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La Bella e la Bestia, Sintesi del corso di Sociologia

Sociologia dei codici culturali

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 11/09/2020

gabriele-pata
gabriele-pata 🇮🇹

5

(2)

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Scarica La Bella e la Bestia e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! PROLOGO -Il tipo umano- I tipi presentati costituiscono 4 variazioni anomale sul tipo de la Bella e la Bestia; anomale perché tendono in modo eccessivo e irregolare la struttura dell’omonima fiaba, e ne viene conservata solo la dinamica di contrapposizione bipolare fra una bellezza positiva e una bestialità negativa. Le tante riletture della fiaba che si sono succedute nel tempo, come spesso accade, si compongono tutte di una parte stabile e di parti variabili. Infatti, rimaneva pressoché invariato lo schema principale, ma cambiavano e si alternavano elementi e motivi secondari (sia sul piano dello sviluppo normativo, si sul quello della definizione dei personaggi). Cosi più volte mutano frammenti e finali della storia, non necessariamente lieti, come i tratti della Bella e della Bestia. Ed è proprio questo aspetto di stabilità delle figure, pur nella modifica dei caratteri, che ci interessa. Si vuole dare rilievo, cioè, alla perenne necessità di una Bella e una Bestia nel proliferare incessante di Belle e Bestie dalle fattezze sempre diverse. Si noterà subito che della Bella è detto sempre molto poco. Viene continuamente ribadito che la sua è una bellezza indissolubilmente fisica e morale. La Bella è tale essenzialmente per contrasto alla Bestia. Anche la Bestia delle origini però è sfumata e indefinita. Ben presto, però, gli illustratori hanno bisogno di dar forma all’immaginazione e di fissarla in una rappresentazione dell’orrido e del riprovevole. La Bestia si fa cosi maiale gigantesco e rospo, pesce e lucertola, ad un sincretico coacervo animale. Lupo quasi mai, poiché già appannaggio di Cappuccetto Rosso. In più occasioni, ritorna anche l’iconografia cristiana del diavolo, fatta di zoccoli, peli, code e strane protuberanze. Ma la Bestia è tale soprattutto come orso che, come ci raccontano i bestiari medievali, è re delle bestie e perciò simbolo di potere, in un trono contesogli solo dal leone. L’orso è belva credibile per porsi come allegoria animale dell’umano e figura di mediazione fra mondo fantastico e mondo reale dato che, emblema del forestiero, del selvaggio, è anche la più antropomorfa delle figure della forza animale, con la sua goffa capacità di camminare in posizione eretta sulle zampe posteriori. Attenzione però: l’orso non sempre è la personificazione della Bestia, poiché quest’ultima muta al ritmo storico delle persone. Dunque il modificarsi continuo del personaggio delle paure muta di riflesso la percezione e l’immagine della Bestia. Ma se si trasformano nel tempo i canoni del mostruoso, del deforme, del brutto, non per questo si perde l’esigenza sociale di una Bestia, o meglio di una Bestia e di una Bella, perché ogni società si concede il proprio regime complementare di bestialità e di bellezza. E’ anche per questo comunemente nelle favole i personaggi non hanno un nome proprio. C’erano una volta principesse, principi, regine e re, rospi e streghe, tutti senza nome. Nelle favole le proprietà incarnate dai nomi comuni sussumono i nomi propri. Quindi se cambiano i tratti e i caratteri delle belle e delle bestie, ma i protagonisti restano una Bella e una Bestia, significa che di volta in volta, la favola espone un ideale normativo e regolativo di bellezza e bestialità. In questa chiave, la favola è un luogo simbolico di rappresentazione di processi sociali di antropo-poiesi, di quegl’interventi cioè che le società operano sui corpi individuati e collettivi per plasmare l’uomo compiuto, atteso e desiderabile, e distinguendo dal quasi-uomo, dal semi-uomo e dal non-uomo., perché la meccanica del fare umanità è un dispositivo di distinzione e separazione del Medesimo dall’Altro, del Noi dal non-Noi. La morale della favola istituisce e lavora il confine fra il bello e il brutto, che è anche frontiera fra il buono e il cattivo; la favola disegna i contorni del giusto e dell’ingiusto che hanno proprietà sia morali che fisiche. Ebbene, questo racconto magico si piega, di volta in volta, all’indirizzo morale/pedagogico che la penna degli autori vuole imporre al reale. Le due versioni portanti del canone ne sono un chiaro esempio: 1)Madame de Villenueve patteggia per i matrimoni tra spiriti sinceri, per i diritti del cuore, per la libertà degli autentici fautori delle posizioni amorose. 