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la bella e la bestia, Appunti di Italiano

Catherine Chandler è bella, giovane e ricca. Ma una notte, mentre rincasa dopo una festa, Cathy viene rapita e sfigurata a coltellate, e quando si risveglia si trova in un altro mondo. E’ il mondo di Vincent, l’universo delle Gallerie, un labirinto di condotte sotto la rete metropolitana di New York, popolato da emarginati e strani personaggi che hanno deciso di isolarsi dal mondo di Sopra

Tipologia: Appunti

Pre 2010

Caricato il 14/04/2022

liquirizia88
liquirizia88 🇮🇹

26 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica la bella e la bestia e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! BARBARA HAMBLY LA BELLA E LA BESTIA (Beauty And The Beast, 1989) Un ringraziamento speciale a Ann, Anne, Nancy, Robin e Mimi per l'aiuto, le informazioni e la consulenza. Alle persone senza le quali non avrei conosciuto l'amore così pro- fondamente da poterne scrivere: i miei genitori. 1 Nel ripensare alla sera del 12 aprile, Catherine fu certa che sicuramente ci sarebbe stato qualcosa da fare per evitare quella situazione. Un gesto, forse una frase, ma non sapeva quali avrebbero potuto essere, e questa era la cosa peggiore. Non peggiore, comunque, del dolore lancinante che la invase quando si tolse le bende dagli occhi. Ebbe molto tempo, un tempo infinito, per pensare, senza che nessuno ar- rivasse, distesa nel buio e ancora scossa dal terrore; e passò buona parte di quel tempo a cercare di capire in che punto avrebbe potuto scendere da quella lentissima tradotta per l'Inferno. Gli uffici del padre: dopo due anni di lavoro alla Chandler & Prasker, Catherine non riusciva ancora a considerarli suoi; erano situati sulla Cin- quantasettesima Ovest, all'angolo della Central Park South, e lo studio del padre, non certo il suo, dominava una bella veduta della Avenue of Ameri- cas; una vista assai gradevole, soprattutto in una bella giornata di primave- ra come quella. L'ufficio di Catherine, com'era giusto per un associato gio- vane, anche se lei era la figlia di Charles Chandler, era una stanza interna, ed era forse questo il motivo per cui ella vi passava così poco tempo. Mal- grado l'eleganza dei pannelli di mogano e degli arredamenti firmati, nulla poteva compensare la mancanza di una finestra. Non riusciva a capire co- me gli altri giovani avvocati suoi colleghi riuscissero a resistere. Quel mattino si presentò in ritardo, tanto che al suo allegro «'Ngiorno!» la segretaria rispose: «Ormai non lo è più, cara» mentre Catherine si sfila- va il soprabito cercando di apparire indaffarata come se fosse stata lì da o- re. «Pignola!» replicò mentre si affrettava lungo il corridoio. Una ragazza piccola e snella, con un'indefinibile aria di fragilità che neanche le spalle imbottite, come dettava la moda, riuscivano ad attenuare. Ma la battuta le bruciava. Catherine era perfettamente conscia del fatto che non imponeva mai, o quasi mai, il suo relativo potere, e ciò la infastidiva, anche in quelle occasioni in cui, di venerdì, se ne andava a mezzogiorno, o (ammettilo, Cathy!) alle dieci del mattino (ma non troppo spesso). In quei momenti era certa che le finanze dei clienti che le venivano affidati non avrebbero certo tratto giovamento dal suo rimanere in ufficio se era stanca, nervosa, agita- ta, o semplicemente stufa. Ma, nonostante questa convinzione, aveva il ter- rore che si dicesse di lei che era "una figlia di papà". Difatti veniva definita "la figlia di Charles Chandler", e continuava a es- sere considerata tale. «Cathy...» disse Al Prasker emergendo dal proprio ufficio e affiancando- si a lei nel grande atrio rivestito di legno scuro e con grandi vetrate. «Non dimenticarti della riunione per quella liquidazione, è alle tre.» «Ci sarò» promise con un bel sorriso, ma dovette fare uno sforzo per non replicare seccamente. Non era infastidita, semmai delusa, poiché aveva sempre provato affetto per Al, fin da quando, alle scuole medie, le dava una mano a fare i compiti, nel grande, luminoso studio del padre nella bel- la villa di Gramercy Park dov'era cresciuta. «Non c'è alcun bisogno di ri- cordarmelo, accidenti» pensò mestamente. «Può anche darsi che ogni tanto arrivi in ritardo, e che me ne vada presto, ma non ho mai mancato a una riunione, né ho mai causato danni allo studio!» Mentre apriva le doppie porte dell'ufficio del padre si sentiva sia ingiustamente accusata sia, in un certo senso, a disagio perché Al la considerava una scansafatiche. Il padre era al telefono, e sorrise quando, alzando lo sguardo, la vide. Era un uomo piccolo e rubizzo e i suoi capelli erano stati dello stesso castano chiaro di quelli di Cathy, prima di diventare bianchi, così come dello stes- so verde erano gli occhi. «Ti richiamo più tardi, Hal» disse al telefono mentre la figlia appoggiava il soprabito verde chiaro sul bracciolo di una delle poltrone di cuoio del- l'ufficio; malgrado la bella giornata, fuori faceva ancora freddo. Attraverso le grandi finestre sulla parete di fondo dello studio si vedeva passare velo- cemente una corrente di grigi quasi uniformi, occasionalmente interrotti dai vivaci colori della primavera nelle vesti di una donna, o dal giallo e rosso dei carrettini dei venditori di hot-dog. Dietro l'angolo, gli alberi del parco parevano galleggiare, immateriali, in una nube di infiorescenze rosa. Catherine, nonostante i sensi di colpa, dovette ammettere che, se non fosse stato per l'impegno alle tre del pomeriggio, quel mattino forse non sarebbe che istintivamente non desiderava una risposta reale, cercò una soluzione più agevole. «Non ti piace il lavoro qui?» chiese. «Non lo trovi stimolante, forse?» Catherine quasi scoppiò a ridere, di esasperazione mista ad affetto, per quella risposta così tipica di lui. Al tempo stesso, però, era contenta che il vero problema non fosse stato affrontato. Se lei non riusciva a capire che cosa non andava, come poteva farlo lui? Ne avrebbe avuto in cambio solo sofferenza, la sofferenza che lo tormentava da quando era morta sua mo- glie, convinto com'era di avere in qualche modo trascurato la sua bambina. Lei sorrise. «Non mi sarei mai aspettata che la giurisprudenza amministra- tiva fosse precisamente "stimolante".» Ma questa non era certo una buona scusa per tutte quelle mattine in cui faceva tardi, quei lunghissimi intervalli per il pranzo, quando passava le ore seduta nel parco a chiacchierare con gli amici, o per tutte le volte che usciva prima perché si sentiva agitata al punto che non riusciva più a concentrarsi... Il padre ridacchiò per quell'os- servazione e si rilassò, contento che non si fosse andati oltre. Ma in fondo ai suoi occhi rimase una traccia di sospetto, quasi sapesse, nonostante la barriera tra sé e la figlia, che quello di lei non era il compor- tamento di una donna felice. «Sai, quando ti ci metti sei un'ottima consulente aziendale.» «No!» disse Catherine sorridendo ancora mentre si sporgeva per baciar- lo. «Sono la figlia di un ottimo consulente aziendale.» Era stato forse quello il momento? Un fruscio leggero le giunse dal buio, una serie di rintocchi metallici, stranamente dolci, seguiti da altri rintocchi, più flebili. Poi si udì il rombo di ruote metalliche che scorrevano sugli scambi, lontanissime, simili a un refolo di vento che si alza e poi cala. Si udiva appena un gorgoglio di ac- que, un odore di cuoio vecchio, di candele, di cera, di pietra umida e di ter- ra. E il silenzio avvolgeva ogni cosa. Se non fosse stata tanto impaurita a causa della propria debolezza, del proprio dolore, dello stupore e del terrore cieco che non la abbandonava un attimo, forse avrebbe potuto dormire. Forse avrebbe potuto rinunciare all'impegno con Tom Gunther e accetta- re l'invito a cena del padre. Erano parecchie settimane che non cenavano insieme. Lei doveva ammettere che le aveva vissute in maniera frenetica; ma di solito, una volta giunti al ristorante, il Four Seasons di preferenza, o un altro tranquillo quattro stelle, o a volte il circolo del padre, allora la di- vertivano quelle cene con i suoi soci in affari. Come lui aveva affermato, Catherine era davvero un'ottima consulente aziendale, nonostante l'insod- disfazione che provava per il proprio lavoro. Aveva un senso dell'orga- nizzazione non comune, un talento da stratega delle sottigliezze e della mediazione. I suoi studi di giurisprudenza le fornivano gli strumenti per capire quell'intricato gioco degli scacchi che sono la gestione dei pacchetti azionari e le scalate finanziarie. Ricordava sempre perfettamente chi erano gli amministratori delle varie compagnie, chi erano i membri del tale con- siglio di amministrazione, ma anche di quell'altro. Era come starsene sedu- ti ai margini di un ricevimento osservando con cura chi parlava, e in quale ordine, e quali erano gli argomenti delle loro conversazioni. O forse il suo errore era ancora precedente... qualsiasi fosse stato... risa- liva forse al giorno in cui il padre l'aveva portata a pranzo per incontrare Tom Gunther, il socio più giovane di una delle più grandi aziende di inge- gneria civile della nazione? O forse poteva risalire a quella prima volta in cui, mentre sedevano nell'ufficio di lei, Tom l'aveva interrotta nel bel mez- zo di un'analisi di bilancio per invitarla a cena. Del resto, come le aveva chiaramente detto il padre, le poteva capitare un uomo decisamente peggiore di un Tom Gunther. Lo aveva osservato brevemente attraverso l'atrio del Barron Hotel. Il lo- cale era soffuso di luce rosata, e pieno di opulente composizioni di fiori accanto a vassoi di cibi assortiti; era gremito di clienti, soprattutto architet- ti, uomini d'affari, e qualche membro dell'Assessorato all'Edilizia, con le loro accompagnatrici. Tom, un. giovane snello, scuro di carnagione e di capelli, col riso intenso già abbronzato in quell'inizio di bella stagione, in- dossava un impeccabile abito di sartoria londinese, e stava illustrando al- l'assessore e al capo della Irvine Trust la scultura di ghiaccio che si ergeva al centro della sala buffet. Era un modellino del nuovo edificio con il quale lui avrebbe guadagnato una cifra con sei zeri. Anche volendo, Catherine non avrebbe potuto udire quello che diceva attraverso il frastuono delle voci e la musica trasmessa da altoparlanti nascosti. In ogni caso non stava ascoltando, e neanche lo stava cercando con lo sguardo. Questo perché la compagna di Andrew Wiegart Junior, con sua grandissima sorpresa, si era rivelata essere Eve Penrith, una compagna di scuola di Catherine a Ra- dcliffe. Catherine era rimasta scioccata da quanto l'amica appariva invecchiata e stanca. «Ho fatto scelte sbagliate» commentò Eve scrollando le spalle, quasi che una carriera in declino e un matrimonio violento fossero roba da poco, come un'indisposizione provocata da cibi avariati. Ma Catherine sentì che dietro lo sterile sorriso della donna, dietro la sua risata nervosa e frequente, c'era un mondo di infinita angoscia. Aveva perso di vista Eve negli ultimi anni ma i ricordi delle notti trascorse a chiacchierare nelle loro stanze in collegio, delle lunghe discussioni fino alle tre con quella ragazza allegra e sempre abbronzata, e della sua risata facile e spontanea, erano vivi, come se risalissero al giorno prima. Evitando Tom e i suoi amici affaristi, la condusse in un angolino tranquillo. Eve aveva un disperato bisogno di par- lare. «Maledizione, la cosa peggiore poi... non so neanche se è amore la paro- la giusta» le disse Eve fissando il ghiaccio nel suo drink. In contrasto con l'abitino, apparentemente semplice, indossato da Catherine, Eve portava un abito argentato, troppo giovanile, e che in ogni caso le stava male. Aveva lo sguardo nervoso e spaurito di una donna che ce la stava mettendo tutta. «Ma c'è qualcosa... come se dovessi ancora terminare un compito. Non riesco a non pensarci. Ma so che dovrei farlo.» La voce le si indurì per lo sforzo di non crollare. «Tutti mi hanno detto che devo solo far finta che sia morto...» Catherine si sporse e le prese la mano ossuta, ornata da un anello con brillante. «Vedrai che andrà tutto bene» le disse con dolcezza. «Vedrai che troverai la strada giusta.» «Tutto bene?» Sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Voltandosi vide Tom. «Benissimo... io e Eve non ci vediamo da una vita. Abbiamo un sacco di cose da raccontarci.» Le venne in mente che se Eve usciva con il figlio di Andrew Wiegart, probabilmente Tom l'aveva già incontrata. Ma Tom le diede appena un'oc- chiata, neppure un saluto, poi si voltò senza una parola. «Bene» disse con voce neutra. «Scusa, Cathy, dovrei parlarti un attimo.» «Scusaci un momento.» Eve annuì, sempre fissando il fondo del bicchiere, o quel che lei ci vede- va dentro, o dietro. Tom appoggiò la mano sulla schiena di Catherine e la guidò con fermezza verso un luogo appartato accanto alla scalinata che sa- liva verso il soppalco sopra la sala da ballo. «Cosa ti prende?» Catherine lo guardò sorpresa. «Non capisco.» Dietro di loro, lungo le scale, la gente andava e veniva; uomini d'affari che parevano appena usciti e poi per la presunzione di avere il diritto di consigliarle quali persone fre- quentare per non correre rischi in società. Ma soprattutto la rese furiosa quello sguardo ostinato che gli apparve sul viso quando si rese conto che lei aveva intenzione di mandare a monte i suoi piani di metterla in mostra come una sua proprietà. Lei mantenne calma la voce, mentre diceva: «Mi dispiace, Eve, devo andare, ma ti chiamerò sicuramente, domani stesso.» Quindi raccolse il soprabito dello stesso colore prugna cupo del suo foulard, ma la rabbia le bruciava ancora in corpo mentre attraversava la stanza e si allontanava da un Tom stupefatto e indignato. Forse era vero che potevano capitarle uomini anche peggiori di Tom Gunther, pensava mentre attraversava l'ingresso deserto del Barron, fino alla grande porta di cristallo dove si fermò un attimo per infilarsi il sopra- bito. Forse lui era proprio tutto ciò che il padre avrebbe desiderato per lei: un uomo ricco, intelligente, ambizioso, che l'adorava, che avrebbe avuto cura di lei, che condivideva i suoi gusti musicali, teatrali e artistici... un uomo ordinato e di bell'aspetto, non uno di quei radicali da campus univer- sitario, o un pazzo poeta parigino, oppure un comico di varietà con un bi- sogno di cocaina che gli costava cifre con tre zeri ogni settimana, o un al- tro qualsiasi di quei tipi con cui lei era spesso uscita. Ma, accidenti! Non era suo padre a dover uscire con quell'uomo, pensò Catherine con ango- scia. Erano appena passate le dieci e la chiusura dei teatri avrebbe riempito di folla le strade solo dopo un'ora. Aveva piovigginato e l'aria si era riempita di quell'odore particolare delle città, un misto di pioggia, asfalto, e scarichi delle auto. Il vapore che fuoriusciva da una delle griglie della sotterranea poco lontano contribuiva a rendere speciale tutto l'effetto. Provò a chiama- re: «Taxi!» ma l'autista era disattento, oppure lei non aveva alzato abba- stanza la voce. Non lo faceva mai, e questa era risultata cosa assai gradita alla Scuola per Ragazze di Miss Farthingdale, ma nella Grande Mela non sortiva alcun effetto. L'auto gialla sfrecciò quasi sgusciando sull'asfalto bagnato, svoltò a un angolo e scomparve. Fece qualche passo di corsa, come per raggiungerla, poi si fermò di colpo, e quasi perse l'equilibrio. "Dovrò veramente fare quattro isolati a piedi con questi tacchi?" si chie- se. «Non ha avuto fortuna, eh?» ridacchiò una voce maschile alle sue spalle. Si voltò. Era un uomo di media altezza, tarchiato e con i capelli scuri, le mani sprofondate nelle tasche di un giubbotto di pelle grigia. Le sembrò di averlo visto nell'albergo, ma non ci rifletté molto; aveva ancora la mente sconvolta dai problemi di Eve e dalla sua rabbia verso Tom. In ogni caso, lui le si era avvicinato dal vicolo che conduceva all'ingresso fornitori del- l'albergo. Sebbene lo scorgesse appena nell'ombra buia dell'edificio, vide che le sorrideva amichevolmente. «Ci penso io, sono un esperto... TAXI!!» tuonò scattando verso un'auto gialla che passava, ma che aveva la bandierina chiaramente abbassata. La giovane donna stava frugando nella borsetta per una mancia da allungargli, quando dal vicolo sbucò un furgone. Le svoltò davanti e si fermò accanto al marciapiede bloccandole l'accesso alla carreggiata. Lei intanto stava pensando a come affrontare Tom l'indomani, perché lui le avrebbe sicura- mente telefonato, magari in ufficio, tanto per complicare le cose. Non badò al furgone, sino a quando non si accorse che l'uomo tarchiato le era accan- to, il volto nascosto nell'ombra; la scarsa luce si rifletteva solo sui capelli dell'uomo. Era ancora alla ricerca del dollaro che teneva sempre a portata di mano per queste occasioni... più tardi non riuscì a capacitarsi come a- vesse potuto essere tanto ingenua... quando l'uomo le cinse le spalle, la portiera laterale del furgone si aprì scorrendo e il cigolio quasi mascherò la voce stridente dell'uomo al suo fianco. «Che fai, vai a casa da sola stasera, Carol?» E la spinse nel furgone. All'ultimo momento la sorpresa si tradusse in panico, e lei tentò di di- vincolarsi, ma lui era terribilmente forte, molto più forte di quanto lei non si aspettasse, e un pensiero fulmineo le attraversò la mente; malgrado il numero di uomini che l'avevano abbracciata, questa era la prima volta che le capitava di sentire com'era la stretta di un uomo che non intendeva la- sciarla andare. Poi cadde contro il pavimento di metallo e le sfuggì un ge- mito, quasi un urlo soffocato, mentre il furgone cominciava a muoversi, ancor prima che un altro tizio, appena un'ombra infernale nel buio azzurra- stro del furgone, richiudesse la portiera. "Dio mio, ti prego, no..." C'erano altri due individui oltre all'autista, ma di loro vedeva solo le sa- gome, e nel bagliore improvviso di un lampione poté scorgere un avam- braccio appoggiato allo schienale del sedile, un avambraccio con un ta- tuaggio raffigurante un drago rosso e blu, i cui artigli e le cui fauci spalan- cate azzannavano il dorso di una mano pelosa. I suoi occhi rimasero incol- lati a quel drago mentre la sua mente impazziva, raggelata dallo shock e dal terrore, come una lepre abbagliata dai fari di un'automobile. "... ma come ho potuto essere tanto cretina?... non può essere vero... bril- lanti, i miei orecchini sono di brillanti, forse mi lasceranno andare se..." Ma già sapeva che non l'avrebbero rilasciata prima di aver concluso il loro piano. L'uomo tarchiato la sospinse contro la parete laterale del furgone. Con una mano le stringeva entrambi i polsi dietro la schiena, senza alcuno sfor- zo, mentre premeva il suo corpo contro quello di lei. Lei sentì l'odore di sudore della sua camicia, misto a quello di un deodorante di qualche marca dozzinale, e il suo alito che sapeva di tabacco, mentre le bisbigliava ripetu- tamente: «Brava così, ragazzina, brava così... lo sai cosa succede alle ra- gazzine che chiacchierano troppo, vero?» Udì un leggero scatto metallico. Il furgone prese a ondeggiare e un lam- po di luce dardeggiò su una lama lunga e sottile che l'uomo col tatuaggio del drago teneva tra le mani. «Altrimenti lo scoprirai adesso.» «Carol», mormorò la voce carezzevole al suo orecchio, «devi ricordarti di tenere la bocca chiusa da oggi in poi.» Raggelata dal terrore, riuscì a bisbigliare: «Io non mi chiamo Carol.» «Zitta!» Una mano la afferrò per il soprabito e la sbatté contro la parete del furgone. Picchiò la testa. Il corpo dell'altro uomo oscurava la scarsa lu- ce che filtrava a tratti e Catherine avvertiva la lama, piuttosto che vederla. «Adesso ti ricorderai» mormorò la voce suadente. «Ti ricorderai ogni volta che ti guarderai allo specchio.» 