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La bibbia al rogo - Gigliola Fragnito, Dispense di Storia Moderna

Riassunto dettagliato e esteso del testo La bibbia al rogo di Gigliola Fragnito.

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 17/12/2022

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marcello_de_giorgi 🇮🇹

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Scarica La bibbia al rogo - Gigliola Fragnito e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Gigliola Fragnito – La Bibbia al rogo Cap. 1 - La Riforma e le traduzioni della Bibbia 1. La grande stagione delle traduzioni - Nel corso del dibattito intorno alle traduzioni della Sacra Scrittura nelle lingue volgari che si svolse al Concilio di Trento nel 1546, tra i vari argomenti avanzati venne evocata la diversità delle tradizioni «nazionali». Alcuni padri osservarono che, mentre in paesi come Spagna e Francia l’accesso alla Bibbia negli idiomi materni era stato vietato da molti anni, in altri paesi come Italia, Germania e Polonia era usuale leggere la Bibbia nelle versioni in vernacolo. A questa disparità si appellarono i Legati per evitare sia che lo scontro tra favorevoli e contrari delle traduzioni assumesse dimensioni incontrollabili, sia che una deliberazione conciliare, favorevole o contraria, suscitasse le reazioni di quelle «nazioni» in cui vigeva la libertà o il divieto all’accesso alla Sacra Scrittura. La questione della volgarizzazione della Bibbia fu per il momento accantonata. Ma di questo dibattito, che animò le prime sedute del Concilio, merita ritenere un dato essenziale: nella geografia biblica disegnata a Trento alla metà del Cinquecento l’Italia fu annoverata tra i paesi in cui vi era una diffusa pratica di lettura della Bibbia. A fare calare il silenzio su una consuetudine che gli stessi padri conciliari, riuniti per risanare la frattura provocata dalla Riforma, non ebbero l’ardire di condannare, ha certamente contribuito una consolidata tesi che tende a collegare la diffusione della Bibbia all'espansione della riforma. Probabilmente questo è dovuto al fatto che per la ricerca è stata utilizzata soprattutto documentazione di origine inquisitoriale. Si è finito in tal modo coll’adottare la stessa ottica deformata che il Sant’Ufficio riuscì ad imporre alla Chiesa di Roma: le versioni della Scrittura nelle lingue parlate erano all’origine dell’espandersi dell’eresia. Questa impostazione sottoposta da tempo a revisione in area protestante, sembra perdurare negli studi sulla Riforma in Italia e condizionare anche chi si impegna a dimostrare l'infondatezza di quel paradigma. Che una forte domanda ci fosse stata molto prima della comparsa sulla scena europea di Lutero lo ha dimostrato di recente Edoardo Barbieri nella sistematica indagine sulle edizioni a stampa quattro e cinquecentesche della Bibbia in italiano. Infatti, la prima traduzione del testo integrale della Bibbia ad opera del monaco camaldolese Nicolò Malerbi, apparsa a Venezia il 1° agosto 1471, a soli cinque anni dal primo volgarizzamento tedesco, conobbe entro la fine del secolo circa dieci ristampe, di cui tre arricchite di innumerevoli illustrazioni. Se alle dieci edizioni del Malerbi si aggiunge la cosiddetta Bibbia d'ottobre o jensoniana, ossia la versione anonima uscita a Venezia il 1° ottobre del 1471, l’Italia con undici edizioni si colloca alla fine del Quattrocento al secondo posto, immediatamente dopo la Germania, nella produzione di Bibbie in volgare. All’immediato successo riscosso dalla traduzione del Malerbi seguì una progressiva contrazione della domanda che toccò i limiti più bassi tra il 1500 e il 1530. Nell’arco di quei trent'anni furono stampate, sempre a Venezia, solo cinque edizioni della versione del Malerbi. Rispetto al precedente trentennio la produzione si era, quindi, più che dimezzata. Non vi è dubbio che responsabili di questo calo siano state sia la saturazione del mercato a seguito delle numerose edizioni quattrocentesche, sia le difficoltà incontrate nel reperire i capitali per un’impresa editoriale, quale la stampa del testo biblico, che necessitava investimenti di una certa rilevanza, in anni in cui Venezia fu direttamente coinvolta nelle guerre che sconvolsero la penisola. Non è da escludersi, tuttavia, che questo declino fosse determinato anche da motivazioni di ordine culturale. Da un canto, la nuova dignità cui stava assurgendo il toscano grazie al recupero della grande tradizione letteraria volgare da parte di Aldo Manuzio e di Pietro Bembo, dall'altro, i progressi della filologia biblica dovevano palesare a lettori dai gusti più raffinati e dalle esigenze più critiche tutta l’inadeguatezza e l’arretratezza della traduzione malerbiana. Solo nel 1532 uscì a Venezia, per Lucantonio Giunta, la versione integrale della Bibbia del fiorentino Antonio Brucioli, preceduta nel 1530 dalla versione del Nuovo Testamento e nel 1531 da quella dei Salmi. È indubbio che il ritardo con cui comparve una nuova traduzione - che seguiva di ben sessant'anni quelle del Malerbi e la jensoniana (che riproduceva in parte quella del camaldolese) - derivasse dalle implicazioni che l'impulso dato dall’umanesimo allo studio filologico dei testi biblici non poteva mancare di avere anche sui volgarizzamenti. Il nuovo metodo storico-critico applicato alla Sacra Scrittura, imponendo il ritorno ai testi originali in ebraico e in greco, aveva, infatti, messo in evidenza la necessità di una revisione della Vulgata di san Girolamo. Ciò aveva comportato un prolungamento dei tempi di gestazione di nuove edizioni latine. La messa in discussione della correttezza e della fedeltà della Vulgata, accentuatasi con la pubblicazione nel 1516 della traduzione latina del Nuovo Testamento eseguita sul testo greco ad opera di Erasmo, dovette ripercuotersi anche sulle versioni negli idiomi materni. In una situazione di grande fermento, in cui non esisteva ancora una traduzione latina dell'Antico Testamento eseguita sull’originale ebraico che potesse costituire un solido punto di riferimento, è probabile che gli aspiranti volgarizzatori procrastinassero il loro lavoro in attesa delle più aggiornate acquisizioni della filologia biblica. Non è un caso che alla traduzione Brucioli si sia accinto dopo aver trascorso tra il 1522 e il 1526 prolungati soggiorni a Lione dove c’era un vivace interesse per la traduzione dei libri sacri. È in quel clima di vivace interesse per i libri sacri che il Brucioli dovette maturare il proposito di una traduzione italiana, affidandosi per il Nuovo Testamento tradotto in lingua toscana all’interpretazione latina di Erasmo e per l'Antico, apparso nell’edizione dell’intera Bibbia del 1532, alla Traduzione del nuovo e vecchio Testamento del Pagnini, pubblicata a Lione nel 1527 ed eseguita sul testo ebraico. I collegamenti con la Francia non sembrano, però, arrestarsi qui. Che il Brucioli, dedicando la sua traduzione a Francesco I (re di Francia), si aspettasse una qualche ricompensa è possibile. Ma la polemica nella dedica contro chi sosteneva che la Bibbia non dovesse essere resa accessibile a tutti nelle lingue materne suggerisce che la scelta del destinatario non sia stata dettata soltanto dai vantaggi materiali. Non erano, infatti, trascorsi molti anni da quando, nel 1526, il Parlamento di Parigi, su pressioni della Facoltà di teologia, allarmata dal successo della traduzione francese del Nuovo Testamento di Lefèvre, aveva ordinato il sequestro di qualsiasi traduzione biblica e aveva vietato ai tipografi di stamparne in futuro. È possibile che Brucioli non accettasse e in polemica con il Parlamento di Parigi sperasse in una revoca del provvedimento, visto che era stato emanato in assenza di Francesco I, prigioniero di Carlo V. Diversamente da quanto era accaduto al Lefèvre, la traduzione del Brucioli, per lo meno nell'immediato, non incontrò alcun ostacolo, anzi. Pur non soppiantando quella del Malerbi, riprodotta tra il 1532 e il 1567 in otto edizioni, la traduzione integrale del Brucioli ebbe sei edizioni. Ma al di là del successo commerciale, l’opera del Brucioli ebbe l’effetto di risvegliare un forte interesse per la volgarizzazione del testo sacro e di moltiplicare le traduzioni vernacole. Sulla sua scia altri traduttori predisposero nuove versioni. Tra il 1530 e il 1558 la produzione biblica delle tipografie veneziane (le uniche della penisola attive in questo settore) toccò il suo apice: almeno 15 edizioni dell’intera Bibbia e 16 del Nuovo Testamento vennero immesse sul mercato. Questi dati sulla produzione biblica volgare tra il 1471, data della prima edizione, e il 1567, data dell’ultima edizione stampata in Italia fino alla seconda metà del Settecento, documentano innanzitutto la sostanziale accettazione della Chiesa di Roma alla produzione e diffusione dei volgarizzamenti fino alla chiusura del Concilio di Trento, salvo una breve inversione di rotta tra la pubblicazione dell’indice del 1559, che vietò la stampa di traduzioni bibliche, e quella dell’indice del 1564, che tornò ad autorizzarla. Un condiscendenza che non può non destare qualche sorpresa sia alla luce dei tempestivi interventi contro le traduzioni bibliche da parte del Parlamento di Parigi (1526) e del vescovo di Londra (1526), nonché di Enrico VIII (1530), dopo la pubblicazione del Nuovo Testamento in lingua francese di Lefèvre, sia alla luce dei contenuti di discutibile ortodossia delle traduzioni italiane. La Bibbia del Brucioli, infatti, non sarebbe incappata nelle maglie dei censori se non molti anni dopo la sua prima edizione. Eppure i motivi per vietarla non mancavano. Innanzitutto si trattava della prima traduzione italiana a non essere eseguita sulla Vulgata latina. Inoltre nella Tavola che elencava i libri scritturistici, non includendo tra i libri legali i Vangeli, egli accoglieva il rifiuto luterano della tradizionale ripartizione dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Con Lutero relegava in un’apposita appendice, in quanto non facenti parte del canone ebraico, i libri deu-te-ro- canonici (sono quei libri della Bibbia che sono stati accolti nel canone della Chiesa cattolica). I prestiti dalla traduzione luterana Se il prestito consentiva di aggirare il problema dei costi che, per quanto ridotti rispetto al manoscritto, rimanevano alla portata di pochi, la lettura a voce alta in una società il cui tasso di analfabetismo era altissimo, permetteva di ampliare in maniera enorme il numero dei fruitori. Stando, quindi, alla quantità non trascurabile di edizioni e alla diffusa consuetudine del prestito e dell’oralità, si può ipotizzare che la traduzione del Malerbi abbia conosciuto una discreta diffusione. Testimonianze coeve sembranonconfermare che i testi biblici in volgare avevano una certa circolazione. L'attenzione con cui si guarda da qualche anno anche in Italia al libro (manoscritto e a stampa) come mezzo di diffusione della cultura e come strumento indispensabile per conoscenza della mentalità di una società nelle sue diverse stratificazioni, se ha indubbiamente privilegiato il periodo successivo alla penetrazione delle dottrine dei riformatori nella penisola, non ha del tutto trascurato il periodo precedente, segnato anch'esso da un evento di capitale importanza quale fu appunto l’invenzione della stampa. Sono stati, infatti, pubblicati o analizzati cataloghi di biblioteche e inventari post mortem di libri, alcuni dei quali risalenti ad anni precedenti l’invenzione della stampa o la diffusione della Riforma protestante. È, peraltro, impossibile allo stato attuale delle ricerche e della documentazione individuare il posto occupato dai volgarizzamenti biblici nelle biblioteche del tempo. Da un canto, la fretta e spesso l’incompetenza con cui i notai registravano, tra i beni dei defunti, raccolte cospicue o pochi volumi: riferimenti generici al numero dei pezzi («64 libri»), al settore disciplinare («libri di umanità», «libri historici», «libri di devozione»), o a libri dello stesso formato sostituiscono progressivamente elenchi particolareggiati. Dall’altro, di fronte all’impossibilità di estrarre da questa documentazione e pubblicare le centinaia di elenchi, si è spesso proceduto ad analisi globali, tese a fare emergere i gusti e gli interessi diversificati dei loro proprietari a seconda del ceto di appartenenza e della professione o mestiere esercitati. Per la loro stessa impostazione, studi di questo tipo, pur non trascurando la presenza del libro di devozione, non forniscono dati utili all’individuazione del posto occupato dai materiali biblici in volgare all’interno delle liste esaminate. Queste forti limitazioni emergono anche dal più ricco corpus di documenti pubblicato in anni recenti: i 582 inventari post mortem dei libri dei fiorentini redatti per il Magistrato dei Pupilli editi da Christian Bec. Estendendosi su un arco cronologico ampio, che va dal 1413 al 1608 e che ingloba due momenti essenziali della storia europea - l'invenzione della stampa e la diffusione della Riforma - essi rivestirebbero un'importanza del tutto particolare se le carenze dei metodi d'inventariazione cui si è accennato non li privassero di gran parte del loro interesse, non consentendo neppure di verificare l'impatto di quei due eventi sui contenuti delle biblioteche, sempre più sommariamente descritti man mano che ci si allontana dal manoscritto e ci si inoltra nel Cinquecento. Pur con questi limiti, dagli inventari fiorentini si possono ricavare alcuni elementi utili relativi alla diffusione dei volgarizzamenti biblici. Raramente è dato incontrare tra il 1413 e il 1520 Bibbie complete e spesso non è indicato se si trattava di versioni latine o volgari: le sole Bibbie in volgare che potrebbero essere identificate con quelle del Malerbi non vengono registrate prima del 1502 e del 1510. Pur se negli elenchi anteriori al 1471 (data di pubblicazione della Bibbia malerbiana) si segnalano Bibbie in volgare, è probabile che si trattasse di parti della Scrittura, come viene del resto precisato in più di un caso. Come abbiamo accennato, testi completi della Bibbia in volgare anteriori alla prima edizione a stampa erano rarissimi a Firenze. La presenza delle traduzioni bibliche, tuttavia, non s’infittisce neanche per effetto della Riforma: tra il 1531 e il 1569 solo 7 Bibbie e 2 Nuovi Testamenti vengono elencati, accanto a un libro dei Profeti e a una