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La casa in collina cesare pavese, Dispense di Letteratura Italiana

Libro da leggere letteratura italiana

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 14/06/2019

lionflower
lionflower 🇮🇹

4.5

(11)

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Scarica La casa in collina cesare pavese e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Cesare Pavese La casa in collina Cesare Pavese LA CASA IN COLLINA Giulio Einaudi Editore, Torino familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sì. Gli sfollati dei prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch’io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce. Allora la notte si passava in città. Non si sapeva ch’era un tempo così breve. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri più futili. Si viveva, o così si credeva, con gli altri e per gli altri. Devo dire - cominciando questa storia di una lunga illusione - che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute, Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in farmi discorrere, per farsi pagare le cure che avevano di me e la cena fredda e l’affabilità, con le tortuose e sbrigative opinioni sulla guerra e sul mondo che serbavo per il prossimo. Qualche volta un nuovo caso della guerra, una minaccia, una notte di bombe e di fiamme, dava alle due donne argomento per affrontarmi sulla porta, nel frutteto, intorno al tavolo, e cianciare stupirsi esclamare, tirarmi alla luce, sapere chi ero, indovinarmi uno di loro. A me piaceva cenar solo, nella stanza oscurata, solo e dimenticato, tendendo l’orecchio, ascoltando la notte, sentendo il tempo passare. Quando nel buio sulla città lontana muggiva un allarme, il mio primo sussulto era di dispetto per la solitudine che se ne andava, e le paure, il trambusto che arrivava fin lassù, le due donne che spegnevano le lampade già smorzate, l’ansiosa speranza di qualcosa di grosso. Si usciva tutti nel frutteto. Delle due preferivo la vecchia, la madre, che nella mole e negli acciacchi portava qualcosa di calmo, di terrestre, e si poteva immaginarla sotto le bombe come appunto apparirebbe una collina oscurata. Non parlava gran che, ma sapeva ascoltare. L’altra, la figlia, una zitella quarantenne, era accollata, ossuta, e si chiamava Elvira. Viveva agitata dal timore che la guerra arrivasse lassù. M’accorsi che pensava a me con ansia, e me lo disse: pativa quand’ero in città, e una volta che la madre la canzonò in mia presenza, Elvira rispose che, se le bombe distruggevano un altro po’ di Torino, avrei dovuto star con loro giorno e notte. Belbo correva avanti e indietro sul sentiero e m’invitava a cacciarmi nel bosco. Ma quella sera preferii soffermarmi su una svolta della salita sgombra di piante, di dove si Di nuovo quella sera saliva dalla costa un brusio di voci, frammisto di canti. Veniva dall’altro versante, dove non ero mai disceso, e pareva un richiamo d’altri tempi, una voce di gioventù. Mi ricordò per un momento le comitive di fuggiaschi che la sera, come gitanti, brulicavano sui margini della collina. Ma non si spostava, usciva sempre dallo stesso luogo. Era strano pensare che sotto il buio minaccioso, davanti alla città ammutolita, un gruppo, una famiglia, della gente qualunque, ingannassero l’attesa cantando e ridendo. Non pensavo nemmeno che ci volesse coraggio. Era giugno, la notte era bella sotto il cielo, bastava abbandonarsi; ma, per me, ero contento di non avere nei miei giorni un vero affetto né un impaccio, di essere solo, non legato con nessuno. Adesso mi pareva di aver