2 Risuonavano nuovamente quei tenui rintocchi, come strane campane lontane. Mentre giaceva al buio, nel dolore, un dolore terribile alle spalle e al dorso e al ventre, un dolore che la squarciava ogni qualvolta respirava, Catherine cercò di ricordare il punto in cui avrebbe potuto arrestare l'intera vicenda e andarsene, salva. Doveva esserci... Era come cercare di raccogliere acqua tra le mani. I pensieri e i ricordi... il panorama fumoso della Avenue of Americas attraverso le grandi finestre dello studio del padre; la propria immagine riflessa nello specchio del ba- gno in casa sua, mentre passava la solita oretta ad applicarsi meticolosa- mente il trucco; la musichetta sdolcinata e le chiacchiere impersonali alla festa e la mesta stanchezza negli occhi di Eve... tutto le scorreva davanti come le luci di una giostra offuscata che ruotando scompariva nel buio. Era ancora in sé quando la gettarono fuori del furgone. Doveva essere a abbiamo medicato le tue ferite. Hai alcune costole fratturate, hai bisogno di riposo, devi rimanere ferma.» «Ma dove sono?» Allungò la mano verso di lui, voleva sfiorare qualcosa di umano, sentire qualcosa in più di una semplice voce, ma lui era appena fuori della sua portata e non fece nulla per guidarle la mano. Debolmente, la giovane donna la lasciò ricadere sulla coperta; sentì un riquadro di pel- liccia, un triangolo che pareva velluto e un quadrato di lana lavorata all'un- cinetto. «Sei dove nessuno può farti del male» disse Vincent, e da quella voce dalle tonalità calde e insieme aspre lei comprese che quella era la cosa più importante per entrambi, più importante del luogo dove si trovava ora. "Ma come posso esserne sicura? E perché non vuoi dirmi..." «Dimmi come ti chiami» Quasi fosse indecisa se affidargli quella parte di se stessa, lei esitò, poi disse: «Catherine.» «Catherine» ripeté lui sottovoce. «Cerca di riposare. Se avrai bisogno, io sarò sempre vicino a te. Non avere paura, ti prego, non avere paura.» Non era solamente la bellezza della voce, pensò. Era una nota di amore, quasi che l'unica cosa che lo interessasse veramente fosse che, prigioniera del buio e della disperazione, lei sapesse almeno che non aveva motivo di temere nulla. Ma questo ormai era impossibile... non sarebbe mai più stato possibile, pensò. Cercò nuovamente la mano di lui, e sentì che lui si spo- stava, quasi a sfiorarla, ma poi si tirò indietro. «Ci proverò» balbettò con un filo di voce. Vincent attese seduto accanto a lei, in silenzio, fin quando non la vide addormentarsi. Quella stanza, la sua stanza, era fiocamente illuminata da candele in contenitori di vetro o di argento antico, vecchie lampade ripara- te, e dal chiarore rossastro di un fuoco nel camino. In quella luce dorata studiò con attenzione le mani della ragazza addormentata: erano piccole e quadrate, come quelle di un bimbo, ben curate, le mani di chi non aveva mai dovuto faticare. Ma erano anche mani forti, svelte, non mani inutili come ora, mentre stavano appoggiate senza forza contro i colori sbiaditi della coperta. Catherine. Una creatura aliena, da un mondo alieno. Il suo cuore fremeva di pietà. La coprì dolcemente, poi si strinse addosso il mantello di lana stinta dal fumo e uscì dalla stanza. Nelle Gallerie, i leggeri rintocchi ininterrotti e il frastuono erano più for- ti, ed echeggiavano assurdamente contro le basse volte di mattoni e contro le umide pareti di roccia nuda. Era un suono che lo aveva accompagnato per tutta la vita, simile a un battito cardiaco, che lo rassicurava anche du- rante il sonno. Mentre pensava alla ragazza... a quella forma scura che gia- ceva raggomitolata nel buio del parco con la chioma bionda sparsa sul vi- so, e con l'odore del sangue che si mischiava al pesante profumo dell'erba fradicia... quasi non guardava dove metteva i piedi. Scese una breve scali- nata di mattoni scoloriti fino al buio di un'altra galleria, dove girò un ango- lo e attraversò una grande caverna tagliata nella roccia dove il vapore con- tenuto nei tubi, in alto, fuoriusciva senza sosta. Poi oltrepassò una porta. Suo padre era dove si aspettava di trovarlo; nella sua stanza a leggere un libro. La stanza del Padre aveva i soffitti di altezza doppia, a volta, ed era pressappoco circolare; era piena fino a scoppiare di libri... un'intera parete tappezzata da cima a fondo, e poi cumuli, pile e piramidi di libri appoggia- ti ai vecchi mobili. Vecchie enciclopedie e polpettoni ingialliti degli anni Trenta. I Classici di Everyman, libri da ricchi per riempire gli scaffali delle biblioteche delle loro case, rivestiti di cuoio e con caratteri d'oro, vecchi romanzi tarlati, le Vite dei Santi, Hegel, vivaci copertine dei club del libro, acquistati per non essere mai letti, poi Shakespeare, Donne, Cervantes e ta- scabili in edizioni economiche, gli scarti, insomma, di migliaia di librerie, formavano delle colonne tutt'intorno a Vincent, mentre attraversava il pic- colo vestibolo con le sue cariatidi intagliate nella pietra e scendeva una breve rampa di scale fino alla sala principale. Lungo la parete di fondo del- la stanza, a un'altezza di circa quattro metri, correva una balconata di legno che Vincent e alcuni compagni avevano costruito, utilizzando del legname di recupero e la balaustra di rovere intagliato salvata dalle rovine di una chiesa in demolizione. Sotto questo balcone pendevano una dozzina di lampade a olio e semplici candelabri che inondavano la stanza di una luce calda, come se fosse riflessa da topazi. Malgrado le ombre che regnavano nel locale Vincent si accorse subito che tutti gli scaffali sopra la balconata erano ormai colmi fino alla curvatura del soffitto, e che persino la balcona- ta stessa era quasi del tutto stipata con gli ultimissimi acquisti del Padre. Tra non molto sarebbe stato necessario mettere altri scaffali. Per Vincent, sorridere era un'impresa fisicamente quasi impossibile, ma c'era sicuramente un affettuoso divertimento nel sospiro che emise, scuo- tendo la testa. In piedi sulla balconata, illuminato dalle candele di una vecchia lampada di bronzo, c'era il Padre, con la testa china, assorto in un libro che teneva con una mano. Era un uomo basso e tarchiato, i capelli e la barbetta corta ingrigiti fino ad assumere un colore di acciaio ossidato. Gli occhi, semina- scosti da un paio di vecchie lenti con la montatura in acciaio, erano grigio- azzurri, vispi e astuti. Si voltò appena quando Vincent entrò nella stanza. «È sveglia?» Faceva freddo nella stanza del Padre, come in quasi tutte le Gallerie. L'anziano signore portava un paio di vecchi guanti con le dita tagliate, e grosse calze di lana, fissate con strisce di cuoio morbido, attorno alle brac- cia, fino ai gomiti. Le sue vesti, come quelle di Vincent, erano di cuoio vecchio ammorbidito dal tempo, cucito con riquadri di robuste stoffe rica- vate da cappotti e soprabiti, logori e lisi dall'età e dagli innumerevoli la- vaggi. Attorno al collo si vedeva spuntare il vecchio maglione grigio che indossava sotto a tutto. Vincent annuì. «È molto impaurita.» «Ma, Vincent, come hai potuto?» Poggiandosi pesantemente alla balau- stra, e facendo frusciare la lunga veste, il Padre scese le scale... scale di granito consunto, scale di un pulpito, prese anch'esse da quella chiesa in rovina... e si tolse gli occhiali per osservare in tutta la sua altezza quel suo figlio adottivo. «Come hai potuto portare qui, dove noi viviamo, uno stra- niero? Hai ignorato la nostra regola più importante.» «Non c'era altro modo» rispose Vincent con la sua voce bassa e pazien- te. Il Padre aveva paura, e ne aveva motivo. Ma non aveva veduto la ra- gazza... Catherine... come l'aveva veduta lui: gettata in terra in uno degli angoli più desolati del parco. Vincent conosceva il parco, ne conosceva i ritmi notturni; il percorso e il passo delle pochissime pattuglie di polizia, l'andirivieni dei suoi frequentatori notturni, e sapeva che non sarebbe pas- sato nessuno di lì. E sospettava che anche il Padre lo sapesse. Il vecchio si voltò, e lo guardò con un'ira che nasceva dalla sfiducia e dalla preoccupa- zione. «Sai cosa accadrebbe se ti catturassero lì sopra?» chiese. «O se ti venissero a cercare qui sotto? Ti ucciderebbero... o ti metterebbero in pri- gione, e allora saresti tu a voler morire.» Vincent sapeva che ciò era vero. In lontananza si udirono nuovamente i rintocchi metallici, più vicini che nella stanza di Vincent; ancor più lonta- no rispose una serie diversa di rintocchi. Il Padre scosse la testa. «Ma co- me hai potuto?» «So che tu hai ragione» rispose Vincent con dolcezza. «Ma cos'altro po- tevo fare? Come potevo voltarle la schiena e abbandonarla?» Sotto i baffi grigi la bocca del Padre si irrigidì. Senza una parola raccol- se il bastone che teneva sempre poggiato alla vecchia poltrona dalla tap- non aveva udito nulla: niente telefoni, rumori di traffico, nessun suono di radio o di televisori. Non ricordava più da quanto non era stata in un luogo in cui non si sentisse sempre un sottofondo indistinto di rumori di ogni ge- nere. Ma anche questa stranezza la spaventava meno di quanto avrebbe dovuto. "Brava gente" aveva detto Vincent, e lei gli credeva. «Vincent, manterrò il vostro segreto.» Nel silenzio le sembrò quasi di poter udire l'alternanza di pensieri nella sua mente. «E quei rintocchi» aggiunse lei sottovoce, «che non smettono mai.» «Sono persone che si parlano» rispose Vincent «lungo i tubi principali.» «Messaggi, intendi dire?» Sapeva di prigionieri che comunicavano in questo modo in carcere... Da ragazzine, lei e una sua cuginetta in visita a- vevano fatto un esperimento e avevano costretto una squadra di idraulici a cercarne la causa per giorni. Dal fondo della gola di Vincent venne un suono affermativo. «Vincent, ti prego... dimmelo.» Lo udì tirare un sospiro. «Siamo sotto la città» spiegò. «Sotto le metro- politane. C'è un mondo intero di gallerie e di sale che nessuno ricorda più. Non vi sono mappe che indichino questi luoghi. È un posto dimenticato, ma è sicuro, è caldo, e abbiamo tutto lo spazio che ci serve.» Le affioravano alla mente deboli sensazioni di essere trasportata verso il basso, nel buio; l'eco di acqua gocciolante, il respiro umido del vapore. E il silenzio. «E noi viviamo qui» proseguì lui con calma. «Cerchiamo di viverci me- glio che possiamo, e cerchiamo di prenderci cura l'uno dell'altro. Questa è la nostra città.» Una città senza luce, pensò lei. Eppure no, li aveva sentiti muoversi, l'al- tro uomo e la donna, come se vedessero... e poi l'odore di candele e di fu- mo e di combustibili. Una città senza elettricità, e senza vere strutture me- diche... una cosa questa che l'aveva preoccupata, malgrado gli antibiotici che Vincent le aveva dato. Una città senza uomini come quelli che l'ave- vano gettata in quel furgone scuro. Una città di emarginati? «E tu?» chiese. «Tu cosa ci fai qui? Perché sei qui?» Ci fu un lungo silenzio; infine, l'uomo rispose lentamente e con soffe- renza. «Ero un neonato... abbandonato, dovevo morire. Qualcuno mi trovò, mi raccolse e mi portò qui; quell'uomo diventò mio padre.» Lei ricordò la ferma voce dall'accento britannico che aveva udito nel do- lore e nella semincoscienza, e ricordò le dita abili e veloci che la fasciava- no. E ricordò che Vincent lo chiamava "Padre". L'amore sostituì la sofferenza nella voce profonda di Vincent. «Egli mi prese con sé e mi allevò, e fu lui a darmi un nome...» Si udì come un gor- goglio profondo, quasi una risata. «...è lì che mi trovò, vicino all'ospedale di St. Vincent. Tieni» aggiunse con dolcezza, «altrimenti si raffredda.» La punta del cucchiaio le sfiorò leggermente le labbra. Ma poteva questo giustificare la fiducia che provava verso di lui, per l'innocenza, l'onestà che si sentivano sotto la forza vellutata della sua vo- ce? Bastava il fatto che egli fosse cresciuto in quest'altro mondo... sempre che fosse un altro mondo, come diceva lui? Lei non aveva altro che la sua parola, niente poteva impedirgli di raccontarle un cumulo di menzogne. Ma perché avrebbe dovuto mentirle? E perché tre uomini avevano gettato una donna mai veduta prima nel fondo di un furgone per poi torturarla come bambini dementi con una bambola di pezza, prima di abbandonarla quasi in fin di vita? Il dolore la colse di nuovo e quasi la soffocò. Non era il dolore delle co- stole incrinate, questa volta, non erano le labbra tumefatte e il viso gonfio e martoriato, ma un dolore interiore, causato dalla perdita della fiducia nei suoi simili. Si sentì mancare, le parve di essere una duna di sabbia portata via dalle onde. Bisbigliò con disperazione «Io non so cosa credere...» Il cucchiaio le sfiorò nuovamente le labbra, la voce di Vincent era piena di compassione. «Credi a me» le disse con grande dolcezza, come se com- prendesse quanto lei avesse bisogno di credere in qualcuno. «Ciò che ti ho detto è tutto vero.» Lei alzò la mano per reggere il cucchiaio e per la prima volta sfiorò quella di lui. Era enorme, potente, coperta di lunghi peli ispidi e terminava con lunghi artigli, non era una mano umana. 3 "CONTINUANO LE RICERCHE DELLA GIOVANE EREDITIERA SCOMPARSA. "Gli inquirenti hanno dichiarato che proseguiranno con le ricerche di Ca- therine Chandler scomparsa ormai da sette giorni, il 12 aprile. La signorina Chandler, figlia del noto avvocato dello studio Chandler e Prasker, è stata vista per l'ultima volta mentre lasciava una festa al Barron Hotel, nella zo- na centrale di Manhattan, lunedì sera verso le 10.30. Il capitano della poli- zia John Herman, incaricato delle indagini, ha riferito che la borsetta della ragazza è stata ritrovata accanto a un sentiero nel Central Park Reservoir, il mattino seguente. Dalla borsetta erano stati presi i contanti ed essa era macchiata di sangue. Né il padre della signorina Chandler, né il fidanzato, il noto costruttore Tom Gunther, hanno rilasciato dichiarazioni." C'era anche una foto. «Aveva detto di essere stata a una festa» commen- tò Vincent sottovoce. Gli occhi acuti e azzurri del Padre gli lanciarono uno sguardo infastidito, come per dire che trovava il commento insufficiente. «Non è gente che permette alle proprie figlie di scomparire senza fare storie» disse con tono amaro il vecchio, «questi avvocati, banchieri, e broker dell'East Side. Certo finora non sono approdati a nulla...» aggiunse mentre l'amarezza di qualche antico ricordo gli incupiva la voce, «... e ciò vuol dire che ogni giorno trascorso con noi accresce i rischi che corriamo.» «Non può che essere così» affermò Vincent guardando con aria interro- gativa l'anziano e robusto uomo di fronte a lui, immerso nell'alone di luce delle candele appese sopra il tavolo ottagonale dello studio. «Se fosse tua figlia, rivolteresti le fondamenta della città per trovarla.» Il Padre grugnì. «Certo, certo. Ma in questo caso, noi viviamo sotto quelle fondamenta.» Si tolse gli occhiali da lettura e li gettò sul tavolo, do- po averli ripiegati e riposti nell'astuccio, poi si diresse verso la sua poltron- cina. «Deve andarsene, Vincent.» «Tra qualche giorno starà abbastanza bene da poter andare via» rispose suo figlio con tono sottomesso. Ma l'unica risposta del Padre fu una sorta di borbottio sommesso. Vincent lo lasciò seduto alla scrivania, gli occhi sul quotidiano che accresceva la sua preoccupazione. Erano passati solamente sette giorni? Le forze le stavano lentamente tornando, sebbene potesse alzarsi solo per pochi minuti. Era stata picchiata in modo feroce. Vincent non riusciva a concepire come qualcuno potesse fare a una donna inerme... a chiunque, in effetti... una cosa del genere. Ma sapeva bene che ciò accadeva di fre- quente. I libri che aveva letto, le riviste... raccolte dai ragazzi delle Gallerie da ogni bidone dei rifiuti della città... erano colmi di storie del genere. E anche tra la gente delle Gallerie, coloro che avevano vissuto di sopra ne parlavano, se non con calma almeno con filosofia. «Succede di continuo, Vincent» gli aveva detto Winslow mentre lavorava alla più grande delle sue incudini, su cui poggiava un pezzo d'acciaio che era stato lo sportello di una Buick del 72. Winslow era un negro enorme, quasi del tutto calvo e sua convalescenza. «Vincent, ho paura, sono in ansia.» Avrebbe voluto andare da lei, abbracciarla e consolarla, ma, dalla volta in cui Catherine gli aveva sfiorato la mano mentre lui le porgeva il cuc- chiaio, e aveva ritratto, inorridita, le dita, Vincent non le si era più avvici- nato tanto da consentire un qualsiasi contatto fisico. Quel piccolo grido di spavento era stato più che sufficiente. Ma qualcuno doveva consolarla, an- che se le parole non potevano bastare, e lui non ne conosceva che potesse- ro curare ferite profonde quanto quelle che le erano state inferte. Tutto ciò che riuscì a dire fu: «Sì, lo so, lo sento... Ti stanno tornando le forze.» E poi si sentì inutile, impotente, come mai prima in vita sua. «Ti preparo del tè» si offrì. «Quel tè alle erbe che ti piace.» La voce di lei era debole e roca. «Va bene.» Lui uscì dalla stanza più in fretta di quanto avrebbe voluto. A quell'ora della giornata, metà pomeriggio nel mondo di Sopra, i bam- bini si disperdevano negli anfratti grigi della roccia che costituiva le fon- damenta di Manhattan, approfittando dell'intervallo di poche ore tra le le- zioni e i compiti serali, per giocare ed esplorare il territorio. Vincent cono- sceva bene quei luoghi, perché vi aveva giocato anche lui da bambino, ma anche perché pattugliava con regolarità quella zona, sapendo bene quanti pericoli nascondessero le Gallerie sotterranee. Non gli ci volle molto a in- dividuare due o tre ragazzini che correvano sugli skate-board lungo Il Via- le, un lungo tratto di drenaggio delle acque reflue ormai abbandonato che offriva una rarità sottoterra: duecento metri di pavimentazione continua. I ragazzi, Dustin, Miranda e Kipper, lo accolsero con allegria. Non solo era il loro guardiano, l'insegnante di lettura, ma anche un eccezionale nar- ratore di fiabe e un giocatore di nascondino di raro accanimento e abban- dono. Randa, che dei tre era quella che conosceva meglio le Gallerie, ave- va promesso a Mary di aiutarla a preparare le erbe prima di cena; Dustin, di sette anni, era forse troppo giovane per intraprendere una così lunga