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La casa in collina di Cesare Pavese, Sintesi del corso di Letteratura Contemporanea

Un estratto del romanzo La casa in collina di Cesare Pavese. Il protagonista, Corrado, vive in collina e cerca di sfuggire alla guerra e alle sue conseguenze. Nel testo si parla anche della relazione tra Corrado e Cate, una donna che ha conosciuto in passato. Il romanzo esplora temi come la solitudine, la nostalgia, la guerra e l'amore.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 25/10/2023

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4.5

(8)

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Anteprima parziale del testo

Scarica La casa in collina di Cesare Pavese e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! Cesare Pavere, La casa in collina I. Corrado tornava la sera in collina: questa per lui non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Ci fuggiva la sera come se anche lui fuggisse il soprassalto notturno degli allarmi. Non aveva tristezze, sapeva che nella notte la città poteva andare in fiamme e la gente poteva morire. La colpa di ciò che gli accadde non va tuttavia data alla guerra: quando questa arrivò, lui viveva lassù già da un pezzo dove affittava quelle stanze, e se non fosse stato per il lavoro che lo tratteneva a Torino, sarebbe tornato nella casa dei suoi vecchi, tra le altre colline. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata e non rimpiangere le occasioni perdute. Quel rancore in cui si era chiusa la sua gioventù trovò con la guerra una tana e un orizzonte. Una sera, mentre risaliva la collina, il suo cane Belbo e le sue padrone, Elvira e la madre, lo aspettavano. In quei giorni cominciavano a compiacergli i ricordi d’infanzia: sotto alle incertezze, alla voglia di star solo, si scopriva ragazzo per avere un compagno. Quella sera si avviò per un sentiero lasciandosi guidare dalle voci che sentiva. II. Quando sbucò sulla strada sentì l’allarme suonare. Nella gente lì presente c’era qualcosa che conosceva, che gli ricordava la città di altri tempi, ritrovava in quella collina un sapore più antico, contadino, remoto. Una voce gli chiese se fosse in villeggiatura, e lui subito la riconobbe. Corrado le chiese se stesse a Torino, e alla risposta affermativa le chiese se era proprio Cate. Poco più tardi, una volta tornato nella villa, Corrado ripensò a quell’incontro. Rivedere Cate lo riportò indietro di diversi anni, otto o dieci. Gli pareva di aver riaperto una stanza e di averci trovato dentro la vita di un altro, piena di rischi. Conobbe Cate durante l’anno in cui affittava una stanza in via Nizza e in cui dava le prime lezioni. Lei capitava tra lui e i suoi amici e un giorno un suo amico la chiamò in un cortile, dove più tardi andarono solo loro due. Molte donne lo intimidivano, ma lei no, con lei ci si poteva facilmente imbronciare. Qualche volta le comprò un rossetto che la riempì di gioia, e fu in quel momento che si accorse che si può mantenere una donna, educarla, farla vivere, ma se si sa di cosa è fatta la sua eleganza, non c’è più gusto. La gioia di quel rossetto gli fece capire che lei per lui non era niente che sesso. L’idea di esserle legato e doverle qualcosa gli pesava ogni volta. Una sera voleva che salisse nella sua stanza, ma lei non voleva saperne. Così le chiese di andare al cinema e lei disse che non sarebbe andata con lui per i soldi. Così lui rispose che invece lui andava con lei sono per stare a letto. Sentì solo più tardi la vergogna di ciò che aveva detto, e da quella sera non la vide più. Quell’anno divenne cittadino e capì che la vita era davvero bella. Parlava di politica, e la guerra vicina rendeva più vive le giornate. Ora invece, le cose accadevano e la guerra c’era. III. La mattina Corrado rientrò con molta gente in città, e la scuola, come sempre, era intatta. Niente lezioni però quel giorno. Passò un ciclista dicendo che Torino era