generica segnalazione di testi della Bibbia. Tra il 1570 e il 1608, quando i divieti si sono moltiplicati, le Bibbie di cui è esplicitamente detto che sono in volgare si riducono a due. A fronte di questa parca presenza di Bibbie e Nuovi Testamenti, gli inventari testimoniano una estesa diffusione dei Vangeli, di singoli libri della Scrittura (come l’ Apocalisse e i Salmi), e di testi che riorganizzavano la materia biblica offrendone estratti come i lezionari, ossia le Epistole et evangeli per l’anno liturgico, il Salterio, le Esposizioni dei Vangeli. Molto presenti sono anche i Fioretti della Bibbia che riassumevano la storia sacra dalla creazione del mondo fino all’avvento di Cristo, utilizzando materiale apocrifo, nonché notizie mitologiche e di storia profana. In assoluto tra i libri più posseduti dai fiorentini figurano gli Offitiuoli della Madonna, che contenevano preghiere, inni, canti, salmi e capitoli dei Vangeli e preghiere a vari santi, nonché il salterio per putti. Testo di avviamento all’apprendimento della lettura, contenente anch'esso estratti della Scrittura, il Salterio per putti veniva adoperato nelle scuole d’umanità e nelle scuole d’abaco. Nonostante i limiti accennati gli inventari del Magistrato dei Pupilli si prestano ad alcune considerazioni generali. Essi innanzitutto documentano il netto predominio dei libri del Nuovo Testamento (Vangeli, Epistole paoline, Apocalisse) rispetto all’Antico, se si escludono i Salmi: neppure la centralità che assunse l'Antico Testamento nella predicazione di Girolamo Savonarola sembra aver modificato questa posizione privilegiata dei testi neotestamentari. Essi poi denotano uno squilibrio, che sembrerebbe essersi attenuato nel corso del secolo, tra le traduzioni del testo integrale della Bibbia, del Nuovo Testamento, o di singoli libri della Sacra Scrittura e la vastissima gamma di scritti in cui estratti del testo biblico sono stati diffusi in volgare. Questa predominanza dei testi di devozione dai contenuti biblici rispetto alle traduzioni della Scrittura può trovare una spiegazione sia nella circostanza che, anche in un’area tra le più alfabetizzate della penisola e dell’Europa d’allora, accostarsi ai libri sacri era ancora alla portata intellettuale di pochi, sia nel fatto che ì costi di un esemplare manoscritto o a stampa erano accessibili a pochi. Gli inventari evidenziano, inoltre, come le vie di accesso alla Scrittura fossero molteplici e passassero attraverso una ricchissima varietà di scritti, che la stampa e la volgarizzazione avevano messo a disposizione di un più vasto pubblico. Spesso tradotti con intenti didattici in versi facilmente memorizzabili, questi testi che risalivano talvolta al Trecento consentivano al fedele di entrare in contatto, attraverso la lettura individuale o l’ascolto, con più o meno consistenti frammenti della Bibbia. È, invece, ipotizzabile che, per lo meno fino all’apparizione delle versioni italiane cinquentesche, più curate stilisticamente e filologicamente, le minoranze colte dipendessero per la conoscenza della Sacra Scrittura dalla Vulgata latina, piuttosto che dalla traduzione malerbiana. Sarebbe pertanto arbitrario separare i due canali linguistici (latino e volgare) di accesso alla Parola divina, che dovettero a lungo correre paralleli, per poi intrecciarsi. Canali che del resto, le stesse testimonianze coeve spesso non distinguono. Tuttavia, è opportuno soffermarsi su due tipi di istituzioni, i monasteri femminili e le confraternite, all’interno delle quali s’intravede una penetrazione della Sacra Scrittura la cui estensione ed il cui spessore meriterebbero di essere indagati. Nel 1571 il vescovo di Cagli e Pergola, il vescovo della Rovere, durante una visita nel monastero delle clarisse di Monteluce, vietò alle religiose la lettura della Bibbia in italiano. Come fosse accolto quel divieto non è dato sapere, ma dall’ammirazione con cui, registrando nella cronaca del monastero la morte di alcune monache, si accennava alla loro «intelligentia» della Sacra Scrittura, si può facilmente desumere che il disappunto fu grande. Prima di quell’intervento censorio, a Monteluce le traduzioni avevano consentito sia a chi era digiuno di latino, sia a chi era analfabeta di accostarsi alla Bibbia, attraverso la lettura ed attraverso l’ascolto. D'altro canto, questa familiarità delle religiose con i testi biblici emerge anche da quei rari inventari di libri sequestrati nei monasteri femminili in applicazione dell’indice clementino (1596). Traduzioni della Bibbia, del Nuovo Testamento, e dei Salmi, oltre ai lezionari e a vari altri scritti di contenuto biblico in volgare, sono presenti nelle biblioteche comuni, ma anche nelle singole celle a testimoniare di un rapporto diretto e personale delle religiose con la Scrittura, cui non rinunciarono neppure dopo il 1559 quando i divieti iniziarono ad abbattersi sui volgarizzamenti. Venendo al mondo confraternale, riveste particolare interesse l’inventario degli arredi e dei libri della Compagnia dei Disciplinati di Santa Maria della Scala di Siena redatto nel 1492. Vi figurano Bibbie, Vangeli ed epistole manoscritti tutti in volgare. Lungi dall’essere chiusi in qualche armadio, questi codici, «tutti legati in catene di ferro (sopra) legii portabili di legno», erano a disposizione dei membri della confraternita, che annoverava gentiluomini e artigiani. La «licentia legendi» rilasciata a tutti i confratelli nel 1559 dal commissario dell’inquisizione sul manoscritto contenente l'Antico Testamento, pervenuto fino a noi, consente di ritenere che la lettura del testo sacro rientrasse tra le pratiche devozionali della Compagnia. Anche la confraternita di San Girolamo di Perugia era stata dotata, grazie al lascito nel 1458 di un suo iscritto, di una serie di testi biblici manoscritti in volgare. Se il possesso di un corpus di testi biblici relativamente nutrito come quello di Santa Maria della Scala e quello di San Girolamo non sembra essere stato comune ad altre confraternite disciplinate o devozionali, presso le quali nel tardo medioevo i testi devozionali per solito scarseggiavano, la lettura della Sacra Scrittura al loro interno non doveva essere del tutto inconsueta, come testimoniano altre piccole realtà.Tuttavia, il fatto che le autorità ecclesiastiche, informate di queste pratiche di lettura, non siano intervenute immediatamente per reprimerle lascia pensare che si trattasse di pratiche accettate, prima che la Riforma ne venisse a modificare radicalmente lo spirito. 3. La Chiesa di fronte alla Scrittura in volgare - Nonostante lacune documentarie impediscano una più precisa collocazione dei volgarizzamenti biblici nella cultura degli italiani del tardo medioevo e della prima età moderna, appare però evidente che, comunque, le traduzioni circolavano, segno che nessun divieto le aveva colpite né prima, né dopo Gutenberg. È importante chiarire questo punto, oggetto di frequenti fraintendimenti. Neppure nel momento in cui i valdesi (scomunicati nel 1184), con le loro traduzioni della Sacra Scrittura aprirono la secolare partita tra Chiesa e volgari, Roma emanò condanne, come è stato spesso ripetuto sulla base dell’errata interpretazione di alcune lettere scritte nel 1199 da Innocenzo III al vescovo di Metz. Occorrerà attendere il Concilio di Trento, come si è accennato, perché il problema della liceità delle traduzioni bibliche fosse affrontato da una assise ecumenica e fosse da essa accantonato, per essere definitivamente e negativamente risolto solo nel 1596. Infatti, i divieti emanati contro i volgarizzamenti dalle autorità ecclesiastiche per arginare la diffusione dei movimenti ereticali medievali ebbero carattere locale e circoscritto e, a quanto pare, non riguardarono l’Italia, nonostante nelle zone settentrionali la penetrazione dell’eresia avesse assunto dimensioni non trascurabili. Lungi quindi dal vietare la traduzione in sé la Chiesa si preoccupò di sottrarla tempestivamente all’iniziativa dei laici e di porla sotto il controllo dei domenicani. Questi, da un canto, non mancarono di recare il loro contributo alla volgarizzazione della Scrittura, traducendone singoli libri; dall’altro, mostrarono una certa apertura nei confronti della loro diffusione. Tuttavia, quello che i domenicani proponevano non era un accesso autonomo e indiscriminato ai libri sacri. Da un canto, le loro traduzioni, incorporando le glosse esplicative, offrivano contemporaneamente le Scritture e la loro interpretazione autorizzata, non lasciando alcuno spazio alla libertà interpretativa del lettore; dall’altro, pur giudicando che la scienza di Dio contenuta nella Scrittura fosse indispensabile per la salvezza dell’anima, raccomandavano una gradualità dell’apprendimento, che tenesse conto dello status e del suo livello di cultura. Favorevoli ad una cauta e vigilata divulgazione del testo sacro, i domenicani erano invece allarmati dalla diffusione di traduzioni che minacciavano non soltanto di intaccare l’integrità del testo, ma anche, aderendo letteralmente ad esso contro l’esegesi dotta ed allegorica della Chiesa, di stravolgere l’interpretazione delle auctoritates bibliche, di cui si sentivano custodi e garanti. Se ci si è soffermati, sia pure molto sommariamente, sull’atteggiamento verso i volgarizzamenti dei domenicani italiani, i quali incarnavano la posizione ufficiale della Chiesa, è perché esso consentì all’Italia di essere annoverata tra i paesi usi alla lettura della Bibbia durante i ricordati dibattiti tridentini. D'altro canto, fu proprio l’assenza nella penisola italiana di una tradizione di forte opposizione ai volgarizzamenti a non permettere a Roma di intervenire con la tempestività con la quale autorità civili e religiose di alcune nazioni europee avevano cercato di bloccare sul nascere il tentativo di acculturazione biblica delle masse grazie alle potenzialità delle nuove tecniche tipografiche. È quindi in questo contesto che vanno collocate le traduzioni bibliche del 500 ed è in una linea di continuità con il passato che si situa il contributo che ad esse diedero i due domenicani Zaccheria da Firenze e Sante Marmochino. Tuttavia, al di là del problema che stava a cuore ai traduttori del Cinquecento - ossia quello di divulgare la Scrittura in un testo corretto filologicamente rispetto alle precedenti traduzioni affinché, come scriveva il Brucioli, i cristiani non avessero «difficoltà a intendere il contesto delle parole» - dietro questa intensa attività di volgarizzazione si celavano questa strategia «neutrale», traduttore e stampatore intesero rivolgersi più che al piccolo numero di proseliti di dottrine riformate ai molti lettori che fino ad allora avevano dovuto accontentarsi della vecchia traduzione malerbiana. L'esistenza di questa fetta cospicua di acquirenti neutrali se, da un canto, impose il successivo maldestro intervento dei domenicani per sottrarre al laico Brucioli il monopolio della traduzione biblica, dall'altro, indusse i vertici romani ad indugiare prima di prendere provvedimenti contro le traduzioni bibliche, la cui impopolarità avrebbe rischiato di fornire ulteriori argomenti alla propaganda protestante. E ciò anche di fronte alle dimensioni allarmanti assunte dalla lettura della Bibbia in volgare a seguito della penetrazione delle idee riformate nella penisola, che aveva moltiplicato e diffuso il bisogno di un acceso diretto e critico al Libro. La voglia di interloquire nelle cose della fede, facilitata dalla diffusione di traduzioni bibliche e sollecitata dalla predicazione, si era, intatti, estesa a pezzi della società di solito esclusi da una partecipazione attiva alle problematiche religiose, come umili artigiani e donne di qualsiasi ceto, facendo cadere quelle barriere che separavano non soltanto i chierici dai laici, ma i dotti dagli «idioti». Se gli eterodossi hanno consegnato agli atti del Sant'Ufficio infinite testimonianze sulle loro letture bibliche, i lettori ortodossi - che si avvicinarono alla Scrittura, oltre che per nutrire la loro fede, anche allo scopo di intervenire in quelle discussioni e di contestare le dottrine innovatrici dei loro interlocutori - non hanno lasciato tracce documentarie. Ma la loro muta presenza si avverte nella voce di quei prelati e di quei porporati che per cinquant’anni, al Concilio e negli organi centrali della Curia, difesero anche per loro la liceità di una lettura delle traduzioni bibliche. La storia complessa di questa lunga battaglia conclusasi nel 1596 con la loro disfatta, che ci accingiamo a ricostruire nei prossimi capitoli di questo libro, ebbe inizio a Trento nel 1546. CAP. 2 - La Sacra Scrittura in volgare nell'indice di Paolo IV (1559) e l'indice tridentino (1564) 1. L'indice di Paolo IV - Il problema delle versioni bibliche nelle lingue vernacole venne affrontato per la prima volta ufficialmente al Concilio di Trento, tra febbraio ed aprile del 1546, nell’ambito del dibattito sulla Sacra Scrittura e la Tradizione. Nel corso delle discussioni sulla preparazione di un decreto sugli abusi relativi alle edizioni della Sacra Scrittura nelle lingue sacre (latino, greco, ebraico e aramaico?), tale problema fu sollevato, quasi casualmente, da un arcivescovo francese, Antoine Filheul. Fin dalle prime battute si delinearono due schieramenti contrapposti: l’uno – il cardinale spagnolo Pacheco - profondamente ostile alle traduzioni della Sacra Scrittura nelle lingue volgari; l’altro – il vescovo di Trento, il cardinale Madruzzo - favorevole alla loro diffusione tra i fedeli. Di fronte al carattere acceso che stava assumendo il confronto e nel timore dello scandalo che avrebbe provocato all’interno ed all’esterno dell’assemblea conciliare il dissenso che andava crescendo tra i due cardinali, i Legati del Concilio ritennero più prudente non menzionare nel decreto sulla Vulgata, approvato l’8 aprile 1546, i volgarizzamenti, lasciando irrisolta la questione della loro liceità. Le argomentazioni degli avversari dei volgarizzamenti erano profondamente condizionate sia dal progetto pedagogico che riservava alla Chiesa la funzione di mediatrice tra la Scrittura e il fedele, sia dalla più immediata preoccupazione di arginare la diffusione del protestantesimo. Essi vedevano nelle traduzioni una delle cause, se non la principale, della nascita e della propagazione dell’eresia. Moltiplicate dall’invenzione della stampa, esse avevano, infatti, aperto