spedizione, giudizio questo non condiviso affatto dal piccolo, ma Kipper fu d'accordo perché tutti e tre intraprendessero la ricerca. «Prendi questa stessa galleria tre piani più sotto» lo diresse Vincent in- dicando la biforcazione di sinistra, «poi segui la galleria successiva fino al- la prima scala e inizi a salire...» «E arrivo a Chinatown.» Kipper, di nove anni, era nelle Gallerie da tre anni. Lo aveva portato uno degli Aiutanti, un uomo robusto e dai capelli bianchi che faceva il barbiere dalle parti di Times Square, quando lo aveva trovato un mattino, nascosto in un cassonetto per la spazzatura, coperto di lividi e di bruciature di sigarette e che si rifiutava di tornare a casa. «Sempre che tu non prenda la galleria sbagliata» disse con serietà Vin- cent. «Altrimenti rischi di arrivare proprio in Cina.» Di solito ai bambini ci volevano solo un paio d'anni per imparare a conoscere l'area relativamente piccola in cui la maggior parte degli abitanti del mondo sotterraneo aveva la propria casa. Vi erano adulti che avevano passato nelle Gallerie anche cinque o dieci anni, eppure non conoscevano altro che l'ambiente imme- diatamente circostante, e come si arrivava ai pozzi, e alle scale che condu- cevano nelle cantine degli Aiutanti, o alle stanze degli amici. La maggior parte dei giovani conosceva bene il perimetro delle zone maggiormente a- bitate poiché ne pattugliava gli ingressi, che però spesso venivano cambia- ti. Vincent era l'unico a conoscere l'intera New York: ogni tombino, ogni presa di ventilazione, ogni tubo di accesso o drenaggio abbandonato. Co- nosceva vie alternative, e altre ancora, modi per arrivare da una sezione al- l'altra degli strati più profondi, anche quando non vi erano gallerie di col- legamento dirette; riconosceva ogni grata segreta, ogni sorgente sotterra- nea, ogni laguna sprofondata. Dalle Gallerie Dipinte alla Sala dei Venti, egli le percorreva tutte, spingendosi molto oltre le abitazioni di coloro che vivevano lì sotto, un regno di solitudine e di buio. E Kipper, che egli conosceva bene, non avrebbe avuto alcun problema nel fare una corsetta a Chinatown e ritorno. Il ragazzino lo guardò con fie- rezza. «Okay... ma questa volta dovrai pagarmi, d'accordo?» esclamò men- tre sgattaiolava giù per i pioli d'acciaio fino alla galleria trasversale e scompariva in un turbinio di cuoio, toppe di stoffa e stracci. Lentamente Catherine si guardò intorno. Dopo una settimana senza poter vedere nient'altro che un vago chiarore attraverso le palpebre bendate, persino la luce delle candele le pareva bril- lante, potente, così come l'aria che, sfiorandole la pelle, le procurava una sensazione dolorosa. Con dita tremanti si tolse anche l'ultima benda. Fino all'ultimo momento, malgrado Vincent l'avesse più volte rassicura- ta, aveva temuto che i suoi occhi fossero stati lesi. Altrimenti, perché a- vrebbe dovuto tenerli bendati? Ma anche in questo aveva fatto bene a fi- darsi di lui. Quel pensiero conteneva una verità nascosta, bruciante come la sua pelle sfiorata dall'aria: aveva creduto di non potersi mai più fidare di nessuno. Vincent le aveva detto che quella era la sua stanza. Lei si guardò intorno, per la prima volta, sebbene alcune cose le fossero già familiari; le aveva potute toccare non appena era stata in grado di alzarsi e aggirarsi per la camera, ma questa non era come se l'era aspettata. Era tutto ciò che quella voce calda e profonda, piena di compassione e di forza, le aveva comuni- cato. C'erano candele ovunque, l'aria era colma della loro luce e pervasa di fumo e di odore di cera. Nel chiarore vide il letto su cui era rimasta fino ad allora, con le morbide coperte patchwork, pelle e pelliccia, i grandi cuscini colorati e le lenzuola di lino logore e rammendate. C'erano una sedia inta- gliata con il sedile di cuoio; una cariatide di marmo con uno splendido vol- to antico salvata da qualche facciata da tempo demolita; un tavolo cosparso di libri; un poster di Einstein intento a succhiare un lecca-lecca, e altri di John Lennon, Amelia Earhart e Igor Stravinsky. Una grande vetrata piom- bata a ventaglio, color albicocca e azzurro, si affacciava su un luogo dove ardevano centinaia di lumi a petrolio. In un caminetto sorretto da due fau- ni, chiaramente recuperato in una villa di gente ricca come lei, si consuma- vano con lentezza alcune braci. Sulla mensola di marmo erano appoggiati vari oggetti: cassette di musica, carte, un modellino in bronzo dell'Empire State Building, e una pila di gialli in edizione economica. Con quegli spessi muri di pietra, i colori e i materiali nella semioscurità era una stanza assai confortevole, per il fisico, l'intelletto e la psiche; era la stanza di un uomo che è in pace con se stesso. Era cresciuto lì, si ricordò lei. Era stato abbandonato appena nato, le a- veva detto. Per un attimo, nel guardarsi attorno, aveva dimenticato le pro- prie paure, le terribili angosce, e si chiese che cosa doveva provare nel pro- prio animo un bimbo che sapeva che i genitori lo avevano abbandonato nell'attimo stesso in cui era venuto al mondo. E malgrado ciò Vincent era cresciuto fino a diventare l'uomo che era. Questi pensieri la aiutarono ad alleviare l'amarezza che sentiva dentro di sé, e per qualche secondo riuscì quasi a cancellare il dolore. Poi la paura la riprese. Aveva avuto paura fin dall'inizio, da quando aveva preso a preoccuparsi per la sua vista. E questa paura era cresciuta quando Vincent, in modo assai meno guardingo di quanto avesse creduto, le aveva parlato del modo in cui viveva la gente nel mondo di Sotto. Le aveva raccontato dell'abilità di medico del Padre, mal- grado le difficoltà e le condizioni di lavoro quasi primitive, di come coloro che vivevano lì Sotto dovevano raccogliere dagli scarti ciò che utilizzava- no, vivendo dei rifiuti della società consumistica alla quale avevano volta- to le spalle, o che aveva voltato loro le spalle. Il fatto che ci fossero così poche pasticche di antibiotico nella bottiglietta che il Padre aveva dato a Vincent la raccontava lunga, e Catherine se ne ricordava ogni volta che sempre quella, profonda e bella, una voce che avrebbe sempre sognato, già lo sapeva, anche se fosse vissuta fino a novant'anni. «Ho qualche teoria, ma non lo saprò mai di sicuro.» Le enormi mani fecero un gesto che sem- brò rimanere incompiuto. La luce balenò sulle unghie gialle e adunche. «Sono nato, e sono sopravvissuto.» Lo disse con semplicità, quasi fossero soltanto questi i fatti che contava- no, le linee che racchiudevano l'amara solitudine delle Gallerie, il luogo in cui era costretto a vivere nel timore di ciò che gli sarebbe accaduto nel mondo di Sopra. Lo disse con la coscienza di essere un diverso, che tale sarebbe sempre stato. In un certo senso era vero, soltanto ciò contava. Egli era ciò che era... con tutta la compassione, l'infinita pazienza, le cure che le aveva prestato con la sua dolcezza e la sua forza, e lei non riusciva a vederlo diverso da ciò che era. Né, adesso che lo osservava bene, riusciva a immaginarlo di- verso da come lo vedeva. Non era brutto. Le ricordava decisamente un grosso leone biondo, con la stessa forza e silenziosa grazia di un leone. So- lo gli occhi, azzurri come zaffiri, sotto una fronte irsuta e allungata, erano occhi da uomo, però lei non aveva mai conosciuto uomini il cui sguardo fosse tanto sereno e innocente. Rompendo appena il silenzio, i tubi ripresero il loro ritmo incessante, domande mormorate, risposte bisbigliate appena. Con leggera esitazione, quasi temesse di impaurirla ancora, Vincent fece un passo ed ella vide che tra le braccia aveva un involto di abiti, seminascosto sotto il mantello. Li lasciò cadere sul letto al suo fianco e lei riconobbe il soprabito di velluto che aveva indossato alla festa di Tom al Barron, e l'elegante e semplice a- bito nero che aveva cercato a lungo nei negozi, le scarpe col tacco a spillo e il foulard color prugna. L'abito era stato lavato per togliere le macchie di sangue, e persino rammendato con cura. Quasi non riusciva a guardarlo, tanto angoscioso era il ricordo. «Devi tornare nel tuo mondo.» Non aveva pensato che l'idea di tornare le avrebbe provocato quell'improvvisa sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco, come la reazione a un colpo di mazza all'addome. Lo guardò in silenzio, lasciando che le lacrime le riempissero gli occhi; le sembrava di sentire ardere ogni cicatrice, i punti di sutura al viso. Le sembrava che o- vunque fosse andata, quel furgone nero sarebbe stato ad attenderla, e a- vrebbe veduto nuovamente quel braccio tatuato, quella lama brillante, in ogni vicolo, in ogni ombra. Rimase a lungo in silenziosa attesa, desideran- do di potersi rintanare tra le lenzuola e rimanere per sempre in quella stan- za sepolta e illuminata dalle candele. «Dimmi che è un incubo» disse infine lei, sapendo ciò che l'uomo vede- va mentre le osservava il volto devastato. «Dimmi che non è mai accadu- to... che non può...» «Non è un incubo» rispose lui. «È accaduto, e tu sei viva.» Si inginoc- chiò davanti a lei, gli occhi luminosi nell'ombra del cappuccio. «Catherine, sei viva. E ciò che ti è accaduto ti renderà più forte, ti renderà migliore...» Lei si voltò e scosse la testa. «Io non ho la tua forza.» Parlava sconsola- tamente. Il pensiero di dover lasciare le Gallerie, quella stanza, che qual- cuno, persino suo padre, potesse vederle il viso deturpato, era terribile, u- n'umiliazione profonda e amara, quasi fosse il marchio di una punizione per colpe mai commesse. "Non avrei il coraggio sufficiente neanche per uscire di notte a Central Park nascosta sotto un cappuccio, come Vincent." pensò tra sé. La voce le uscì debole e acuta. «Non so come fare.» «Tu hai la forza necessaria, Catherine» ripeté Vincent, guardandola drit- ta negli occhi, quasi che con la sua voce, il suo animo, potesse trasferire la propria forza in lei. «È così, io ti conosco.» Ed era vero. Questo lei lo sapeva, lo capiva, senza domande, nel profon- do del cuore. Dopo un lungo silenzio lei si sporse e fece scivolare all'indie- tro il cappuccio dal volto di Vincent. Egli si ritrasse, e lei vide i suoi occhi vagare per la stanza quasi alla ricerca di una via di fuga, ma rimase in gi- nocchio davanti a lei. Alla luce delle candele vide che i suoi occhi erano chiarissimi, come tormalina; i capelli gli ricadevano fino alle larghe spalle in una cascata color zafferano; i corti peli del naso e del volto erano come velluto color sabbia, e le ciglia sopra gli occhi profondi rosseggiavano nel- la luce soffusa. Il taglio sulla fronte, dove lei lo aveva colpito con il riflet- tore, era già chiuso e quasi ricoperto dai lunghi capelli. Infine, l'uomo si alzò e le porse le mani che lei strinse con forza. «Vieni» la invitò dolcemente. «È ora.» Salirono attraverso le Gallerie, labirinto dopo labirinto, in un mondo o- scuro e segreto. Il suo mondo, pensò Catherine guardandosi attorno, come quella stanza dorata, con i suoi libri, le statue e il poster di Einstein... Perché non ho mai saputo che queste cose potevano esistere? Vi erano gallerie tagliate nella nuda roccia su cui Manhattan era stata e- retta; tufo e calcare, e grandi venature di granito, dove nell'acqua colata dalla roccia riluceva debolmente qualche traccia di fosforo; e grandi con- dotte di mattoni e cemento, che sicuramente risalivano ai tempi di Peter Stuyvesant; e baratri, lungo il bordo dei quali si camminava su passerelle, e dove l'eco dei loro passi si smorzava nell'abisso sottostante. In alcuni punti c'erano delle candele in nicchie lungo le pareti; in altri, vecchie lan- terne a petrolio o a cherosene erano appese dove il passaggio era partico- larmente arduo, o ripido. «Ma dove vi procurate il combustibile?» chiese, osservandolo piena di curiosità nello strano chiarore. «E le candele... devono essere migliaia...» «Le candele sono abbastanza facili da fabbricare» spiegò tranquillo Vin- cent. «E il combustibile... ci sono degli Aiutanti, gente del mondo di So- pra. Ci danno quello che possono, come il tè che ti ho preparato. Ma di so- lito hanno poco anche loro. In generale viviamo di rifiuti. È sorprendente quanta roba butti la gente del tuo mondo.» Come una musica quieta, lungo il fascio di tubi che correva lungo le pareti, tintinnavano messaggi. «Ma non sarebbe più facile togliere corrente elettrica dai cavi della città?» Gli occhi di lui sorrisero. «Anche Mouse continua a dirlo...» «Mouse?» «Un amico. Un genio, a modo suo. L'elettricità lo affascina. Vorrebbe mettere persino una linea telefonica. Ma qualsiasi attacco fisso scatenereb- be sospetti, e persino il più piccolo dei sospetti porterebbe alla morte del nostro mondo. Molti di coloro che vivono qui non hanno alcun altro luogo dove andare.» Catherine ripensò alle coperte sul letto di Vincent, fatte con quadrati di lana smagliata, riannodati e messi insieme, e alle stoffe anch'esse cucite in- sieme per costruire quel grande mantello stracciato indossato da Vincent. Mentre attraversavano una zona più popolata, Catherine guardò attraverso una porta socchiusa e vide due donne che lavoravano con macchine per cucire a pedale alla luce di un paio di lampade a cherosene e di una decina di grosse candele marroni. In un altro punto, passarono accanto ad alcuni tubi in PVC infilati nelle condotte dove passava il vapore per scaldare l'ac- qua, e, da molto lontano, a Catherine sembrò di udire il borbottio e l'ansi- mare di un motore a gasolio, probabilmente usato per far andare una pom- pa. In alto rombò un treno, a ricordarle la città, ignara, sopra di loro. Lon- tani dalle lampade e dalle torce delle zone abitate, le Gallerie erano buie. Vincent la guidò senza tentennamenti, tenendola per mano, poiché oltre al volto da leone egli aveva anche la stessa capacità di vedere nella notte. E quella mano, che l'aveva tanto spaventata, era soltanto la mano di un ami- co; una mano così forte, sentiva, da poter frantumare l'acciaio, ma anche leggera e sicura, come le mani di quei pochi ragazzi che, alle lezioni di Lei fece un passo esitante verso di lui e allungando le braccia lo abbrac- ciò. Sentì un brivido attraversargli il corpo, la tensione sfuggì col respiro trattenuto. Poi lui la strinse a sé e Catherine sentì, attraverso il cuoio e le lane consunte, i forti muscoli del suo petto, la seta ruvida della sua criniera che si mischiava ai suoi capelli. «Che cosa posso dirti?» bisbigliò lei. Tra le braccia di lui, con la testa premuta contro la sua spalla, era al sicuro, e in quel momento non deside- rava altro che rimanere lì per sempre. Nello scantinato sopra di loro si udi- rono dei passi decisi. Erano entrambi immersi nella luce diffusa che filtra- va dalla porticina e quando Vincent si ritrasse rapidamente, quasi per un ri- flesso condizionato, allontanandosi dalla luce e dal mondo di Sopra, anche Catherine scivolò nell'ombra assieme a lui. Per un attimo lei rimase in a- scolto, poi riconobbe la voce dall'accento dolce della Virginia del custode del palazzo che parlava a uno dei suoi assistenti. Era strano che dovesse essere proprio quella la prima voce che udiva nel tornare... I passi si allon- tanarono, le voci scomparvero. Lei si voltò. Vincent non c'era più. «Vincent!» Fece qualche passo verso l'interno della grande stanza buia, ma sapeva che non lo avrebbe mai ritrovato... che probabilmente non a- vrebbe ritrovato nemmeno il passaggio attraverso il quale erano arrivati. «Vincent...» Non ci fu risposta. Rimase a lungo nel buio, sentendosi totalmente annichilita, mentre da qualche parte nel palazzo i tubi tintinnavano, ricordandole i rumori del mondo di Sotto. Per un attimo pensò che avrebbe preferito attraversare quell'atrio nuda, piuttosto che con il viso ridotto in quello stato. Il confron- to reggeva, si disse. Aveva sempre indossato la propria bellezza, quella perfezione curata ed elegante, come un abito che proteggeva e insieme ce- lava la persona che vi era dentro. E ora era scomparsa. I giorni seguenti, lo sapeva, sarebbero stati ancora più brutti di quanto potesse immaginare, ma li avrebbe superati, era solo questione di pochi giorni. Si strinse nel soprabito, e drappeggiò il foulard attorno alla testa... per nascondere ciò che le avevano fatto gli uomini del furgone. Con passi sicuri, i tacchi alti che risuonavano sul cemento, oltrepassò la porta e rientrò nel suo mondo. Dal buio della galleria, Vincent la seguì con lo sguardo mentre scavalca- va il muretto di mattoni e si incamminava per il breve corridoio, fin quan- do non entrò nella luce bianca proveniente dall'alto, che la avvolse e la fe- ce scomparire alla sua vista. 