sempre saputo che si sarebbe giunti a quella specie di risacca tra collina e città, a quell’angoscia perpetua che limitava ogni progetto all’indomani, al risveglio, e quasi quasi l’avrei detto, se qualcuno avesse potuto ascoltarmi. Ma soltanto un cuore amico avrebbe potuto ascoltarmi. Belbo, piantato sul ciglione, latrava contro le voci. Lo strinsi per il collare, lo feci tacere, e ascoltai meglio. Tra le voci avvinazzate ce n’erano di limpide, e perfino una di donna. Poi risero, si scompigliarono, e salì una voce isolata di uomo, bellissima. Stavo già per tornare sui miei passi, quando dissi a me stesso: “Sei scemo. Le due vecchie ti aspettano. Lascia che aspettino” Nel buio cercavo d’indovinare il sito preciso dei cantori. Dissi: “Magari sono gente che conosci”. Presi Belbo e gli feci segno verso l’altro versante. Mormorai sottovoce una frase del canto e gli dissi: - socchiusa filtrava una luce. Qualcuno gridò: - Chiudi l’uscio, ignorante, - e risero, vociando. La porta si spense. Conoscevano Belbo, tra loro; qualcuno nominò con buon umore le due vecchie, mi accolsero senza chiedermi chi fossi. Andavano e venivano al buio; c’era qualche bambino, e si guardava tutti in su. - Verranno? Non verranno? - dicevano. Parlavano di Torino, di guai, di case rotte. Una donna seduta in disparte mugolava tra sé. - Credevo che qui si ballasse, - dissi a caso. - Magari, - fece l’ombra del giovane che per primo aveva parlato con Belbo. - Ma nessuno si ricorda di portare il clarino. - Ce l’avresti il coraggio? - disse una voce di ragazza. - Per lui, ballerebbe, con la casa che brucia. - Sì, sì, - disse un’altra. - Non si può, siamo in guerra. Italiani, - qui la voce cambiò, - questa guerra l’ho fatta per voi. Ve la regalo, voi siatene degni. Non si dovrà più né ballare, né dormire. Dovete solo fare la guerra, come me. - Sta’ zitto, Fonso, se ti sentono. - Che vuoi farci? Si canta. E la voce intonò la canzone di prima, ma bassa, smorzata, quasi temesse di disturbare i grilli. Si unirono ragazze; due giovanotti si rincorsero nel prato. Belbo prese a latrare di furia. - Sta’ buono, - gli dissi. Sotto le piante c’era un tavolo con un fiasco e dei bicchieri. Il padrone, un vecchiotto, versò anche per me. Era una specie d’osteria, ma tutti più meno parenti, e venivano da Torino in comitiva. - Fin che dura, va bene, - diceva una vecchia, - ma col fango e la pioggia? Riconobbi la voce. Adesso, a pensarci, mi sembra evidente. La riconobbi, e non mi chiesi di chi fosse. Era una voce un poco scabra, provocante, brusca. Mi parve la tipica voce delle donne e del luogo. Risposi scherzando che andavo a tartufi col cane. Lei mi chiese se dove insegnavo si mangiavano i tartufi. - Chi le ha detto che insegno? - feci sorpreso. - Si capisce, - mi disse nel buio. C’era qualcosa di canzonatorio nella voce. O era il gioco di parlarsi come in maschera? In un attimo feci passare i discorsi di prima; non trovai che mi fossi tradito, e conclusi che quelli che conoscevano le vecchie, forse sapevano di me. Le chiesi se stava a Torino o lassù. - Torino, - mi disse tranquilla. Mi accorsi nell’ombra che poteva esser ben fatta. La curva delle spalle e delle ginocchia era netta. Sedeva stringendosi le ginocchia con le mani e abbandonava il capo all’indietro con aria beata. Cercai di scrutarla nel viso. - Non vuole mica mangiarmi, - mi disse in faccia. In quel momento si sentì il cessato allarme. Per un istante tutti tacquero increduli, poi scoppiò un gran baccano, e i ragazzi saltavano, le vecchie benedicevano, gli uomini diedero mano ai bicchieri e battevano il tempo. - Per stanotte è