distrutta, c’erano un sacco di morti. Corrado passò mezza mattina riordinando il registro di classe. Quella notte qualcuno era morto: pensò alla gente che restava in città, a Cate. Si era convinto che lei non salisse in collina tutte le sere. Si chiese se avesse qualcosa da dirle, se da lei temesse qualcosa. Finì così la mattina andando a ronzo; faceva strano vedere i soldati, che si pensava non servissero a nulla se non a estrarre cadaveri e sterrare rifugi. Tanto la guerra era perduta, si sapeva. Gli vennero in mente le case di un tempo, le sere, i discorsi, i supi furori. Gallo era in Africa da un pezzo. Qell’anno conobbe Anna Maria, e la volle sposare. Lei seppe prenderlo da un lato contadino, e disse che Corrado era diverso dagli altri; con lei imparò a parlare, a non dir troppo, a mandare fiori. Uscirono insieme per tutto l’inverno. Quando venivano le scene, anche lei piangeva come una bambina, diceva che non lo capiva e che le dava i brividi. Con lei durò tre anni e poi Corrado fu sul punto di ammazzarsi; di uccidere lei non valeva la pena. Si sentì contadino. Se si chiudeva nel rancore, era perché questo rancore lo cercava. Perché sempre l’aveva cercato, e non solo con lei. Si chiese poi perché continuava ad andare in città e non restasse in collina. Se restava in città non c’era motivo, o forse gli piaceva star solo e immaginare che nessuno lo aspettasse. IV. Quella sera rientrò in collina e chiacchierò con le sue vecchie. Quando fu poi solo in mezzo alle piante, non trovò subito la strada. Torino, i rifugi, gli allarmi, gli sembravano fantasie; ma anche Cate gli sembrava irreale. Il cortile era vuoto, ma quando fu sul punto di andarsene arrivò un ragazzetto correndo. Andò alla porta e chiamò la sua mamma: arrivò così Cate. Iniziarono così a parlare, lui le prese la mano, ma non voleva che credesse che stesse giocando sul passato. Si incamminarono verso il prato e Cate gli raccontò di sé: aveva lavorato, era stata operaia, cameriera in albergo, sorvegliante in colonia. Adesso andava tutti i giorni in ospedale a fare servizio. Le chiese se quella sera se l’era presa, ma lei gli disse di lasciarla lì. In quel momento Corrado fu tranquillo: capì che Cate non pensava a riprenderlo, che aveva una sua vita e le bastava. V. Finì giugno, le scuole erano chiuse e Corrado stava in collina tutto il tempo. Le Fontane era il luogo che preferiva, dove andava quasi ogni sera ad ascoltare la radio con gli altri. Vide Cate altre volte, di mattina e sera, e non parlarono di loro. Conobbe anche Fonso: era un ragazzino e faceva il fattorino in una ditta meccanica. Sapeva tutto della guerra, e discuteva anche di scienza e principi. Diceva che il terrorismo non era necessaio, che i fascisti sapevano di aver perso la guerra e cercavano soltanto l’occasione di mollare. Gli altri li ascoltavano: sapevano tutti che Corrado era insegnante e scienziato e lo trattavano con rispetto. Chi non mancava mai era Dino, il figlio di Cate, che era in mano alla nonna da quando le scuole erano finite. Corrado non sapeva se Cate approvasse che stesse con il bambino, ma la nonna sicuro si, così se lo toglieva dai piedi. Cate invece lo guardava sorpresa girargli intorno. VI. Appena Cate uscì nel cortile Corrado le andò incontro. Chiacchierarono a lungo di guerra e di allarmi quella sera. Quella notta gli sembrava di averla ritrovata, che le parlava e non sapeva chi fosse. Gli ci era voluto un mese che Dino volesse dire Corrado. Iniziarono a parlare e Cate gli disse di aver sbagliato a chiamare suo figlio Corrado, ma lo aveva fatto perché gli voleva bene, ma lo assicurò che non era suo figlio. Poi Cate disse a Corrado che era un ragazzo superbo, di quelli che gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Sosteneva che Corrado avesse paura. Così passò un’altra notte in cui Corrado si sentiva come quando l’aveva ritrovata. Il giorno dopo, essendo domenica, alle Fontano c’erano tutti dal sabato