5 Comporre il numero per quella prima telefonata le sembrò la cosa più difficile che avesse mai fatto in vita sua. «Jenny?» «CATHY?» «Sì...» Non riuscì a dire altro. La gola le si strinse per le lacrime, il diso- rientamento, sensazioni mai vissute, un'angoscia mortale. Lo sguardo sconvolto del ragazzo dell'ascensore, il silenzio orripilato del portiere le fe- rivano l'anima come frustate. Era riuscita ad attraversare l'atrio, a salire in ascensore, e quindi a percorrere il corridoio sino al 21B. Ma non ricordava bene come. Jenny, come sempre, fu pratica: una dote necessaria quando si doveva trattare quotidianamente con degli scrittori. «Dove sei?» «Sono a casa...» bisbigliò Catherine. Quella domanda così diretta riuscì a sbloccarle la voce che le moriva in gola. «Nel mio appartamento... sono appena tornata.» "Dio, che modo di dire" pensò distrattamente, "pare che io sia appena tornata dalle Bahamas." «Stai bene?» «Non proprio. Potresti venire... per favore?» «Arrivo tra cinque minuti. Devo portarti qualcosa?» «No.» In quell'attimo di pausa le sembrò di sentire la valanga di doman- de che riempivano la mente dell'amica. Dovette lottare per non scoppiare in lacrime, per evitare di balbettare una spiegazione, addirittura una scusa. «Vieni... ti prego.» «Arrivo subito.» Catherine riappese. La mano continuava a stringere il ricevitore color ro- sa talco... un dono impulsivo del padre, che aveva l'abitudine di regalarle tutto ciò che riteneva le piacesse, dagli orologi Rolex al secrétaire del 700 che teneva in quell'angolo... Ora la sua mano era sudata, e le pareva di tremare per il freddo, poi sentì che stava per svenire. Era la stanchezza, la risalita dalle Gallerie, si disse, cercando di respirare a fondo. Erano solo pochi giorni che camminava di nuovo, per questo era tanto esausta, aveva la nausea, provava terrore, e un desiderio incontrollabile di piangere, pian- gere per sempre. Vincent... "Non fare la stupida" si disse. Vincent non avrebbe mai potuto accom- pagnarla oltre quella porta nascosta nello scantinato, non poteva mostrarsi alla luce di questo mondo. Doveva farcela da sola. Aveva forza a suffi- cienza per resistere, lo aveva detto lui, che era riuscito a conoscerla così bene. Passò un autobus sulla Central Park West che rombava come un aereo, persino lì al quarto piano; si sentì il clacson di un'auto, il brusio incessante del traffico faceva vibrare l'aria grigia. Dopo il silenzio delle Gallerie quel rumore era orrendo, la disorientava, le riempiva la testa, martellante. Di nuovo allungò la mano verso il telefono ma poi si fermò, incapace di toc- carlo. Non era ancora il momento. Il suo sguardo cadde sull'orologio. Le otto e trenta. Era più di una settimana, si rese conto, che non vedeva un o- rologio, che non sapeva che ore fossero. Sottoterra era sempre notte. Oltre le porte finestre che si aprivano sul terrazzo l'aria si andava scurendo, nel crepuscolo, prima di essere inghiottita dal buio. Al di là di Central Park vedeva le luci della Quinta Avenue, incastonate come gioielli nell'intreccio delle fronde degli alberi. Era da più di una settimana che non usava un te- lefono. "Dio mio, manco da più di una settimana, povero papà." Eppure non riusciva a toccare l'apparecchio. Strinse insieme le mani per impedire loro di tremare, se le premette sulla bocca per impedire a se stessa di scop- piare in lacrime. Ma le dita sfiorarono i lembi ricuciti delle labbra e le di- stolse con uno scatto. "Non posso diventare isterica adesso," si disse con disperazione. "Se accade non riuscirò a smettere mai più, non posso pian- gere se chiamo papà, non posso..." Il senso di colpa per non averlo chiama- to per primo quasi le provocava un dolore fisico. Sapeva che quello avreb- be dovuto essere il suo primo pensiero, la sua prima telefonata, invece era rimasta davanti all'apparecchio telefonico per quasi trenta minuti, nell'o- scurità che avanzava, incapace di affrontare la reazione del padre. Una rea- zione nata dall'amore, dall'affetto, e che sarebbe stata colma di dolore e di orrore per lei. Infine, aveva chiamato Jenny. Del gruppo di ragazze co- nosciute a Radcliffe, Jenny Aronsen era l'unica della quale fosse rimasta amica, amica per quanto lo permettevano le loro abitudini, sempre più di- verse negli anni che erano seguiti. Nancy Hoyt, Nancy Tucker ormai, la sua amica più cara dai tempi della scuola, era sposata e abitava a Westport, nel Connecticut. Per un attimo la mano corse verso il telefono al pensiero dell'amica più cara, ma poi si fermò di nuovo. Non c'era nulla che Nancy potesse fare per lei, e se l'avesse chiamata adesso l'avrebbe solo spaventata e fatta preoccupare. Inoltre Catherine non era affatto convinta di poter dire più di due o tre parole senza scoppiare a piangere. Doveva chiamare suo padre. Sapeva che doveva chiamarlo. Però le mani le tremavano troppo per sioso, e la vide irrigidirsi non appena aprì. Jenny pareva voler dire qualco- sa, ma non trovò le parole, e un attimo dopo Charles Chandler si precipitò correndo nella stanza, seguito da un capitano di polizia corpulento, con i capelli bianchi. Un agente in divisa e un fotografo della polizia entrarono dietro a loro. Era ovvio che il padre avrebbe chiamato la polizia, pensò Catherine, chiudendo gli occhi per la disperazione. «Oh, tesoro mio» bisbigliò lui fis- sandola. L'orrore, l'angoscia e il senso di colpa per non aver saputo proteg- gerla lo assalirono, e si dipinsero sul suo viso. Era naturale che il suo pri- mo pensiero fosse stato quello di avvertire la polizia, senza pensare al fatto che questa avrebbe sicuramente insistito per seguirlo e poter interrogare la giovane donna. Senza pensare che a lei poteva non fare piacere mostrarsi a tre sconosciuti, che potevano esserci cose che non aveva potuto o voluto dirgli per telefono; aveva pensato unicamente a proteggerla, nel modo mi- gliore che conosceva, il modo che aveva sempre usato. Per un attimo lui la fissò, fissò il suo volto livido e gonfio, ora arrossato anche dal pianto, e la figlia pensò che anch'egli fosse pericolosamente vi- cino alle lacrime. «Oh, Cathy...» Lei aprì le braccia, rendendosi conto che, paradossalmente, era lui ad avere bisogno di lei e della sua forza, del suo perdono. Il volto del padre era terribilmente segnato da occhiaie viola per le veglie e lo stress; era di- magrito in maniera visibile rispetto a dieci giorni prima (dieci giorni!? E- rano davvero passati solamente dieci giorni?). Dieci giorni da quando, se- duto comodamente nel suo ufficio tappezzato di rovere, le aveva chiesto con aria preoccupata: «Cos'è che ti turba?». Ma quella era stata un'altra vi- ta, una vita in cui il suo problema più grave era stato quale vestito indossa- re alla festa di Tom al Barron. Quando la abbracciò, con forza disperata, lei strinse i denti e non disse nulla della costola fratturata, per non addolorarlo più del necessario. Ma dentro di sé si sentì svuotata, delusa, come se lui non avesse risposto alle sue grida di aiuto. «Cathy» balbettò Charles Chandler mentre scioglieva l'abbraccio e si se- deva sul divanetto accanto a lei, «questo è il capitano John Hermann della polizia di New York.» L'uomo corpulento con l'impermeabile sgualcito le fece un cenno del capo, la guardò in viso e quindi distolse lo sguardo. «Sta lavorando al tuo caso. Prenderanno gli uomini che ti hanno ridotta in que- sto stato, gliela faranno pagare.» "Pagare cosa?" pensò Catherine esausta; desiderava solo dormire, si sen- tiva nuda di fronte a quegli sconosciuti. «Vuole solo farti qualche domanda.» «No.» Lei si ritrasse, scosse disperatamente la testa, i suoi capelli spor- chi sbatterono contro le guance; poi si voltò, cercando di soffocare un ge- mito improvviso. "Maledizione, NON piangerò davanti a loro." Lo aveva promesso a Vincent. Glielo doveva. Le avevano ridato la vita; e lei avrebbe ricambiato con il proprio silenzio. «Se lei ci potesse fornire una descrizione degli uomini che le hanno fatto questo ci sarebbe di grosso aiuto» disse Hermann, estraendo un taccuino dalla tasca dell'impermeabile. «Sono dieci giorni che lei manca, signorina Chandler. Stavamo aspettando una richiesta di riscatto.» «Per favore. Non voglio parlarne.» «La tenevano prigioniera?» «No» balbettò. «No. Non ero... io non... non posso, adesso.» Nell'alzare lo sguardo fu colpita dal flash di una macchina fotografica, che la fece sobbalzare. «Solo per l'archivio, signorina» spiegò il fotografo della polizia, quasi per giustificarsi. In piedi sulla porta della cucina, Jenny strinse le labbra ma non disse niente; gli occhi scuri bruciavano di indignazione e rabbia per come veniva trattata l'amica. «Qualsiasi cosa lei possa dirci ci sarà di aiuto, signorina...» «Tesoro mio, eravamo tanto in pena.» Suo padre iniziava a riprendersi, ma con la coda dell'occhio lei scorgeva ancora i segni della tensione e del senso di colpa sul suo viso. «Non posso.» Inghiottì. «Non posso... parlare... ora. Più tardi...» Hermann sembrò infastidito di non poter stilare il proprio rapporto, le labbra gli si torsero come per un rimprovero, e Catherine si sentì assurda- mente in colpa per averlo deluso. Sapeva che avrebbe dovuto dirgli qual- cosa, cercare di mettere insieme una storia, una sequenza di eventi che suonasse convincente, ma che non conducesse alle Gallerie, a Vincent. La sua mente era vuota. I pensieri, annebbiati dalla spossatezza e dalla pena, si rincorrevano e ritornavano su se stessi, convincendola che aveva solo bi- sogno di sdraiarsi e di dormire, che voleva soltanto che se ne andassero tutti, che smettessero di guardarla; voleva far cessare nelle loro menti quel bisbigliare di speculazioni su che cosa le era realmente accaduto. Andate via! pensò amaramente. Vi prego, vi prego, VI PREGO, andate via... Passò un'eternità prima che se ne andassero. Jenny, pratica come sem- pre, scomparve, per riapparire solo quando i poliziotti stavano per andar via, con una busta di provviste sottobraccio. Era naturale che, dopo dieci giorni, nel frigorifero non ci fosse nulla di commestibile. Non che Catheri- ne cucinasse molto, in casa; di solito mangiava fuori, con Tom, o con suo padre, o un altro degli uomini con cui di tanto in tanto si vedeva. Sul letto, con indosso ancora l'abito da sera nero, sgualcito ma rammendato, udì la voce di Jenny discutere pacatamente col padre, convincerlo che la cosa migliore era di lasciarla dormire. «Rimarrò io con lei stanotte, nel caso si svegliasse» disse l'amica; la voce morbida si udiva appena sopra il rumore dell'acqua che scorreva scrosciando nella vasca da bagno. Era quasi mez- zanotte. A Catherine pareva di aver camminato per giorni, barcollando, at- traversando quell'inferno di sguardi, di mormoni, di gente che la circonda- va... Le Gallerie, Vincent, quello strano, indistinto mondo di Sotto le pare- vano infinitamente lontani. «Cathy?» Sollevò il capo e vide la figura del padre immobile sulla so- glia. La stanza era quasi completamente buia. Con altre persone presenti, il buio non la intimoriva, e si sentì meglio, più sicura, perché nelle ombre in- tuiva, istintivamente, la presenza di Vincent. La luce che filtrava attraverso le porte finestre metteva in risalto il contorno dei mobili, le linee moderne, interrotte di tanto in tanto da un pezzo del diciottesimo secolo, e faceva ri- saltare i chiaroscuri dei due quadri astratti appesi alle pareti. Anche il pa- dre era solo un contorno nell'ombra, un bagliore d'argento sulla chioma bianca. La sua voce era esitante, incerta. «Grazie» bisbigliò lei, sapendo che lui aveva ancora bisogno di essere rassicurato, che aveva ancora bisogno di... cosa? Di sapere che lei lo per- donava per non averla salvata? Per non essere stato un padre capace di im- pedire ciò che era accaduto? «Grazie d'essere venuto subito... sei tanto ca- ro...» Bisognava dimenticare che i suoi sforzi per aiutarla avevano portato alla presenza di tre sconosciuti che l'avevano guardata, interrogata, le ave- vano chiesto chi l'aveva picchiata, accoltellata, sfigurata, e gettata da un furgone in fin di vita. No, questo non gli andava detto. Che strano, pensò lei, aver trovato coraggio e forza, non solo per se stes- sa, ma anche per lui. Più tardi, dopo essersi fatta il bagno e lavata i capelli, con indosso una morbida camicia da notte, si stese fra le lenzuola fresche e familiari del suo E lei rimaneva lì, stringendosi addosso il vestito da sera stracciato, fissan- dolo in silenzio, incapace di parlare, sapendo che lui la vedeva appena, non voleva vederla, non voleva vedere il dolore, la bruttura, non voleva vedere ciò che le era accaduto, perché ciò lo metteva in cattiva luce come genito- re. «Mettiamo insieme un po' di gente» diceva con una sua espressione ri- corrente, «facciamo una bella festicciola. Al mio circolo? Allora chi invi- tiamo?» "No" pensò lei nel suo stato di stordimento "non è stato così. Non si è ri- tratto quando mi ha vista, non ha distolto lo sguardo che per un attimo; è stato affettuoso, compassionevole, mi ha stretta a sé e mi ha cullata, come una bambina, tra le sue braccia." «Devo scappare.» Lui sorrise, sempre senza guardarla. «Ho una riunione del consiglio.» Dalla giacca tirò fuori un fascio di banconote. «Tieni... comprati un abito nuovo... basteranno.» (O forse aveva detto: «Comprati una faccia nuova»?) Le mise del denaro tra le mani. «Tieni, prendine anco- ra, forza.» Le richiuse la porta in faccia. Lei rimase nel corridoio, le mani piene di denaro, e si accorse di non avere un posto dove metterlo. «Papà» bisbigliò da dietro il pannello di rovere. «Papà!» Quando i poliziotti se n'erano andati si era messo a parlare di chirurgia plastica; aveva detto: «Il migliore del paese»; e anche: «Stanno cercando gli uomini che ti hanno fatto questo; non la scamperanno.» «Tesoro mio, oh, bambina mia» con quella voce spaventata, scioccata, e debole. Non le aveva chiesto se aveva ancora paura; non aveva detto: «Quando te la senti- rai.» Invece le aveva chiesto perché non aveva voluto dire niente al capita- no Hermann, perché non aveva detto, nemmeno a lui, dov'era stata, cosa le era successo. Non aveva detto: «Hai bisogno di qualcosa?» Lui sapeva sempre ciò di cui lei aveva bisogno, e glielo faceva avere, prima ancora che lei riuscisse a formulare il desiderio. («Non preoccuparti, tesoro mio, puliremo il latte versato, te ne comprerò un'altra bottiglia, e sarà come se non fosse mai accaduto.») Lei barcollò per il corridoio, lunghissimo come tutti i corridoi dei sogni, le mani piene di denaro, le banconote che sfuggivano e cadevano a terra, come impronte sul tappeto di lana beige. Impiegati, segretarie, commessi la sfioravano passando, tutti splendidamente vestiti... Come mai non aveva mai notato quanto fossero tutti eleganti? Quanto tutti ci tenessero... e le sorridevano, come facevano di solito quando lei arrivava in ritardo, e non dicevano nulla perché era la figlia di Charles Chandler. «Hai trascorso una bella vacanza?» le chiese un collega, senza guardarla, se non di nascosto, per un attimo. «Hai... un magnifico aspetto.» «Dove sei stata?» «Ci sei mancata.» Come la schiuma della scia di una nave i commenti mormorati ritorna- vano nei pensieri di chi la salutava a quel modo: «Che pena, poverina.» «Ma cosa le è successo?» «Era così carina.» «Ma è stata anche violenta- ta?» Lei cominciò a correre. Non era più in un corridoio, ma in un vicolo. Dietro di lei si accesero dei fari di macchina, si udì lo stridere feroce delle ruote sull'asfalto, la sagoma scura di un furgone oscurò i lampioni alle sue spalle. I suoi tacchi alti si piegavano e scivolavano sull'asfalto, non riusci- va a correre abbastanza velocemente, il panico le montò nella gola, scuo- tendola come un urlo senza voce, mentre cercava di fuggire come al rallen- tatore e il furgone diventava sempre più grande, sempre più vicino. Lo sportello sferragliò e si aprì, un uomo le disse qualcosa, non sapeva cosa, un coltello sfavillò in un pugno tatuato, e fu gettata a terra... Era supina sul pavimento, ma non era il pavimento di nudo e freddo metallo del furgone. Era invece la morbida moquette arancio scuro della sala da ballo del Bar- ron... Come mai ricordava che era di quel colore?... Si sollevò sui gomiti, circondata da un mare di gambe. Un'orchestrina suonava una versione sdolcinata di Eine Kleine Nachtmusik; attorno a lei galleggiavano risate come in una sottile nebbia cristallina; i bicchieri e le posate da caviale tin- tinnavano e un cameriere disse qualcosa in spagnolo. Udì la voce di Tom e si voltò a guardare. Era accanto a una splendida donna bionda con un abito pantalone di lamé; avevano i bicchieri in mano e non la videro a terra, tra i loro piedi, con l'abito strappato e i capelli sporchi, il viso sfigurato. «Mi di- spiace molto per lei» diceva Tom con un tono di voce che lei ricordava; quel tono metà di protesta e metà di scusa, che utilizzava sempre per af- fermazioni quali: «Beh, sì, certo, anche i senzatetto vanno protetti.» «Ma cosa si può fare, la vita continua, non è vero?» Una delle sue frasi preferi- te, accompagnata quasi sempre, come in questo caso, da un sorrisetto sba- razzino e da una scrollatina filosofica delle spalle che bandiva definitiva- mente dalla mente l'argomento. La donna annuì piano, con la testolina ac- conciata alla perfezione. «Era una ragazza interessante, prometteva bene. Ma poi si è rivelata per quello che era veramente, una fallita.» Mise il braccio intorno alla vita della donna, e un uomo, che Cathy riconobbe co- me l'assessore all'Edilizia Pubblica, fece un cenno di assenso. Alle sue spalle qualcuno cominciò a ridere. Catherine si guardò intorno, il respiro le si tramutò in singhiozzo. "Non è stata colpa mia" cercò di dire quasi piangendo, ma le labbra sfigurate non riuscirono ad articolare le pa- role. "Quel che è successo non è accaduto per colpa mia." Colpa sua o no, in ogni caso non era più bella, non era più perfetta... e quindi non era più accettata. Era solo se stessa. Qualcuno sghignazzò. Una donna puntò verso di lei un dito laccato di viola, un altro degli assessori presenti non riuscì a trattenere il ghigno die- tro un bicchiere di Martini. Le risate presero forza, ridevano quasi tutti, o- ra; alcuni, per pietà, o per salvare la forma, tentarono di essere cortesi, si voltarono per non vederla, si nascosero la bocca con le mani; altri sghi- gnazzavano senza ritegno e indicavano quella ragazza, stracciata e brutta, accasciata a terra. E lei si sentiva debole, come quando si era svegliata la prima volta. Sapeva di non essere capace di stare in piedi, se voleva fuggi- re doveva farlo carponi. Si sentiva intrappolata, agonizzante, senza difesa, e cercò disperatamente qualche modo per uscirne... ...e a un tratto vide Vincent, forte, arcigno, e bello, sulla soglia, alle spal- le della folla. Le ombre del cappuccio nascondevano quello strano volto inumano, ma negli occhi erano visibili la tristezza e la simpatia, e l'affetto. Lentamente, lei si rimise in piedi. Nella solitudine delle sue stanze Vincent sedeva con la testa china sulle mani aperte. Un volume di Shakespeare giaceva aperto di fronte a lui, ma l'uomo non aveva letto una riga durante l'ultima mezz'ora. Tutt'intorno bruciavano candele, dando vita a quell'eterna semioscurità del mondo di Sotto, ma egli sapeva che era metà mattino. Tra breve avrebbe dovuto muoversi, doveva guidare un gruppo di ragazzini incontro a uno degli Aiu- tanti che aveva promesso loro una buona scorta di cibo; si trattava di com- piere una lunga camminata fino a Harlem, attraverso passaggi lontani dalla zona abitata e illuminata. Ma ora, solo e circondato dal silenzio, riusciva a percepire chiaramente gli orrori silenziosi dei sogni di Catherine. Sapeva che le appartenevano, così come aveva saputo che quei mormorii di emo- zione lontani, che giungevano a lui come il tintinnare dei tubi, provenivano dal suo cuore. Erano sensazioni confuse, poiché il cervello, come soleva ripetere suo padre, non ha terminazioni nervose: è il corpo che vive il dolo- re e la gioia. Mentre si calava lungo la scala a pioli sotto lo scantinato della palazzina dove abitava Catherine, mentre si muoveva nelle buie Gallerie inondate di vapore, e superava un abisso e quindi scendeva la Scala Lunga, aveva sentito tutta l'angoscia e la paura di lei. Allora aveva concluso che si trattava della coscienza che lui aveva di ciò che lei doveva affrontare tor- nando nel suo mondo. non può lasciarmi in pace?» Il suo viso allungato, in cui si mescolavano le caratteristiche della razza negra e di quella vietnamita, era stupito; guardò l'uomo con incertezza. Già, perché? pensò Vincent, a cui piaceva la riser- vatezza di Ho, ma che provava anche simpatia per il desiderio di Luke di sapere come si sarebbero potute mettere le cose. «Forse perché ha capito che sei l'altra metà della sua vita.» Sospirò di nuovo; queste riflessioni erano troppo profonde per una ragazza di sedici anni. La luce della lanterna di Kipper illuminava le volte della condotta che stavano percorrendo, con le travi di ferro arrugginito. Vincent si mise alla testa del gruppo per aprire la serratura di una pesante porta; dovette spin- gere con la spalla, finché il metallo cominciò a muoversi, cigolando. Mouse applicava di frequente meccanismi automatici ai vari cancelli, ma reperire i pezzi necessari era molto difficoltoso e così la maggior parte del- le aperture venivano azionate a mano. Salirono una lunga scala costruita con legname di recupero. La