passata. - Verranno più tardi. - Italiani, l’ho fatta per voi. Lei non s’era scomposta. Abbandonava sempre il capo contro il muro, e quando le balbettai: - Lei è Cate. Sei Cate, - non mi dava più risposta. Credo che avesse chiuso gli occhi. Mi toccò alzarmi, perché adesso rincasavano. Volli pagare per il vino ma mi dissero: “Storie”. Salutai, strinsi la mano a Fonso e a un altro, chiamai Belbo e per incanto, mi Quelle sere banali e focose, quei rischi casuali, quelle speranze familiari come un letto o una finestra - tutto pareva il ricordo di un paese lontano, di una vita agitata, che ci si chiede ripensandoci come abbiamo potuto gustarla e tradirla così. L’Elvira prese una candela e si fermò in fondo alla stanza. Era fuori dal cono di luce della lampada centrale e mi disse di spegnere quando sarei salito. Capii che esitava. Vicino all’interruttore della stanza c’era quello del lampione esterno e qualche volta mi sbagliavo e inondavo di luce il cortile. Dissi brusco: - Tranquilla. Spegnerò quello giusto -. Lei tossì con la mano sulla gola e fece per ridere. - Buona notte. Ecco, mi dissi appena solo, non sei più quel ragazzo, non corri più i rischi di un tempo. Questa donna vorrebbe dirti di rincasare più presto, vorrebbe parlare con te, ma non osa, s’illude a vederti vivere solo e spera che la tua vita sia tutta qui dentro, nella lampada, nella camera, nelle belle tendine, nelle lenzuola che ti ha lavato. Mi venne da chiedermi se la Cate di un tempo si era illusa così. Ott’anni fa, cos’era Cate? Una figliola beffarda e disoccupata, magra e un poco goffa, violenta. Se usciva con me, se mi stringeva sottobraccio nascondendo le unghie rotte, non era detto per questo che sperasse qualcosa. Era l’anno che io affittavo una stanza in via Nizza, che davo le prime lezioni e mangiavo sovente in latteria. Da casa mi mandavano quattrini, tanto poco per allora bastavo a me stesso. Non avevo nessun avvenire se non quello generico di un giovane campagnolo che ha studiato e che vive in città, si guarda intorno, e ogni mattina è risata. Mi diceva che avrebbe voluto saper scrivere a macchina, servire in un grande negozio, guadagnare per andare a fare i bagni. Una sera non la vidi più. Non pensai molto al nostro caso perché credevo ritornasse. Ma quando capii che non sarebbe tornata, il bruciore della mia villania s’era ormai spento, Gallo e gli amici eran di nuovo il mio orizzonte, e in sostanza mi godevo già quel piacere di rancore saziato, di occasione felicemente perduta, ch’è poi divenuto per me un’abitudine. Nemmeno Gallo me ne parlò più, non ebbe il tempo di farlo. Andò ufficiale nella guerra d’Africa e non lo vidi per un pezzo. Quell’inverno scordai la sua agraria e la scuola rurale, divenni tutto cittadino e capii che la vita era davvero bella. Frequentai molte case, parlavo di politica, conobbi altri rischi e piaceri e ne uscii sempre. Cominciai qualche lavoro scientifico. Vidi gente e conobbi colleghe. Per qualche mese studiai molto e mi fingevo un avvenire. Quell’ombra di dubbio nell’aria, quella febbre di tutti, la minaccia, la guerra vicina, rendevano più vive le giornate e più futili i rischi. Ci si poteva abbandonare e poi riprendere; nulla accadeva e tutto aveva sapore. Domani, chi sa. Adesso le cose accadevano e c’era la guerra. Ci pensai nella notte, seduto nel cono della luce, e le mie vecchie dormivano, composte, patetiche e in pace. Che importano gli allarmi in collina, quando tutti sono rientrati e non trapelano fessure? Anche Cate dormiva, nella casa in mezzo ai boschi. Pensava ancora alla mia antica villania? Io ci pensavo come fosse