2)Madame de Beaumont, invece, riscrive la stessa favola come favola d’ordine. Istruisce le sue allieve e le sue lettrici alla morale dell’obbedienza e della rassegnazione all’economia coniugale dell’epoca. In cambio offre un principio di speranza sulla possibile sorpresa per un uomo che potrebbe rivelarsi meno selvaggio e feroce del temuto, per una conversione in extremis. E’ indubbiamente l’800 l’epoca d’oro della categorizzazione e tipizzazione dell’umano, come il ‘900 lo sarà della sua standardizzazione. E’ in questo tempo che il ripetitivo e insistente tentativo di estrazione di uomo medio, uomo nella e della norma, produrrà sterminate bibliografie e iconografie della normalità e della devianza della Bella e della Bestia. Nella favola delle api -forse il distillato più puro dell’antropologia individualistica, gerarchica e proprietaria della modernità- rimaneva dunque il principio di convergenza fra organizzazione sociale e organizzazione morale, secondo il quale: ogni società ideale ha un suo tipo di ideale, che è un ideale regolativo e performativo. Negli scritti che seguono si narrano 4 episodi di questa dialettica fra tipi prevalenti e umanità minori, fra tipo e anti-tipo. Si seguono 4 incarnazioni dell’umano e del disumano, che sono, al contempo, figure della fama e dell’infamia. CAPITOLO II-SPA – Il capitale estetico Il nostro corpo parla di noi, anche se non vogliamo. Danno una mano in questa ricerca del sé gli abiti che meglio riflettono il nostro essere, un make-up che interpreta il nostro carattere, e cosi via. Il corpo parla: è lui a dichiarare ciò che siamo, l’unico veramente autorizzato a esprimere la nostra identità. Il dentro e il fuori si condizionano a vicenda: immagine esteriore ed effetto interiore, trucco e cura, sono stai uniti sotto il segno della rinascita sociale e della salute. Da sempre l’investimento economico/culturale sulla bellezza si trova al centro delle dinamiche di riconoscimento sociale e ciascun periodo storico ha visto dominare uh proprio modello estetico. Oggi però assume una centralità del tutto inedita anche nel campo lavorativo. Georges Vigarello (storico e sociologo francese) riconosce come ci sia stato un passaggio da una bellezza formale, immobile, nei quadri dei ritrattisti classici, a una dinamica e scottante che insegue la propria libertà, anche tramite forme fisiche toniche. Un nuovo paradigma per la bellezza, ma anche per il lavoro. Il motivo per il quale sempre più aziende scelgono il proprio personale, non soltanto in base alla professionalità, risiede, secondo Hamermesh (economista americano), non tanto nella maggiore produttività dei belli, quanto in una vera e propria pratica discriminatoria ai danni dei brutti, o di quelli che hanno un aspetto medio. La bellezza sembrerebbe quindi imporsi come strumento, o risorsa, per favorire mobilità sociale, consentendo a chi è povero di altri tipi di risorse di raggiungere posizioni superiori e di accedere a ruoli dominanti. Rappresenta una capacità innata per qualcuno ma che, per tutti gli altri, può essere acquisita nel corso della vita con l’aiuto della chirurgia plastica e delle tecniche di miglioramento dell’aspetto esteriore. Proprio perché la bellezza è democratizzata, si sta facendo strada un nuovo tipo di diritto: quello alla bellezza. Anche il povero ha diritto ad essere bellissimo. La bellezza quindi, costituisce un tipo di capitale, vale a dire una risorsa di potere. L’investimento in capitale estetico consente di raggiungere l’obbiettivo di entrare a far parte della classe dei dominanti. I capitali costituiscono delle risorse che ciascun individuo spende nella propria lotta di affermazione all’interno di un campo. Essi quindi definiscono l’individuo stesso e lo connettono all’interno del gioco sociale: più gli agenti ricoprono una posizione prestigiosa e vantaggiosa all’interno di un corpo grazie al capitale specifico posseduto, più le loro strategie saranno vincenti. Il capitale estetico può essere di 2 tipi: 1) incorporato, che presenta lo schema canonico del bello dominante; 2) oggettivato, ovvero ottenuto con le modifiche apportate al corpo per avvicinarsi al modello del bello dominante. Anche il capitale estetico, come gli altri, gode del principio di convertibilità in altri tipi di capitale, per esempio economico e sociale. L’interesse per l’estetico ha dunque come scopo il riconoscimento e la visibilità all’interno di campi dominati da classi che si distinguono per volume di capitale. C’è chi invece, nonostante abbia altri tipi di capitale, investe in quello estetico confermando la sua importanza per la società. L’investimento per coloro che si trovano in deficit di supporti, l’investimento nel proprio aspetto, nella cura della propria bellezza, può essere un’arma, una chance di riuscita nella società. L’idea che cambiando il proprio corpo si possa modificare anche la propria vita costituisce parte dell’immaginario comune: da notare i reality nei quali con tonalità epiche si raccontano di interventi di chirurgia estetica. Sembra che “operarsi il corpo” sia sinonimo di “operare una scelta”. Si interviene sul corpo e sull’immagine esteriore per modificare l’interno. Il corpo è mezzo, strategia, progetto e le tecniche estetiche sono strumento di gestione del corpo/capitale. Il culto estetico contemporaneo ha tra i propri templi la palestra, che rappresenta il grado zero della modifica corporea, quella più naturale che, se associata ad un’alimentazione sana ed equilibrata contribuisce, a