luce del- le lanterne proiettava ombre sulle pareti curve della condotta, e si rifletteva distorta sui rigagnoli lungo le pareti. Ogni tanto si incontrava una condotta laterale le cui imboccature erano chiuse da reti per polli e filo spinato, allo scopo di impedire l'accesso a gallerie secondarie e sconosciute; in altre, queste aperture rimanevano spalancate come bocche affamate. Ogni tanto vi erano cartelli che avvertivano del pericolo. I ragazzi camminavano in si- lenzio, contando ramificazioni e ingressi, come avevano insegnato loro Vincent e gli altri. In questi luoghi, così lontani dalle zone abitate delle Gallerie, era pericolosamente facile perdersi. Lungo la parete curva alla loro sinistra, i tubi risuonarono di una vibra- zione frenetica di messaggi; in qualche luogo, in basso, si udiva echeggiare nel buio un gocciolio di acqua. Sopra le loro teste passò un'invisibile ven- tata: l'espresso per Lexington Avenue. «Ma c'è qualcun altro?» chiese Vincent dopo un lungo silenzio, in cui sentì la disperazione, la rabbia della ragazza al suo fianco, forte come un battito d'ali contro le sbarre. «Magari ci fosse» sospirò Ho. «Voglio dire, lui capirebbe. No, è solo che... che Luke non mi piace! Non come vorrebbe lui, almeno. E non mi vuole lasciare in pace.» Vincent sospirò, ricordando l'adorazione ansiosa che aveva veduto negli occhi del ragazzo. C'era di peggio, pensò, che amare qualcuno che non si sarebbe veduto mai più; e da questa considerazione riuscì a trarre sollievo. Catherine era tornata nel suo mondo, mentre per lui c'era, e ci sarebbe sempre stato, solamente questo. «Vincent?» Per un attimo, prima di aprire gli occhi, Catherine s'immagi- nò di essere di nuovo al sicuro nelle stanze di Vincent. Il primo barlume di coscienza le fu dato dal sordo dolore del viso coperto dalle bende e le i- nondò la mente di immagini passate, prima che l'odore di medicinali e di- sinfettanti, mescolato all'odore nauseante di fiori recisi, e il rumore del traffico proveniente dal basso le ricordassero dove si trovava. «Cathy?» disse una voce maschile. «Sono il dottor Sanderly.» La mente di lei, annebbiata dagli anestetici e dai barbiturici, afferrò il nome, e riuscì a ricordare il padre che diceva: «Sanderly è il miglior chi- rurgo plastico in circolazione. Lo farò arrivare in volo da Los Angeles. Tu non preoccuparti. Non preoccuparti di niente.» ("Comprati un vestito nuovo" mormorava una voce da dentro un pozzo in fondo alla sua mente. "Comprati una faccia nuova".) Allontanò quei pensieri. Non era colpa del padre se il suo primo impulso era sempre quello di far finta che nulla fosse accaduto. "Se sembra che va- da bene, allora va bene, giusto?" Se non fosse stato così, egli sarebbe stato un cattivo genitore. Come Vincent, anch'egli era quel che era. Ciò che le dava era tutto ciò di cui era capace. La sua bocca le sembrava di una taglia troppo piccola, come qualcosa comprato a poco prezzo anche se della mi- sura sbagliata. «Sono in ospedale?» «Sì. E starà benissimo.» Era in piedi accanto al letto... riusciva a sentire il suo dopobarba, Ara- mis. Anche Tom usava la stessa marca. Ora iniziava a ricordare la sua vo- ce, prima dell'operazione, quando le aveva disegnato orrendi cerchietti sul viso con un pennnarello. L'odore dei fiori era intenso e riempiva la stanza. Rose e... e che cosa? C'era dell'altro. Che assurdità mandarle dei fiori che per giorni e giorni non avrebbe potuto vedere. Si chiese che ore fossero. Suo padre aveva dovuto senza dubbio incontrare qualcuno dei suoi clienti più importanti, ma sarebbe venuto non appena fosse stato libero. «Deve essere stata un'esperienza terribile, mia cara», proseguì Sanderly accarezzandole una mano. «Ma ormai deve abbandonarne il ricordo... la- sciarsi dietro le spalle ogni cosa.» Intendeva dire, come lei immaginò, che avrebbe riavuto il suo bel volto esattamente come prima, quando i punti si fossero cicatrizzati e il gonfiore fosse calato. Sopraffatta dalla stanchezza che le penetrava fino nelle ossa, confusa dalla dose massiccia di etere e stordita dagli analgesici, ora non le importava e non sentiva altro che una profonda sofferenza. Si era lasciata tutto alle spalle; lo sguardo di orrore e di nausea sul volto del padre quando era entrato dalla porta del suo appartamento e l'aveva veduta seduta sul di- vano; il modo in cui l'addetto all'ascensore l'aveva fissata esclamando: «Si- gnorina Chandler!»; le infermiere dell'ospedale che al suo arrivo, infagot- tata come Vincent in una mantella con il cappuccio calato sul volto, l'ave- vano fissata, per poi subito distogliere lo sguardo. Tante piccole umilia- zioni che, grazie a Dio, grazie al denaro del padre, non sarebbe stata co- stretta a subire per il resto della vita, o per tutti gli anni che le sarebbero stati necessari per racimolare i soldi e permettersi un'operazione. Tuttavia non avrebbe mai dimenticato ciò che aveva vissuto. Lasciava dietro di sé il battere ritmato dei tubi nelle Gallerie; la forza delle braccia di Vincent intorno alle sue spalle quando aveva premuto la sua guancia fe- rita sulla sua spalla; il bronzo e il velluto del suono della sua voce. E davanti a sé... Che cosa c'era? Sanderly proseguì, professionale e cortese. «Se c'è qualcosa che vuol dirmi, di cui vuol parlarmi... qualsiasi cosa io possa fare per lei, basta che me lo dica.» Già attraversava la stanza verso la porta. Sentì la mano di lui poggiarsi sulla maniglia. Aveva sicuramente altri pazienti da visitare. Comunque era stato gentile e si costrinse a rispondere: «Grazie!» malgrado il dolore alla bocca. Udì la porta aprirsi e richiudersi e rimase sola con il profumo dei fiori. Ironicamente soggiunse, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Potresti leggermi gli ultimi capitoli di Grandi speranze.» 7 Passarono otto mesi. La vita, come osservava spesso Tom Gunther, con- tinuava. Sopra e Sotto. Per Catherine fu un periodo di cambiamenti; suo padre si offrì di mandarla ovunque desiderasse... Parigi, le Bahamas, Can- cun. Lei lo ringraziò, con la voce sorridente malgrado il dolore al viso. Gli strinse forte le mani mentre stava seduto sulla rigida sedia di plastica ac- canto al suo letto in ospedale: aveva deciso di rimanere a New York. Era stato proprio quel giorno che gli investigatori erano stati da lei. Il capitano Hermann, sempre col suo impermeabile stropicciato, le aveva fat- to moltissime domande, i vispi occhi azzurri che perforavano quelli di lei come trapani: «Mi descriva il furgone. Mi descriva gli uomini. Si sono par- rebbe lentamente impallidito, abbastanza da essere nascosto dal trucco. Tom aveva impercettibilmente modificato la sua gestualità, evitando di ba- ciarla e carezzarla da quel lato del viso. Lei fece una smorfia, e accantonò l'argomento Tom, raccolse la borsetta e tornò nella sala. Suo padre alzò lo sguardo dai due cappuccini fumanti sul tavolo e sorrise nel vederla. «Mi sono sempre chiesto che cosa succede in quelle toilette per signore» commentò, e Catherine gli lanciò un sorriso malizioso. «Vuoi dire le battute di spirito, i commenti mordaci?» «Precisamente.» «È più o meno come nella toilette degli uomini al tuo circolo.» Lui sì mostrò indignato. «Nossignora, quella è tutta un'altra faccenda.» «Sì, l'ho già sentita, questa.» Lui rise, felice semplicemente di poter essere insieme con lei. Persino adesso, pensò Catherine, non si è del tutto ripreso dal trauma della mia scomparsa. Pareva invecchiato, il volto sembrava maggiormente segnato sotto i capelli bianchi. Per quanto tentasse di far finta che l'incidente, ormai ufficialmente chiuso, non fosse mai avvenuto, come lei anche lui aveva imparato che queste cose potevano accadere. E la figlia era davvero tutto ciò che lui aveva. Il denaro, l'appartamento, i viaggi in Europa, il posto nello studio e la lunga ricerca tra i suoi conoscenti d'affari di un giovane che fosse precisamente ciò che lei desiderava... facevano tutti parte del prezzo che lui era convinto di dover pagare per mantenerla al suo fianco nella vita. Questo rendeva tanto più difficile ciò che lei aveva da dirgli. Sorseggiò il cappuccino ascoltando le mani del pianista dall'altro lato della sala giocare sui tasti, malgrado il chiacchiericcio monotono degli av- ventori. L'istintiva cortesia dei genitori e la loro spontanea gentilezza ave- vano fatto sì che lei mettesse sempre tatto e attenzione nelle cose che dice- va, col risultato che ora non aveva idea di come iniziare un discorso che sapeva avrebbe ferito quell'uomo tanto amato. Infine si decise, prima ne parlavano e prima sarebbe passata. «Papà» cominciò, posando la tazza e guardandolo diritto negli occhi. «Io non torno in studio.» La mano del padre, calda e forte, coprì quella di lei. «Ma certo, cara. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Fai tutto quello che credi.» Lo sapeva che avrebbe risposto così. Tirò un respiro profondo. «Io non torno più.» Prima che la smorfia gli corrugasse la fronte e gli abbassasse le folte so- pracciglia argentee, prima che apparisse quella luce di difesa nei suoi oc- chi, lei capì: lo aveva ferito. Subito proseguì: «Papà, tu lo sai, io non sono molto portata per la consulenza aziendale.» «Stupidaggini!» si arrabbiò lui. «Con gli studi che hai fatto, e con la tua intelligenza? E sei appena agli inizi, poi.» «Sono due anni che ci lavoro, ed è stato un disastro. E tu lo sai benissi- mo.» Lui scosse ostinatamente la testa, e lei capì che non lo sapeva... non vo- leva saperlo... e che ora avrebbe voluto rimproverarle di aver iniziato quel discorso. «Hai solo bisogno di esperienza, Cathy.» «No.» Strinse le mani di lui tra le sue, e desiderò con tutta se stessa che il genitore riuscisse a capirla, ad ascoltarla almeno. «Non è più come pri- ma.» «Come?» chiese lui, ricordandole, in questo, Tom. «Che cosa è cambia- to?» «Io!» rispose Catherine. «Ciò che è accaduto ha cambiato me.» Charles Chandler distolse lo sguardo. Quella era un'altra di quelle cose di cui non voleva sapere niente. Intuitivamente lei sapeva che il padre non voleva che qualcuno gli ricordasse che era accaduto qualcosa. Si sporse verso di lui, costringendolo a guardarla. «Devi accettarlo.» Lui non rispose, la guardò tentando di nascondere la rabbia e il dolore nel suo sguardo, timoroso che qualsiasi cosa avesse detto l'avrebbe allon- tanata ancora di più da lui. La giovane donna proseguì lentamente, cercan- do di delineare i pensieri che l'avevano accompagnata nel corso di quegli ultimi due mesi, da quando era finalmente stata dimessa dall'ospedale, cer- cando di esprimersi in termini che lui fosse capace di comprendere... che lei stessa potesse capire. «Quando accade una cosa del genere, si iniziano a vedere le cose in maniera diversa. Si incominciano a vedere il dolore e la sofferenza altrui, le vite che vengono distrutte... così, come se niente fosse, "cose che succedono..."» Scosse la testa, aveva messo il dito proprio sull'a- spetto dell'aggressione che più l'aveva sconvolta... la noncuranza con cui era stata eseguita, come se si fosse trattato di schiacciare una mosca. «Io voglio essere d'aiuto a qualcuno» proseguì, dopo aver esitato a lungo. «A- vevo pensato a cose come il volontariato, o le associazioni per l'infanzia, ma ho delle capacità professionali, voglio... oh, non so bene, voglio sen- tirmi coinvolta in qualcosa per cui valga la pena di lottare. C'è ingiustizia ovunque. Io non sono l'unica cui sia successa una cosa del genere, sai?» «Stai reagendo emotivamente a quello che ti è accaduto» disse subito Charles Chandler, prontissimo a fornire una spiegazione piena di tatto, come una mano nuova di vernice. «Io questo lo capisco, certo.» Le prese di nuovo la mano e la carezzò, come usava fare quando lei era una ragaz- zina, o come quando tornava dal college confusa e stordita alla ricerca di qualcosa nella vita che avesse un significato più profondo dell'essere cari- na e divertirsi con gli amici. «Ma non per questo devi gettare via ciò che hai fatto. Non essere frettolosa, Catherine. Hai solo bisogno di tempo.» «Io so di che cosa ho bisogno» replicò lei, e lui distolse di nuovo gli oc- chi. «Papà, io non posso tornare come ero prima. Io ho... ho già sprecato troppo tempo a stare nascosta. E fuggire ora significherebbe fuggire per sempre.» Dall'altro lato della stanza il pianista attaccò Smoke Gets In Your Eyes; camerieri in giacca bianca si muovevano in quel mare di teste e di fumo di sigarette. Il brusio di discorsi più o meno interessanti arrivava a tratti da ogni direzione: «Come no. Olio e aglio... certo poi uno puzza come un ita- liano...» «... tu non hai idea di quanto sia difficile digerire la gente dello spettacolo» «... io posso averlo per 49 dollari e 95, capisci. Posso averlo a prezzo d'ingrosso...» «... ma non voglio un rapporto di coppia, è troppo vincolante... io voglio solo del sano, eccitante e...» Suo padre tentò di ritirare la mano, ma lei gliela strinse tenendogliela ferma. «E ho bisogno del tuo incoraggiamento» disse pacatamente. Lui rimase immobile a lungo, cercando di fare ordine nelle sue emozio- ni, forse riconoscente che almeno di una cosa lei aveva bisogno, qualcosa che egli poteva darle. Forse iniziava a capire che lei, e non lui, era respon- sabile della propria felicità. Infine le sue dita risposero alla pressione di quelle della figlia. «Avevo sperato...» iniziò, ma poi scrollò le spalle. «Mah, forse sono stato uno sciocco, però avevo sperato che tu saresti rima- sta nello studio. Che saresti stata tu a sostituirmi, un giorno. Ogni uomo desidera che i figli proseguano ciò che lui ha lasciato. E avevo pensato che... Non era solo un'illusione, vero?» Lei sospirò; lo amava, e avrebbe voluto fargli capire che il fatto che lei scegliesse la propria vita non significava che sarebbe uscita da quella di lui. Ma disse soltanto: «No, allora non lo era. Ma adesso le cose sono cambiate.» Con Tom fu meno facile. «Non essere ridicola!» le disse quando gliene parlò mentre tornavano a piedi da una cena, lungo la Settantaduesima verso l'appartamento di Cathe- rine sulla Central Park West. Erano i primi di luglio, e alle nove di sera la città indossava l'abito del crepuscolo come una veste di magiche stelle l'operazione. Quando lui l'aveva invitata di nuovo fuori, lei aveva ripreso a vederlo più che altro per il piacere di rivivere in parte la sua vita di prima. Ma anche questo rapporto, ora che aveva perduto ogni interesse per gli uomini, sarebbe cambiato, come erano cambiate tante altre cose nella sua vita. Benché il giovane avvocato la trattasse come prima, colmandola di regali, accontentando ogni suo desiderio, lei sapeva con assoluta determi- nazione che non aveva più alcun desiderio di portarselo a letto. Persino pensare che lo aveva fatto le pareva strano, quasi un evento accaduto anni prima, o nella vita di un'altra persona. E in effetti era così. Non riusciva comunque a trovare un buon motivo per rompere, e lui sta- va molto attento a non fornirglielo. Così lasciò che le cose andassero avan- ti. Lui la stringeva ancora... cosa che lei gli permise malgrado quella stret- ta, quella forza, quella delle braccia di un qualsiasi uomo, la rendesse dolo- rosamente ansiosa. Era deciso a convincerla. «Non devi punire te stessa per quello che è accaduto. La vita continua, lo sai.» Sulla Settantaduesima passò sfrecciando un furgone con i fari accesi. Catherine rabbrividì quando la luce li colpì e guardò il furgone che era vecchio, giallo e dipinto con dei grandi fiori psichedelici, stile anni Sessanta. Lei fece un passo e si liberò dalle sue braccia. «Non è affatto ciò che intendo fare.» Si incamminò verso il suo palazzo, un edificio alto e antiquato, sulla cui facciata bianca si aprivano grandi finestre dalle persiane blu con la vista sul parco. Tom la fermò, tenendola per un braccio. Fissandola intensa- mente con gli occhi scuri disse in tono pacato: «Non mi hai raccontato tut- to quello che ti hanno fatto.» «Come puoi sapere se io ti ho detto "tutto" o no?» Lui la strinse più forte. «Ti hanno violentata?» Lo sguardo di lei incontrò il suo con calma. «Perché? Cambierebbe qualcosa per te?» Tom socchiuse gli occhi. «Naturalmente no.» Le prese ancora la mano e accompagnò la fidanzata al portone. «Cathy, non credo che questo sia il periodo giusto per prendere decisioni vitali.» Si chinò a baciarle le labbra. «Non fare cose di cui... ci pentiremmo entrambi.» «Il peggio è che potrebbero avere ragione loro» stava dicendo il giorno dopo, mentre lei e Jenny camminavano all'ombra sul sentiero coperto da un pergolato che conduceva al caffè del molo nel parco. Era una calda giornata estiva e New York appariva afosa e immobile e irreale. La luce del sole brillava sull'acqua del laghetto pieno di barchette a remi e piccole vele. Sotto gli ombrelloni gialli e arancioni sulla grande terrazza, era as- siepata una folla di gente; sulle collinette intorno c'erano famigliole con grandi plaid colorati, bambini e cani che giocavano a frisbee. Appena oltre un filare di alberi, pareva che l'intera popolazione del mondo libero si fos- se radunata, per un gigantesco, ma tranquillo, ingorgo che intasava la Quinta Avenue. «Voglio dire, può essere benissimo che il mio subconscio mi porti a cercare di riscattare il fatto di essere ricca, di avere tentato di non vedere tutta la sporcizia e la miseria che ci circonda. E di essere la fi- glia di mio padre.» Si infilò le mani nelle tasche della giacca di lino e pie- gò la testa osservando l'amica. «Io so di aver passato la vita evitando di vedere le cose brutte, dicendo a me stessa... come fa papà... che non pos- siamo fare nulla contro la violenza e il crimine, e che quindi è inutile dan- narsi l'anima. Ma ora io mi sento diversa. Desidero dare il mio contributo... voglio... fare qualcosa perché ciò che è accaduto a me non debba capitare ad altri. D'altra parte potrebbe essere il mio subconscio a sentire che in qualche modo io meritavo ciò che mi è accaduto. Maledetti quei corsi di psicanalisi al Radcliffe, accidenti a loro!» Jenny aveva riso. «Sì, sì. So cosa vuoi dire. Ogni volta che mi capita di curare la pubblicazione di uno di quei manuali per autodidatti mi chiedo se non inserisco correzioni dettate dal mio subconscio. Ma alla fine che im- porta?» Si passò la mano tra i capelli scuri. «Se trai piacere, o semplice- mente soddisfazione, da ciò che fai... dall'aiutare gli altri, che cosa importa perché lo fai? È la tua vita. Non devi risponderne a loro, questo lo sai.» «Sì, lo so» rispose Catherine sospirando. «Sono loro che non l'hanno an- cora capito.» Si strinse nelle spalle e prese a calci un sasso con la punta delle Reebok. Né Jenny, né Nancy, che era venuta a passare con lei il fine settimana dopo che era stata dimessa dall'ospedale, le avevano chiesto nul- la di quei dieci giorni. Non sapeva se il padre ne avesse parlato con le ra- gazze, ma supponeva di sì. Lei, al loro posto, sarebbe stata sicuramente molto curiosa, ma fu grata che rispettassero il suo silenzio. «Basta con queste domande strazianti. Non ci sono lavori che