un indiscriminato accesso al testo sacro: simplices e persino «donniciuole». Privi di qualsiasi preparazione, incuranti delle difficoltà e delle oscurità che, dopo anni di studi, anche uomini di grande dottrina non erano riusciti a superare, essi si erano fatti interpreti della Parola di Dio incorrendo in gravi errori. Era, quindi, necessario, di fronte a questo dilagante diretto rapporto dei fedeli con il testo biblico, vietare la lettura dell'Antico e del Nuovo Testamento nelle lingue vernacole, proibire vecchie e nuove versioni ed affidare alla catechesi ed alla predicazione il compito di somministrarne, in giuste dosi, il contenuto ai laici. Sull’altro fronte, i sostenitori della liceità delle traduzioni sostenevano che il divieto avrebbe fornito un argomento polemico di straordinaria forza ai luterani, i quali accusavano Roma di aver privato i credenti delle fonti vive della fede e di averli allontanati da Cristo. Per dare legittimità alla volgarizzazione veniva ricordato che fin dal principio la Bibbia era stata scritta e tradotta nelle lingue del popolo, affinché questo potesse meglio comprenderla, e ci si richiamava a quello che era divenuto nel corso del secolo un vero topos, vale a dire la presunta traduzione slava eseguita da san Girolamo ad uso delle popolazioni della Dalmazia. La crescente ignoranza del latino rendeva, quindi, urgenti ed indispensabili le traduzioni in tutte le lingue, affinché il messaggio della Scrittura fosse comprensibile a tutti senza discriminazione di sesso, di età e di censo. La tesi che la lettura della Bibbia da parte dei semplici avesse favorito il dilagare delle eresie era reputata insostenibile: queste si erano propagate sia per le errate interpretazioni dei dotti, sia per le inadempienze dei pastori, i quali, trascurando il loro gregge, lo avevano reso facile preda degli eretici. Spettava ai vescovi il compito di istruire il popolo alla Scrittura, orientandone la lettura e vigilando che non si stampassero e non si diffondessero traduzioni da loro non approvate. Anche i fautori delle traduzioni si richiamavano alle tradizioni locali e ricordavano come in Germania, in Italia e in Polonia fosse radicato l’uso di leggere la Bibbia in volgare. Ad insistere sulle consuetudini locali era stato soprattutto il cardinale Madruzzo, principe-vescovo nel feudo imperiale di Trento, il cardinale, nel suo intervento al Concilio, appare, in realtà, guidato più che dalle sue indubbie simpatie per l’evangelismo, dal fatto che i suoi fedeli, in gran parte germanofoni, avessero molta familiarità con il testo volgare della Bibbia. L’accesa disputa faceva emergere l’inconciliabilità delle contrapposte tesi e indusse i Legati, per non evidenziare gli insanabili dissensi, ad insistere sull’opportunità di non emanare un decreto che, sarebbe stato sicuramente respinto da alcuni Stati, mentre altri lo avrebbero accolto favorevolmente. L’equilibrata posizione dei Legati convinse l'assemblea a non introdurre alcun riferimento alle volgarizzazioni nel decreto sulla Vulgata. Il decreto, peraltro, palesava la volontà dei padri di sottoporre al proprio controllo tutta la materia biblica. Agli ordinari sarebbe spettato non soltanto il compito di punire chiunque nell’interpretare i sacri testi si fosse allontanato dal magistero della Chiesa, ma anche quello di vigilare sulla stampa e sulla circolazione di edizioni della Scrittura, corredate di annotazioni e di esposizioni, soprattutto se anonime; di esaminare e approvare prima della stampa qualsiasi scritto anonimo di argomento sacro e di vietarne agli stampatori la vendita e la detenzione; di proibire scritti che facessero un uso improprio delle tematiche bibliche e di punire con l’anatema e con pene pecuniarie i trasgressori. Merita di essere sottolineata questa chiara rivendicazione da parte dei vescovi dell’esercizio di un pieno controllo della materia biblica, dal quale non esulasse il settore, sempre più incandescente, della Sacra Scrittura. È questa, infatti, una componente non secondaria di tutta la complessa vicenda dei volgarizzamenti, destinata ad avere un peso determinante nel conflitto che sarebbe divampato qualche anno più tardi tra la Congregazione dell’Indice e la Congregazione del Sant’Ufficio. Se nel 1546 il timore che il dissidio potesse compromettere i già difficili esordi del Concilio suggerì ai Legati un atteggiamento di estrema cautela, il mutato quadro degli equilibri internazionali e interni alla Chiesa di Roma durante il pontificato di Paolo IV consentirà agli estensori del primo indice universale di assumere posizioni di drastico rifiuto dei volgarizzamenti biblici. Alla data di pubblicazione del decreto conciliare sulla Vulgata regnava ancora Paolo III, favorevole ad religiosità più intima ed interiore. La creazione della Congregazione del Sant’Ufficio, nel luglio del 1542, anche se aveva scalfito il potere dei cardinali favorevoli ad una riconciliazione, non aveva segnato la loro definitiva sconfitta, né aveva interrotto la loro rischiosa ricerca di un terreno dottrinale comune d’intesa. Indebolite dal decreto conciliare del 1547 sulla dottrina della giustificazione - che condannava le posizioni luterane alle quali si erano avvicinati non pochi prelati e porporati favorevoli al dialogo con i protestanti - le attese e le speranze di una riunificazione delle Chiese si fecero sempre più esili dopo il 1555. Quell'anno vedeva non soltanto il riconoscimento della legittima esistenza della confessione luterana sancito dalla pace di Augusta, ma anche l'ascesa al soglio pontificio del cardinale Gian Pietro Carafa, dal 1542 a capo della Congregazione del Sant'Ufficio e da sempre ostile ad ogni forma di dialogo e di intesa con i luterani, che riteneva dovessero essere trattati da eretici e, quindi, ricondotti all’ovile con la forza attraverso processi inquisitoriali. Di lì a poco l'arresto del cardinale Morone e la revoca della Legazione d’Inghilterra nonché il richiamo a Roma del cardinale Pole, entrambi elevati alla porpora da Paolo III e da lui investiti di cariche prestigiose, entrambi ora oggetto di pesanti accuse di eresia da parte di Paolo IV, avrebbero avviato la Chiesa sulla strada della più rigida ed intransigente difesa dell'ortodossia e della repressione di ogni forma di dissenso, esterno ed interno alla Chiesa stessa. Parallelamente ed in funzione prevalentemente antiereticale, il papato si sarebbe impegnato in un’opera di rafforzamento delle strutture ecclesiastiche e di accentramento del capillare controllo delle credenze e dei comportamenti morali del clero e del laicato. È su questo sfondo che si colloca la decisione di Paolo IV di preparare il primo catalogo romano dei libri proibiti e di affidare tale compito ad una commissione composta da membri dell’Inquisizione, presieduta da Michele Ghislieri, che ne era allora commissario generale. La scelta di affidare la preparazione dell’indice a funzionari del Sant’Ufficio è di per sé significativa. L’indice paolino è, infatti, il solo indice universale che sia stato stilato dall’Inquisizione romana e questa sua origine spiega non soltanto la rigidità, ma anche il ruolo esclusivo assegnato agli inquisitori locali nella sua esecuzione. Due elementi questi destinati a riaffiorare costantemente nella redazione dei successivi indici romani. Stampato nel dicembre del 1557 - secondo un copione che si ripeterà più volte nel corso del secolo - l’indice non fu approvato dal pontefice. I lavori per una nuova stesura, che si rivelerà assai più rigida della precedente, ripresero nel gennaio del 1558 sotto la presidenza del cardinale Bernardino Scotti, anch’egli membro della Congregazione dell’Inquisizione, e si conclusero con la promulgazione dell'indice mediante un decreto della stessa Congregazione del 30 dicembre 1558. L’estremo rigore al quale si ispirarono i redattori del primo indice romano colpì anche le traduzioni della Sacra Scrittura nelle lingue vernacole, la cui estesa circolazione, aveva allarmato i membri del Sant’Ufficio, orientandoli verso decisioni drastiche. Del resto, fino 1558 la Congregazione cercò di proibire la pubblicazione dei volgarizzamenti della Bibbia nel centro di maggiore produzione. di vigilanza sulla vita intellettuale e religiosa dei fedeli che, adombrata nel decreto sulla Vulgata del 1546, era stata loro sottratta da Paolo IV. Ciò è soprattutto evidente nelle dieci regole, che costituiscono una innovazione rispetto al primo indice romano. Insieme all’alleggerimento della lista vera e propria dei libri condannati e all'introduzione del principio dell’espurgazione, l’indice tridentino, attraverso queste disposizioni generali relative ad alcune categorie di libri ed alla censura preventiva delle opere da stamparsi, non soltanto attenuava molti dei divieti del 1559, ma affiancava agli inquisitori gli ordinari diocesani nell’attività censoria, Anzi, riservava ai soli vescovi il controllo sulle opere «che narravano cose lascive e oscene» (regola VII) e sugli scritti di astrologia, divinazione e arti occulte (regola IX). Anche per quanto riguarda le Bibbie in volgare, l'indice tridentino introduceva criteri più flessibili: invece della proibizione tassativa di leggere, possedere e stampare traduzioni, salvo licenza della Congregazione romana del Sant’Ufficio, la regola IV prevedeva che vescovi o inquisitori, sentito il parere dei parroci o dei confessori, potessero autorizzare, mediante licenze scritte, la lettura di versioni della Bibbia nelle lingue vernacole, tradotte da autori cattolici, a coloro ai quali, a loro giudizio, non avrebbe arrecato danno, ma sarebbe servita ad aumentare la fede e la pietà. Questa normativa, in linea con la Moderatio del 1561, metteva sullo stesso piano ordinari e inquisitori per il rilascio di licenze alla lettura della Scrittura. La posizione dei membri della commissione tridentina si discostava, quindi, dalle direttive di Paolo IV, al solo controllo della Congregazione romana, che sola poteva rilasciare licenze, si sostituiva un sistema decentrato di controllo esercitato da ordinari diocesani ed inquisitori locali. Insomma era un atteggiamento più aperto e tollerante. I padri conciliari, però, si spinsero anche oltre, eliminando gran parte delle proibizioni contenute nell’indice e nell’Instructio del 1559. Scomparvero, infatti, dal testo la lunga lista delle traduzioni bibliche condannate, il divieto di stampa di versioni della Sacra Scrittura nelle lingue vernacole e le discriminazioni ai danni delle donne (laiche e religiose), e dei chierici. Quest'ultima modifica, tra le più rilevanti, prendeva atto della estesissima ignoranza del latino da parte del clero, soprattutto nelle zone di campagna e di montagna, e cancellava il drastico provvedimento di Paolo IV che avrebbe voluto allontanarlo dalle funzioni pastorali a causa di queste carenze. Attribuire all’uno o all’altro dei numerosi membri della commissione tridentina la paternità della regola IV è un esercizio ozioso dal momento che si trattò del risultato di un lavoro collegiale. Sebbene dei lavori della commissione tridentina siano rimaste tracce documentarie molto esili, non vi è dubbio che le posizioni favorevoli alla lettura delle traduzioni bibliche e sulla parità dei diritti tra ordinari e inquisitori in materia di censura libraria, recepite nell’indice, dovettero essere ampiamente condivise. La documentazione fin qui disponibile sulla preparazione dell’indice non consente di stabilire se la regola IV incontrò resistenze in seno alla commissione. La forte moderazione che l’ispirava - soprattutto se confrontata con la tesi dell’indiscriminato accesso alle Sacre Scritture negli idiomi materni sostenuta nel 1546 dal cardinale Madruzzo - consente di ipotizzare che molti dei membri della commissione si fossero riconosciuti in quella formula che salvaguardava parte dell’eredità dell’umanesimo cristiano, autorizzando una cauta e prudente diffusione della Parola e prevedendo percorsi biblici diversificati a seconda delle capacità intellettuali del singolo fedele. Tuttavia, anche questa moderata e controllata concessione non sarebbe stata possibile senza la marginalizzazione del Sant’Ufficio. Quella tregua, durante la quale gli stampatori avrebbero ricominciato a pubblicare traduzioni bibliche e i fedeli, muniti di una «fede» rilasciata dall’ordinario o dall’inquisitore, avrebbero potuto recarsi dai librai ad acquistarle, era destinata a durare solo pochi anni: il tempo che al moderato papa Pio IV succedesse l’intransigente Ghislieri (Pio V). Promulgato il 24 marzo 1564 con la bolla Dominici gregis, l'indice tridentino consentì, infatti, la ripresa della stampa delle traduzioni della Scrittura. Nel 1566 usciva presso Andrea Muschio a Venezia una nuova edizione della Bibbia del Malerbi, autorizzata dall’inquisitore. Seguiva lo stesso anno, sempre a Venezia, presso Gerolamo Scoto, un’altra edizione della traduzione del Malerbi, mentre, sempre nel 1566, veniva ristampato presso lo stampatore veneziano Rubino il Nuovo Testamento nella traduzione dell’Anonimo della Speranza. Saranno, queste, le ultime edizioni di traduzioni integrali italiane della Bibbia e del Nuovo Testamento pubblicate nella penisola fino alla seconda metà del Settecento. Questa proliferazione di edizioni all'indomani della promulgazione dell’indice tridentino testimonia come, i padri conciliari incoraggiarono la lettura, seppure sotto il vigilato controllo del vescovo e dell’inquisitore. Ma dimostra anche che la domanda da parte dei lettori, dopo un'interruzione della produzione veneziana durata otto anni, era piuttosto sostenuta. È, tuttavia, difficile stabilire se e quante licenze vennero rilasciate a laici e a membri del clero secolare e regolare e valutare il comportamento dei vescovi, degli inquisitori e dei superiori degli istituti religiosi di fronte alle richieste di autorizzazione a leggere le traduzioni bibliche. È probabile che le posizioni contrastanti della gerarchia ecclesiastica sull’accesso alla Scrittura in volgare si riflettessero anche nell’applicazione della regola IV. Se Carlo Borromeo si adoperò per la restituzione di Bibbie volgari alle monache di alcuni monasteri milanesi che ne avevano fatto richiesta subito dopo la promulgazione dell’indice tridentino, Paolo Maria della Rovere, vescovo di Cagli e Pergola, nel 1571 durante la visita al monastero delle clarisse di Santa Maria di Monteluce