sera. Inizia a parlare con Dino e gli chiede quanti anni abbia: scopre che era nato a fine agosto, ma Corrado non si ricorda se avesse lasciato Cate in novembre o ottobre. Gli chiese se avesse conosciuto suo padre, ma lui gli disse di no, che sono la mamma lo conosceva ma che non si erano più rivisti. la vecchia e i soliti, fece un discorso “Questa guerra è più grossa di quello che sembra. La gente ha visto scappare quelli che prima comandavano e ora non la tiene più nessuno. Ma non c’è l’ha solo con i tedeschi, anche con quelli di prima. Non è una guerra di soldati che anche domani può finire; è la guerra dei poveri, dei disperati contro la fame, la miseria, la prigione, lo schifo”. Cate lo guardava e gli diceva che sapeva tante cose, ma non faceva nulla per aiutarli. XIII. Ormai non c’era più dubbio: accadeva da loro quel che accadeva in tutta Europa. Veniva l’inverno e Corrado aveva paura: quella guerra in cui viveva rifugiato ora mordeva più a fondo, e anche i giornali ammettevano che sulle montagne c’era stata la resistenza e che questa continuava. Le catene, la morte, la comune speranza acquistavano un senso terribile e quotidiano. In certi istanti Corrado avrebbe voluto vergognarsi, ma invece taceva: voleva scomparire, e invidiava le bestie che non sanno quel che succede e le sue donne di casa che ignoravano ogni cosa. In quelle mattine di Novembre Dino andava da lui e studiavano sui libri. Poi riaprirono le scuole e un collega di Corrado, Castelli, andò a cercarlo. Gli chiese se la guerra sarebbe finita presto: Corrado si aspettava questa domanda, essendo il suo collega di ginnastica un ex fascista e capomanipolo. A scuola rivide i colleghi e ripresero le lezioni; qualche ragazzo delle superiori mancava. Riprese anche ad incontrarsi con Cate. XIV. Vivevano in tempi in cui nessuno era sicuro di svegliarsi il giorno dopo nel letto. Tutti ne avevano colpa e dovevano pagare, secondo Corrado. Il primo che pagò fu Castelli. Dopo una breve seduta con il preside, infatti, un bel giorno presentò la domanda. Il preside un giornò chiamò infatti a parlare Corrado per chiedere di parlargli. In quei giorni Corrado ricevette una lettera e del cibo dalla famiglia per le feste. Metà del cestino lo portò alla cena di fine anno che si era promesso con Cate e a cui avrebbero dovuto partecipare tutti. Aveva comprato per Dino un pacchetto di libri e una lampadina tascabile. Quella sera si parlava e si rideva; e nessuno parlò della fine. Nessuno faceva più i conti con il tempo. Si parlava dell’altro anno come se nulla fosse stato, come se ormai la fuga, il sangue e la morte fossero il vivere normale. La stanza sapeva di fumo e di vino, e Corrado uscì un attimo in cortile per vedere le stelle: in quel momento pensò di avere la morte sotto ai piedi. Poi rientrarono e le ragazze cominciarono a cantare. Il giorno dopo scese a Torino e scoprì che Castelli l’avevano sospeso e messo dentro. XV. L’anno finì senza neve, e quando ripresero le lezioni, coi colleghi non si parlò di Catelli. Al portone delle scuole li aspettavano tutti i giorni tedeschi, dei militi. Corrado in quei giorni pensava di dover fuggire, nascondersi; si vergognava dei suoi giorni tranquilli. Trovò in lui la velleità di essere costretto a quella vita. Un giorno, traveranso una piazza, sentì una beatitudine improvvisa. Pensò che pregare, entrare in chiesa voleva dire vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue. Poco dopo entrò in una chiesa e ci entrò. Non parlò a nessuno di questo: parlarne sarebbe stato come rientrare in chiesa, un gesto inutile. La cosa più bella del culto era il momento in cui si usciva a respirare, si era liberi, vivi. Non disse a Cate del suo tentativo, ma volle sapere se lei credeva in quelle cose. Lei fece una smorfia e disse che ci aveva creduto, e che non si può pregare senza crederci. Ma Corrado rispose che non si vive senza credere in qualcosa: se si è malati, basta credere che si sarà