non si possano lasciare. Se non dovesse piacermi potrei sempre venire a fare la cameriera qui.» «No, no!» obiettò Jenny con voce solenne. «Poi ti toccherebbe indossare quelle scarpe terribili con i tacchi da dodici centimetri.» «Vero.» Catherine non aveva mai dovuto servire a tavola, neanche nei giorni del college. «Allora sceglierò uno di quei drive-up dove si gira in pattini a rotelle. Dai, prendiamoci un gelato.» Curioso, pensava più tardi, mentre, seguendo i confini del parco ritorna- va a casa, quanto fosse meraviglioso semplicemente essere all'aria aperta, sentire il sole caldo sul viso. Vincent le aveva parlato anche di questo... di come egli non avesse mai veduto il sole, all'aperto, né le margherite tra l'erba. Il suo era un mondo di oscurità e di crepuscolo. Un mondo silenzioso... Lei aveva impiegato alcune settimane a riabituarsi al rumore continuo del- le voci e dei telefoni, al rombo e al puzzo del traffico e al tuono degli aerei bassi nel cielo. Un mondo i cui abitanti avevano raccolto un essere umano trovato a terra con la stessa naturalezza con la quale un newyorchese a- vrebbe cambiato strada non appena lo avesse scorto. Iniziava a comprendere sino in fondo il dono che Vincent e la sua fami- glia delle Gallerie le avevano fatto: le avevano donato la fiducia. Non la fiducia indiscriminata, non quell'innocente fiducia che aveva in passato, la presunzione che tutto andava bene o sarebbe andato bene... bensì una fidu- cia nella bontà degli esseri umani malgrado il mondo che li circondava. La sua innata fiducia nella vita, la sua capacità di godersi il mondo senza ti- mori, anche dopo l'incidente, non era morta, perché Vincent era stato gen- tile con lei. Pensava spesso a Vincent. Le mancava in modo disperato, non sopportava di non potergli parlare, ascoltare la sua voce e sapere che era lì. Nei dieci giorni che avevano passato insieme, si era sentita più vicina a lui che a qualsiasi persona conosciuta prima, donna o uomo che fosse, quasi fossero stati amici da anni, da sempre. A lui avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, sapendo che avrebbe capito. Per settimane, senza rendersene conto, lo cercò, quasi si aspettava di ve- derlo comparire. Ma sapeva che lui non era mai salito, che non avrebbe mai potuto né voluto uscire dal suo mondo sotterraneo. Una volta, durante uno dei sontuosi ricevimenti di lavoro di Tom, una donna dall'altro lato della stanza aveva chiamato qualcuno con il suo nome. Catherine si era voltata a guardare, ma naturalmente non era lui, era solo un ragazzo bel- loccio, un italiano, a quanto pareva, la guardia del corpo di uno dei cono- scenti di Tom meno raccomandabili. Il nome Vincent era anche abbastanza comune. Ma quell'incidente le aveva lasciato un leggero rimorso nel cuore. Il mondo di Sotto le era proibito, così come lo era quello di Sopra per lui; malgrado ciò, lei guardava sempre con attenzione le grandi imboccatu- re di cemento delle fogne in Central Park, con una speranza... chissà. E quando passeggiava per la città o andava nella bella villa del padre all'ora del tè, al tramonto, quando l'aria in città si fa appiccicosa, ogni volta che bambina, Catherine non era mai stata cieca. Al college, quando aveva avu- to una storia con il ribelle radicale Simon, aveva, per un breve periodo, studiato con passione le ingiustizie del mondo, ma, più tardi, ammise che era stato più che altro per potersi inserire meglio nel giro di amicizie di lui. Anche allora, la povertà e il crimine erano stati per lei un argomento di natura accademica; era difficile essere veramente disgustati dal capitalismo quando si viveva comodamente con l'assegno che il babbo mandava ogni mese. E una volta rotto con Simon, l'attenta lettura dei quotidiani si limitò sempre più alle pagine degli affari, della moda, e degli spettacoli. Lì, come del resto aveva preventivato, le cose stavano in modo diverso. Adesso si viveva tutto a livello personale. Lei aveva, come dicevano i suoi professori di criminologia, "toccato con mano" cosa significava essere una vittima, cosa significava essere impotenti nelle mani di altri... e ora sapeva che cosa poteva fare la città. Non poteva più fingere di non sapere. Essen- do sopravvissuta, lei per prima non poteva voltare le spalle ad altri che a- vevano sofferto. Solamente dopo aver lasciato dietro di sé il mondo lussuoso e ovattato della consulenza legale aziendale, poté rendersi conto del significato reale della sua decisione, in termini di orrori, di violenze, della durezza di una città di cui lei a malapena conosceva l'esistenza. Nella Sezione Indagini, scoprì i grandi casamenti in cui gli alloggi non sono riscaldati, in cui i lavandini arrugginiti gettano più scarafaggi che ac- qua, dove i water sono otturati da anni e dove i bambini armati di martello prima di coricarsi danno la caccia ai ratti; scoprì i bambini di otto anni che spacciavano crack nei cortili delle scuole per pagarsi cento dollari di co- caina al giorno; e scoprì anche che c'erano uomini che campavano alle spalle di quei bambini. Alla Sezione Ricerche scoprì quanto era facile evadere la legge, rallenta- ta dalle migliaia di carte e di cavilli che avrebbero dovuto garantire giusti- zia agli innocenti, mentre i colpevoli assumevano avvocati che negoziava- no riduzioni di pena grazie a quegli stessi cavilli; scoprì che chi finiva in galera era sempre il pesce piccolo, mentre gli squali veri, i grossi spaccia- tori, i capibanda e i mafiosi, avevano potere a sufficienza per cavarsela in ogni situazione. Scoprì per la prima volta le prigioni viste dall'interno, il cemento pallido e le griglie infinite delle "Tombe", i gabinetti aperti, l'as- senza di privacy, di dignità, di silenzio, i graffiti sulle pareti e il puzzo ter- rificante di sudore e di escrementi, e l'odio perenne. Scoprì come i colpe- voli potessero apparire innocenti e come si potesse scambiare la paura per colpevolezza. Imparò anche quale incredibile quantità di documenti fosse necessario produrre per far valere le leggi: rapporti da compilare e da archiviare in modo che potessero essere poi ritrovati da altri, quando gli imputati di qualche reato arrivavano infine al processo, spesso mesi, e anche anni, do- po; verbali che venivano invalidati perché all'imputato non erano stati letti i propri diritti; rapporti di polizia, rapporti dei giudici di sorveglianza del tribunale dei minorenni. Tutti andavano controllati, archiviati, riscritti, aggiornati, fatti pervenire all'attenzione di qualcuno, messi sulla scrivania di qualcun altro. Di fatto, imparò tutto quello che c'era da sapere di quella terrificante ed inefficiente macchina che avrebbe dovuto garantire giustizia attraverso le leggi, e della gente che con essa veniva a contatto. In una parola, si fece le ossa. Dopo una settimana di tentativi per trovare un posto nel parcheggio, e dopo aver scoperto che il suo tesserino non le garantiva uno spazio nel sot- terraneo della Procura, decise di prendere l'autobus per andare al lavoro. E arrivava sempre presto per riuscire a sbrigare l'enorme numero di pratiche che dovevano giungere sul tavolo del procuratore entro mezzogiorno. Di solito rimaneva anche fino a tardi, e quando finalmente tornava a casa le pareva di aver partecipato a una rissa. Qualunque fosse la sezione a cui era stata assegnata per la giornata, c'era sempre qualcuno che si presentava a chiedere dov'era il tale verbale o la tale scheda («Dobbiamo istruire entro domani mattina, sai!»). Il numero di telefonate che la interrompevano in continuazione non facevano che peggiorare le cose; c'erano dei giorni in cui passava l'intera mattinata al telefono, e l'unico risultato era un orecchio indolenzito. E poi arrivava Joe Maxwell, a dirle: «Maledizione, Radcliffe! Sono settimane che hai quei dati sulla scrivania.» Imparò come si faceva a farsi la doccia, vestirsi e truccarsi in meno di mezz'ora... lei che prima aveva bisogno di almeno un'ora e mezzo per sta- bilire che la giornata poteva iniziare... lei che amava leggere il giornale mentre faceva colazione... ormai era fortunata se riusciva, di corsa, a pren- der qualcosa in piedi prima di uscire. Di solito finiva per mangiare una frit- tella all'uovo presa dall'ambulante all'ingresso del parco del Municipio. Eppure le sembrava di essere perennemente in ritardo e di causare ritardi ad altri perché non riusciva a fare le cose in tempo. Il padre aveva avuto ragione, pensò. Tom aveva avuto ragione. Una sera, mentre sedeva esausta al suo posto di lavoro, appena un angolino dello stanzone, a dir la verità, rinchiuso tra una fila di armadietti e una parete a vetri, ascoltò stancamente gli addetti alle pulizie svuotare ritmicamente i cestini della carta straccia alla luce dei neon notturni. Aveva distrutto la propria vita, gettato al vento tutti i comfort, la pace che aveva conosciuto, e per che cosa? Per inseguire un sogno che in ogni caso non sapeva gestire. Faceva un caldo insopportabile... il condizionatore continuava a essere rot- to... e c'era puzzo di mozziconi vecchi; si sentiva sudata e in disordine e le gambe e la testa le dolevano. La moglie picchiata e seviziata dal marito, un uomo che loro tentavano di arrestare da settimane, aveva deciso alla fine di tornare con lui. Lo spacciatore colto in flagrante vicino all'ingresso della scuola media Abraham Lincoln era stato rilasciato a causa di un'eccezione procedurale... al mattino sarebbe stato ancora lì a vendere crack. Il giova- notto che aveva veduto un magnaccia sfregiare a coltellate una ragazzina sedicenne aveva deciso, sul banco dei testimoni, che, contrariamente a quanto aveva raccontato alla polizia, non aveva visto niente... era uscito per strada solo per fare una pisciata. Aveva ancora sei rapporti da redigere e si sentiva le ossa rotte. Almeno incomincio a migliorare pensò con sarcasmo. Mi ci sono voluti due anni con papà per capire che ero un fallimento. Adesso ho ridotto i tempi a due settimane. Poggiò la testa sulle mani e sospirò. Una lacrima cadde sul modulo in triplice copia rosa-verde-gialla e lei si asciugò rabbio- samente il viso. Maledizione pensò. Voglio tutto questo, ma non riesco a capire come si fa. Non era un problema di leggi, le conosceva. Erano le persone, e lo stress, e la frustrazione di vedere il proprio lavoro sfaldarsi prima ancora di riuscire a portarlo a termine. Forse l'unica cosa che era ve- ramente capace di fare era la «figlia di papà», ovvero di Charles Chandler. Spulciare articoli e clausole per risolvere conflitti di competenza e servitù contese, vestirsi bene, essere bella, presenziare a ricevimenti e feste e fare buona impressione ai clienti. Insomma, stare dietro a tanti piccoli cavilli legali ben definiti e verificabili, e non a gente che cambiava idea, che scompariva, che veniva arrestata per ubriachezza molesta, o che era abi- tuata a mentire da sempre. Non sarebbe stata certo più felice di quanto era ora, ma almeno avrebbe potuto dormire fino a tardi, di tanto in tanto. Un'ombra apparve sulla soglia dell'ufficio. «Sei ancora qui, Radcliffe?» Lei si passò velocemente un dito sotto l'occhio e balbettò: «Sto solo dando un'ultima sistemata.» «A quest'ora di sera dovresti aver finito da un pezzo!» Joe Maxwell fece un passo verso di lei e la scrutò alla luce giallognola della lampada sulla scrivania. Senza giacca, la cravatta infilata nel taschino, i capelli scuri ar- più recenti tra le famiglie amiche: figlie che debuttavano in società, che si sposavano, e tutti gli altri pettegolezzi da country club che a lui mancava- no. Forse, pensò Catherine, aveva avuto bisogno di sentirsi libero dalle re- sponsabilità paterne, quanto lei aveva avuto bisogno di liberarsi dall'essere sua figlia. Lo sguardo di Kim incontrò il suo con allegria. Per un attimo le due donne si capirono perfettamente, furono complici. Poi Catherine le prese la mano, gliela strinse sorridendo, e si incamminarono insieme verso l'auto- mobile. «Ma sai» proseguì Kim sottovoce, «quest'estate su a Gloucester...» (sa- peva che Kim aveva tenuto la villa del marito, erano da sempre vicini di casa d'estate e ottimi amici in città) «non ha fatto altro che parlare della "mia figliola che lavora in Procura". Oppure dice: "Bah, lavora troppo, molto più di quanto non facesse per me." Ma mentre lo dice vedi che si i- norgoglisce... sai come fa... e nei suoi occhi c'è una luce che... Beh, tutti sono capaci di proteggere e coccolare i propri figli... ma è ben altra cosa crescerli forti e coraggiosi.» Suo padre fece accomodare Kim sul sedile posteriore della Mercury di Tom, e lei sul sedile anteriore, accanto a Tom. Tom le sorrise. Le aveva mandato dei fiori in ufficio, quel giorno; l'unica macchia di colore in una giornata grigia e bollente, appesantita dalla solita montagna di lavoro. Mentre l'auto si inseriva lentamente nel fiume del traffico notturno, Cathe- rine udì la voce bassa del padre scambiare con Kim opinioni sullo spetta- colo, e poi sentì che parlavano del ritorno in campagna l'indomani. Guardò fuori del finestrino e sorrise. Allora era questo il tornare a vivere. Eppure, mentre passavano lungo i viali alberati che fiancheggiavano Central Park si chiese improvvisamente dove fosse Vincent in quel mo- mento, cosa facesse, e se fosse felice o triste. A lui sicuramente sarebbe piaciuto il concerto... Una volta le aveva detto che Chopin era uno dei suoi musicisti preferiti, e che nelle Gallerie non c'era nessuno che sapesse suo- nare decentemente Chopin. E le parve che nel profondo del cuore ci fosse un vuoto che echeggiava del suo nome, Vincent. Nello scantinato del palazzo della Faber Mutual Trust, a Wall Street, un inserviente portoricano spinse una carriola carica di sacchi di plastica nel- l'ascensore e premette il pulsante del ventesimo piano. Gli ingranaggi pre- sero a girare con un fruscio potente ma quasi impercettibile. In fondo alla tromba dell'ascensore le ruote ben lubrificate presero a scorrere lungo i ca- vi, sollevando agevolmente la cabina attraverso il buio. Quei motori erano costruiti per sollevare oltre due tonnellate di carico; la figura appesa ai cavi poco sotto il pavimento della cabina non costituiva un intralcio. Vincent conosceva bene gli ascensori. Il vertiginoso pozzo nero che si spalancava sotto i suoi piedi non lo impensieriva minimamente, poiché, come gli ingranaggi dell'ascensore, anche le sue mani e le sue spalle pote- vano sorreggere ben oltre il proprio peso. Piccoli riquadri di luce prove- nienti da ogni piano scorrevano sul suo viso e sulle toppe della mantella, luccicavano sul metallo della cintura e nella profondità dei suoi occhi. A- veva passato la serata a pattugliare le Gallerie, vagando sempre più lontano dalle zone abitate, andando dove lo portavano i suoi piedi; osservando at- tentamente come tutti i giovani che andavano di pattuglia eventuali tracce di perdite di acqua, o di sabbie mobili, assai frequenti nel sottosuolo di Manhattan, o anche di tracce anomale che potessero rappresentare guai o pericoli per gli abitanti di Sotto, e inconvenienti alle porte o ai cancelli di metallo. Tutto era costruito con materiali di scarto, di terza mano, e così questo tipo di vigilanza era un compito interminabile. Aveva visitato l'o- scuro e caotico inizio dell'Abisso, da dove scale infinite scendevano a spi- rale verso il nulla; e la vasta Sala dei Venti, il silenzioso tempio sostenuto da pilastri duecento metri sotto il pavimento della grande città, dove abita- va la vecchia strega vudù, Narcissa, assieme ai suoi demoni e ai suoi in- cantesimi; e la meraviglia delle Gallerie Dipinte, dove la vecchia Elizabeth lavorava a lume di candela ricoprendo le nude pareti di colori. Era un re- gno infinito, del quale era guardiano e figlio al tempo stesso. Più tardi, quella stessa sera, quando era certo che non vi sarebbe stato nessuno in giro, avrebbe passeggiato per Central Park nascosto dal cap- puccio. Era questa l'unica opportunità che avesse di toccare con mano, sebbene di notte, la mirabolante complessità della città, di assaporare la dolcezza dell'aria fresca, tra gli alberi e sull'acqua. Ma era ancora troppo presto per uscire. Malgrado ciò l'irrequietezza di quella notte estiva lo as- salì. E così era arrivato fin lì. L'ascensore si fermò. Sporgendosi dai cavi, ancora trattenuti in una stret- ta d'acciaio, Vincent tese la mano e tirò la leva per l'apertura di servizio. Le porte del diciannovesimo piano si spalancarono e lui si allungò agilmente oltre l'abisso, poggiando i piedi nel corridoio di servizio. Gli uffici di quel piano a quell'ora erano deserti... cosa che egli aveva avuto modo di os- servare per mesi, come faceva con tutta la vita notturna della città... I suoi piedi morbidamente calzati non facevano alcun rumore, e l'ampio mantello frusciava appena contro gli stipiti. Il Faber Trust era un vecchio edificio, costruito negli anni Trenta e rimodernato più volte. Saliva a piramide, fino a una punta esageratamente sottile, anziché salire come le colonne diritte di cristallo nero degli edifici più moderni, e le mura erano un intrico di cornicioni, crepacci, davanzali, cariatidi e ornamenti. I piccioni, che nidifi- cavano dietro lo scudo di cemento sopra una sporgenza ampia e piatta, co- noscevano bene Vincent, tanto da non tirare fuori nemmeno la testa da sot- to le ali. Vincent poggiò le ampie spalle contro il muro, e posò i gomiti sulle ginocchia. Sotto di lui si stendeva la città, come un prodigioso tappe- to ingioiellato. Come Maometto sul colle di Damasco, egli poteva solo guardare. Sape- va bene che quella bellezza straniera non gli apparteneva. Alla sua sinistra, quasi a portata di mano, sorgevano le colonne gemelle del World Trade Centre, torri di ossidiana inghirlandate di fiammelle elettriche che svetta- vano ben più in alto del suo vertiginoso palco. E oltre il coloratissimo caos del Village e di Chinatown, si scorgevano la struttura dorata della guglia dell'Empire State Building e l'appariscente palazzo della Chrysler, con Broadway sotto, distesa come un fascio di cordame scintillante. Dante aveva descritto uno scenario del genere, ricordò Vincent, mentre attraverso l'oscurità scendeva a spirale sul dorso di Lucifero verso il tappe- to fiammeggiante dell'Inferno. Somigliava forse a questo? O forse era me- no bello? Il mondo di lei. I rumori della città salivano verso di lui tramutati, per la distanza, in un clamore pulsante, come il mare... il mare descritto nei libri del Padre. I sensi acutissimi di Vincent coglievano la vitalità bruciante della notte, l'o- dore acre dei gas di scarico, il fetore delle esalazioni delle fognature, e l'i- nebriante eccitazione dell'aria fresca. Lei era lì, da qualche parte. Era felice, pensò, allungando una mano ver- so di lei. Sentì il suo benessere, la sua contentezza, come un'eco di musica distante. L'amore più grande, diceva Piatone, è quello per cui si desidera la felicità dell'amato per la gioia dell'amato stesso. Ed era tutto ciò che egli poteva fare. Quando aveva oltrepassato quella porta, era entrata in quel- l'ambiente