di Perugia, come abbiamo accennato proibì la lettura alle monache della Bibbia in volgare. Queste notizie scarne e contraddittorie non permettono di stabilire con sicurezza se tra coloro cui spettava la facoltà di rilasciare licenze sia prevalsa la linea dell’intransigente rifiuto o quella della moderata apertura. Tuttavia l’accanimento con cui le autorità romane preposte alla censura libraria si adopereranno per svuotare la regola IV dell’indice tridentino negli anni a venire testimoniano come la volontà di eliminare la Sacra Scrittura in volgare incontrasse forti resistenze. CAP 3 - I volgarizzamenti biblici e la censura tra il 1564 e il 1583 1. L'indice del Sirleto - L’analisi delle posizioni della Chiesa intorno alle versioni bibliche mette in luce come il dibattito sulla loro liceità avviato e bruscamente sospeso nel 1546 a Trento sarebbe stato definitivamente chiuso, almeno per quanto riguarda le traduzioni in lingua italiana, solo cinquant’anni dopo con la promulgazione nel 1596 dell’indice clementino. Prima di quella data si erano alternate e contrapposte posizioni divergenti, che riflettevano non soltanto le oscillazioni all’interno della stessa Congregazione dell’Indice, ma anche l’esistenza di orientamenti contrastanti in seno ad altri organi centrali direttamente o indirettamente coinvolti nell’attività censoria. La ricostruzione delle circostanze che portarono alla condanna dei volgarizzamenti è, quindi, strettamente connessa alla lunga e complessa vicenda dell’indice clementino. All’indomani della promulgazione dell’indice tridentino la Chiesa si trovò a dover affrontare l’espurgazione delle opere la cui lettura era stata sospesa donec corrigantur. Se alcuni di quegli scritti furono sottoposti al minuzioso controllo e agli interventi censori degli stessi membri della commissione tridentina ed altri furono distribuiti tra volenterosi censori, vescovi, inquisitori, università, la stragrande maggioranza dei testi rimase a lungo sospesa. Perfettamente consapevole dei disagi che la mancata o ritardata espurgazione creava soprattutto a chi esercitava le professioni liberali (giuristi e medici) Roma dovette presto fare i conti con questa inadeguatezza delle esistenti strutture di controllo. Inoltre, l’inarrestabile flusso clandestino verso la penisola di opere sospette o eretiche stampate oltralpe e una sia pure esile, ma resistente, produzione italiana di scritti condannabili rendevano manifesta la necessità di aggiornare l’indice tridentino. Al suo rapidissimo «invecchiamento» si accompagnava anche il progressivo ampliamento della categoria di «eresia», alla luce del quale s’imponeva una generale revisione dei criteri che avevano guidato la commissione tridentina non soltanto nello stilare la lista dei libri condannati o sospesi, ma anche nel redigere le dieci regole. Fu chiaro che l’intento di Pio V era quello di ristabilire lo spirito dell’indice di Paolo IV. Ma i primi provvedimenti in materia censoria vennero presi solo agli inizi degli anni settanta. Con un Motu proprio nel 1570, Pio V, condannando l’inerzia degli ordinari e degli inquisitori, ai quali l’indice tridentino aveva affidato la revisione delle opere sospese, e accentrava a Roma nelle mani del Maestro del Sacro Palazzo l’attività espurgatoria e la supervisione della pubblicazione presso la Stamperia Vaticana delle opere corrette. Seguì nel concistoro del 5 marzo 1571 la nomina di una commissione cardinalizia cui venne affidata la «revisione o completamento» dell’indice del 1564. Nasceva la Congregazione dell’Indice, la cui istituzione verrà formalizzata da Gregorio XIII con una bolla nel 1572, in cui venivano specificate le sue competenze. In pratica oltre alla revisione dell’indice tridentino, si affidava alla Congregazione dell’indice sia la funzione espurgatoria che quella proibitoria, vale a dire il duplice impegno di aggiornamento dell’indice tridentino e di espurgazione delle opere in esso sospese donec corrigantur e di quelle che la Congregazione avrebbe successivamente giudicato bisognose di espurgazione preventiva o successiva alla stampa. Fin dalle prime sedute (1571) appare manifesta la volontà dei cardinali di non limitarsi ad integrare l’elenco compilato dalla commissione tridentina: cominciarono, infatti, col sottoporre la prefazione del Forerio e le dieci regole dell’indice tridentino ad un attento esame. Si procedette all’inserimento nell’indice di nuovi titoli, non tutti posteriori all’indice di Pio IV, allo spostamento da una classe all’altra di scritti ed autori vietati dall'indice tridentino, alla distribuzione tra i consultori delle opere da espurgare, dando la precedenza a quelle maggiormente richieste. Mentre i lavori preparatori per l’edizione dell'indice espurgatorio avanzavano, i cardinali dovettero accordarsi sui criteri per la redazione del nuovo indice. Il 26 ottobre 1580 venne dato mandato al Sirleto ed al Maestro del Sacro Palazzo, Sisto Fabri da Lucca, sia di redigere un nuovo indice proibitorio sia di uno con le opere da espurgare. Il 20 aprile 1584 il nuovo indice, preparato dal Sirleto e dal Maestro del Sacro Palazzo, venne letto in una seduta plenaria della Congregazione, insieme ai decreti già predisposti dai cardinali. Tuttavia, né l’indice proibitorio, né quello espurgatorio vennero promulgati. Morto Gregorio XIII (1585) e succedutogli Sisto V, la Congregazione dell’Indice si riunì di nuovo nel 1587, Sirleto come il papa era morto nel 1585. dell’indice tridentino, perché fossero restituite alle monache di alcuni monasteri milanesi le Bibbie che erano state loro sequestrate al momento dell’applicazione dell’indice del 1559. È proprio di fronte alla poca chiarezza dei divieti emanati dalle autorità romane nel decennio che corre tra il 1574 e il 1583 che il cardinale Paleotti avvertì il bisogno di chiedere chiarezza attraverso un memoriale. A suggerirgli, infatti, la stesura del memoriale fu chiaramente il duplice scopo di salvaguardare, da un canto, i poteri conferitigli dal Concilio in quanto vescovo e di meglio definire, dall’altro, quelli della Congregazione dell’Indice di cui era entrato a fare parte nel 1582. La serie di quesiti generali e di dubbi particolari relativi a singole opere, sollevati dal cardinale, fu esaminata e discussa in una riunione del 1583 alla presenza di Sisto Fabri da Lucca, del Sirleto e del de Pellevé e dallo stesso Paleotti. L'ultimo della lunga lista di dubbi riguardava le traduzioni della Bibbia, intorno alle quali le direttive romane dovevano aver creato non poche incertezze interpretative. La risposta che ottenne fu, peraltro, chiarissima: Le Bibie volgari nonostante la regola dell’Indice non si permettino. Ma l’epistole et evangelii volgari di tutto l’anno correnti si possono permettere a persone pie et dabene... Si trattava, quindi, di un verdetto senza appello, che confermava il contenuto dell’editto fatto pubblicare qualche giorno prima dal Borromeo a Milano e che abrogava definitivamente la regola IV dell’indice tridentino: ordinari ed inquisitori non erano più autorizzati a concedere licenze per la lettura delle traduzioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. Dovevano solo provvedere a sequestrarle e a mandarle al rogo. Veniva, invece, rettificato il divieto, presente nell’indice di Parma e probabilmente in altre liste inviate da Roma, relativo alle Epistole et evangeli: i fedeli potevano essere autorizzati a leggerle, ma solo nella traduzione del domenicano Remigio Nannini da Firenze. Mentre la Congregazione dell’Indice lavorava alla preparazione del catalogo dei libri proibiti che avrebbe dovuto sostituire quello del 1564 e che non verrà pubblicato prima del 1596, la Congregazione dell’Inquisizione - dalla quale provengono sia la revoca a vescovi ed inquisitori di rilasciare licenze per la lettura dei volgarizzamenti biblici, sia gran parte delle direttive agli inquisitori locali – aveva riacquistato quel controllo sulle opere di contenuto biblico in volgare che l’indice tridentino le aveva sottratto affidandolo agli ordinari e agli inquisitori locali. Il disegno che aveva perseguito con tenacia fin dai tempi di Paolo IV di strappare dalle mani dei laici il testo volgare della Scrittura, ritenuto causa della ribellione contro la Chiesa di Roma, si era sommato, dopo la chiusura del Concilio, al più generale processo di accentramento da parte delle Congregazioni romane del controllo sulle chiese periferiche e sui loro pastori. Lo svuotamento della regola IV rientrava, infatti, in un progetto più vasto attraverso il quale l’Inquisizione romana mirava a sostituirsi agli ordinari diocesani nella direzione religiosa e culturale e a erodere progressivamente i poteri loro riconosciuti dalla legislazione conciliare. Questo disegno era, del resto, ancor più manifesto nella tacita abrogazione della regola VII, che affidava ai vescovi il compito di proibire i libri «che trattavano cose lascive o oscene» e di punire coloro che li detenevano. Con l’introduzione di tale regola i padri conciliari avevano voluto lasciare la scelta ai vescovi di determinare quali libri fossero moralmente pericolosi. Sotto questo profilo la nomina nel 1573 di Paolo Costabili alla carica di Maestro del Sacro Palazzo, che detenne fino al 1580, segnò una svolta radicale nella politica culturale romana, di cui può essere considerato emblematico l’immediato divieto dell'edizione espurgata giuntina del 1573 del Decameron, pubblicata con l’approvazione del suo predecessore. L’accentuato rigore moralistico del Costabili non si manifestò soltanto nella condanna delle opere già stampate, ma condizionò pesantemente la censura preventiva. Agli inizi degli anni ottanta quella che si configura come una vera e propria offensiva contro il volgare attraverso la condanna sia delle traduzioni bibliche, sia di gran parte della letteratura italiana, può dirsi compiutamente messa a punto. Se ne coglie, del resto, un riflesso anche negli atti dei processi inquisitoriali: in una sentenza del 1572 veniva imposto al condannato «che non dovesse legger libri vulgari di sorte alcuna», mentre due anni dopo il ciabattino Domenico di Spilimbergo, cui erano stati sottratti e stracciati i suoi unici tre libri, l’Orlando Furioso, il Decameron e un Nuovo Testamento, commentò lapidariamente: «Zurai non legger mai più». Ma in quegli anni appare anche saldamente avviata una politica tesa a privare gli ordinari diocesani della vigilanza e della guida spirituale e culturale del proprio gregge, sostituendoli con gli inquisitori. L’accelerazione di questo cammino era stato favorito dalla piena sintonia in cui sembrano aver lavorato, negli anni in cui Sirleto diresse la Congregazione dell’Indice, le due Congregazioni ed il Maestro del Sacro Palazzo. Ma la scomparsa del Sirleto e la «rinascita» della Congregazione dell’Indice sotto Sisto V avrebbero segnato una momentanea pausa in questa inarrestabile marcia, aprendo un nuovo capitolo della storia della censura e dei volgarizzamenti biblici. CAP 4 - Due indici non promulgati: il sistino (1590) e il sisto-clementino (1593) 1. L'indice sistino - Dopo un triennio di inattività, nel 1587 la Congregazione dell’Indice veniva ripristinata da Sisto V, aumentando il numero dei cardinali. Questa espansione, che vedeva salire il numero dei cardinali dai cinque del pontificato di Gregorio XIII ad otto, oltre a riflettere la volontà del pontefice di offrire un’immagine totalmente rinnovata della Congregazione sembrerebbe determinata dalla maggiore efficienza che Sisto V volle imprimere alle Congregazioni romane. L'aumento del numero dei cardinali avrebbe, infatti, dovuto accelerare lo svolgimento dei lavori e consentire alla Congregazione di funzionare anche in assenza di alcuni di essi dalla Curia. Anche il numero dei consultori venne notevolmente ampliato e la scelta cadde su uomini dotati di solida preparazione. Compito della «nuova» Congregazione era quello di preparare e di pubblicare un nuovo indice il prima possibile, e quindi si richiedeva una maggiore efficienza e preparazione. Fin dalla prima riunione è evidente la volontà dei cardinali di non riesumare il lavoro lasciato incompiuto dai loro predecessori: ricominciarono, infatti, a discutere sull’assetto da dare all’indice e stabilirono «di comune accordo» che si dovessero conservare le regole dell’indice tridentino, aggiungendovi opportuni chiarimenti. Dopo tredici riunioni dedicate al loro esame ed alla elaborazione di nuove regole relative all’espurgazione, alla censura preventiva ed alla stampa dei libri, la Congregazione presentò al pontefice regole, titolo del nuovo indice e bolla di promulgazione. Passava, quindi, ad occuparsi della redazione dell’indice vero e proprio, integrando l’elenco tridentino con le opere e gli autori che figuravano almeno in due dei tre indici pubblicati in Spagna, Portogallo e Baviera, e con quelli ritenuti sospetti dal Maestro del Sacro Palazzo che fossero proibiti in uno di quegli stessi indici. Molto tempo venne impiegato per l’individuazione delle opere da sospendere donec corrigantur e soprattutto alla espurgazione di quelle sospese dall’indice tridentino e dopo la sua promulgazione. Solo nel maggio del 1588, dopo circa un anno vennero restituite alla Congregazione - pesantemente ritoccate - la bolla e le regole. Gli interventi papali aprirono una lunga crisi nei rapporti tra la Congregazione dell’Indice e Sisto V, destinata a risolversi solo con la morte di quest’ultimo nel 1590. Per oltre due anni infatti contenuti delle regole e della bolla furono oggetto di contrattazione e contestazioni tra il pontefice, che vi apportò correzioni, e i cardinali. La definitiva approvazione del testo della bolla di promulgazione, avvenne il 24 agosto 1590, quando già da mesi l’indice era andato in stampa. La morte del pontefice, tre giorni dopo, poneva fine alla lunga contesa ed impediva la promulgazione dell’indice, peraltro già compiutamente stampato. Occorre innanzitutto ricordare che Sisto V era stato membro della Congregazione dell’Indice dalla fondazione e che aveva condiviso la linea intransigente perseguita dal Sirleto. Mentre i cardinali da lui nominati nel 1587 si rivelarono non soltanto assai più tolleranti, ma anche determinati a rimettere in discussione molte delle condanne e dei divieti emanati da Roma. La loro maggiore flessibilità rispetto all’intransigenza del pontefice emerge dal confronto