sani; uno che prega, quando prega è come sano. Allora Cate lo guardò e gli disse che i veri malati bisogna curarli, guarirli, pregare non serve. Quel giorno Elvira gli disse che lo avevano chiamato alle Fontane, e quando Corrado si preentò gli venne data la notizia che Giulia era stata presa e messa in prigione, mentre Fonso era andato in montagna. Il problema era che se avevano preso Giulia, forse ora stavano sorevegliando l’alloggio. Venne poi carnevale e la piazza si riempì di giostre e bancarelle. Metà era diroccata da bombe e qualche tedesco si aggirava e curiosava. In collina, sotto le foglie, spuntavano i primi fiori. Fonso non andò più a Torino: in montagna si organizzavano per le azioni di primavera. XVI. L’indomani si respirava un odore di terra. Mentre tornava da Torino Corrado vide due automobili e i fucili nelle mani dei soldati. Nel cortile tutti si agitavano e vide persone salire sulle automobili. Corrado non si mosse, poi vide Belbo (il cane) saltare intorno a Dino. Si mise a correre e in lontananza vide le Fontane e il cortile dove non c’era nessuno. Dino gli disse che i tedeschi erano venuti la mattina e avevano preso Nando, Cate e il vecchio Gregorio. A Dino la mamma aveva detto di nascondersi e poi andare da Corrado a dire tutto. Così i due andarono via insieme e arrivarono al cancello dove li aspettava Elvira per dire che c’erano i tedeschi. Avevano chiesto di Corrado e lei aveva detto loro in quale scuola si trovava. Ancora oggi Corrado si chiede perché quei tedeschi non lo avessero semplicemente aspettato, ma a questo deve se ancora oggi è lassù, libero. Quel mattino disse ad Elvira di dare i suoi solfi al ragazzo, e lui corse ad aspettarlo nella conca delle feci. Ai tedeschi bisognava dire che lui avrebbe passato delle settimane a Torino ma senza sapere dove. Quando arrivò alle felci ad un certo punto si scrollò, si faceva schifo. Dino arrivò due ore dopo con Elvira per lasciargli i pacchi con il cibo e altra roba. Dino sarebbe rimasto con lei. Così Corrado prese i pacchi e partì. Mangiò nei boschi e verso sera entrò nel collegio, e giurò di non uscirne mai più. XVII. Fu ben accolto dai preti. Passarono i giorni ed il tempo chiudeva i pensieri. Corrado chiedeva un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedeva la pace nel mondo, chiedeva la sua. Capì che ogni giorno trascorso era un passo verso la salvezza, ma anche stavolta la certezza durò poco più di un istante. Quella sera riprese a pregare, e pensò con meno angoscia alle Fontane e si diceva che tutto era caso, era gioco, ma appunto per questo poteva ancora salvarsi. A poco a poco entrò nel giro del collegio, e dopo quindici giorni assisteva ai ragazzi nelle ore di studio. L’ora più bella era il mattino, quando i ragazzi andavano a scuola ed il collegio divenatava vuoto e silenzioso. Si chiedeva se anche Dino andasse a scuola, cosa succedesse alla villa e se lo avessero cercato a Torino. Tutto questo appariva remoto e l’idea di ricevere notizie lo spaventava. Invece vennero notizie: un giorno arrivò Elvira con Dino per portargli una lettere dalla sorella, e con lei aveva anche una valigia. Erano venuti con il parroco: questo diceva che Dino non poteva crescere abbandonato, che aveva bisogno di scuola, quindi cercava di farlo accettare in collegio. Così Dino rimase in collegio ed Elvira li lasciò. Prima di andarsene disse che a tavola mettevano il suo piatto ogni sera e che sia a lei che a sua mamma era capitato di sognare che Corrado scendesse le scale. XVIII. Corrado disse a Dino che per vivere in collegio avrebbe dovuto dimenticarsi della vita e non parlarne più. Il giorno dopo lo vide che correva e gridava con gli altri ragazzi: in quel momento sentì un certo orgoglio dispettoso e si disse che anche se era un bambino, tra di loro la stoffa era simile. Ora Dino non aveva più nessuno se non lui. Era ormai primavera e Corrado si chiedeva se la guerra sarebbe finita entro aprile o