di luce, ma era anche uscita dal suo mondo e da qualsiasi possi- bilità di rientrarvi in contatto. Gli aveva parlato del padre, un uomo gentile e amabile, e di altri amici cui teneva. L'articolo di giornale che il Padre gli aveva mostrato menzio- nava anche un fidanzato. Era tornata da loro, tornata in quel mondo di bel- ridoi dei casamenti popolari che puzzavano di urina e di ratti, aveva avuto di nuovo paura. Ma stavolta non era quella paura paralizzante, da incubo, che ancora le tormentava le orecchie, quando camminando da sola la notte le capitava di veder passare un furgone. Era una paura cosciente e raziona- le, che le permetteva di capire che uno qualsiasi di quegli uomini mal rasa- ti, dagli occhi lucidi, che incrociava nella semioscurità dei vicoli a ridosso della ferrovia, o di quei gruppetti di arroganti teppistelli con i quali era co- stretta a parlare agli angoli delle strade, avrebbe potuto aggredirla, senza che lei avesse la più pallida idea di come reagire. L'esperienza vissuta da- vanti al Barron Hotel le aveva insegnato una volta per sempre una sola co- sa: la spaventosa e inaspettata forza che hanno le mani degli uomini. Lei era minuta, era carina, e se rimaneva ancora a lungo alla Procura Distret- tuale probabilmente sarebbe stata assegnata molte altre volte a quel genere di inchieste. Era ora, decise, dando forma concreta a un desiderio che le andava crescendo dentro da quando era uscita dalle Gallerie, di rinforzare la sua abilità professionale. «Okay» disse Isaac, vedendo tutto ciò, e altro ancora negli occhi di lei. Aggirò il manichino appeso con movimenti aggraziati come quelli di un ballerino. «Io però non insegno quella roba orientaleggiante» la avvertì. «Niente Kung Fu, niente Kung Fi. Io sono di New York, della metropoli, e insegno lotta da strada, roba da New York, sozza e cattiva. L'unica filoso- fia che conta è che si cerca in tutti i modi di uscirne vivi. Si usa quello che si ha... Dammi una scarpa.» Sorpresa, Catherine si appoggiò a un sacco di cuoio e si tolse una scar- petta dal tacco alto. Era vestita da lavoro, essendo uscita in anticipo sull'in- tervallo del pranzo per venire a cercare questo posto. E, per quanto suonas- sero bizzarre, le richieste di quell'uomo, tuttavia, non le sembravano così assurde. «Si può uccidere un uomo con una scarpa come questa» commentò Isaac e senza neanche voltare la testa fece scattare all'indietro il braccio man- dando il tacco di sei centimetri a conficcarsi profondamente nella tempia del manichino appeso qualche passo dietro di lui. Il tacco perforò con faci- lità la robusta tela. E le palline di plastica di cui era colmo il manichino presero a cadere sui tappeti, rimbalzando e tintinnando. «Non è molto ele- gante...» disse Isaac con calma mentre le riconsegnava l'arma im- provvisata, «... e non è certo carino a vedersi, ma funziona, sempre che uno abbia il fegato per farlo.» "A papà prenderebbe un colpo" pensò Catherine guardando morbosa- mente affascinata le palline di plastica fuoriuscire dalla testa di quel finto uomo. "Macché. Papà non riuscirebbe nemmeno a concepire una cosa del genere. E Tom..." Tirò un profondo respiro. «Quando cominciamo?» Isaac, vedendo che l'aveva giudicata bene, sorrise. "Maledizione, NON devo mai più arrivare in ritardo" pensò rabbiosa- mente Catherine mentre saliva correndo le scale del Centro Dati della Pro- cura. "Non importa che quella donna abbia impiegato ore per rilasciarmi la deposizione. E poi ho ancora... Dio!... Ma quante persone ancora devo ve- dere per il caso Perez?" Diede un'occhiata all'orologio e vide che aveva giusto il tempo di prendere ciò che le serviva e correre nell'ufficio di Mo- reno per arrivare prima delle due. "Quella ragazza ai terminali mi ammaz- zerà, quando le farò un'ennesima richiesta urgente." Il Centro Dati occupava un piano intero della Centrale di Polizia, e sem- brava di entrare in un mondo diverso dai soliti uffici sporchi e squallidi degli altri piani. Forse, pensò Catherine, perché i macchinari erano più moderni, o per quella leggera impronta fantascientifica... o più semplice- mente perché i computer dovevano essere tenuti puliti per poter funzionare bene. Quel luogo non era certo meno affollato o frenetico del resto del Di- partimento di Polizia, ma era più silenzioso. Ogni tanto, partiva il chiac- chiericcio meccanico di una stampante, che copriva il brusio delle voci delle operatrici. Arrivò finalmente al terminale che cercava. La donna le lanciò un'occhiata. Era di qualche anno più giovane di Catherine, ed era vestita meno elegantemente, ma assai più alla moda di lei; i capelli all'afri- cana color mogano erano strettamente intrecciati a formare un reticolo di trecce e le labbra bronzee si arricciarono di fastidio nel vedere Catherine. «Edie» disse Catherine, «hai quella roba che mi serviva?» «Certo.» Edie estrasse un lungo stampato da uno dei cassetti del tavoli- no. «Eccola qui. Tieni.» Le porse lo stampato svogliatamente. «Grazie.» Catherine lo piegò in due e lo ripose nella cartella che in quel periodo conteneva, oltre alle carte e ai documenti, anche la tuta necessaria in quelle rare occasioni in cui riusciva ad andare da Isaac. Era una settima- na che non tornava da lui e dalla piega che stava prendendo il caso Perez era probabile che non vi sarebbe andata per molti giorni, a meno che non avesse preso l'abitudine di alzarsi alle cinque del mattino. «Ti sono molto riconoscente» aggiunse. «Vorrei vedere!» replicò Edie. «Visto che svolgo buona parte del tuo la- voro.» Catherine si bloccò a metà dei suoi pensieri privati, colpita dall'evidente risentimento nella voce di Edie. "Maledizione" pensò, "ho di nuovo dato fastidio a qualcuno." «Mi dispiace» disse guardando la ragazza negra die- tro il monitor di plastica chiara. «Il procuratore mi ha messa sotto torchio. Sono sotto pressione da settimane.» «Ma chi vuoi prendere in giro?» Il disprezzo lampeggiò negli occhi co- lor cannella di Edie, che la rimirò da capo a piedi. «Conosco le ragazzette bene come te. Arrivate qui, fate le lagne... e poi andate a fare compere.» Anche lei, come Joe Maxwell, doveva averne viste tante; Catherine pen- sò che quell'accusa avrebbe potuto riferirsi ai pochi mesi del suo periodo da rivoluzionaria al college. Ma al ricordo degli hamburger oleosi ingollati mentre sedeva alla sua scrivania stracolma di pratiche da svolgere, alle set- te passate, e del cumulo spaventoso di biancheria che continuava a cresce- re solo perché non riusciva a trovare il tempo di portarla in lavanderia, le venne da ridere suo malgrado. Non ricordava più quando era stata l'ultima volta che aveva avuto il tempo di andarsi a comperare un litro di latte fre- sco, figurarsi un abito. «Non è vero.» «Ah, no, eh?» Le labbra carnose di Edie si piegarono in una smorfia. «Catherine Chandler.» Lesse ad alta voce dalla targhetta spillata alla giac- ca di Catherine. «Vediamo un po' quante ne hai combinate.» «La maggior parte della gente mi chiama Cathy» rispose Catherine paca- tamente mentre Edie batteva il nome sulla tastiera. Il sistema della banca dati, a ricerca diretta, forniva informazioni sinteti- che su qualsiasi nome venisse battuto sulla tastiera; successivamente si po- tevano richiedere dati più precisi o, come capitava più spesso a Catherine, questi ultimi andavano ricercati a forza di gambe. Sapendo a quali ritmi procedevano gli operatori addetti all'ammissione dei dati dubitava che i particolari della sua assunzione fossero già in archivio. E forse era meglio così, perché sicuramente corrispondevano all'immagine di ragazza bene che Edie si era fatta di lei. Ma dall'archivio elettronico qualcosa saltò fuori. NOME DELLA VITTIMA: CATHERINE CHANDLER DATA DELL'EVENTO: 12 APRILE 1986 LA VITTIMA È STATA GRAVEMENTE FERITA AL VOLTO CON MOLTI COLPI DI ARMA DA TAGLIO. COLPITA CON PUGNI E non era questo il motivo per cui non riusciva a toccarla. Eppure anche la cicatrice, ora, faceva parte di lei. "Per l'archivio" avevano detto. Aveva creduto che ciò significasse che nessuno più avrebbe visto quella foto mo- struosa, non che chiunque, al Centro Dati della polizia potesse casualmente accedere a quella pratica. In fondo, a Catherine non importava più, faceva parte del passato, ormai. Allora, in quelle ventiquattro ore disperate tra il suo ritorno e l'ingresso in ospedale, le sarebbe sicuramente importato, tanto da morirne. Il dolore e l'umiliazione erano ancora brucianti, ed era convinta che sarebbero rimasti tali fino all'ultimo dei suoi giorni. Era lì, nei suoi occhi, in quella foto: era- no occhi stanchi, esausti, aperti solo per sopportare meglio la paura. «È accaduto, e tu sei viva... E ciò che ti è accaduto ti renderà più forte.» Come aveva potuto saperlo? Lei voleva rivederlo, voleva dimostrargli che aveva avuto ragione. Ne sarebbe stato felice, felice di vederla di nuovo bella, forte, contenta. Vole- va toccare le sue mani, udirlo parlare del mondo delle Gallerie, dei suoi amici di lì, della sua vita. Voleva raccontargli della Procura Distrettuale, e di Isaac, dirgli quanto fosse sconcertante e strano imparare a lottare, e sen- tire la sua opinione. «Io ti conosco» le aveva detto. E c'erano occasioni in cui lei si convinceva che era l'unico a conoscerla davvero. Aveva temuto, con l'esaurirsi di quella calda estate, di veder sbiadire il ricordo di lui sotto la valanga delle sue nuove esperienze, ma non era stato così. C'erano dei momenti in cui le bastava sapere che Vincent era lì, in quella stessa città: e la coscienza di quell'alveare pieno di vita nelle Galle- rie nascoste sotto di lei le faceva vedere New York in modo diverso, ag- giungeva alla sua coscienza della metropoli che la circondava un livello di percezione più sottile, che però non le bastava. In quei giorni conduceva una vita frenetica. Lo era stata anche prima, certo, ma le serate a tirar tardi alle feste, le mattinate trascorse a dormire erano una sua scelta, una specie di fuga da pensieri troppo difficili per po- ter essere affrontati seriamente. Come aveva detto a Edie quel giorno, la stavano ancora mettendo alla prova, e a volte era lei stessa così sorpresa dei risultati che otteneva quanto lo era Moreno. Sebbene si fosse gradualmente convinta della propria efficienza, e non si lasciasse più prendere dallo sconforto per non essere capace con le sue sole mani di ripulire le Stalle di Augia del Dipartimento di Giustizia, arrivava a casa quasi tutte le sere totalmente affranta, con appena la forza di lavarsi il viso prima di crollare sul letto. Erano giorni, si rese conto, che non riusciva a trovare il tempo di chiamare suo padre al telefono; o Tom, aggiunse mentalmente, con un leggero senso di colpa. Erano giorni che neanche pensava a Tom, e nei rari momenti di calma, quando si voltava indietro e osservava il cammino percorso, non aveva rimpianti, né recriminazioni, per ciò che aveva abbandonato. Nel silenzio rosato della sua stanza, in pace con se stessa e senza altra occupazione che l'ascoltare i rumori della città sotto di lei, si rese conto che, per quanto le sue giornate fossero piene, c'era qualcosa che le man- cava più del riposo, o del tempo libero, più della quiete dello spirito. Le mancava Vincent. 10 «Potrà solo renderti infelice!» «Ebbene, allora sarò infelice.» Nascosti nella folta ombra della criniera, gli occhi di Vincent ebbero un bagliore, colpiti dalla luce delle candele che illuminavano lo studio, come occhi di gatto pensierosi. In quegli occhi c'e- ra rabbia, pensò il Padre, non nei suoi confronti, ma contro il destino che lo aveva reso ciò che era, e contro il mondo, le cui regole lo avrebbero reso un mostro da studiare, se si fosse avventurato là sopra, o addirittura non gli avrebbero permesso di continuare a vivere. Quella rabbia era dipinta in ogni piega del collo muscoloso e delle spalle possenti di Vincent; quando si alzò e si mise a passeggiare, tra le mani simili ad artigli teneva ancora l'edizione rilegata in pelle di Grandi speranze. Si voltò, con lo sguardo fermo e sereno. «Ma io non posso dimenticarla. Noi siamo ancora uniti.» Il Padre rimase in silenzio. Era quello che aveva temuto. Durante tutta l'estate e l'autunno si era accorto dell'irrequietudine di Vincent, e sapeva che quella donna, Catherine, ne era la causa: la figlia di un ricco, come la donna che anch'egli aveva amato un tempo. I ricchi non sono più brutali dei poveri, quando difendono i loro figli, ma sono molto più potenti; lo a- veva imparato dolorosamente a proprie spese, ed era questa sofferenza pa- tita che aveva in parte nutrito il suo desiderio di liberarsi della ragazza, di farla uscire il prima possibile dalle Gallerie. Ma ricordava anche la pena che aveva avuto per lei, che lo aveva spinto a fare del suo meglio per ri- chiudere le ferite del suo volto devastato, e l'ira contro un mondo che pro- duceva uomini capaci di tanto. Era proprio quel mondo, e tutto ciò che es- so rappresentava, che egli temeva. Per se stesso; per Vincent, quel suo strano figlio adottivo; e per tutti loro. «Io sento quello che sta provando» proseguì Vincent con calma. «So quello che pensa quando ha paura, o quando è felice, o triste. Lei è parte di me.» Dal tono sincero della sua voce il Padre capì che si trattava di molto di più. «Vincent» disse con trasporto, «i tuoi sensi, la tua sensibilità acuta, sono già di per sé straordinari. È questa la tua forza. E questo potere ora è esaltato dal coinvolgimento, dall'amore che provi per la ragazza.» Vincent si voltò a guardarlo quando pronunciò la parola amore; aveva capito. Ci fu un silenzio, durante il quale si udirono il leggero rintocco dei tubi e il fruscio della sotterranea sopra di loro. Le candele gettavano ombre lunghe e scure sui libri ammassati sui tavoli e sulle credenze, sui volti di marmo delle statue e sulle arcane forme di ottone degli antichi strumenti medici e da navigazione che il Padre amava collezionare... i rifiuti consunti di una città che non aveva né il tempo né la pazienza per dedicarsi alle bel- lezze del passato, così come non aveva tempo e pazienza per gente come loro. «Ma non devi permettere che quel tuo atto di bontà ti distrugga.» Lo a- vrebbe distrutto certamente, pensò disperato il Padre, se lo avesse condotto ad abbandonare le Gallerie, anche per una sola notte, per raggiungerla. E se anche essi non lo avessero catturato, quegli esseri innominabili e terribi- li che vivevano nel mondo di Sopra, se solo fossero venuti a conoscenza della sua esistenza, lo avrebbero braccato, e i peggiori tra di loro sarebbero stati i più accaniti cacciatori. Osservando il viso di Vincent, il Padre vide che il giovane lo sapeva. Ma avendo conosciuto anch'egli un grande amo- re, capiva bene che Vincent, come colui che scopre per la prima volta la luce, non avrebbe mai potuto dimenticare, né accontentarsi dell'oscurità. Egli aveva conosciuto la tragedia e il suo cuore tremò. Vincent sospirò e appoggiò il libro sulla scrivania dello studio, poi si voltò per andarsene. «Io non credo di avere scelta.» Mouse lo aspettava nella galleria fuori dello studio del Padre. «Vincent, bisogno aiuto tuo» disse con la sua vocina frettolosa, mettendosi al passo dell'amico più alto. «Aiuti me?» Con Mouse c'era poco da tergiversare, e Vincent non aveva voglia di sorridere, ma rispose con gentilezza. «Se posso.» «Puoi» affermò Mouse con sicurezza. Era un giovane piccolo e tarchiato sui sedici o diciassette anni, ma nessuno, e lui meno degli altri, conosceva con esattezza la sua età. In quel volto tondo, con un naso schiacciato al colo o cancelli installati per impedire ai bambini, o agli adulti meno esper- ti, di avventurarsi in zone pericolose. Vincent ricordava di non aver molto badato a quei cartelli quand'era ragazzo, e si chiese con disagio se per caso anche gli altri bambini sopravvalutassero, come lui aveva fatto, le loro ca- pacità. Quando però salirono verso la porta di ferro che comunicava con il col- lettore di Central Park, Mouse gli augurò la buonanotte. Non sapeva che farsene dell'aria fresca; vedere esclusivamente alberi e prati lo annoiava. «L'erba è erba» disse, mentre Vincent allungava la mano per tirare a sé la leva nascosta che faceva aprire la porta, pur con grande sforzo. «Gli alberi sono alberi. Ma le Gallerie...» Gli occhi azzurri si addolcirono in una delle rare espressioni di apprezzamento estetico che Vincent conosceva nell'a- mico. «... le Gallerie sono sempre diverse, sempre nuove.» Vincent sorrise con gli occhi mentre sollevava il cappuccio per coprirsi il volto «Vedere un mondo in un granello di sabbia» citò a memoria. «... e il paradiso in un fiore di campo.» Mouse gesticolò con impazienza. «Erba bagnata!» Poi, facendo un'ulti- ma smorfia, se ne andò. «E trattenere l'Infinito nel palmo della mano...» Vincent terminò tra sé la citazione, mentre usciva nella notte carica di odori appiccicosi. «... e l'E- ternità in un'ora.» Per quanto calda, la notte era inebriante. A quell'ora il parco era deserto, e in ogni caso la vista eccezionale di Vincent e il suo u- dito allenato, acuiti dalle limitate sensazioni che si potevano provare den- tro le Gallerie, lo avrebbero avvertito della presenza di chiunque, molto prima di essere scorto, permettendogli in tal modo di trovare rifugio nel folto degli alberi. Il Padre, egli lo sapeva, non era contento di queste sue passeggiate notturne, ma non osava proibirgliele. Erano la sua unica possi- bilità di toccare, seppure brevemente, quel mondo che non sarebbe mai sta- to il suo. A giudicare dai giornali e dai libri che aveva letto, dalla gente che era fuggita da Sopra per cercare rifugio Sotto, non era del tutto sicuro di voler appartenere a quel mondo, anche se fosse stato possibile. Prima i suoi rimpianti si limitavano al fatto di non poter mai passeggiare sotto le volte di pietra grigia della cattedrale di Notre Dame de Paris o andare a vedere uno spettacolo a teatro, invece delle ingenue recite che venivano organizzate Sotto per le feste di fine anno, o anche nuotare nelle acque di un oceano. Ma ora tutto era cambiato. Dai boschetti sul colle del parco riusciva a scorgere l'edificio dove lei abitava. Mouse era capace di individuare qualsiasi indirizzo dei cinque quartieri della città mediante le condotte del vapore che correvano al di sotto, ma Vincent, oltre a questo, sapeva anche mettere in relazione il mondo di Sopra e quello di Sotto. La sua abilità nell'individuare qualsiasi luogo in città, e arrivarci in pochi minuti, se le coincidenze dei treni della sotterranea erano rispettate, aveva dell'incredibile. Quel terrazzino d'angolo, dove una luce color albicocca filtrava dalla porta finestra... Nel vederla, Vincent capì subito, per istinto, che quella era la sua casa. Ma perché sottoporsi a questa sofferenza? si chiese. Il Padre aveva ragione, non c'era dubbio. Tranne che per una cosa... lei non avrebbe mai causato l'infelicità di Vincent. Non tanta, almeno, da superare la gioia dell'averla conosciuta. Nella mente ripassò le strofe di Donne, trovandovi l'eco del suo strano dolore. Mi chiedo, in