tra alcune delle decisioni prese all’interno della Congregazione durante il dibattito sulle dieci regole tridentine e alcune delle ventidue regole pubblicate nell’indice sistino, dopo la revisione del pontefice. Mentre la Congregazione aveva giudicato opportuno mantenere la regola II dell’indice tridentino: che prevedeva che le opere degli eretici che non trattassero ex professo di fede potessero, previa approvazione del loro contenuto da parte degli ordinari e degli inquisitori, essere autorizzate alla lettura. Sisto V decretò invece che tutti i loro scritti anche quelli che non trattavano di fede dovevano essere censurati. Circa i libri cattolici di controversia religiosa nelle lingue volgari la Congregazione non si era discostata dalla regola VI dell’indice tridentino che stabiliva potessero essere concessi previa licenza dell’ordinario o dell’inquisitore. Analoga posizione aveva assunto circa i libri devozionali in volgare, la cui concessione, peraltro, subordinava ad un esame preventivo. La corrispondente regola VIII dell’indice sistino, invece, vietava tassativamente i libri di controversia, salvo «in quei luoghi dove i cattolici vivono mescolati con gli eretici, o dove hanno qualche rapporto per vicinanza». Congregazione le obiezioni per iscritto. Quando finalmente nel febbraio 1594, a sette mesi di distanza dalla sospensione, i cardinali poterono prenderne visione, si dovettero convincere dell’impossibilità di introdurre nell’indice già stampato le modifiche suggerite da Clemente VIII: decisero, quindi, di risarcire lo stampatore camerale e di sequestrare tutti gli esemplari stampati. Ebbe allora inizio tra la Congregazione e Clemente VIII un vero e proprio braccio di ferro, che illustra in maniera inequivocabile il ruolo di semplici esecutori della volontà pontificia svolto dai cardinali, più o meno costretti ad operare sotto la degradante sorveglianza di «familiari» papali, per quanto brillanti, come il maestro di camera Silvio Antoniano. Le contro-obiezioni della Congregazione, furono presentate al pontefice dal Maestro del Sacro Palazzo. Le divergenze dovettero apparire insormontabili senza possibilità di ricomposizione, se Clemente VIII ordinò di continuare ad osservare l’indice tridentino, cui sarebbe stata aggiunta la lista dei libri proibiti contenuta nel nuovo indice. Si è soliti attribuire la mancata promulgazione di quest'indice alle forti pressioni del diplomatico veneziano Paolo Paruta su Clemente VIII perché venisse abrogato il catalogo dei libri proibiti italiani - edito in appendice insieme a quelli dei libri spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi. Sarebbero state le proteste del rappresentante della Serenissima, preoccupato dei danni che la condanna di un numero enorme di opere letterarie italiane avrebbe arrecato all'editoria veneziana, a dissuadere il pontefice dal promulgare l’indice. Va, tuttavia, osservato che il Paruta era intervenuto in difesa dell’interesse dei librai di Venezia, quando l’indice era già stato bloccato dal pontefice per ragioni che, probabilmente, non riguardavano la lista dei libri proibiti italiani. Occorre, quindi, scindere il problema degli indici «nazionali» da quello - che s'intuisce assai più spinoso e laborioso delle nuove norme elaborate dalla Congregazione relative all’espurgazione ed alla stampa dei libri. L’origine dello scontro che oppose per vari mesi la Congregazione dell’Indice all’Aldobrandini dietro il quale, pur se apparentemente più defilata, si ergeva la Congregazione del Sant’Ufficio, deve essere, quindi, ricercata altrove. Essa risiede nelle regole. Il confronto tra le regole del 1593 e quelle del 1596 evidenzia sostanziali differenze relative all’attribuzione delle competenze in materia di espurgazione e di censura preventiva. Nelle norme redatte da Bellarmino e da de Miranda, espurgazione e censura preventiva erano state affidate esclusivamente agli ordinari diocesani. L’estromissione degli inquisitori dall’espurgazione e dalla censura allarmò sicuramente la Congregazione del Sant’Ufficio, che si vedeva espropriata di prerogative a cui non intendeva rinunciare. Nella stesura definitiva delle regole de correctione librorum e de impressione librorum, che terrà conto delle obiezioni papali, il termine ordinarius verrà sostituito con episcopus et inquisitor e in più parti verrà richiamata la parità della loro funzione. Queste importanti modifiche gettano luce sulla natura del dissidio, originato dal tentativo della Congregazione dell’Indice di estromettere dal controllo gli inquisitori locali, affidando l’attività censoria agli ordinari diocesani. Ma la Congregazione del Sant’Ufficio passò subito al contrattacco. I verbali delle riunioni della Congregazione dell’Indice successive alla sospensione dell’indice sisto-clementino non offrono elementi che consentano di ipotizzare che tra le materie controverse vi fossero le traduzioni bibliche. Questo argomento, del resto, era stato affrontato molto marginalmente dalla stessa Congregazione. In effetti, approvato il suggerimento del Bellarmino di ripristinare le dieci regole dell’indice tridentino, non vi era alcuna necessità di tornare a discutere intorno alla regola IV. I cardinali, inoltre, avevano ampliato la categoria dei testi ricadenti sotto la regola IV (vale a dire la cui lettura era soggetta a «licenza» dell'ordinario e dell'inquisitore), e inoltre per la lettura delle Epistole et evangeli per l'anno liturgico, invece, non vi sarebbe stato bisogno di autorizzazione. I decreti della Congregazione dell’Indice in materia di traduzioni bibliche, ripristinando, sia pure con qualche irrigidimento, l'orientamento moderato dei padri tridentini, erano, quindi, sostanzialmente in contrasto con i divieti tassativi che erano stati emanati negli anni precedenti. Tuttavia, né dai verbali delle riunioni della Congregazione dell'Indice, tenute nel periodo delle trattative che precedettero la promulgazione nel 1596 dell'indice clementino, né durante la stesura l'indice sisto-clementino emerge un contrasto con il pontefice o con la Congregazione del Sant’Ufficio su questo delicatissimo problema. Esso si sarebbe manifestato con inaudita durezza solo all’indomani della promulgazione dell’indice clementino. CAP. 5 - I volgarizzamenti biblici e l'indice clementino (1596) 1. L'indice clementino - Superati i contrasti che avevano fermato l'indice del 1593, nell’autunno del 1594 la macchina si rimetteva in marcia. Il 22 ottobre il cardinale Toledo, recentemente nominato membro della Congregazione, riferiva del colloquio avuto con Clemente VIII, il quale acconsentiva alla stampa dell’indice, salvo alcune modifiche apportate dalla Congregazione. Rimanevano, tuttavia, da risolvere non pochi problemi concreti, quali le modalità per la concessione delle licenze per la lettura di libri sospesi donec corrigantur e per la consegna dei libri proibiti agli ordinari diocesani ed agli inquisitori, l'affidamento del compito di predisporre gli indici «nazionali» a seguito della decisione di eliminarli da quello universale - aspetti che verranno trattati in sei nuove regole de probibitione librorum. La revisione della lista dei libri proibiti e sospesi fu affidata a Federico Borromeo, mentre ad Ascanio Colonna toccò quella dell’Instructio con le 18 norme relative alla proibizione, alla correzione ed alla stampa dei libri. Il 1° luglio 1595 fu deciso che nel successivo Concistoro l'Indice, esaminato e corretto da tutti i Cardinali della Congregazione, verrà approvato dal papa per essere stampato. Due giorni dopo in concistoro l’indice venne effettivamente presentato a Clemente VIII, il quale non soltanto formulò alcune riserve, ma, muovendosi con il solito disprezzo nei confronti dei cardinali, incaricò alcuni viros insignes - tra cui Silvio Antoniano maestro di camera di Clemente VIII, il cardinale Baronio e il cardinale Maffa - di rivederlo e di riferirgli eventuali critiche. Trascorsero altri tre mesi prima che la Congregazione ottenesse l’autorizzazione a mandarlo in tipografia, ma con la condizione - in traspariva la forte diffidenza del papa nei confronti della Congregazione - di sottoporre ogni singolo foglio stampato all’Antoniano ed al Maffa. Non si trattò dell’ultimo controllo: stampato - probabilmente ancora non in forma definitiva - l'indice venne di nuovo sottoposto a Clemente VIII e da lui consegnato ai suoi fidi consiglieri. Dopo nuove modifiche l’8 marzo il papa autorizzò la sua pubblicazione. Il 27 marzo 1596 l’indice clementino veniva promulgato a Roma, e la Congregazione ne inoltrava una cinquantina di esemplari ai nunzi apostolici (diplomatici del Vaticano) negli Stati italiani ed agli inquisitori. Ma il suo tormentato percorso non era ancora compiuto. Solo il 7 aprile venivano consegnate alcune copie ai cardinali del Sant'Ufficio. Questo ritardo doveva essere stato attentamente calcolato dai cardinali dell’Indice, intenzionati ad evitare quanto era accaduto tre anni prima, quando, alla vigilia della promulgazione, l’indice sisto-clementino era stato bloccato dopo essere stato presentato alla Congregazione dell’Inquisizione. Tuttavia, queste misure cautelative si rivelarono controproducenti. Il 13 aprile, con quello che può essere definito un vero e proprio colpo di scena, l’indice veniva nuovamente bloccato da Clemente VIII. Questa volta la documentazione consente di stabilire che le obiezioni, di cui il pontefice si fece portavoce, provenivano dai cardinali del Sant’Ufficio, i quali, qualche giorno dopo, ordinavano la sospensione dell’indice a Roma e informavano la Congregazione dell’indice di aver già trasmesso lo stesso ordine ai nunzi e agli inquisitori. Iniziarono immediatamente trattative tra le due Congregazioni, quella del Sant’Ufficio rappresentata da Giulio Antonio Santoro, quella dell’Indice dal Maestro del Sacro Palazzo e dal segretario Pico, con la probabile partecipazione dell’Antoniano. Fu, infatti, questi ad inoltrare alla Congregazione dell’Indice le modifiche volute dal Sant’Ufficio. Il 17 maggio il Maestro del Sacro Palazzo poteva finalmente pubblicare l’editto a Roma. Fino ad oggi del tutto ignota, questa sia pure breve sospensione dell’indice clementino, imposta dalla Congregazione del Sant’Ufficio è, diversamente dalle precedenti, ampiamente documentata nelle lettere delle due Congregazioni agli organi periferici. Esattamente un mese dopo l’invio dell’indice da parte del Valier a nunzi ed inquisitori, il Santoro, scavalcando la Congregazione dell’Indice, informava a sua volta nunzi e inquisitori che il segretario Pico lo aveva distribuito, «senza haverne fatto parola a questa sacra Congregatione dell’Inquisitione». In conseguenza di questa negligenza, notava il cardinale, sì è incorso in qualche mancamento. Il pontefice gli aveva, quindi, dato istruzioni di scrivere agli ordinari ed agli inquisitori di ignorare la pubblicazione fino a nuovo ordine e di informarli. Precisava poi i «mancamenti» della Congregazione dell’Indice, che riguardavano, in primo luogo, le versioni volgari della Sacra Scrittura, a proposito delle quali si osservava che, «se pur la IV regola dell’indice di Pio IV concedeva che gli ordinari e inquisitori potevano rilasciare licenze di possedere Bibbie e altri libri della sacra scrittura in lingua volgare, negli anni già a partire da Pio IV la Santa Inquisizione aveva vietato, le licenze, il possesso e la lettura della bibbia e degli altri libri relativi alla sacra scrittura, e chiunque avesse già rilasciato la licenza di revocarla subito». Il Santoro proseguiva elencando le altre ragioni della sospensione. Sulla concessione del Talmud espurgato - ricalcata sull’indice tridentino - Clemente VIII ribadiva che non è stata una sua idea e che il Talmud restava vietato. Le rettifiche e le modifiche apportate dalla Congregazione del Sant'Ufficio furono raccolte sotto il titolo di Observatio in due fogli, inoltrati dallo stesso San’Ufficio alla Congregazione dell’Indice, ai nunzi ed agli inquisitori con l’ordine di inserirli nei volumi precedentemente spediti. Inoltre veniva aggiunta una precisazione circa la regola 9° relativa agli scritti di astrologia, divinazione ed arti occulte. Ai vescovi, cui la commissione tridentina aveva affidato il controllo su questo tipo di letteratura, vennero affiancati gli inquisitori locali. Questa integrazione imposta dalla Congregazione del Sant'Ufficio conferma la tesi, esposta nel precedente capitolo, secondo cui la revisione delle regole dell’indice del 1593, mirava a restituire agli inquisitori un ruolo nell’espurgazione e nella censura preventiva dei libri. Per quanto riguardava le versioni della Sacra Scrittura, sconfessando le scelte dei colleghi dell’Indice, il Sant'Ufficio ribadiva nell’aggiunta Observatio circa quartam regulam che ordinari ed inquisitori locali non potevano autorizzarne la lettura. Con la spedizione a nunzi e inquisitori della Observatio e del primo foglio ristampato della Instructio il terzo indice romano poteva dirsi giunto definitivamente in porto. La sua laboriosa, complessa, contrastata redazione, costellata da un susseguirsi di scontri ai vertici del governo ecclesiastico, era durata ben venticinque anni. 2. La sospensione dell'indice clementino - La frammentarietà della documentazione e il silenzio dei verbali consentono solo ipotesi sulle motivazioni che costrinsero Clemente VIII a piegarsi a quella che può essere considerata una vera e propria imposizione al papa da parte del Sant'Ufficio. Come abbiamo visto Clemente VIII aveva seguito personalmente o attraverso i suoi fidi consiglieri la stesura dell’indice in ogni sua fase, lo aveva ripetutamente rinviato agli estensori con correzioni e modifiche, lo aveva approvato dopo mesi di discussioni ed infine lo aveva promulgato. È, quindi, assolutamente impensabile che su una questione di enorme portata come le versioni volgari della Sacra Scrittura gli fosse sfuggita la decisione della Congregazione dell’Indice di ripristinare in toto la regola IV tridentina. Si può, quindi, ritenere che l’Aldobrandini, forse sotto l’influenza dell’ambiente oratoriano che lo circondava, fosse favorevole ad una vigilata circolazione dei volgarizzamenti e determinato a imporre la propria linea. È pertanto lecito pensare che la sospensione dell’indice e le rettifiche inserite nella Observatio non sono un ripensamento, ma un atto strappato dal Sant’Ufficio e