ieri, e non ero scontento che il nostro incontro fosse stato così breve e così buio. Per qualche giorno ci pensai, lavorando a Torino, camminando, III. La mattina rientrai con molta gente in città mentre ancora echeggiavano in lontananza schianti e boati. Dappertutto si correva e si portavano fagotti. L’asfalto dei viali era sparso di buche, di strati di foglie, di pozze d’acqua. Pareva avesse grandinato. Nella chiara luce crepitavano rossi e impudichi gli ultimi incendi. La scuola, come sempre, era intatta. Mi accolse il vecchio Domenico, impaziente di andarsene a vedere i disastri. C’era già stato avanti l’alba, al cessato allarme, nell’ora che tutti vanno tutti sbucano, e qualche esercente socchiude la porta e ne filtra la luce (tanto ci sono i grossi incendi) e qualcosa si beve, fa piacere ritrovarsi. Mi raccontò cos’era stata la notte nel nostro rifugio dove lui dormiva. Niente lezioni per quest’oggi, si capisce. Del resto anche i tram stavano fermi, spalancati e deserti, dove il finimondo li aveva sorpresi. Tutti i fili erano rotti. Tutti i muri imbrattati come dell’ala impazzita di un uccello di fuoco. - Brutta strada, non passa nessuno, - ripeteva Domenico. - La segretaria non si è ancora vista. Non si è visto Fellini. Non si può sapere niente. Passò un ciclista che, pied’a terra, ci disse che Torino era tutta distrutta. - Ci sono migliaia di morti, - ci disse. - Hanno spianato la stazione, han bruciato i mercati. Hanno detto alla radio che torneranno stasera -. E scappò pedalando, senza voltarsi. - Quello ha la lingua per parlare, - borbottò Domenico. - Non capisco Fellini. Di solito è già qui. La nostra strada era davvero solitaria e tranquilla. Il ciuffo allegria l’indomani di un bombardamento - la vacanza prevista, la novità, il disordine somigliava al mio piacere di sfuggire ogni sera agli allarmi, di ritrovarmi nella stanza fresca, di stendermi nel letto al sicuro. Potevo sorridere della loro in coscienza? Tutti avevamo un’incoscienza in questa guerra, per tutti noi questi casi paurosi si erano fatti banali, quotidiani, spiacevoli. Chi poi li prendeva sul serio e diceva - È la guerra, - costui era peggio, era un illuso o un minorato. Eppure, stanotte qualcuno era morto. Se non migliaia, magari decine. Bastavano. Pensavo alla gente che restava in città. Pensavo a Cate. Mi ero fitto in testa che lei non salisse lassù tutte le sere. Qualcosa in questo senso mi pareva di aver sentito nel cortile, e infatti da quella volta dell’allarme non avevano più cantato. Mi chiesi se avessi qualcosa da dirle, se da lei temessi qualcosa. Mi pareva soltanto di rimpiangere quel buio, quell’aria di casa e di bosco, le voci giovani, la novità. Chi sa che Cate quella notte non avesse cantato con gli altri. Se nulla è successo, pensai, stasera tornano lassù. Suonò il telefono. Era il padre di un ragazzo. Voleva sapere se davvero non c’era lezione. Che disastro stanotte. Se i professori e il signor preside erano tutti sani e salvi. Se suo figlio studiava la fisica. Si capisce la guerra è la guerra. Che avessi pazienza. Bisognava comprendere e aiutare le famiglie. Tanti ossequi e scusassi. Da questo momento il telefono non ebbe più pace. Telefonarono ragazzi, telefonarono colleghi e segretaria. Telefonò Fellini, da casa del diavolo. - Funziona? - disse sorpreso. Sentii la smorfia di cadaveri e vivi, e si sarebbe voluto incitarli, gridargli di correre, far presto perbacco. Non servivano ad altro, si diceva tra noi. Tanto la guerra era perduta, si sapeva. Ma i soldati marciavano adagio, aggiravano buche, si voltavano anche loro a sogguardare le