verità, cosa fummo tu e io. Fin quando non ci amammo? Non eravamo forse nemmeno svezzati? No, egli pensò. Aveva compreso che la sua vita nel mondo di Sotto era stata incompleta, così come egli aveva accettato che fosse, ma ora si avvi- de che come un bambino... come gli amanti della poesia di Donne... gli era finora sfuggito un elemento della realtà perché lo aveva ignorato del tutto. E, per quanto questa consapevolezza gli procurasse dolore, egli non po- teva e non voleva tornare a quello stato di ignoranza. Se mai vidi un'immagine di beltà, se mai la percepii, e desiderai, essa non era altro che il sogno di te. Sopra la balaustra bianca del terrazzo si spense la luce. Lei dormiva. Si voltò e le augurò di sognare dolcemente. «Non se ne parla nemmeno, Mouse» sospirò il Padre con il tono rasse- gnato che Vincent gli aveva sentito usare spesso nel trattare con Mouse. «Ti ho già spiegato per quale motivo non intendo neppure prendere in con- siderazione l'ipotesi che tu debba rubare.» «Non rubare!» replicò Mouse con un gesto di stizza: non era la prima volta che discuteva con il Padre di questo. «Prendere!» «Prendere da dove?» «Sopra.» L'ampio gesto della mano indicava che per Mouse il mondo di luce diurna fuori delle Gallerie non era altro che un gigantesco deposito di materiali da prelevare. Winslow, seduto tra Mary e Pascal sulle scale di granito dello studio, roteò gli occhi. Anch'egli aveva tentato di spiegargli certe differenze di significato. Mouse proseguì con entusiasmo: «Bel po- sto, grande, pieno di roba: cavi, motori, tubi. Niente da smontare, da lima- re, da sgrassare.» Mouse fece una smorfia sforzandosi di trovare il modo di fare capire al Padre. «Rubare è dalle persone. Così è solo prendere.» Il Padre sospirò ancora e si strofinò gli occhi. Vincent aveva mantenuto la promessa e aveva avanzato al Padre la ri- chiesta di Mouse di pezzi necessari per aggiustare la vecchia Pompa Nu- mero Uno e aveva aggiunto che Mouse voleva anche tre o quattro uomini per il trasporto dei materiali. Questo indicava chiaramente le intenzioni di Mouse, sia lui sia il Padre non avevano avuto dubbi in proposito. Solita- mente, erano necessarie una decina di furtive escursioni in luoghi diversi della città per poter raccogliere tutti i componenti di un qualsiasi macchi- nario Mouse e Winslow decidessero di montare. Data l'importanza della pompa, una decina di adulti della comunità erano stati convocati per una conferenza informale, ma il risultato era evidente fin dall'inizio. «No.» «Certo che quella pompa è maledettamente vecchia», interloquì Win- slow sporgendosi in avanti. «Io credo che Mouse abbia ragione, bisogna intervenire. Il motore perde colpi e, se dovesse cedere, ci ritroveremmo a dover portare su l'acqua a mano; la pressione sulla condotta principale è in aumento ed è probabile che avremo delle perdite lungo tutto il sistema.» Il Padre aggrottò la fronte. «Come mai?» «Quella condotta è una delle più vecchie della città» spiegò Pascal agi- tando le mani guantate. Era insolito che si trovasse fuori della centrale dei tubi, ma in quel caso la sua opinione era necessaria in quanto era l'abitante più anziano delle Gallerie, colui che vi dimorava fin dalla nascita. In sua assenza, il risuonare dei tubi non si era arrestato, anzi il ritmo era aumenta- to, poiché senza di lui le comunicazioni erano meno efficienti. «Alcuni tratti risalgono al tempo di Aaron Burr» proseguì. «Quella pompa poi è lì da sempre, per quanto mi ricordi, a succhiare acqua al sistema cittadino, e ha sempre contenuto la pressione, malgrado l'aumento del volume di ac- qua.» Si fermò ad ascoltare i tubi, piegando, come d'abitudine, il capo da un lato. «Scusatemi un momento.» Si alzò velocemente in piedi e salì i gradini fino al soppalco, passò tra le pile di libri, fino ai tubi che correvano lungo la parete. Da una tasca del vo- di andare e venire non visti da coloro che sono Sopra... servano a violare il codice secondo il quale viviamo.» Il suo sguardo si posò su Vincent, che rimaneva silenzioso, in piedi al suo fianco, e questi capì che per lui, e non per Ho, il vecchio aggiungeva: «Noi apparteniamo a questo mondo. Non possiamo avere i privilegi di en- trambi.» La ragazza incurvò le spalle ma annuì, sebbene di malavoglia. «Va be- ne» disse, voltandosi e uscendo dallo studio. «Per lei è difficile» disse Vincent pacatamente quando fu uscita. Il Padre lo osservò a lungo, poi, sospirando e strofinandosi stancamente gli occhi, disse: «È dura per tutti noi.» 11 Era ancora buio quando Catherine salì le scale della Centrale di Polizia, scivolose per la pioggia caduta durante la notte, eppure il traffico dell'ora di punta intasava già le strade. Park Row, che conduceva a nord-est del fiume, sembrava essere stata progettata apposta per incanalare il freddo vento del nord. "Io devo essere pazza" pensò mentre si stringeva nel suo montgomery. Appena un anno prima non avrebbe neanche capito le parole "alle sei del mattino". "Ma, maledizione, se non faccio queste cose adesso quando mai troverei il tempo? L'incontro con Moreno per il caso Winthrop sarà alle quattro e si concluderà ben oltre le sette di sera, e se quei rapporti sul caso Bajeer dovessero arrivare stamattina mi toccherà saltare di nuovo il pran- zo..." Sospirò e scosse la testa, mentre saliva con l'ascensore al Controllo Dati. Ora capiva perché Joe vivesse di panini al formaggio e barrette di ciocco- lato... erano gli unici cibi su cui si potesse veramente contare da quelle par- ti. L'eterna luce fluorescente della sala computer le colpì gli occhi, ancora gonfi per il sonno, con violenza. E, come in un ristorante, dopo la chiusura, quando tutte le luci sono accese, fece risaltare la sporcizia. Senza lo sciame di frenetici programmatori e analisti, gli stanzoni riecheggiavano dei suoi passi. Qui e là una solitaria figura batteva tasti ai terminali, o era piegata sopra il Times davanti a una ciambella e a un caffè; non alzavano nemme- no lo sguardo, mentre Catherine si faceva strada tra le scrivanie. Dai tra- mezzi pendevano fili di ragnatele, altri erano decorati con cartoline di Na- tale... qualcuno aveva appeso un enorme disegno di una cometa blu e bian- ca sulla bacheca. Ci sarebbe stata una festa il giorno di Natale, come Ca- therine sapeva. Una festa alla quale partecipavano anche gli ebrei e i mu- sulmani della divisione, accettandola come avrebbero fatto con la Passach o il Ramadan... ma il Dipartimento non avrebbe mai chiuso. La notte precedente si era svegliata con una curiosa sensazione di in- quietudine e di all'erta per qualcosa di importante. Le sembrava di aver so- gnato... sì. Aveva sognato il capitano Hermann. Lei era seduta alla scriva- nia e stava leggendo un rapporto, e lui le era seduto di fronte, con Tom. Lei li aveva guardati e aveva chiesto: «Cosa significa "Inchiesta Sospesa"? Questa inchiesta deve essere portata a termine.» Si rese conto che quel rapporto riguardava la sua aggressione. Grosso, rubizzo e con gli abiti sgualciti più che mai, Hermann scrollò le spalle. «Cosa altro potevo fare? La ragazza non ha voluto dirmi niente. Secondo me mentiva.» «Ma certo che mentiva» confermò Tom indignato, con un lampo negli occhi nocciola. «Io so che l'hanno violentata, devono averla violentata. Ed è stata colpa sua. Avrebbe dovuto rimanere con me, come le avevo detto, invece di andarsene fuori da sola. E, per essere chiari, avrebbe anche dovu- to dirci come sono andate le cose. Almeno avremmo potuto cancellare questa storia e rimettere tutto a posto. Ma non ha voluto dire nulla.» Poi c'era stata Catherine stessa, dall'altro lato della scrivania. Dalla sua posizione, Catherine osservò la ragazza sporca e livida, con l'abito da sera stracciato e quell'incubo di viso pieno di suture, e incontrò i suoi stessi oc- chi verdi. «Cosa ti è accaduto?» chiese dolcemente a se stessa. «Non ne voglio parlare» rispose l'altra Catherine. «Non voglio più pen- sarci, mai più. Non è stata colpa mia. Non è stata colpa di nessuno. Sono cose che capitano e basta.» «No!» disse Catherine pacata. «Non esistono le "cose che capitano".» La ragazza aggredita non aveva risposto, ma gli occhi le si erano gonfiati di lacrime. Catherine aveva guardato il rapporto davanti a sé, l'aveva aiuta- ta a compilarlo per evitare di dover trascinare quell'altra se stessa attra- verso la memoria e il dolore del rivivere quegl'istanti, che lei considerava un personale e atroce incubo. Voleva dirle che il dolore non sarebbe dura- to, che l'orrore sarebbe scomparso, ma sapeva, avendoli conosciuti en- trambi, che l'altra non le avrebbe creduto. Si concentrò invece sulle lacune del rapporto, la sua nitida calligrafia proseguiva dove gli scarabocchi di Hermann terminavano. I rapporti del capitano Hermann, notò, erano quasi più frettolosi e disordinati dei suoi. "I tre uomini aspettavano nel vicolo con il furgone. Il primo uomo disse: 'Vai a casa da sola stasera, Carol?'" Fece una smorfia nello scrivere quel- le parole. Non ricordava quasi nulla, dopo. "'Vai a casa da sola?'" Poi sol- tanto quell'incubo di dolore e di terrore, un terrore che avrebbe preferito non ritrovare, non rimuovere dal buio che lo soffocava nella sua mente. Ma avevano detto: "Carol". E, quasi che l'altra Catherine, la ragazza acca- sciata sulla sedia dall'altro lato della scrivania, stesse dettandole, Catherine scrisse: "L'uomo tarchiato disse qualcosa tipo 'ragazzine con la bocca troppo grande'. Ciò farebbe supporre che l'aggressione era premeditata, e non uno stupro o una violenza casuale. Procedura da seguire..." Poi aveva aperto gli occhi e aveva fissato a lungo il disegno dei riquadri di luce proiettati sul soffitto, attraverso le sue porte alla francese, fin quan- do il cielo non aveva preso a impallidire con il primo chiarore dell'alba. Edie era seduta al suo posto di lavoro, ed era tanto presa dal programma che stava controllando, che non si avvide di Catherine che all'ultimo mo- mento. Sorrise, e il suo mobilissimo viso finse meraviglia. «Beh? E che ci fai qui, signorinella, alle sei del mattino... Appena uscita dalla discoteca, eh?» Non c'era alcuna animosità nella sua voce, ormai, e Catherine rise. Quando Edie la sfotteva chiamandola "figlia di papà", e "radical-chic", era solo perché entrambe avevano capito che non era affatto vero. Catherine si sfilò il cappotto. «Dio mio, non ricordo nemmeno da quanto tempo non en- tro in una discoteca.» «Lasciamo perdere.» Edie cancellò lo schermo e Catherine prese una se- dia accanto al tavolo sopra il quale c'erano un sistema secondario, una stampante, una macchina per telefax e un boccale rosso in cui fumava leg- germente del tè. L'impiegata sospirò con finta tristezza e carezzò con affet- to il terminale. «Ci credi che con Biff, qui, ho l'unico rapporto vero da quando mi sono diplomata? Biff è l'unico che mi capisca veramente.» Ca- therine annuì con aria pensosa. «Potrebbe essere una soluzione per il futu- ro.» Ultimamente Edie aveva iniziato a istruirla nei misteri dei computer, ogni volta che i loro frammenti di tempo libero coincidevano; grazie a lei, Catherine, benché ancora molto ignorante in materia, non aveva più quel- l'impressione latente che le macchine stessero per conquistare il mondo. «Cavoli» le aveva detto una volta Edie mentre bevevano il caffè in un fast- food, sempre a ore inusitate della mattina, «più che altro è come se la de- stra non sapesse quello che fa la sinistra, ma elevato alla decima potenza. Catherine trovò la porta e bussò, ma non udì risposta. Non c'era la TV accesa ma della musica, la voce dolce di una donna che cantava una ballata country. La canzone terminò e ne iniziò subito un'altra... non la radio, quindi, ma un disco. Allora c'era qualcuno in casa. Bussò di nuovo. «Chi è?» La voce attraverso la porta pareva spaventata. «Carol?» Le pareva strano dover chiamare così una persona mai veduta. La percepiva dietro quella porta chiusa, quella ragazza bionda che era fin troppo facile confondere con lei, per strada al buio, nell'ombra delle luci dell'albergo. La voce si fece più forte, di un roco coraggio. «Cosa vuoi?» «Mi chiamo Cathy Chandler. Vorrei parlarti.» Ci fu una lunga esitazione. Catherine comprendeva i sospetti. «È il po- stino... sono l'idraulico... Fiori per la signora...» Si chiese come avessero fatto quegli uomini a trovare Carol, come l'avessero attirata in qualche luo- go solitario. Lo Strangolatore di Boston si presentava alle sue vittime spac- ciandosi per idraulico. Nella deposizione alla polizia, Carol si era rifiutata di dirlo. Si sentirono dei catenacci smossi. Ce n'erano due. Uno era evidentemen- te vecchio, l'altro era lucido, ancora nuovo. Da aprile, pensò. Capiva quel sentimento. Durante il primo mese aveva dovuto fare uno sforzo per non barricarsi in casa tutte le sere. Poi la porta si aprì appena e due occhi verdi e spauriti la osservarono. Come Catherine, era stata anche lei molto bella. All'epoca dell'aggres- sione aveva segnalato come professione quella di attrice, non che a New York significasse molto. Ma Catherine dubitava che tentasse ancora di percorrere quella strada. Non era stata accoltellata, ma la palpebra sinistra pendeva flaccida sul- l'occhio, e l'intero lato sinistro del volto aveva quella strana immobilità dovuta alla paresi. Catherine rabbrividì. Solo in quel momento si rese con- to di quanto doveva veramente al padre. La voce di Carol si fece più dura, più aspra, appena vide che Catherine era sola. «Cosa vuoi, allora? Sei della polizia?» «Lavoro alla Procura Distrettuale.» Le porse un biglietto da visita, ma Carol la respinse rabbiosamente. «Vi avevo detto di lasciarmi in pace!» La voce tremava dalla paura, era quasi isterica. «Mi avete già procurato abbastanza guai, io non ho niente da di- re.» Si tirò indietro e fece per richiudere la porta. Quasi d'istinto Catherine allungò una mano bloccando la porta. «Carol! Non sei l'unica a essere stata aggredita da quegli uomini.» Per un attimo la pressione sulla porta rimase forte, ma poi cedette, e il viso magro, semiparalizzato di Carol, incorniciato da una ciocca di capelli dello stesso identico colore, biondo scuro, di quelli di Catherine, apparve di nuovo nello spiraglio. «Di... di che stai parlando?» «Mi hanno confusa con te.» Si avvicinò facendosi illuminare dalla fetta di luce gialla che usciva dalla porta e si tirò indietro i capelli che nascon- devano la cicatrice. Persino con il fondo tinta la cicatrice era distintamente visibile. «Carol, io credo che questo fosse diretto a te.» L'esile mano di Carol scattò a coprirle la bocca, nascondendone il tremo- re. Per un attimo la fissò senza parlare. Poi la voce proruppe in un grido: «Vattene!» Sbatté la porta. E Catherine udì i catenacci serrarsi e il singhiozzare fu- rioso di Carol. Secondo la data di nascita riportata nella scheda, doveva avere ventidue, ventitré anni. Non erano indicati familiari a New York, né un ragazzo fis- so, e Catherine non ne aveva tratto l'impressione che vi fosse qualche ami- co tanto caro da prendersi cura di lei. Neanche un medico. Ripensò ai pro- pri giorni di pena e di terrore e dolore seguiti all'aggressione, alla voce tranquilla di Vincent, e alla irrefrenabile solidarietà del padre durante i lunghi giorni di convalescenza seguiti all'operazione di chirurgia plastica. Secondo la scheda, Carol si era fatta medicare le ferite al Pronto Soccorso del Medical Center universitario, e poi era tornata a casa. A casa, dove non l'aspettava altro che la paura che potesse accadere di nuovo. E persino do- po otto mesi era chiaro che quella paura era ancora forte e viva. Dopo un poco Catherine si chinò e infilò il biglietto da visita sotto la porta. «Se ti viene voglia di parlare con qualcuno che sa come ti senti» disse con calma, ma alzando la voce per farsi capire al di là della porta, «chiamami.» Non ebbe risposta, ma si udì il suo singhiozzare, come se la donna fosse appoggiata alla porta, chiusa e sbarrata come una prigione, incapace di smettere di piangere tutta la sua disperazione. Profondamente addolorata, Catherine si avviò lungo il corridoio. Braccia d'acciaio la serrarono; una forza terribile la sollevò da terra. Lei si divincolò, lottò, scalciò, ansimante per lo sforzo, mentre la voce di un uomo le bisbigliava forte e calda nell'orecchio. «Non puoi fare niente, eh? Beh, sarà meglio che ci provi.» La luce fredda di gennaio riempiva la mansarda. Disperatamente, Cathe- rine tentò di rompere la presa di Isaac, che le immobilizzava le braccia; si buttò all'indietro, contro di lui, tentando di colpire con i gomiti i bordi duri degli indumenti protettivi che egli indossava sul torace, lo stomaco e l'in- guine. Malgrado la fascia sulla fronte, i capelli sudati le si impigliavano in bocca e negli occhi. Lui la teneva con tutta la sua forza, come avrebbe fat- to un vero aggressore, ed era eccezionalmente forte. «Allora, che vuoi fare?» la prese in giro, mentre il mento irsuto le grat- tava l'orecchio. «Ehi, che vuoi farmi adesso?» Per un attimo fu presa dalla disperazione, e avrebbe voluto fermarsi per chiedergli cosa poteva fare. Lui era più grosso, più alto e aveva la forza di un maschio. Ma un istinto le disse che stavolta lui non avrebbe smesso. "Maledizione" pensò, "non vale, io non sono ancora pronta." Non era stata pronta neanche per gli uomini del furgone. Quel pensiero ne fece riemergere altri: il ricordo della loro forza, e quella terribile sensa- zione di impotenza contro di loro. Era tornata a quella notte, con l'odore di pioggia, e di scarichi delle auto, il puzzo dell'uomo misto all'odore di un deodorante da quattro soldi, era tornata su quel marciapiede, con lo spor- tello del furgone che le si spalancava davanti. Di nuovo spaventata, di nuovo impotente... come quella ragazza del sogno, accasciata nel suo bel- l'abito stracciato, mentre mormorava: «Sono cose che capitano.» Il guscio che aveva costruito attorno a quei ricordi si incrinò. Il muro e- retto a nascondere quei pensieri per proteggerla dal terrore si squarciò, con un effetto quasi palpabile, e la nera crudezza del terrore si rovesciò fuori, trasformata in furia omicida. Con un grido animalesco, riuscì ad aggancia- re con l'alluce l'incavo del ginocchio di Isaac e tirò, scalciando. Il ginoc- chio cedette e appena l'altro piede sfiorò il pavimento lei si gettò all'indie- tro contro il corpo di lui, con tutte le sue forze. Preso di contropiede, il negro cadde sulla schiena, e Catherine, utiliz- zando il proprio corpo come arma, gli si gettò sopra, divincolandosi appe- na sentì la presa di lui allentarsi mentre cadevano sul tatami. Con un urlo che neppure si rese conto di emettere, si rimise in piedi, prendendolo a cal- ci, mentre egli tentava di rialzarsi per riagguantarla, e colpendolo di nuovo dopo che era ricaduto a terra. Un fuoco le montò dal fondo del suo essere, bruciandole il corpo. Afferrò l'arma più vicina, una mazza da baseball che avevano adoperato alcuni giorni prima durante l'allenamento; l'uomo stava per rialzarsi.
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