maggio. Da quando sapeva che nessuno lo aveva più cercato, era uscito e aveva raggiunto una piazza, dove da dietro i tetti vedeva la collina. Passeggiava la sera con padre Felice in un gran corridoio e una sera gli chiede se servisse a qualcosa rileggere le stesse parole. Allora padre Felice gli disse che trattandosi di preghiere, non contava la novità. Nel giro dell’anno si riassume la vita, la campagna è monotona e i giorni ritornano sempre. La liturgia cattolica è colei che accompagna l’annata e riflette i valori dei campi. Questi discorsi calmavano Corrado, gli davano pace. Questo era il suo modo di accettare il collegio, la vita reclusa, e di nascondersi e giustificarsi. Quel vecchio mondo del culto e dei simboli dava un senso ai suoi giorni, alla sua vita rintanata. Tuttavia, neanche quella volta durò. In refettorio sentì dire che uno che era stato in avanguardia si vantava di voler denunciare il collegio e di avere amici alla brigata nera. Poi il rettore un giorno disse a Corrado che avrebbe fatto bene ad assentarsi, così partì senza dire nulla, non vide neanche Dino che era in classe. Giunse alla villa e il primo saluto lo ebbe da Belbo. Stette nascosto per qualche giorno e l’Elvira gli disse che qualcuno aveva chiuso le Fontane a chiave. Corrado non aveva che fare: pensava sempre a Dino e ammetteva che se Cate non fosse uscita viva non avrebbe mai saputo se lui fosse suo figlio. Passò una settimana, e quando Elvirà andò a portare qualche mela a Dino, tornò dicendo che questo mancava in collegio da sei giorni. Corrado non chiese nulla: sapeva dove fosse andato; lo vide camminare per Torino e buttarsi nei fossi. Non accadeva nient’altro in collegio, quindi il rettore gli disse che poteva rientrare. Lasciò passare due giorni e poi tornò a Chieri. All’entrata però incontrò la pattuglia dei militi, ma questi gli passarono di fianco e non dissero nulla. XIX. Venne maggio e anche in collegio le giornate si fecero più vive e rumorose. Le scuola sarebbero finite a giorni, per questo le camerate si svuotavano. In quel silenzio e in quella pace Corrado non pensava che a Dino. Mancava da quasi un mese e ci soffriva al punto che se avesse saputo come sarebbe andato lui stesso a cercarlo. Elvira andò da lui e gli disse che del ragazzo non c’erano notizie e che gli altri, le donne, la madre e i parenti un mese prima erano stati deportati. Adesso che il passato era una piccola nube, una pena, un comune rimpianto, quel soggiorno in collegio diventava fastidioso come stare in carcere. Corrado non poteva tornare alla villa, poteva soltanto riandare il passato, ripensare gli scomparsi uno ad uno. Dino era una grumo di ricordi che accettava e voleva, lui solo poteva salvarlo, e non gli era bastato. La guerra non doveva finire se non dopo aver distrutto ogni ricordo e ogni speranza. L’Elvira gli aveva portato un’altra lettera dalla sua famiglia: gli veniva chiesto di raggiungerli durante le vacanze. Decise così di andarci e disse ad Elvira che nessuno poteva saperlo. Un giorno prese così il sacco e partì. Alla stazione pensò che da un pezzo aveva dimenticato che il mondo formicolasse di facce e di voci; anche il treno l’aveva scordato. XX. Quando scese dal treno fu presto in campagna. Salì su un carretto per dirigersi verso casa, e al primo paese trovarono in paizza dei tedeschi e sentirono un colpo di fucile. Dopo essere risalito sul carretto la strada si snodava fra campi e vigneti, era ben diversa dalla collina di Torino. XXI. A mezzogiorno Corrado camminava sulle colline libere, e tedeschi e repubblica li aveva lasciati chi sa dove nella valle. Una casa annerita e sfondata sulla strada gli fece smettere di battere il cuore: pensava al sangue sparso e agli spari. Pensò che quel sangue era anche il suo, che quelli erano uomini e ragazzi cresciuti a quell’aria, quel sole e quel dialetto come i suoi. Per lui era inaccettabile che il
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