case. In un caffè dove lessi un giornale - uscivano ancora i giornali - tra gli avventori si parlava a bassa voce. Il giornale diceva che la guerra era dura, ma era una cosa tutta nostra, fatta di fede e di passione, l’estrema ricchezza che avessimo ancora. Era successo che le bombe eran cadute anche su Roma, distruggendo una chiesa e violando delle tombe. Questo fatto impegnava anche i morti, era l’ultimo di una serie sanguinosa che aveva indignato tutto il mondo civile. Bisognava aver fede in quell’ultimo insulto. Si era a un punto che le cose non potevano andar peggio. Il nemico perdeva la testa. Un avventore che conoscevo, uomo grasso e gioviale, disse che in fondo questa guerra era già vinta. - Mi guardo intorno, e cosa vedo? - vociava. - Treni pieni, commercio all’ingrosso, mercato nero e quattrini. Gli alberghi lavorano, le ditte lavorano, dappertutto si lavora e si spende. C’è qualcuno che cede, che parla di mollare? Per quattro case fracassate, una miseria. Del resto, il governo le paga. Se in tre anni di guerra siamo arrivati a questo punto, c’è da sperare che la duri un altro poco. Tanto, a morire nel letto siamo tutti capaci. - Quel che succede non è colpa del governo, - disse un altro. - C’è da chiedersi dove saremmo con un altro governo. Me ne andai perché sapevo queste cose. Fuori finiva un grosso incendio che aveva danneggiato un una bimba. Diceva che non mi capiva e che le davo i brividi. Per farla finita, la volli sposare. Glielo chiedevo dappertutto, per le scale, nei balli, sotto i portone. Lei si faceva misteriosa e sorrideva. Durò tre anni e fui sul punto di ammazzarmi. Di uccidere lei non valeva la pena. Ma persi il gusto all’alta scienza, al bel mondo, agli istituti scientifici. Mi sentii contadino. Siccome la guerra non venne nell’anno (credevo ancora che la guerra risolvesse qualcosa), concorsi a una cattedra e cominciai questa mia vita. Adesso di fiori e cuscini mi tocca sorridere, ma i primi tempi che con Gallo ne parlai, pativo ancora. Gallo, in divisa un’altra volta, diceva: - Sciocchezze. Tocca a tutti una volta -. Ma lui non pensava che, quel che ci tocca, non è per caso che ci tocca. Questo pensai, sul marciapiede sotto il viale, davanti al palazzo sventrato. In fondo al viale, tra le piante, si vedeva la gran schiena delle colline, verdi e profonde nell’estate. Mi chiesi perché rimanevo in città e non scappavo lassù prima di sera. Di solito l’allarme veniva di notte; ma per esempio ieri a Roma era toccato a mezzogiorno. Comunque, i primi giorni della guerra non scendevo nel rifugio; mi costringevo a stare in aula a passeggiare e tremare. A quei tempi gli attacchi facevano ridere. Adesso ch’erano cose massicce e tremende, anche la semplice sirena: sbigottiva. Se restavo in città fino a sera, non c’era un motivo. Tutta una classe di persone, i fortunati, i sempre-primi, andavano o se n’erano andati nelle campagne, nelle ville sui monti o sul mare. Là vivevano la solita vita. Toccava ai servi, ai portinai, ai miserabili, custodirgli i palazzi e, se il fuoco veniva, salvargli la roba. Toccava ai facchini, ai soldati, ai meccanici. Poi I miei scherzi mettevano l’Elvira a disagio. Gli occhietti d’Egle mi frugarono. - Quel che dice lo pensa, - mi chiese sospettosa, - o prende in giro anche stasera? - Tocca ai soldati far la guerra, - disse la mamma di Elvira. - Non si sono mai viste delle cose così. - Tocca a tutti, - dissi. - A suo tempo gridavano tutti, La luna cadeva dietro le piante. Tra poche notti era piena e avrebbe inondato cielo e terra, scoperchiato Torino, portato altre bombe. - Hanno detto, - disse