riscontrare in questo episodio un’ulteriore conferma dei pesanti condizionamenti che la Congregazione dell’Inquisizione riusciva, in determinate circostanze, ad esercitare sui poteri papali. Ma al di là del potere esercitato dai cardinali del Sant'Ufficio e del loro intervento decisivo sul pontefice perché sospendesse l’indice da lui stesso promulgato, restano da chiarire le ragioni che indussero l’Inquisizione ad opporsi alla Congregazione dell’Indice sulla specifica questione dei volgarizzamenti biblici. Alcuni dei motivi del rifiuto di ripristinare la regola IV emergono chiaramente dalla lettera del Santoro. Innanzitutto è evidente che la Congregazione del Sant’Ufficio, cui era stata solo più tardi affiancata la Congregazione dell’Indice - i cui compiti erano inizialmente limitati alla sola compilazione di un nuovo indice proibitorio e alla preparazione di un indice espurgatorio -, non intendeva rinunciare alla vigilanza sulla produzione e sulla circolazione libraria che aveva effettuato sin dalla sua istituzione nel 1542 e che aveva continuato ad esercitare anche dopo la creazione della nuova Congregazione nel 1572. Ma al di là di tutto, l’Inquisizione romana, se non fosse stato modificato l’indice clementino, avrebbe visto sottrarre alla propria giurisdizione, con il ripristino CAP. 6 - La Bibbia in Europa dopo l'indice clementino 1. I volgarizzamenti biblici in Italia - Sconfitta, ma non rassegnata, la Congregazione dell’Indice proseguì la sua battaglia a favore di una più ampia diffusione della Scrittura nelle lingue materne, mostrando che il ripristino della regola IV corrispondeva ad un’esigenza profondamente sentita dai propri membri. Tra i quesiti che si riversarono sulla Congregazione, provenienti non soltanto dall’Italia, ma anche da alcuni Stati europei, un posto centrale occuparono proprio quelli relativi alle traduzioni bibliche. Infatti, il divieto non colpiva soltanto le versioni integrali o parziali della Bibbia, ma si estendeva ad ogni tipo di scritto che presentava estratti o parafrasi del testo sacro in prosa o in versi. I dubbi sollevati più frequentemente dagli inquisitori e dagli ordinari - sollecitati dalle richieste dei fedeli - riguardavano le Epistole et evangeli. Sebbene la loro lettura non fosse stata esplicitamente vietata nella Observatio circa quartam regulam, le norme adottate dal Sant'Ufficio nell'indice clementino suggeriva un’interpretazione restrittiva. I cardinali dell’Indice manifestarono immediatamente la loro propensione a dare una risposta positiva, pronunciandosi senza esitazioni a favore dell’applicazione della regola IV, che avrebbe subordinato la concessione delle pericopi evangeliche non all’autorizzazione della Congregazione del Sant'Ufficio, come per altri testi biblici, bensì a quella dell’ordinario o dell’inquisitore locale. Poiché, peraltro, tutta la materia delle traduzioni ricadeva sotto la competenza del Sant’Ufficio, ritennero indispensabile rivolgersi prima al pontefice. L'importanza della questione è testimoniata dall’aver affidato la sua trattazione oltre che a Valier, che aveva il compito di interpellare Clemente VIII a nome della Congregazione, anche al cardinale Baronio, il quale avrebbe dovuto, grazie alla sua posizione di confessore e confidente dell’Aldobrandini, svolgere opera di persuasione a titolo personale. Mosso dalle loro pressioni, il pontefice evidentemente riuscì a piegare le resistenze del Sant’Ufficio e nel 1597 Valier comunicò agli inquisitori locali che in conformità alla Regola 4 dell’Indice, erano ammessi gli Evangeli et epistole e salmi volgari, che però solo nella versione curata dal Panigarola e dal Nannini Remigio. Pur tra difficoltà questo orientamento dovette imporsi. D'altro canto, l’elevato numero di edizioni e di ristampe dei lezionari annotati da Remigio Nannini, pubblicati ininterrottamente fino all’Ottocento, offre la conferma che il Sant’Ufficio aveva ceduto. Anche su quel vasto settore delle traduzioni parziali della Scrittura rappresentato dai salmi la Congregazione dell’Indice assunse posizioni articolate. Mentre ritenne che dovessero essere ammesse alcune versioni accompagnate da commenti, come quelle di Francesco Panigarola e Flaminio de’ Nobili, mantenne la proibizione per le versioni poetiche dei salmi. La reticenza verso i componimenti poetici di contenuto biblico - sia in latino che in volgare - non era nuova. La loro condanna era stata ripetutamente ribadita nelle liste dei libri proibiti diramate da Roma tra il 1574 e il 1583, ma non era stata esplicitamente formulata nell’indice clementino. Pur se, per le versificazioni in volgare, era implicita nel divieto generale, i cardinali, di fronte ai dubbi degli esecutori dell'indice, furono costretti a chiarire la loro posizione. Il 24 agosto 1596 sulle opere di relisioni in versi decretarono che: - se sono di autori cattolici antichi prima dell'anno 1515, possono essere consentite - dopo il 1515 è vietata la stampa di tutti i libri (eretici e cattolici) che mettono in versi la Scrittura Cinque anni dopo il Brisighella, allora Maestro del Sacro Palazzo, in vista della pubblicazione del primo editto dei libri proibiti integrativo dell’indice clementino, che avrebbe dovuto riunire tutte le sospensioni ed i divieti decretati dall’Indice e dall’Inquisizione dopo il 1596, ripropose la questione delle versificazioni bibliche. Di fronte alla diversa tipologia dei componimenti poetici che attingevano i loro temi alla Sacra Scrittura, egli non soltanto invitava a riflettere sulla complessità del problema, ma esprimeva la sua chiara avversione ad inserire nell’editto il “decreto” del 1596. L’articolata difesa da parte del Brisighella delle opere poetiche che prendessero spunto da temi biblici indusse i cardinali dell’Indice, nel 1601, a meglio precisare il senso del decreto del 1596. Alla fine all’interno nel decreto si continua a vietare le opere che presentano la nuda versione del testo sacro, ma non quelle che mettono in versi storie tratte dalla Scrittura, ovviamente sempre rispettando e non mistificando il testo sacro. Insomma vi è un’apertura, ma i cardinali della Congregazione, pur tollerando che i poeti potessero trattare di cose sacre, ritenevano necessario dare un freno ai tanti che, abusando con licenza della poesia, mescolavano spesso il profano con il sacro. Decisero, quindi, con una soluzione di compromesso, di mantenere in vigore il decreto, ma autorizzarono il Maestro del Sacro Palazzo a non inserirlo nell’editto che stava preparando. Inoltre l’editto del 7 agosto 1603 oltre a contenere i suggerimenti del Brisighella confermava la parte decreto di non stampare e pubblicare opere in versi scritte dopo il 1515. La Fragnito però ci dice che Brisighella più che salvare l’intero genere letterario era interessato a salvare un opera specifica: Il Mondo Creato di Tasso. Dietro questa difesa si intravedono le pressioni del cardinale Aldo-brandini, nipote del papa regnante Clemente VIII, ed erede degli scritti inediti del Tasso, preoccupato che l’opera venisse censurata perché parlava della Genesi (le 7 giornate della creazione del mondo) e che qualcuno la pubblicasse prima di lui, motivo per cui chiede anche a Brisighella di scrivere una lettera all’inquisitore di Torino in modo da bloccare la pubblicazione dell’opera per mano dell’Ingegneri. Questo dibattito, che riproponeva il vecchio problema del rapporto tre teologia e poesia tra linguaggio biblico e linguaggio poetico, non soltanto illustra le conseguenze in campo letterario delle preclusioni della Chiesa nei confronti del volgarizzamenti biblici, ma evidenzia anche in maniera incisiva quella che fu una delle maggiori ossessioni dello Controriforma. L’ansia di erigere insormontabili barriere tra temi sacri e profani, di arginare ogni possibile inquinante sconfinamento, si riversò, incontenibile, sui volgarizzamenti metrici della Scrittura, così come sull’arte sacra. Ma questa avversione alla mescolanza di sacro e profano non avrebbe investito soltanto la letteratura religiosa e l’arte sacra. Si sarebbe riversata anche sulle opere profane e analoghe condanne si sarebbero abbattute su gran parte della lirica italiana che, divinizzando la donna e l’amore, «mescolando le cose sante con le profane» ed attribuendo al fato ed alla fortuna un ruolo preminente, verrà reputata moralmente pericolosa. Sulla poesia sacra come su quella profana graverà, inoltre, l'accusa di aver attinto tematiche, stilemi e lessico dal Petrarca, che i censori definiranno «dux et magister spurcarum libidinum». Troppo radicata era, infatti, la diffidenza verso i motivi profani veicolati dalla letteratura e troppo forte la tendenza ad estendere la categoria di eresia, perché il ritiro nel 1593 dell’indice «nazionale», che condannava gran parte della produzione letteraria italiana in versi e in prosa potesse segnare più che un’apparente tregua o perché si potesse giungere, come sembra aver auspicato il Brisighella, alla definitiva revoca del decreto della Congregazione dell’Indice del 1596 sulle versificazioni bibliche successive al 1515. Né, d’altro canto, questa diffidenza era appannaggio delle sole autorità cattoliche preposte alla censura: era condivisa anche dalle Chiese riformate di Francia, che vietavano l’uso della Sacra Scrittura nelle commedie e nelle tragedie e l’inserimento di favole pagane o l’impiego di nomi di divinità pagane nelle versificazioni bibliche. 2. I volgarizzamenti biblici in Europa - All’inizio del Seicento, quindi, la Congregazione dell’Indice era riuscita a sottrarre al controllo del Sant’Ufficio la lettura Evangeli et epistole e di alcune traduzioni dei salmi, purché accompagnate da annotazioni di autori di provata ortodossia, restituendo a vescovi ed inquisitori locali la facoltà di concedere le relative licenze, facilitando in tal modo l’accesso dei fedeli. Gli scarsi risultati riportati per quanto riguardava i volgarizzamenti biblici italiani sarebbero stati, tuttavia, controbilanciati dall’esito positivo dell'impegno della medesima Congregazione a favore della lettura della Sacra Scrittura in volgare nel resto dell'Europa cattolica - con l’esclusione della penisola iberica, dove vigevano i divieti emanati dall’Inquisizione spagnola e dall’Inquisizione portoghese. Giunsero, infatti, alle due Congregazioni dai paesi in cui venne applicato l’indice clementino richieste di revisione del divieto e di autorizzazione a pubblicare nuove traduzioni. Di fronte alle pressioni di nunzi apostolici e di autorevoli porporati, il problema, che si voleva definitivamente risolto, tornò in primo piano nelle riunioni di entrambe le Congregazioni, anche se su questa materia l’ultima parola spettava al Sant'Ufficio. Si procedette, per lo meno inizialmente, senza una visione globale, valutando le singole richieste caso per caso, alla luce delle situazioni e degli usi locali. Per la Boemia, onde «evitare maggiori inconvenienti e pericoli», Clemente VIII decretava che, a condizione che fossero state eseguite da persone idonee e cattoliche e che fossero corrette, le traduzioni (in tedesco e boemo) potevano essere stampate e tollerate. Una soluzione analoga venne adottata per la Polonia, sia pure dopo alcune tergiversazioni. Affidata ai gesuiti da Gregorio XIII e già iniziata, la traduzione polacca a norma dell’indice clementino non avrebbe dovuto essere proseguita. Il cardinale Valier portò la questione all’attenzione del pontefice, il quale a sua volta la mise in discussione nelle sedute dell’Inquisizione nel 1598. Si ritenne necessario chiedere un supplemento di informazioni al nunzio pontificio in Polonia per accertarsi dell'effettivo bisogno di una traduzione, determinato da un’eventuale ampia consuetudine di lettura dei volgarizzamenti biblici. Ottenute tutte le garanzie, Clemente VIII autorizzò la pubblicazione della traduzione. Fu accolta, invece, senza difficoltà la richiesta della lettura della Bibbia in volgare avanzata per la Dalmazia dal patriarca di Venezia nel 1597. Si trattava, infatti, di un vecchio problema di cui il Sant’Ufficio era già stato investito all'indomani della promulgazione dell’indice del 1559. L'allora arcivescovo di Ragusa, Beccadelli, aveva, infatti, illustrato al cardinale Ghislieri le insormontabili difficoltà che avrebbe incontrato l’applicazione del divieto nella sua diocesi, dove vigeva l’uso inveterato di celebrare la liturgia nell’idioma locale e di leggere la Scrittura nella traduzione che veniva leggendariamente attribuita a san Girolamo. Anche se Pio V aveva sciolto i dubbi concedendo alle popolazioni dalmate di celebrare la liturgia e di leggere i testi sacri nella loro lingua, l'indice clementino, con l'abrogazione della regola IV, non poteva mancare di suscitare nuovi scrupoli. Le pressioni di Giovanni della Torre, nunzio apostolico in Svizzera, indussero, tuttavia, Clemente VIII ad affidare ai cardinali dell’Indice il compito di valutare in maniera esauriente il problema delle traduzioni nei paesi dove convivevano cattolici e protestanti. Fin dal marzo del 1597 la Congregazione si era fatta portavoce delle esigenze degli svizzeri ed aveva chiesto al pontefice di autorizzarli a leggere la Sacra Scrittura e i libri di controversia in volgare. Ma alla disponibilità dell’Indice non dovette corrispondere quella del Sant’Ufficio, sovrano in materia di traduzioni della Bibbia, se, oltre cinque anni dopo, il nunzio tornava a sollecitare una risposta. Di fronte a tali pressioni, lo stesso pontefice, privando il Sant’Ufficio delle sue competenze, affidò il compito all'Indice. I cardinali, su mandato di Clemente VIII, riesaminarono globalmente il problema, esprimendosi a favore di traduzioni approvate dalle università cattoliche delle singole nazioni e dichiarando l’utilità della loro lettura per i cattolici che vivevano a stretto contatto con gli eretici. Fu, quindi, deciso di affidare la versione francese alla Facoltà di Teologia di Parigi e quella tedesca all’Università di Friburgo, obbligandole a trasmetterne esemplari corredati delle annotazioni esplicative alla Biblioteca Vaticana. La decisione sarebbe stata sottoposta all’approvazione del pontefice, che avrebbe dovuto dare le necessarie istruzioni alle università ed ai nunzi apostolici. Solo nel 1604 i cardinali presentarono in concistoro quanto era stato decretato ed approvato in seno alla Congregazione, ovvero che nei luoghi dove i fedeli erano a stretto contatto con gli eretici veniva permessa la lettura della Bibbia in volgare. Questa decisione non apriva nuovi spazi alle traduzioni bibliche. Prendeva semplicemente atto dell’impotenza di Roma ad arginare la loro vasta diffusione, sia che fosse fondata su antiche consuetudini - come nel mondo tedesco, in Dalmazia ed in Polonia - sia che fosse giustificata da più recenti esigenze controversistiche, come in Francia e in Inghilterra. Le tradizioni locali, cui ci si era appellati a Trento nel 1546, e la necessità, di cui si era fatto portavoce Guglielmo Allen, di attrezzare i cattolici domiciliati nei paesi passati alla Riforma di una conoscenza della Scrittura adeguata a quella dei loro interlocutori protestanti, avevano finito coll’imporre una revisione del divieto «universale» delle traduzioni e col ridisegnare la mappa della loro circolazione. Una geografia diversificata della liceità dei volgarizzamenti. Autorizzati in gran parte dei paesi europei, essi continuarono ad essere tassativamente vietati nella penisola iberica e sul territorio italiano. Solo per l’Italia, che pure era stata inclusa al Concilio di Trento, con la Germania e la Polonia, tra i paesi che avevano una lunga consuetudine di lettura delle traduzioni, non valse il criterio della tradizione. interrogare i penitenti e a non assolvere chi fosso macchiato di questo delitto o che non avesse denunciato coloro che li avevano commessi, finché non avesse risolto la questione l’inquisitore. Esemplari degli editti di pubblicazione dell’indice vennero inoltrati a Roma, seguiti da molteplici quesiti sull’interpretazione da dare alle regole ed alle 18 norme de proibitione, de correctione e de impressione librorum. Stando ai verbali della Congregazione l’azione di rastrellamento dei libri proibiti e sospesi posseduti da laici, chierici secolari e librai, si svolse, nella maggior parte delle diocesi, in tempi relativamente brevi. Ma non mancarono dei ritardi. È tuttavia indubbio che a rallentare l'operazione contribuirono le istruzioni della stessa Congregazione dell’Indice. Lungi dal limitarsi a spronare vescovi ed inquisitori, a vigilare sul loro operato, a rispondere ai quesiti e a sciogliere i dubbi che le venivano sottoposti, essa volle, infatti, accertarsi in maniera in maniera concreta che le proprie direttive erano state seguite. Nella riunione dell’8 marzo 1597 decretò che gli inquisitori, depositari del materiale consegnato, dovessero far pervenire le liste dei libri proibiti e sospesi giacenti nei loro archivi. La misura era certamente dettata sia dall’esigenza di controllare l’efficacia con cui l’indice era stato applicato sia dalla necessità di ricavare dati utili sulla diffusione di opere proibite. A partire dal 1597 e per tutto il 1603 le liste richieste giunsero da tutta Italia alla Congregazione dell’Indice. Assai più complessa si rivelò l'applicazione dell’indice clementino nelle biblioteche di monasteri e . Gli editti di pubblicazione dell’indice emanati da vescovi ed inquisitori - lo si è visto - non facevano distinzione tra laici, clero secolare e clero regolare: anche i superiori degli istituti religiosi maschili e femminili erano tenuti a presentare al vescovo o all’inquisitore le liste dei libri proibiti o di tutti i libri presenti nelle biblioteche comuni e nelle singole celle. Ma tale ordine non poteva non incontrare resistenze da parte di congregazioni ed ordini religiosi che, alla ricerca continua di privilegi ed esenzioni di ogni genere, dovettero ricorrere a Roma, ottenendo una sorta di autonomia dall’ordinario e dall’inquisitore, non a caso inviarono le liste direttamente alla Congregazione dell’Indice e trattennero presso di sé le opere vietate. Nonostante questa agevolazione, l’ispezione delle biblioteche comuni e di quelle individuali di case, conventi e monasteri maschili e femminili procedette con grande lentezza. La ricchezza del patrimonio librario rendeva la cernita laboriosa, costringendo i superiori a chiedere proroghe. Ma, al di là della obiettiva complessità dell’operazione, si avverte da parte dei regolari una chiara reticenza a soddisfare le richieste della Congregazione, testimoniata dal fatto che dopo tre anni dalla promulgazione dell’indice la gran parte di loro ancora non aveva fornita la lista dei libri proibiti posseduti. Come scusa accamparono che era difficile scindere dal loro patrimonio librario le opere condannate da quelle permesse. Si trattava certamente di giustificazioni sensate, ma è indubbio che nella difesa delle proprie biblioteche i regolari dovettero usare ogni sorta di scusa in attesa che il ciclone si allontanasse e che magari un pontefice più rispettoso del prezioso patrimonio accumulato nei secoli succedesse a Clemente VIII. Ma quell’abile ed astuta mossa si ritorse contro di loro. Infatti nel 1599 i cardinali decretarono che dovessero pervenire a Roma, entro 4 mesi, le liste dei libri non solo i libri proibiti e sospesi ma anche di tutti libri, anche personali, posseduti dai regolari. Non mancarono, inevitabilmente, nuove tergiversazioni soprattutto da parte degli ordini religiosi numericamente più forti che a questo punto, ma i cardinali non cedettero, si videro costretti a prorogare ripetutamente i termini ma alla fine nel 1603 i cataloghi richiesti giunsero a Roma. Fu, quindi, l’irrigidimento della Congregazione di fronte alle resistenze dei regolari a mettere in moto quella che viene impropriamente chiamata l’«inchiesta clementina». Questo straordinario corpus di inventari del patrimonio librario degli ordini religiosi è ancora oggi conservato nei codici Vat. Lat. 11266-11326 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Mentre nuove condanne e nuove sospensioni erano venute ad aggiungersi a quelle pubblicate nell’indice clementino e mentre erano venuti moltiplicandosi gli sforzi e le iniziative per compilare un Index expurgatorius previsto già dall’indice tridentino e che vedrà la luce solo nel 1607, nel 1603, ad oltre sette anni dalla promulgazione, poteva dirsi conclusa l'applicazione delle prescrizioni clementine. 2. Aspetti della pratica censoria - L'indagine sul materiale rinvenuto da vescovi ed inquisitori nel corso dell’esecuzione delle direttive romane si fonda, oltre che sulle liste di libri contenute nei citati manoscritti Vat. lat. 11266-11326 appartenenti a biblioteche di case, conventi, monasteri, congregazioni e ordini religiosi, anche su altri elenchi conservati nell'Archivio della Congregazione dell’Indice. Inoltrati a Roma da vescovi ed inquisitori, questi ultimi riguardano solo i libri consegnati da laici e clero secolare o sequestrati durante le ispezioni ai librai. Pur non costituendo che un frammento del corpus delle notae librorum probibitorum di cui il segretario dell’Indice Pico registrò l’arrivo, essi forniscono, insieme alle liste dei Vaticani latini, un campione estremamente significativo dell'operazione di «bonifica» attuata tra fine 500 inizio 600. Alcune precisazioni. Le liste registrano il materiale proibito o sospeso depositato presso gli archivi dei conventi che ospitavano l’inquisitore generale (eccezioni per le diocesi dove in assenza del tribunale dell’Inquisizione le funzioni di controllo erano affidate all’ordinario). Prive di riferimenti bibliografici precisi, esse sono per lo più redatte in maniera sciatta e approssimativa: raramente i libri proibiti sono distinti dai sospesi ed altrettanto raramente viene indicato il numero di esemplari consegnati delle singole opere. Inoltre non viene quasi mai indicata la provenienza geografica delle opere registrate e, salvo rarissime eccezioni, non è mai indicato il nome del proprietario. Occorre, inoltre, osservare che la richiesta di sottoporre a Roma le liste dei volumi giacenti negli archivi inquisitoriali e vescovili giunse quando molti degli scritti «omnino damnati» (esplicitamente condannati nell'indice) erano già stati bruciati. Pertanto, quello che emerge dalla documentazione consultata è uno spaccato incompleto del libro proibito e sospeso circolante a fine secolo, tenendo anche conto che molti preferirono eliminare i libri clandestinamente o li nascosero piuttosto che denunciarne il possesso agli inquisitori o agli ordinari. Se le liste - come si vedrà - documentano una situazione pressoché normalizzata dal punto di vista della circolazione del libro «eretico», i verbali della Congregazione registrano, invece, in alcune zone il reperimento di opere ereticali di tale qualità ed in tale concentrazione da allarmare le autorità romane. È il caso di Modena, Genova, Alessandria e Faenza, dove vennero rinvenuti e prontamente inoltrati all'Indice. Se l'allarme dei vescovi di Modena e di Faenza e degli inquisitori di Genova e di Alessandria appare più che motivato, le preoccupazioni del domenicano Antonelli, cui era stata affidata l'esecuzione dell’indice nelle diocesi di Rieti e Cittaducale e nell’abbazia di San Salvatore di Farfa, sembrano dettate da un eccesso di rigore. In effetti, l’ispezione aveva portato alla luce, tra laici e chierici, gruppi di libri in alcuni casi ispirati «da una religiosità interiore appartenente ad un’età oramai tramontata», in cui alle traduzioni bibliche (Nuovi Testamenti, lezionari, salteri) si affiancavano scritti religiosi di Erasmo. L’Antonelli si era, inoltre, imbattuto in numerosi esemplari di scritti grammaticali e di testi dei classici commentati da Erasmo. Tuttavia, tra le opere e i commenti di Erasmo rinvenuti durante la visita non figurano gli scritti condannati nell’indice tridentino e in quello clementino. Semmai gli scritti sequestrati dal domenicano potevano ricadere sotto la categoria di quelli sospesi dall’indice tridentino e da quello clementino in attesa di espurgazione in quanto avrebbero potuto trattare «de religione», visto che anche nelle opere grammaticali Erasmo aveva inserito cose non ortodosse per la Chiesa. Le preoccupazioni dell’Antonelli appaiono, quindi, esagerate tenendo conto che le opere incriminate erano state sospese e non condannate nel 1564. Certamente i proprietari avrebbero dovuto consegnarle per l’emendazione: ma di fronte alla lungaggini delle procedure per l’espurgazione il rischio era non vedersi restituito il patrimonio librario dai correttori. Tuttavia, è evidente che l’ Antonelli, nel suo indignato stupore di fronte ad una così elevata presenza di titoli erasmiani, dimenticava totalmente la normativa censoria relativa alle opere dell’umanista olandese stabilita dall’indice tridentino e ripresa dal clementino e si asteneva dal darne quella corretta interpretazione che avrebbe dovuto rendere meno grave la posizione dei detentori di quei libri, forse credendo di trovarsi di fronte ad un resistente focolaio di dissenso religioso. Tuttavia, al di là di una diffusa diffidenza nei confronti di Erasmo, nell’atteggiamento dell’Antonelli e di altri esecutori dell’indice si riflettono le ambiguità alimentate da anni di incerto procedere delle autorità romane nei confronti delle sue opere. È, infatti, ipotizzabile che il domenicano si aspettasse di non trovare più traccia dei suoi scritti nella convinzione che i divieti emanati da Roma dopo la promulgazione dell’indice tridentino fossero stati eseguiti. Tutta l’opera di Erasmo, indiscriminatamente, era stata, infatti, vietata in alcune - ma non in altre - liste aggiuntive distribuite dai Maestri del Sacro Palazzo e dall’Inquisizione tra il 1574 e il 1583, nonché nelle istruzioni inviate ai tribunali locali. Ma quale circolazione e quale efficacia avevano avuto quelle liste e quelle istruzioni e fino a che punto erano riuscite a sostituire l’indice del 1564, che aveva «declassato» Erasmo dalla prima classe del 1559, alla seconda, vietando soltanto gli scritti che trattavano di religione è difficile a dirsi. La situazione segnalata dall’Antonelli non è, peraltro, peculiare delle zone da lui ispezionate. Che l’estromissione di Erasmo dalla cultura italiana sia stata meno radicale e più lenta di quanto ci si aspettasse lo testimonia la presenza delle sue opere nelle biblioteche di laici, chierici e regolari fino a fine 500, come risulta da altre liste inviate a Roma. Una presenza che, però diversamente da quanto era avvenuto con l’Antonelli, non sembra aver destato l’allarme. Ancora largamente presenti risultano non soltanto le edizioni dei classici latini e le traduzioni latine di classici greci, ma anche le edizioni dei Padri della Chiesa. Illustra, inoltre, il successo scolastico di cui godeva ancora a fine secolo Erasmo, la diffusa permanenza delle opere didattiche finalizzate allo studio del latino. Né è assente la sua produzione umanistica di più alto impegno filologico. Dopo la pubblicazione dell’indice tridentino i proprietari si erano anche astenuti dal consegnare gli scritti teologico-religiosi alle autorità ecclesiastiche perché li emendassero. Le liste testimoniano la sopravvivenza delle Parafrasi ai 4 vangeli, al vangelo secondo Giovanni e al vangelo di Luca. Questa fitta sopravvivenza dei libri di Erasmo nell’Italia del fine 500 potrebbe avvalorare la tesi di una censura dalla mano leggera, ma si tratterebbe di una conclusione affrettata ed incauta. Occorre innanzitutto dire che alla loro permanenza nelle biblioteche non corrisponde ad una loro presenza sul mercato. Scomparso già da tempo dagli scaffali dei librai, sottoposte a regolari visite degli ispettori dell’Inquisizione, Erasmo era riuscito a sopravvivere nelle biblioteche non per la mano leggera dei censori, quanto per le incertezze e le oscillazioni che avevano caratterizzato gli organi censori romani tra il 1564 e il 1596: le direttive discordanti dovettero fornire a molti proprietari un alibi per trattenere le opere non esplicitamente condannate nell’indice tridentino. Questo è anche dimostrato dal fatto che le opere condannate sono del tutto assenti. Quasi del tutto assenti, del resto, sono anche sia le opere dei riformatori d’oltralpe in lingua o tradotti in italiano, sia gli scritti di autori italiani che avevano aderito alla Riforma. E la loro rarità non può non essere collegata, come per i testi erasmiani condannati, alla chiarezza dei divieti che avevano colpito i loro autori. Sembra, quindi, che gli organi censori romani avessero riportato indiscutibili successi dove avevano agito di concerto, intervenendo con divieti espliciti, chiari e tempestivi. Inevitabilmente meno efficace era stata la loro azione