realizzare un “corretto stile di vita”. Avere una forma fisica tonica e una aspetto curato sono divenuti sinonimi di salute. Trasformare il proprio corpo, anche quando sono inesistenti problematiche mediche che giustificherebbero un intervento, esprime tutta l’autonomia sul corpo-proprietà, e conduce alla felicità e al benessere, sia sociali che individuali. La dicotomia normale/patologico si trasformerebbe oggi in normale/migliorabile. I chirurghi rappresentano quindi una scorciatoia verso l’adeguamento agli stereotipi di bellezza. Cosi come la chirurgia estetica, anche la dieta e l’attività fisica divengono strumenti di autoliberazione, attraverso cui esercitare il controllo di sé e del proprio corpo. Dimostrando cosi di aver compreso il ruolo che si ha nella società. Dunque un corpo curato appartiene sempre a un individuo che è degno di attenzione, che è rispettabile; viceversa un aspetto distante dal modello estetico dominante e dalle forme stereotipate, non potrà che rimandare a una moralità, se non riprovevole, quantomeno discutibile. Gli individui con tratti fisici conformi al modello estetico dominante si contrappongono a coloro che si discostano dal modello stesso, sulla base di caratteristiche estetiche che vanno a determinare la nascita di gruppi contrapposti. Si può parlare, quindi, di un vero e proprio processo di “autorazzizzazione”. L’obbiettivo della chirurgia estetica è fare “come se” il corpo fosse naturale, finalmente conforme a norme sociali. CAPITOLO III-OPG – La strategia della lumaca. Sono stati necessari 3 lustri per il processo di destituzione degli OPG. E’ stato necessario un contesto permeato da un consumo emotivo tipico di una topica della sofferenza delle condizioni igienico-sanitarie (in bella vista grazie a filmati), che diventa proponibile l’emendamento del cosiddetto “decreto svuota- carceri”. E’ un consenso di epoca nuova, fondato più sull’assenso che sulla partecipazione e coagulato attorno a una spinta morale, più che politica. Esattamente l’inverso del dissenso sulle istituzioni e del fermento nelle istituzioni che ha caratterizzato l’intero percorso di critica anti-istituzionale negli anni ’60 e ’70. Un consenso sviluppatosi grazie ad un umanitarismo vittimario, che potremmo intendere come indicatore di tendenza. Il tratto igienico-sanitario che si pone, più o meno tatticamente, come frame dell’intero processo di deistituzionalizzazione, in qualche modo si riverbera sulle modalità prescelte per l’effettivo superamento dell’istituzione totalitaria. Il “definitivo superamento” è infatti una soluzione topica, che si sostanzia in un intervento sulla forma consolidata dell’OPG: la struttura di stampo carcerario e impianto ottocentesco viene ridimensionata a favore di strutture dai volumi ridotti, a matrice sanitaria e su base regionale. Che questo determini l’effettivo superamento deli OPG è posto in dubbio da un nutrito movimento. Le critiche si appuntano sostanzialmente sull’assetto di una riforma che tenderebbe a modificare le forme dell’istituzione senza intervenire sulle logiche della sua produzione e riproduzione, il che in pratica significa senza intaccare l’impianto codicistico dell’imputabilità e della pericolosità spciale, veri capisaldi del dispositivo psichiatrico-giudiziario. In sintesi si tratterebbe di un mero intervento architettonico, non in grado di incidere sull’architettura istituzionale, poiché mancante di norme penali. Ci si interroga su destino o strategia della lumaca, metafora dei luoghi di custodia fra ‘600 e ‘700, ancora è in dubbio stia spirando, lasciando vuoto il proprio guscio, o se con lenta destrezza stia spostando altrove la propria fortezza mobile. Cammino difficile quello della rinuncia sociale allo statuto di pericolosità del folle. In questa chiave il manicomio si configura come il trattamento piretico-sociale che si pratica al superamento di una certa soglia di pericolo, indipendentemente dall’aver commesso o meno un reato. A lungo manicomio civile e criminale restano in una zona di indistinzione. La radice di una tale permanenza di pericolosità è da rintracciare nella costante identificazione nel folle del paradigma del soggetto non proprietario. Infatti se il folle non ha un grado zero di pericolosità, è però il grado zero della proprietà; tra i soggetti non proprietari, è colui che non possiede neanche se stesso. In quanto non-padrone di sé, il folle è la differenza radicale dal soggetto proprietario, ragione della modernità. Ma l’improprio , in quanto opposizione pura dell’universo proprietario, è anche infame, cioè, soggetto reputato inaffidabile sul piano sociale e inattendibile in campo giudiziario: qui risiede la sua pericolosità strutturale, non è un uomo di parola. Non a caso nell’economia politica della pena, mentre è in uso che un detenuto, espiata la propria condanna, abbia “regolato i conti” con la giustizia, non è previsto che un internato possa scontare la propria pena o saldare il proprio debito con la società, l’ideologia del debito è sospesa.
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