Egle a un tratto, - che la guerra finisce quest’anno. - Finisce? - le dissi. - Non è ancora cominciata. Mi fermai. Tesi l’orecchio e vidi gli occhi trasalire, l’Elvira raccogliersi, tutte tacere. - Qualcuno canta, - Egle proruppe, sollevata. - Meno male. - Che matti. Lasciai Egle al cancello. Quando fui solo in mezzo alle piante, non trovai subito la strada. Belbo seguiva una sua pista e sbuffava tra i rovi. Andai vagamente, come si va sotto la luna, ingannato dai tronchi. Di nuovo, Torino, i rifugi, gli allarmi mi parvero cose remote, fantasie. Ma anche l’incontro che cercavo, quelle voci nell’aria, anche Cate era qualcosa d’irreale. Mi chiedevo che cosa avrei detto se avessi potuto parlarne, per esempio con Gallo. Arrivai sulla strada che pensavo alla guerra, alle inutili morti. Il cortile era vuoto. Cantavano dal prato dietro la casa e, siccome Belbo era rimasto a mezza costa, nessuno s’accorse di me. Nell’ombra vaga rividi la griglia, i tavolini di pietra, la porta socchiusa. A mezz’aria, da un balcone di legno pendevano pannocchie dell’anno passato. Tutta - Ieri notte, - dissi. - Non vi ho sentiti cantare e credevo che fosse rimasta a Torino. - Dino, - disse al ragazzo. Gettò le bucce e lo mandò in casa col piatto. Quando fu sola, non rideva più. Disse: - Perché non vai con gli altri? - È tuo figlio? - le dissi. Mi guardò senza aprir bocca. - Ti sei sposata? Scosse il capo con forza - riconobbi anche questa - e disse - A te cosa importa? - È un bel ragazzo, ben tenuto, - le dissi. - Lo accompagno a Torino. Va a scuola, - disse lei, - torniamo su prima di notte. Sotto la luna la vedevo bene. Era la stessa ma sembrava un’altra. Parlava sicura di sé, mi parve ieri che avevo portata a braccetto. Era vestita di una gonna corta, da campagna. - Tu non canti? - le dissi. Di nuovo quel sorriso duro, di nuovo quel gesto del capo. - Sei venuto a sentirci cantare? Perché non torni al tuo caffè? - Sciocca, - le dissi col sorriso che una volta non avevo. - Ancora ci pensi a quei tempi? Uscì di nuovo in cortile il ragazzo, e Belbo prese ad abbaiare. - Qui, Belbo, - gridai. Dino passò, corse dietro alla casa. - Tu non lo credi, - dissi a Cate, - ma la mia sola compagnia è questo cane. - Non è tuo, - disse lei. Allora le chiesi scherzando se di me sapeva proprio ogni cosa. - Io di te non so niente, - le dissi. - Che vita hai fatto, come vivi adesso. Lo sai che Gallo è morto in Sardegna? Cate mi disse: - Non è vero, - e restò male. Le raccontai com’era andata, e quasi piangeva. - È questa guerra, - disse poi, - questo schifo -. fermo sull’orlo del prato, li guardava. Cate andò avanti e gli parlò. Io restai con la vecchia nell’ombra della casa. - C’era più gente l’altra notte, - dissi. - Sono restati a Torino? La vecchia disse: - Non tutti abbiamo l’automobile. C’è chi lavora fino a notte. I tram non vanno -. Poi mi guardò e abbassò la voce. - Chi comanda è gentaglia, - borbottò. - Gentaglia nera. Non ci pensano mica. In che mani ci hanno messo. Salutai Fonso, a distanza. Mi aveva gridato qualcosa agitando la mano. Gridavano tra loro, tirandosi mele e correndo. Cate tornò verso di noi. Dalla casa chiamarono. S’era aperta una porta buia e qualcuno diceva: - Fonso, è ora. Allora tutti, le ragazze, i giovanotti, il bambino, ci corsero addosso, passarono, sparirono. La vecchia sospirò. - Mah, - disse muovendosi. - Anche quelli. Se si mettessero d’accordo. Tanto tra loro non si mangiano . Chi va di mezzo siamo noi. Restai solo con Cate. - Non vieni a sentire la radio? - mi disse. Fece un passo con me, poi si fermò. - Non sei mica fascista? - mi disse. Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. - Lo siamo tutti, cara Cate, - dissi piano. - Se non lo fossimo dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista. - Non è vero, - mi disse, - si aspetta il momento. Bisogna che finisca la guerra. Era tutta indignata. Le tenevo la mano. - Una volta, - le dissi ridendo, - non le sapevi queste cose. - Quella sera, - le dissi, - ti eri offesa, Cate? Mi guardò con un mezzo sorriso, ambigua. Io, per puntiglio, più che altro, dissi: - Dunque? Sei sposata, sì o no? Scosse il capo adagio. “C’è stato qualcuno più villano di me”, pensai subito, e dissi: - È tuo figlio il ragazzo? - E se fosse, - lei disse. - Ti fa vergogna? Alzò le spalle, come un tempo. Credevo ridesse. Invece disse a voce rauca, piano: - Corrado, lasciamola. Non ho voglia. Posso ancora chiamarti Corrado? In quel momento fui tranquillo. Capii che Cate non pensava a riprendermi, capii che aveva una sua vita e le bastava. Le dissi: - Scema. Puoi chiamarmi come vuoi -. Mi venne Belbo sottomano e lo presi alla nuca. In quel momento dalla casa buia uscivano tutti, chiacchierando e vociando. V. Finì giugno, le scuole erano chiuse, stavo in collina tutto il tempo. Ci camminavo sotto il sole, sui versanti boscosi. Dietro le Fontane, la terra era lavorata a campo e vigna, e ci andavo sovente, in certe conche riparate, a raccogliere erbe e muschi, mia antica passione di quando ragazzo studiavo scienze naturali. A ville e giardini io preferivo la campagna dissodata, e i suoi margini dove il selvatico riprende terreno. Le mai tregua: chiedeva qualcosa e già troncava la risposta con un’altra domanda. Discuteva con foga anche di scienza, di principi. Chiese a me, che parlavo, se fin che restavo borghese ero pronto a svegliarmi. - Bisogna avere la mano svelta, - gli risposi, - esser più giovani. Cianciare non conta. L’unica strada è il terrorismo. Siamo in guerra. Fonso diceva che non era necessario. I fascisti tremavano. Sapevano di aver perso la guerra. Non osavano più mandar gente sotto le armi. Cercavano soltanto l’occasione di mollare, di sparire nel mucchio, di dire “Adesso fate voi”. Era come un castello di carte. - Tu credi? Hanno tutto da perdere. Soltanto morti molleranno. Gli altri, le donne, la nonna di Cate, ascoltavano. - Se ti dice che sono carogne, - intervenne l’oste, - puoi crederci. Lui lo sa, lascia fare. Sapevano tutti alle Fontane ch’ero insegnante, scienziato. Mi trattavano con molto rispetto. Perfino Cate qualche volta si prendeva soggezione. - Questo governo, - continuava il vecchio, - non può mica durare. - Ma è per questo che dura. Tutti dicono “È morto” e nessuno fa niente. - Tu, che dici? Che cosa faresti? - chiese Cate, seria. Tacquero tutti, e mi guardavano. - Ammazzare, - dissi. - Levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. Tanto quelli la testa non la cambiano. Soltanto se sanno che appena si muovono scoppia una bomba, resteranno tranquilli. Fonso ghignava e stava per interrompere. - Tu lo faresti? - disse Cate. ciclisti, che ancora l’anno prima frequentavano quel passo. Adesso era raro un pedone. Mi trattenevo nel cortile a mangiar frutta o bere un sorso. La vecchia mi offriva il caffè, l’acqua e zucchero. Per poter pagare, comandavo del vino. A quell’ora non venivo lì per Cate, non venivo per nessuno. Se Cate c’era, la guardavo sfaccendare, le chiedevo che cosa si diceva a Torino. In realtà mi soffermavo soltanto per il piacere di sentirmi sull’orlo dei boschi, di affacciarmi di lì a poco lassù. Nel sole di luglio, selvatico e immobile, il tavolino familiare, i visi noti, e quell’indugio