che escluderebbe l’autorizzazione paesaggistica per tipologie d’interventi minori e di lieve entità; nel mentre viene circoscritto il ruolo delle soprintendenze, attraverso un meccanismo di silenzio-assenso che si traduce nell’automatica possibilità per l’amministrazione competente di provvedere sull’autorizzazione paesaggistica nel caso in cui, decorsi 60 giorni, il soprintendente non abbia reso il proprio potere.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved