Scarica La Bussola dell'Antropologo di Favole Adriano e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! 1 LA BUSSOLA DELL’ANTROPOLOGO Globesità. Termine con cui Gilman definisce l’ossessione per i corpi abbondanti. Si parla di un’epidemia di obesità che va diffondendosi pericolosamente nel pianeta: termini quali guerra, lotta, virus sono diffusi dai media. Nel 2008 ha addirittura preso lo statuto di malattia, e quindi il bisogno di prescrizione di farmaci. Un articolo di Science mette in discussione le modalità di calcolo delle condizioni di sovrappeso, propone infatti di rottamare il BMI, di origini ottocentesche, il quale stabiliva situazioni di sovrappeso mediante un semplice rapporto tra peso e altezza. L’articolo propone di trovare un nuovo metodo, capace di tener conto delle varie differenze di genere e corporatura delle varie persone. Ma anche sociologi e antropologi avevano messo in discussione il BMI, infatti era inammissibile non tener conto di variabili sociali, culturali e politiche. Inoltre tarare il BMI a partire da modelli occidentali è etnocentrismo, inteso come misurazione degli altri a partire da noi stessi. Nel “Peso del Corpo”, Gaia Cottino studia la globesità in Oceania, visti i suoi primi posti in classifica per sovrappeso. Si accorge subito delle differenze di corporatura: i polinesiani, come già disse Cook, sono dotati di corporatura molto più robusta. Aiutata dalla diffusione del rugby, che ha ulteriormente ingrossato la corporatura dei polinesiani, per i quali oltretutto esser grossi riflette la capacità dell’individuo di avere molte relazioni sociali, mangiando molto! Quindi la genetica, la storia, l’organizzazione sociale, i valori legati al cibo: sono questi gli indici da prendere in considerazione nel BMI. Rimane comunque il fatto che l’aspettativa di vita in questi paesi è diminuita, a causa di malattie cardiovascolari e diabete. Cottino quindi sposta l’attenzione sulla malnutrizione: il problema non è il controllo dell’appetito, bensì l’infima qualità dei cibi, molto spesso junk food, che dagli anni ottanta si è diffuso anche lì. Quindi, la migliore cura alla globesità consisterebbe in una revisione delle politiche alimentari, piuttosto che all’imposizione di diete e prescrizione di farmaci. Tatuaggi: culture a fior di pelle. È sufficiente una passeggiata sul litorale per accorgersi dell’incredibile diffusione del fenomeno, non più praticato da giovani appartenenti a una controcultura, ma ormai un po’ da tutti. Influenzati da musicisti, artisti, calciatori, se un tempo il tatuaggio era segno di primitività o devianza, ora è di progresso. La parola deriva da tatau che Cook divulgò in inglese. Ci viene presentato Willy, un tatuatore di Futuna, il quale confessa che i segni locali, i simboli della loro cultura, non vanno molto tra i locali. Questi ultimi preferiscono tatuaggi di calciatori, simboli cristiani. Diametralmente opposta è la nostra fame di tatuaggi, che andiamo a ricercare in queste culture “tribali”. In ogni caso il tatuaggio non era ignoto all’occidente prima di Cook, era una pratica già usata. La scoperta di Cook però aiutò a trasformare il significato di essi per l’occidente, sull’onda del fascino alla Rousseau, finisce per fare aumentare il desiderio di incorporare l’altro rendendolo a sé indelebile. È comunque ambivalente la storia del tatuaggio in occidente: il tatuaggio ha assunto molteplici significati: nell’800 a tatuarsi erano per lo più galeotti e marinai, e il tatuaggio in questa prospettiva veniva visto come marchio di Caino. Accanto a questa visione negativa, assunse anche una connotazione punitiva, come nei campi di sterminio, come un marchio. Verso la fine degli anni sessanta i tatuaggi tornano ad essere pensati come possibilità alternative e come vie d’uscita dal conformismo. Lo stesso vale per i polinesiani, a cui era stata proibita la pratica dai missionari, nonostante non avessero mai smesso di praticarlo, infatti per loro era parte di cultura, per alcune popolazioni il tatuaggio significava l’entrare nell’età adulta. Quindi 2 imprimere in maniera indelebile sul proprio corpo, i segni di altre culture, ci testimonia di quanto nell’uomo vi sia un profondo bisogno della diversità culturale, e l’ambivalenza del tatuaggio forse rappresenta la doppia faccia della diversità: da una parte paurosa, rischiosa, ma dall’altra inevitabile. Uno straniero per capello. Di questi tempi, sono molto di moda le creste, da quelle appena accennate, a quelle che ricordano un elmetto: simbolo di potenza, aggressività ma anche richiamo ai guerrieri esotici. Dalla fine degli anni 70, le creste vennero associate alla controcultura dei punk e quindi, se oggi le creste dei calciatori veicolano idee di successo e vigore, giusto quaranta anni fa esprimevano una cultura di dissenso, protesta. Si dice che i simboli e le mode, tanto più hanno successo quanto più veicolano significati diversi per le persone. Nel caso del capello sono moltissimi: quelli lunghi e