dove era mancata una linea unitaria, come nel caso degli scritti di Erasmo non esplicitamente condannati nell’indice tridentino e in quello dei volgarizzamenti biblici, che, come si vedrà, erano ancora presenti in maniera rilevante in tutti gli elenchi. Sradicata, quindi, più o meno ovunque l’eresia, sulla fine del secolo gli organi censori potevano dedicarsi al disciplinamento dei comportamenti morali e sociali degli italiani. In questa ottica dilatata e onnicomprensiva finirono sotto la lente d’ingrandimento gli scritti che non erano né vietati, né sospesi dall’indice clementino e che, oggi, con difficoltà si riesce a far rientrare tra le opere condannate in via generale nelle regole. Il loro sequestro pone, quindi, non pochi interrogativi. Ricompaiono, infatti, opere e autori condannati nell’indice paolino, che i padri conciliari avevano però espunto dall’indice tridentino e che non erano stati reinseriti nell’indice clementino: così, per limitarci ad alcuni esempi, di Giovanni Della Casa, condannato nel 1559 per i suoi Poemata, vennero sequestrati il Galateo e le Rime e prose, in edizioni postridentine. Mentre questi ed altri analoghi casi potrebbero trovare una giustificazione nella confusione creata dai ripensamenti degli organi censori, il sequestro di opere che non erano mai state inserite in alcun indice o in alcuna lista aggiuntiva - il Della pittura e il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, o il Secreto e gli Opera latina (Venezia 1501) di Petrarca - solleva il problema fondamentale dei vastissimi spazi lasciati all’arbitrio dei censori dalle regole e dai divieti generali. Dalle testimonianze, per quanto numericamente esigue, traspare innanzitutto che la versione integrale della Bibbia o il solo Nuovo Testamento, insieme agli scritti volgari di argomento biblico costituivano la categoria di libri proibiti più presente. Sull’estesa sopravvivenza della Scrittura ancora a fine Cinquecento, nonostante i ripetuti divieti della Congregazione del Sant’Ufficio, si possono solo fare congetture. Da un lato, non vi è dubbio che ci siano state delle mancanze delle autorità locali, dovute anche alle contraddizioni delle direttive romane. Dall’altro, è intuibile la fortissima resistenza da parte dei proprietari a privarsi di testi familiari, conservati come un bene prezioso, in quanto spesso tramandati da una generazione all’altra insieme a pochi altri volumi. A molti di loro, inoltre, dovette riuscire incomprensibile un divieto che colpiva testi a lungo autorizzati dalla Chiesa e, quindi, difficilmente assimilabili agli occhi del comune fedele ad opere tassativamente proibite. E non solo dal comune fedele, se il vescovo di Colle Val d’Elsa ingenuamente chiederà alla Congregazione dell’Indice di poter restituire - rilasciando loro una licenza - una serie di libri religiosi. Tali richieste da parte di chi doveva eseguire l’indice e ritirare dalla circolazione tutti i volgarizzamenti biblici non costituiscono, peraltro, l’unica testimonianza di una resistenza ad eseguire il divieto clementino. Se Bibbie e Nuovi Testamenti, vuoi per le contraddittorie istruzioni romane, vuoi per la tenace difesa da parte dei fedeli, erano, quindi, ancora presenti in maniera consistente nelle biblioteche dei laici e probabilmente anche in quelle del clero secolare, rari erano invece i librai che tra fine 500 e l’alba del Seicento si azzardavano a venderli, anche se non mancarono del tutto. 2. Le edizioni parziali e gli scritti di contenuto biblico - Se gli esecutori dell’indice clementino - fossero vescovi o inquisitori o regolari - non dovettero avere esitazioni di fronte agli esemplari superstiti di edizioni integrali della Bibbia o del Nuovo Testamento in volgare, in quanto la chiarezza della normativa non offriva alternativa al sequestro, assai più complessa si rivelò l’applicazione dell’indice in relazione a quel settore di opere di contenuto biblico, rappresentato dalle pericopi evangeliche, dai salmi, dai Fioretti della Bibbia, dalle Figure della Bibbia, dalle Vite e dalle Passioni di Gesù Cristo, dagli omiliari, dalle sacre rappresentazioni, dalle tragedie di argomento biblico, in sintesi quella ampia tipologia di scritti che ricadeva sotto la normativa prevista dalla Observatio circa quartam regulam, in quanto, sia pure in diversa misura e forma, presentava materiale in volgare derivante dalla Scrittura. Infatti, degli scritti appartenenti a questa categoria solo i Compendi del Vecchio e del Nuovo Testamento erano espressamente vietati nell’Observatio. Come si evince dalle lettere degli inquisitori sopra ricordate, i Compendi erano largamente diffusi e costituiscono, quindi, una delle voci più presenti nelle liste dei libri sequestrati, nonostante fossero stati vietati dal Sant'Ufficio nell’inverno del 1594-1595. Due sono gli autori menzionati: Cristoforo Miliani, il cui Compendio non sembra aver riscosso un successo pari a quello del Compendio di Dionigi da Fano, scritto proprio per venire incontro alle difficoltà sempre maggiori dei fedeli di ottenere licenze per la lettura del testo integrale. La larga popolarità di cui sembra aver goduto l’opera del Dionigi illustra non soltanto che il mercato librario rispose subito al divieto di lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento attraverso la produzione di surrogati, ma anche quanto fosse alta la domanda di opere di contento biblico che, anche se in maniera ridotta e semplificata. Se gli esecutori dell’indice procedettero senza dubbi al sequestro dei Compendi della Sacra Scrittura, ebbero molti dubbi sulle opere in volgare nelle quali erano stati inseriti passi biblici o parafrasi della Scrittura. Le perplessità nascevano non soltanto dalla genericità della Observatio, che si prestava ad interpretazioni non chiare, ma anche dalla vastità e diversità della produzione che il divieto intendeva colpire. Ad alimentare la prevenzione del Sant’Ufficio nei confronti di testi che proponevano traduzioni parziali della Scrittura o che ne parafrasavano i contenuti vi erano certamente motivazioni più complesse di quelle che avevano portato al divieto delle edizioni integrali della Sacra Scrittura. Innanzitutto il nudo testo poteva offrire una traduzione non eseguita sulla Vulgata, ma condotta direttamente sul testo greco o sul testo ebraico. Inoltre, scritti che parafrasavano brani della Scrittura potevano veicolare dottrine non ortodosse, e mescolare sacro e profano. Tra i testi contenenti estratti della Scrittura i lezionari, cioè le raccolte di Epistole e Vangeli che si leggono durante la messa, avevano conosciuto già dalla fine del Duecento una diffusione che non trova riscontro per nessun altro tipo di volgarizzamento biblico. Libri devozionali usati in ambito domestico o per meglio seguire la messa e le prediche, la loro popolarità era stata incrementata dall’essere uno dei testi più utilizzati nelle scuole di abaco fino al tardo Cinquecento. Questa duplice funzione scolastica e devozionale non soltanto spiega il numero impressionante di edizioni, ma giustifica anche le reazioni dei fedeli di fronte alla prospettiva di dovere privarsi di un testo tra i più letti. Non sorprende, quindi, che all'indomani della promulgazione dell’indice clementino la richiesta che venne più insistentemente avanzata alla Congregazione dell’Indice fu quella di escludere i lezionari dal divieto generale relativo alle versioni bibliche. Pur se tra la fine del 1594 e l’inizio del 1595 si era espressa in maniera perentoria contro la lettura delle pericopi in volgare, la Congregazione del Sant’Ufficio fece alcune concessioni in risposta alle pressioni della Congregazione dell’Indice. Come si è accennato in un precedente capitolo, l’intervento dei cardinali dell’Indice riuscì a piegare l’Inquisizione e vennero autorizzate, ma solo nelle edizioni con le annotazioni di Remigio Nannini o di autori di provata ortodossia, le Epistole et evangeli, nonché alcune raccolte omiletiche ed alcune Vite e Passioni di Gesù Cristo. Discernere all’interno di questi lezionari, capillarmente diffusi in molteplici edizioni e ristampe, ancora presenti sul mercato, quanto di eterodosso poteva annidarvisi era impresa complicata. Messa davanti a questo enorme quantità di testi, Roma, di fronte alle proteste dei fedeli di cui si fecero portavoce alcuni vescovi e inquisitori incaricati dell'esecuzione dell’indice clementino, fu costretta ad operare una selezione. Scelse la via più rapida autorizzando solo la versione annotata di Remigio Nannini, apparsa nel 1567, seguita da innumerevoli riedizioni con aggiunte integrative. Sebbene nel 1597 Valier avesse comunicato agli esecutori dell’indice che i lezionari del Nannini erano da ritenersi esclusi dal divieto della Observatio ad quartam regulam e, quindi, autorizzati previa licenza scritta del vescovo o dell’inquisitore, come prevedeva la regola IV, l’applicazione di queste nuove direttive non fu uniforme. È evidente che la revoca di un divieto, più volte emanato e sospeso tra il 1580 e il 1583 e formalmente ribadito dalla Congregazione del Sant’Ufficio tra la fine del 1594 e l’inizio del 1595 - pochi mesi prima della promulgazione dell’indice clementino - dovette suscitare non poche perplessità. Mentre alcuni vescovi ed inquisitori si attennero alle nuove disposizioni o, nel dubbio, si rivolsero alla Congregazione dell’Indice per avere chiarimenti sulle Epistole et evangeli annotati da Remigio Nannini, altri, procedettero alla loro distruzione, salvo poi, a cose fatte, essere colti da qualche dubbio. Minori problemi crearono agli esecutori le traduzioni parziali o integrali dei salmi, in prosa o in versi, accompagnate o meno da commenti. Non che le versioni italiane dei salmi - che avevano conosciuto una straordinaria fioritura nel corso del Cinquecento a differenza di altri singoli libri della Sacra Scrittura, le cui traduzioni furono rarissime - fossero prive di insidie. Non soltanto erano state uno dei principali veicoli delle dottrine eterodosse, ma si presentavano spesso in versi, ciò che era visto con enorme preoccupazione dalle autorità ecclesiastiche. Le traduzioni metriche della Bibbia, sia in latino che in volgare, erano state, infatti, vietate fin dagli anni settanta in alcune liste aggiuntive inviate da Roma, ma non erano state oggetto di un’esplicita condanna nell’indice del 1596. Questa lacuna normativa costrinse, come già si è detto, la Congregazione dell’Indice ad un chiarimento: nell’agosto del 1596 decretò che le versificazioni integrali o parziali della Bibbia apparse dopo il 1515 erano proibite. Nell’acceso dibattito che questo decreto suscitò i cardinali ribadirono la loro profonda avversione nei confronti dei componimenti poetici di argomento biblico e soltanto nel 1605 accettarono di limitare il divieto alle versificazioni del nudo testo della Scrittura e di permettere che la Sacra Scrittura fosse parafrasata in versi. Di conseguenza, mentre si era adoperata efficacemente affinché il Sant’Ufficio attenuasse il rigore sulle pericopi evangeliche in volgare, la Congregazione intervenne in maniera meno pressante sulle versioni complete o parziali dei salmi, ottenendo la sospensione del divieto solo per le versioni del Panigarola e di Flaminio de’ Nobili. In tal modo il compito degli esecutori fu notevolmente facilitato. Tra le numerose traduzioni pubblicate nel corso del Quattro e del Cinquecento, molte delle quali anonime, solo alcune sono registrate nella documentazione relativa all’esecuzione dell’indice clementino con il nome dell’autore o con riferimenti bibliografici precisi. L’approssimazione nella redazione delle liste non consente di verificare quali fossero le versioni di maggior successo, solo per alcune opere si può avanzare qualche fondatezza l’ipotesi che ci si trovi di fronte a testi sospetti. Alla rarità con cui s'incontra nella documentazione il nome di diversi traduttori si contrappone la presenza diffusissima della Dichiaratione de i Salmi di David del famoso predicatore francescano Francesco Panigarola, che ebbe un vasto successo editoriale dalla sua apparizione nel 1585 fino al 1617. Anche in questo caso, gli esecutori dell’indice clementino, includendo spesso l’opera tra i libri sequestrati, disattesero le istruzioni dell’Indice, che fin dal gennaio 1597 aveva comunicato alle inquisizioni locali che insieme alle Epistole et evangeli annotate dal Nannini venivano autorizzati i «salmi volgari» del Panigarola. Il divieto dei volgarizzamenti investì anche le Figure della Bibbia, già sospese in alcune liste aggiuntive diramate da Roma tra il 1574 e il 1583 e negli indici non promulgati del 1590 e 1593. Riassunti in versi volgari di episodi edificanti tratti dall’Antico o dal Nuovo Testamento, accompagnati da un ricco ed elegante apparato di incisioni, le Figure si prefiggevano di diffondere una cognizione elementare della Sacra Scrittura e nel contempo di invogliare il lettore ad avvicinarsi ai testi biblici integrali. La loro ricorrente presenza nelle liste inviate a Roma, se documenta la loro ampia diffusione, testimoniata anche dall’essere ancora disponibili sul mercato, giustifica la frequente assenza del nome dell’autore. Tuttavia, sembrano essere state sequestrate in maggior numero le Figure del Vecchio Testamento e Nuovo Testamento illustrate di bellissime stanze volgari di Gabriel Simeoni, le quali, oltre che a Lione erano state stampate anche a Venezia. Gli esecutori dell’indice clementino dovettero fare i conti anche con un altro genere di scritture devote che mescolavano testi della Vulgata con passi dei vangeli apocrifi e cronache medioevali come i Fioretti della Bibbia, o che presentavano florilegi di brani evangelici come il Giardino de oratione, o che narravano episodi della vita di Gesù e della Vergine e della passione del Cristo, tratti o addirittura fedelmente tradotti dal Nuovo Testamento. Un campo sterminato che comprendeva titoli spesso generici come Morte di Christo, Passione di Christo, Lamenti di Christo, Pianto della Madonna, oltre alle innumerevoli Vite di Christo, Vita della Vergine, di Gesù Christo e di San Giovanni Battista. Tra queste opere anonime, di cui veniva spesso indicato che erano in versi, non dovettero mancare i testi popolarissimi di rappresentazioni e drammi sacri, spesso ricchi di elementi parodistici ritenuti non più accettabili.
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