di commiato, mi appagavano il cuore. Cate una volta si affacciò alla finestra, disse - Sei tu - e non scese nemmeno. Chi non mancava mai, nel cortile o dietro la casa, era Dino suo figlio. Adesso, finite le scuole, era in mano della nonna, che lo lasciava gironzare, gli puliva la faccia con lo straccio e lo chiamava a far merenda. Dino non era più un ragazzo bianco e intontito, come quella notte. Adesso correva, tirava sassi, si rompeva le scarpe. Era magro e monello. Non so perché, mi faceva quasi pena. Dino aveva i capelli negli occhi e una maglietta rattoppata. Con me si vantò molto della scuola e dei suoi quaderni colorati. Gli dissi che non studiavo come lui tante materie, ma che anch’io ai miei tempi avevo fatto i disegnini. Gli raccontai come avevo copiato pietruzze, nocciole, erbe rare. Gliene feci qualcuna. Quel giorno stesso mi seguì sulla collina, a raccogliere i muschi. Scoprendo i fiori della Veronica, fu felice. Gli promisi che l’indomani avrei portato la lente e lui voleva saper subito quanto ingrandisce. - Questi granelli color viola, - gli spiegai, - diventano come rose e sotterrano i morti. - Li mangiano, - dissi. Lui rise. - Lo sa la mamma che vorresti far la guerra? Entrammo nel cortile Cate e la vecchia erano sedute sotto gli alberi. Dino abbassò la voce. - La mamma dice che la guerra è una vergogna. Che i fascisti hanno colpa di tutto. - Vuoi bene alla mamma? - gli chiesi. Alzò le spalle, come tra uomini. Le due donne ci guardavano venire. Non sapevo in quei giorni se Cate approvava che stessi con Dino. La vecchia sì - glielo toglievo dai piedi. Cate lo guardava sorpresa girarmi intorno, raccogliere fiori, strapparmi la lente di mano, e qualche volta lo richiamò vivamente, come si fa coi bambini che mancano di rispetto agli adulti. Dino taceva, s’aggobbiva, e continuava a bassa voce. Poi correva a mostrarle i disegni o le parti di un fiore. Le gridava che gli avrei portato un libro di piante. Cate lo prendeva, gli aggiustava i capelli, gli diceva qualcosa. Io quasi preferivo le volte che Cate era via. Pensai che Cate era gelosa di suo figlio. Una sera la colsi che mi guardava con un’ombra di scherno. - Cate, ti faccio proprio schifo? - le dissi piano, canzonando. Si sentì presa alla sprovvista e abbassò gli occhi e la voce. - Perché? - balbettò, lei che di solito troncava quei discorsi. - Eravamo ragazzi, - le dissi. - Le cose non si sanno mai a tempo. Ma già lei rialzava la faccia e parlava attraverso il cortile Poco dopo mi disse: - Lo sanno le tue donne che ti abbassi a parlare con noi? Glielo dici tornando la notte che sei stato all’osteria? Com’è che si chiama quella storta che vuole sposarti? L’Elvira? VI. Appena Cate uscì di nuovo nel cortile, le andai in contro. Lei non si era accorta di nulla. Forse credeva che volessi riparlare dell’Elvira e mi fece gli occhiacci e si fermò. - Si chiama Corrado, - le dissi. Mi guardò interdetta. - È il mio nome, - le dissi. Lei volse il capo, in quel suo modo baldanzoso. S’incamminò e disse scherzando: - Non lo sapevi ch’è il suo nome? - Perché gliel’hai messo? Alzò le spalle e non rispose. - Quanti anni ha Dino? - e la fermai. Mi strinse il braccio e disse: - Dopo. Sii buono. Chiacchierarono a lungo di guerra e di allarmi, quel la sera. L’amico di Fonso era stato ferito in Albania e raccontava quel che tutti sapevano da un pezzo. - Ho provato a sposarmi per dormire dentro un letto, - diceva, - e adesso anche il letto è partito -. E la sposina: - Dormiremo nei prati, sta’ bravo -. Io m’ero seduto vicino alla vecchia, e
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