folti fanno il selvaggio, ma anche l’artista, o l’eremita solitario; quelli rasati la violenza e la protesta dello skinhead, ma anche la rinuncia del monaco. Si direbbe che non esistano archetipi culturali e universali sulla modalità di modellare il proprio corpo. In primis, il piacere di modellare i capelli è una espressione della creatività umana, presente in ogni cultura, veicolo comunicativo per la sua immediata visibilità. L’estrema plasticità permette di evocare ed esprimere scelte personali o di gruppo: l’acconciatura può segnare una presa di distanza critica o un desiderio di appartenenza. Come i calciatori si rifanno ai punk, la hairstylist Gilbert ha viaggiato tra i Masai africani imitandone alcune acconciature. Nella storia dei capelli si trova anche il bisogno di affascinare: la chioma fornisce un potere dirompente e distruttivo, ed è per questo che alcune società hanno tentato di mettere a freno queste creatività. Ma non ci limitiamo solo alla dimensione estetica, in alcune culture il capello ha importanza in quanto simbolo di esistenza post mortem: la persistenza di capelli denota un possibile collegamento con gli antenati. Oppure il loro venir meno è simbolo di vecchiaia e malattia, o la rasatura forzata è una forma di violenza simbolica. Il ritorno degli oggetti. Negli ultimi tempi stiamo notando come, ridotti dalla società industriale a cose e merci, molti oggetti della nostra vita quotidiana si stanno prendendo una rivincita, in quanto ci accorgiamo di un nostro valore affettivo verso di essi, apprezzandone la capacità di custodire memorie. Non è però la prima volta che le cose si ribellano a essere trattate come cose inerti: nel secondo dopoguerra molti personaggi rovistavano discariche in cerca di quei resti del mondo contadino che il mondo moderno aveva rifiutato. In seguito centinaia di piccoli musei etnografici si sono poi incaricati di raccogliere e valorizzare questi oggetti. Oggi vi è un’ampia letteratura che celebra gli oggetti del passato: ad esempio Miller, il quale ha svolto una ricerca in una strada di Londra, che dopo aver osservato gli oggetti nelle case di dodici persone, ha formato dodici storie di vita, dodici storie raccontate attraverso lo spettro degli oggetti. Oppure Lattas, che ha notato come macchine fotografiche e telefonini hanno ruoli molto importanti in alcune culture melanesiane. Le macchine fotografiche vengono usate da questi ultimi come medium di comunicazione con il mondo dei morti. Allo stesso modo alcuni hanno cominciato a conversare con i defunti attraverso buchi telefonici nel terreno. Durante le ricerche a Futuna, il professore era stato colpito dalla presenza di costose coperte firmate; scoprì presto che erano oggetti funebri, destinati ad avvolgere i corpi prima della sepoltura. Quindi notiamo come col passare del tempo il significato degli oggetti muta. Ad esempio gli Haya, che un tempo distruggevano gli oggetti intimi dei defunti, oggi considerano questi ultimi come beni inalienabili, dai semplici oggetti di valore affettivo a quelli di grande valore, unendo quindi il valore dell’oggetto inteso come merce, e il valore inteso come dono. Persino il 5 La parentela al tempo stesso è capace di unire e differenziare le società umane: le unisce poiché nessuna di esse può esimersi dal dare significato a fatti come nascita, discendenza ecc… le differenzia perché questi processi sono culturalmente plasmati. Barnard propone un approccio innovativo agli studi sulla parentela: egli ritiene che gli antropologi dovrebbero comprendere dapprima le società contemporanee per comprendere quelle passate. Si tratta del metodo dell’analogia etnografica, ossia proiettare sul passato dati relativi a studi compiuti sul campo. Si tratta di una nuova sintesi. L’esempio tratta di come la parentela possa essere in qualche modo connessa alle rivoluzioni che hanno portato all’homo sapiens. Barnard ipotizza che la prima sia quella del significante, e che abbia avuto luogo durante la transizione australopiteco homo habilis. In questa fase hanno imparato a dare nomi alle cose e a strutturare un campo di parentela, comparvero quei termini per designare il padre, la madre, i fratelli. Questa prima è detta anche della condivisione, poiché i cacciatori e i raccoglitori dovettero organizzarsi secondo precise regole di condivisione. La seconda è quella sintattica, che segna il passaggio alle forme arcaiche di homo sapiens, in cui il linguaggio permette di formulare frasi e di distinguere noi e loro. Prende forma la distinzione tra fratelli e sorelle della madre e nasce l’esogamia, ossia l’obbligo di sposarsi al di fuori del proprio gruppo: scintilla che innesca il meccanismo dello scambio. La terza è quella simbolica, che coincide con la nascita dell’homo sapiens anatomicamente moderno: ora la vera parentela coincide con l’emergere di strutture elementari di parentela. Si vive in gruppi di 150 persone, la sintassi è sviluppata bene, domina una forma di parentela universale, ancora attuale. Fondamentale in questo sistema è la distinzione tra parenti paralleli (figli di fratelli dello stesso sesso), e parenti incrociati (di sesso diverso). La scelta del coniuge è prescritta all’interno di quelli incrociati. L’approdo al neolitico ha poi portato alla creazione di strutture complesse di parentela in cui non esistono norme rigide per la scelta del coniuge, viene meno la parentela universale. Sembrerebbe che con Barnard nasca l’antropologia sociale delle origini umane. Il diritto e la cultura. La questione del diritto è antica: il diritto e la giurisprudenza sono da sempre condizionati dagli usi, dalle abitudini e dalla cultura. Ancor oggi, in alcune società non esistono forme di amministrazione. Nel corso delle ricerche etnografiche del professore, quest’ultimo ha assistito alla vicenda di due famiglie in conflitto: un bambino era stato investito e, temendo l’avviarsi della faida, alla famiglia fu consigliato di denunciare alla polizia, ma fu rifiutata. Dopo lunghe trattative mediate dai capi del villaggio trovarono un accordo di riconciliazione: un maiale e una radice di kawa. In Canada, il metodo del sentencing circle, che consente di allargare la questione ai membri del gruppo etnico di appartenenza dell’imputato, per eventualmente armonizzare la sanzione con le tradizioni locali. Questione ancora più delicata è: quanto la cultura di origine di un migrante può essere attenuante o aggravante di un crimine? Gianaria e Mittone, torinesi si sono occupati di questi reati detti culturalmente motivati, quindi si discute del rapporto tra diritto e multiculturalismo. Primo caso: Singh, un mungitore sikh, si è trasferito in Italia, e un giorno passeggiando è stato fermato e denunciato per il porto abusivo di un arma da taglio. Si trattava del suo kirpan, pugnale che nella sua cultura simboleggia l’onore: la sua cultura gli impone di portarlo sempre con sé, come se fosse parte del suo corpo. Sarà condannato. Secondo caso: quello dell’accattonaggio minorile, o meglio, la presenza di piccoli mendicanti: un giudice, può attenuare le colpe dei genitori per il fatto che il mangel rientra nella loro tradizione? C’è una legge che punisce ciò. Terzo caso: più grave, ossia l’uccisione della pachistana Hina Saleem, da parte del padre poiché tradiva l’onore della famiglia vivendo all’occidentale. In questo caso il tribunale lo aveva riconosciuto come reato culturalmente motivato; il padre fu poi comunque riconosciuto colpevole. Quarto caso: a Pusceddu il tribunale tedesco ridusse la pena per aver aggredito la fidanzata, in quanto il crimine avrebbe avuto impronte culturali dovute alle sue origini. Ma come riconoscere il reato 6 culturalmente motivato? Capiamo prima cosa cultura significa: esse non sono entità circoscritte, esse si mescolano, hanno confini arbitrari. Sarebbe più corretto quindi recidere ogni legame tra cultura e reato, introducendo variabili, come la durata dell’esperienza migratoria, la qualità di integrazione e le chances che la società di accoglienza offre. Come nel caso di Saleem, spesso sono proprio le condizioni di marginalità dei migranti che accentua queste differenze culturali. Il ruolo del giudice non è facile, e sarebbe meglio non mettere in mano alla legge le sentenze su basi culturali. Verso una medicina interculturale. La Lock qualche anno fa ha pubblicato un libro in cui confrontava gli atteggiamenti dei nordamericani e dei giapponesi verso i trapianti e verso la morte. Strano che in un paese tecnologicamente così avanzato quale è il Giappone i trapianti siano così rari, ma è perché la gente giudicava immorale questo tipo di pratica. Inoltre per l’idea di accettare un dono di così grande importanza senza poter mai ricambiare crea sensi di colpa. Il corpo in effetti non è solo un organismo biologico, ma una complessa costruzione culturale in cui prendono forma credenze e concezioni della persona stessa. Ricca e Quaranta aprono il loro libro di medicina interculturale con un episodio significativo: un uomo malese si reca in ospedale lamentando dolori al fegato; egli parla bene italiano e traduce il termine hati con fegato, traduzione corretta ma non del tutto, infatti nella cultura malese, è l’intelligenza emotiva. L’uomo infatti si sente stressato, affaticato e appesantito e continua a fare riferimento al fegato, e si sottopone a trattamenti epatici. Morirà poco dopo per crisi cardiaca. I migranti negli ultimi anni hanno portato con sé particolari conoscenze del corpo e della malattia, non trascurabili. Anche noi d’altra parte siamo portatori di un linguaggio molto lontano da quello scientifico. Come può diventare la medicina versatile a tutte queste pratiche e rappresentazioni del corpo? Per i due autori non si tratta tanto di dare spazio a forme alternative di cura, né di limitarsi a un riduzionismo biologico della medicina occidentale. Si tratta piuttosto di constatare che un approccio puramente organico alla malattia può essere svantaggioso e compromettere l’efficacia della cura: i significati che il paziente attribuisce alla sua malattia sono essenziali per una diagnosi corretta e per il successo della cura. Quando dottore e paziente condividono questi significati il linguaggio scientifico pare più agevole. Può quindi la medicina ignorare l’esistenza di questi altri linguaggi? È un percorso complesso, una sfida irrinunciabile, ma per il momento già solo affinare le capacità di ascolto e la sensibilità interculturale indirizzerebbe il tutto verso una cura più efficace. La democrazia negli interstizi del potere. Secondo Graeber ciò che più hanno di analogo le comunità relativamente autonome della storia è l’organizzazione fortemente democratica. Egli si è formato in Madagascar, qui ha maturato che l democrazia è quel modo con cui le società risolvono le proprie faccende attraverso un processo di discussione pubblica relativamente aperto e unitario. Razzismi di ritorno. Come Holland nel 2012 chiedeva di abolire la parola razza dalla costituzione, anche gli antropologi Biondi e Rickards lo hanno chiesto alla nostra. Queste richieste sono sintomatiche del fatto che nell’ultimo periodo il razzismo è tornato prepotentemente in Europa. Ne sono esempio le stragi avvenute recentemente, le classiche discriminazioni quotidiane: appartenenze religiose, origini territoriali, abitudini alimentari o abbigliamento divengono marchi, gabbie di ferro con cui purtroppo raggruppiamo gruppi di persone. Le proposte sopra citate andrebbero però riviste nel senso in cui non è la razza a dar vita al razzismo, ma viceversa, il venir meno del razzismo renderebbe priva di significato la parola razza, 7 l’abolizione di esso smaschererebbe il mito della razza. Sono numerose le credenze che lo circondano. In primo luogo la falsa credenza che l’ostilità verso l’altro sia qualcosa di comune a ogni società umana; tuttavia l’altro non è che una costruzione sociale e non un dato di natura. Tutti i gruppi possono essere razzializzati. Un esempio è quello degli Hutu e degli Tutsi, i quali prima dell’epoca coloniale non si costituivano affatto in razze, ma la distinzione era legata a forme di specializzazione all’interno della comunità, e fu poi il colonialismo tedesco a trasformare la differenza in alterità. In secondo luogo, il razzismo contemporaneo è un fenomeno istituzionale più che individuale: è istituzionale perché nasce e si consolida con provvedimenti legislativi, dichiarazioni di politici influenti, ed esso si nutre di piccoli eventi quotidiani quali proibizioni di certi cibi, rallentamenti nei processi di permesso di soggiorno (legge Bossi-‐Fini sul reato di clandestinità). La terza falsa credenza è l’idea che siano le crisi a scatenare le discriminazioni razziali. E’ vero sì che l’estrema povertà è all’origine di lotte violente, ma non necessariamente di base razzista, basti pensare che il razzismo novecentesco è stato alimentato da paesi estremamente ricchi. Ma come si esce dal razzismo? forse passando dalle logiche dell’assimilazione a quelle della condivisione, vincendo l’emarginazione a favore del coinvolgimento attraverso la cittadinanza attiva. Occorre inoltre vigilare sull’uso di parole che naturalizzano il razzismo. Noi, tribalisti. Di questi tempi, un forte vento tribale soffia sull’Italia e su molti paesi europei. Il tribalismo è quella tendenza a interpretare gli avvenimenti dando priorità assoluta alle origini etniche, territoriali, se non razziali di un individuo. I modi di agire delle persone vengono così legati alle loro presunte radici. Si tratta di un fenomeno molto diffuso: Aime evidenzia i tratti discutibili e contraddittori ma così efficaci del tribalismo politico della Lega. Egli evidenzia il ricorso a un’arma molto potente: l’opposizione manichea tra il noi e gli altri e il rifiuto di ogni contaminazione. Dai terroni ai froci, il tribalismo leghista è sinonimo di xenofobia. Ad Aime sul versante francese fa eco Amselle che nei suoi ultimi libri contesta sia le politiche tribaliste di destra sia la sinistra multiculturale, poiché entrambe prigioniere di un pensiero che trasforma la cultura in gabbia di ferro. Ma come sene esce? Aime e Amselle propongono di correggere quell’immagine statica che abbiamo delle culture; la storia insegna che le culture sono il frutto di processi trasformativi in cui l’io appartiene a una varietà di noi. Quindi sarebbe meglio iniziare a de-‐tribalizzare il linguaggio, liberandolo dai riferimenti all’identità, alle origini, al dna e ad aggettivi come nostro. Il potere e l’homo strategicus. Il potere è qualcosa che da sempre ossessiona l’uomo, e di recente è stato preso in esame da molta della produzione saggistica. La prova più evidente è costituita dagli usi e degli abusi tratti dal lessico di Foucault. Esempio di Agamen, che ha reso più familiari concetti come biopolitica, biopotere ecc. E’ come se Foucault, smontando le grandi narrazioni, fosse divenuto malgrado l’ispiratore di una nuova grande narrazione sopravvissuta al crollo dei muri: quella del potere e delle sue trasformazioni. Dei demoni del potere si occupa Revelli, il quale, rileggendo in chiave attuale miti con quello di Medusa, di Ulisse e delle Sirene, dipinge la crisi che stiamo vivendo come un nuovo mondo dei vinti, che presenta però nuovi aspetti. Il primo è relativo all’invisibilità del sovrano, nel senso che il potere è ovunque e capace di mille trasformazioni, capace addirittura di sottrarsi ai recinti istituzionali. Il secondo è il crollo definitivo delle mura della polis, ossia del controllo del nomos e del logos. Secondo Revelli viviamo il ritorno a un potere selvaggio. I demoni del potere sono tornati ad assediare l’occidente: nessun Perseo capace di tagliare la testa a Medusa appare più. È un quadro apocalittico. In una situazione come questa tuttavia il lavoro di Foucault offre strumenti di 10 riscaldamento globale, l’aumento delle diseguaglianze, la corruzione. L’insicurezza pervade la nostra contemporaneità. Viviamo però in un’epoca di speranze e di promesse, un’epoca in cui la democrazia vince sulla dittatura e sulla finanziarizzazione del mondo. Le tecnologie facilitano la condivisione e la partecipazione. La ricerca mette appunto nuovi strumenti per una transizione ecologica verso forme di economia sostenibile. È partendo da queste premesse che Caillé ha redatto e sottoscritto il Manifesto Convivialista. Dichiarazione di Interdipendenza. Convivialismo è un neologismo che promuove l’arte del vivere insieme, valorizza la relazione e la cooperazione e permette di contrapporsi senza massacrarsi. Il convivialismo enfatizza dunque il noi piuttosto che l’io. L’interdipendenza invece si riferisce alla relazione della persona, e indica un movimento anti-‐utilitarista nelle scienze sociali ispirato a Mauss e alle teorie del dono. I convivialisti non sono contro il mercato e la redditività finanziaria, nel momento in cui vengono rispettati i postulati di comune umanità e di comune socialità. Sono quattro i principi che dovrebbero animare la buona politica. Il primo è il principio di comune umanità, che afferma l’esistenza di una sola umanità che deve essere rispettata al di là delle differenze. Il secondo, di comune socialità afferma che la più grande ricchezza dell’umanità sono i rapporti sociali. Il terzo è il principio di individuazione, che permette a ciascuno di sviluppare la propria individualità. Infine il quarto, quello di opposizione controllata, garantisce agli esseri umani il diritto di differenziarsi. La madre di tutte le minacce oggi è il neoliberismo, quella mostruosa estensione dell’economia e della ricerca del profitto individuale, motivati dal puro interesse individuale, in vista di guadagno e promozione gerarchica. È la madre di tutte le minacce perché porta con sé l’idea che l’umanità possa perseguire una crescita economica infinita. E questo sogno finisce col trasformarsi nel peggiore degli incubi per l’umanità. Tuttavia sono altre le ricette dei convivialisti: ad esempio una migliore distribuzione delle risorse attraverso l’adozione di un salario minimo e un profitto massimo; poi l’uso delle nuove tecnologie a servizio della transizione ecologica, e ancora il rendere accessibile a tutti le reti telematiche. Si tratta insomma di un vivere bene a crescita zero quello che propongono i convivialisti, insistendo sulla necessità di instaurare con la natura un rapporto improntato sulla logica del dono e sulla reciprocità. Condividere non è un dono! Immaginiamo di ricevere un regalo da una persona che malapena conosciamo, che facciamo? Abbiamo due possibilità: rifiutare, oppure accettare e ricambiare al più presto. Sono passati novant’anni da quando Mauss ha scritto il Saggio sul Dono. Ora questo dono inizia a dare i segni dell’invecchiamento: per prima cosa esso non ritaglia necessariamente un’area di buoni sentimenti (Troia, Pandora sono esempi che ci ricordano che il dono può essere un trabocchetto). Ma il favoritismo e il clientelismo sono ciò che mette in luce gli aspetti ambivalenti del dono, d’altra parte, il dono esagerato, ir-‐ricambiabile, crea gerarchie. Per Mauss comunque, parlare di dono come pura gratuita spontaneità è un non senso. Per ovviare a queste aporie è opportuno introdurre il concetto di condivisione: il tavolo da cucina su cui mangiamo non è un dono, ma uno spazio di condivisione. Come osserva Belk, il fenomeno proto-‐tipico della condivisione è la maternità. La condivisione ha a che fare con tutte quelle situazioni in cui vi è un io diffuso con quel senso di compartecipazione che crea un noi. La condivisione è il far insieme, quel convivere da cui ci si svincola dal possesso e dalla gerarchia. La famiglia e la parentela non sono aree esclusive del dono, ma anche della condivisione. Condivisione, dono e scambio di mercato definiscono dunque tre diverse modalità di interazione umana. Ma la condivisione è limitata alla piccola comunità? Bisogna distinguere tra beni pubblici e beni condivisi. Una piazza è un bene pubblico, che diventa condiviso durante una manifestazione. La condivisione è inevitabilmente legata a gruppi ristretti, ma si tratta senz’altro di un’esperienza che si può amplificare: la condivisione si annida in piccoli spazi, tuttavia, come gli anelli di una catena, essa può estendersi all’infinito. 11 L’acqua e il punto di vista dell’irrigatore. Ferraris dice che l’acqua è h2o indipendentemente dalla mia conoscenza di essa, tant’è vero che se noi non esistessimo più essa continuerebbe ad esser tale. Non tutti sono d’accordo. Van Aken scrive La diversità delle Acque come confutazione della tesi ontologica di Ferraris. Studiando delle acque della Valle del Giordano o italiane emergono acque diverse da quell’h20 di cui si sono impadroniti la scienza e la tecnica del mondo moderno, i quali hanno trasformato questo liquido in quella cosa che esce dal rubinetto. La missione idraulica, ossia il controllo dell’acqua intesa come risorsa, è parte integrante dei processi di modernizzazione e di colonizzazione del mondo, basti vedere come nello stesso occidente, sistemi di distribuzione dell’acqua hanno lasciato posto a tecniche centralizzate. Nelle città, l’acqua è prima stata utilizzata come monumento della modernizzazione, poi sepolta e nascosta. Van Aken propone tre punti di riflessione. Il primo: la modernizzazione dell’acqua, intrecciata ai processi di colonizzazione dell’occidente hanno finito per nascondere e marginalizzare i sistemi tradizionali della gestione delle acque. Ma non devono essere necessariamente essere concepite come locali, sono infatti numerosi i casi in cui questi sistemi sono parte di reti sociali e idriche di grandissime dimensioni. La differenza è che la modernità disconnette e astrae l’uso dell’acqua dalle relazioni sociali e comunitarie, trasformandola in una risorsa neutra, in quella roba. Il secondo punto: questo dominio tecnico moderno delle acque, presentato dai suoi fautori come più naturale e come tale opposto a quelli tradizionali concepiti come arretrati e quindi visti come ostacolo alla modernizzazione, si sta rivelando come un grossolano errore. Van Aken lo chiama punto di vista dell’irrigatore, ossia il punto di vista di chi materialmente si relaziona con l’acqua, che è stato portato alla costruzione della scarsità di essa. Per esempio nella valle del Giordano, con la realizzazione di nuove strutture idrauliche, l’agrobusiness ha soppiantato l’agricoltura tradizionale concentrando le coltivazioni su una fascia ristretta lungo il fiume: l’acqua è così divenuta scarsa. Altro risultato di ciò sono i nuovi conflitti e le diseguaglianze economiche. Il terzo punto del lavoro di Aken è legato agli irrigatori del Medio Oriente. L’etnografia ha rivelato che permangono nascosti sistemi tradizionali. Non si tratta del persistere di tradizioni antimoderne ma del recupero di una dimensione sociale e condivisa nell’uso delle acque. Sono questi i saperi che dovrebbero essere recuperati, abbiamo bisogno di una pluralità di punti di vista sull’acqua. Sospensioni e decrescite native. Remotti le definisce epoché ossia sospensioni, e intende quei lunghi periodi in cui, programmaticamente e in modo consapevole, una società sospende le proprie attività produttive. I Banande del Congo sono società di coltivatori e abbattitori di foreste. La progressiva distruzione della foresta ha permesso a questa società di creare nuovi spazi per la coltivazione. Tuttavia essi preservano delle parti di essa, viste come aree di vuoto, ritenuti sacri e abitati da spiriti malvagi. Si tratta di posti considerati sacri, in cui conservavano i resti ossei dei loro antenati e in cui si compivano riti e consacrazioni. Inoltre, con la morte di un capo, si avviava un periodo lungo anche sei mesi in cui si sospendeva l’attività produttiva principale (sia l’attività sessuale, sia l’attività di disboscamento). Poteva apparire come una fase di decrescita. Ma che significato hanno queste sospensioni? Per Remotti, queste popolazioni avevano in mente chiaramente i rischi e i limiti della loro economia ed esprimevano queste preoccupazioni in modo simbolico. Inoltre, in questi periodi, la società 12 rifletteva su possibilità alternative, curiosando dagli altri popoli della foresta. Si potrebbe anche pensare che essi abbiano sospeso le loro attività per dedicarsi interamente alle relazioni sociali. Queste piccole foreste salvaguardate dai Banande non erano solo luoghi sacri abitati da spiriti, bensì monumenti che ricordavano loro i rischi della loro economia. Questo concetto di sospensione è diffuso anche altrove, per esempio in Oceania si usa il termine tapu, ossia tabu, inteso come dal significato sacro, proibito. Il tapu ha anche un profondo significato ecologico: in numerose isole i capi hanno il dovere di imporre un tapu su una coltivazione con l’obiettivo di preservare le risorse in vista di feste redistributive. Tapu inoltre significa per alcuni giorno festivo e quindi niente attività lavorativa. Spostandoci in Nord America si scopre che anche le società native sospendevano l’attività di pesca del salmone nei giorni in cui i pesci erano più abbondanti. Sembrano pratiche anti utilitaristiche, ma costituiscono momenti di riflessione sull’importanza della relazione tra uomo e animale e sulla fragilità di alcune economie basata sulla ricomparsa periodica di questi animali. Se i tapu non sono rispettati le società collassano, come sull’isola di Pasqua prima dell’arrivo degli europei. La logica dell’epoché dovrebbe farci riflettere: qual è il prezzo del modello produttivo occidentale? Dovremmo prendere esempio queste società. Crescere senza riti di passaggio. Su una grande imbarcazione, il professore vede il suo vicino di posto, un kanak sulla cinquantina, impadronirsi del giornale messo a disposizione. Dopo averlo sfogliato si è appisolato col quotidiano in mano. Al suo risveglio, un ragazzo sulla trentina, kanak pure lui, si accovaccia e senza mai guardare il suo interlocutore negli occhi domanda: vecchio potreste passarmi il giornale per favore? Si tratta di un episodio significativo per due ragioni, la prima è il rispetto portato dal giovane, la seconda è l’uso del termine vecchio. In molte società infatti essere vecchi è condizione positiva. La categoria vieux definisce tra i kanak una delle tappe del ciclo della vita di un uomo caratterizzata dall’assunzione di responsabilità politiche e sociali. Le società danno forma al tempo organizzando la vita in sequenze separata da riti di passaggio (espressione di Van Gennep). Essi ritualizzano passaggi quali nascita, ingresso nella vita adulta, matrimonio, morte. Tra i più importanti, ricordiamo l’ingresso nell’età adulta, caratterizzato da prove iniziache. Come si diventa adulti in occidente? Aime e Chamet evidenziano la nostra società come avvalente di riti di passaggio. L’indebolirsi di questi riti è legato ai cambiamenti nei rapporti tra generazioni. La figura del padre, ad esempio, è mutata, ora infatti ha assunto più un ruolo di complicità coi figli, le generazioni sono confuse. Il passaggio da adolescenza a età giovanile avviene presto nella nostra società: si diventa in fretta giovani adulti, tappa che tende a durare un periodo indefinito. I riti di iniziazione tuttavia non sono del tutto scomparsi, ma si sono trasformati in riti a bassa intensità, essi cioè mancano di un ampio riconoscimento pubblico, di significati socialmente condivisi e tendono ad assumere un carattere quasi privato. L’incapacità degli anziani di celebrare i passaggi è stata assunta dalle corporations dei consumi: l’acquisto del primo telefonino, il motorino, la possibilità di tatuarsi scandiscono il progredire dell’età nella nostra società. Il consumo definisce il loro cursus honorum. Ruolo fondamentale è anche offerto dal gruppo dei pari, i coetanei con cui si definiscono le modalità e le fasi di crescita. Uno dei problemi della nostra società è che imprigiona i giovani adulti in una fase di transizione indefinita. Forse è questo che è alla crisi dei riti di passaggio, è il segno di una società più egualitaria nei rapporti intergenerazionali che costringe i giovani adulti un eterno presente. È davvero uno svantaggio non poter diventare vecchi? Restituire per decolonizzare. 15 queste chiedono sempre di più di poter ridefinire le loro interdipendenze, chiedono di ripristinare le alleanze e gli scambi a livello regionale, interrotti dal fatto coloniale. Natura o condizione umana? Le dimissioni di Sahlins nel 2003 dall’Accademia nazionale delle scienze americana avvenne per polemizzare contro un altro antropologo, Chagnon e contro la sua ammissione all’Accademia. Questo per i suoi metodi di ricerca usati tra gli Yanomamo in Amazzonia, visti come pseudo-‐scientifici, che avrebbero rafforzato i pregiudizi contro i nativi e avrebbe giustificato l’inflizione di violenze gratuite a questi ultimi. Sahlins si dimise anche per protesta contro la collaborazione dell’Accademia con l’esercito americano per le ricerche in aree di guerra. Queste proteste hanno però anche un altro obiettivo, ossia quello di segnalare il disappunto verso il ritorno prepotente a un monopolio delle scienze biologiche nella definizione di condizione umana, con una conseguente marginalizzazione di scienziati sociali e di umanisti. Si tratta di una polemica contro gli abusi politicamente strumentalizzati della scienza. Con l’uscita del volume di Wilson La Conquista sociale della Terra, viene proposto il termine di eusocialità. L’essere umano, così come insetti come le termiti, ha scoperto nel tempo il vantaggio adattivo di comportamenti di solidarietà e di altruismo con membri del suo gruppo. L’eusocialità umana è un processo multilivello: nell’uomo convivono l’istinto egoistico di riproduzione individuale e l’istinto altruistico di riproduzione e successo del gruppo. Questo porta a tensioni, un conflitto sempre presente tra egoismo e condivisione. Questa idea nasconde una concezione insieme egoista e tribali sta dell’uomo. Per Wilson il tribalismo è un tratto umano fondamentale e la guerra è una maledizione ereditaria. L’uomo infatti rinuncia all’egoismo individuale soltanto per massimizzare i vantaggi del proprio gruppo, a danno di altri. Wilson non nega il ruolo della cultura nella costruzione dell’essere umano, il problema è piuttosto che la natura umana continua ad essere soltanto un terreno profondo, indagabile soltanto coi metodi delle scienze esatte. Al tramonto del post moderno, le sirene della verità scientifica si fanno sentire in modo prepotente. Ha ancora senso chiedere all’uomo, che cos’è un essere umano? Per Sahlins sì, ed è forse per questo che si è dimesso. Animali e persone. Il ministero dell’ambiente indiano ha di recente proibito di esibire i delfini in cattività: a causa della loro intelligenza e sensibilità andrebbero visti come persone non umane e come tali dovrebbero avere dei diritti. Chiudere i delfini in vasche, per quanto grandi esse siano (Genova, Piano), in India è oggi proibito. Più che una decisione legata alla sensibilità indiana, pare legata a studi recenti. La Reiss ha mostrato per esempio che i delfini sanno riconoscersi e visionare il proprio corpo in uno specchio e che possono utilizzare un rudimentale linguaggio simbolico: i delfini utilizzano strumenti e producono cultura, che trasmettono ai simili. Ma ha senso applicare la nozione di persona ad animali? I racconti di molte isole polinesiane costituiscono una parentela mitologica proprio tra esseri umani e delfini. Su Futuna si dice che un giovane, costretto a fuggire nel corso di un combattimento si gettò in mare e si trasformò in delfino, motivo per cui questi ultimi seguono le imbarcazioni. Per gli Orokaiva sono i maiali ad essere simili all’uomo, in quanto condividono abitudini alimentari, spazi di vita domestica e capacità affettive. In alcune società del Ghana sono i coccodrilli a essere oggetto di attenzioni: essi erano considerati come la manifestazione degli antenati. Più di recente, Magiameli ha scoperto che i Kasena, sempre del Ghana, considerano ancora oggi i coccodrilli quasi come persone. Questo rapporto si è generato nel lontano passato, quando i Kasena offrivano animali 16 sacrificati ai loro dei, gettandoli nelle pozze attraendo così gli animali. Finché vi saranno coccodrilli vi saranno i Kasena. Le società precolombiane che abitavano o che abitano il continente hanno offerto spunti interessanti: la nozione di persona si articolava in categorie di persone umane e persone altre rispetto all’umanità. Quindi l’uomo è diverso dall’animale, ma condivide con esso l’esigenza di aiuto e di cooperazione; anche gli animali sono persone nel momento in cui si relazionano con l’uomo. Persona quindi esprime un continuum che lega esseri umani agli animali. Si può trovare un punto di sintesi che spieghi perché, in società così differenti, delfini, maiali, coccodrilli ecc… possano essere considerati come persone? Remotti dice che mentre la scienza occidentale cerca di fondare la definizione di persone non umane sulla presenza di caratteristiche ontologiche e sostanziali in alcuni animali, altri popoli privilegiano invece le capacità e le possibilità di relazione tra uomo e l’ambiente. La scienza nativa punto proprio a questo tipo di relazioni, a discapito di categorie. Attribuire la persona agli animali sarebbe insomma un buon modo per riconoscere l’interdipendenza tra i viventi. L’uomo artificiale. Il confine tra natura e cultura, tra biologia e tecnologia, è sempre più labile: il ricorso al doping e all’uso delle protesi è molto diffuso. Ma fino a che punto potremmo spingerci nella costruzione di un uomo sempre più artificiale? Questo tema è al centro degli studi di Marazzi. Per lui l’artificialità va indagata in una duplice direzione: i robot si fanno umanoidi, androidi, gli uomini diventano cyborg, esseri in parte umani in parte artificiali. La costruzione dei robot risente comunque delle condizioni storico culturali in cui è prodotta. Se negli Stati Uniti domina la robotica militare, in Giappone domina quella legata ai servizi. Babysitter, badanti e infermieri e persino animali domestici. In Giappone la tendenza a costruire robot dalle fattezze umane è pronunciata. Anche questi uomini artificiali dovrebbero assumere l’atteggiamento di una persona, nel senso relazionale. C’è anche chi ha iniziato a chiedersi quali responsabilità e quali diritti hanno questi. Se i robot si umanizzano, gli uomini si robotizzano. Queste ricorrenze alle protesi e agli artifici della costruzione in campo organico rende oggi insostenibili quelle dicotomie che da sempre caratterizzano il pensiero umano: uomo – donna, naturale – artificiale, vita – morte. Si ha la sensazione che l’idea della singolarità e della centralità dell’essere umano vacilli: il carattere meticcio dell’uomo non è più soltanto il prodotto di relazioni e scambi tra culture, ma di ibridismi col mondo animale e chimico minerale, un ibridismo che affascina e terrorizza al tempo stesso.