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La censura del libro in Europa dal XVI al XVIII secolo, Sintesi del corso di Storia Moderna

Le origini della censura del libro in Europa dal XVI al XVIII secolo, con particolare attenzione alla situazione in Italia, Spagna e Francia. Vengono analizzati i motivi politici, religiosi ed economici che portarono alla diffusione di un sistema di controllo sulla produzione, circolazione e uso del libro attraverso organi di vigilanza deputati. Viene inoltre descritto il ruolo dell'Inquisizione romana e dell'imprimatur ecclesiastico nella regolamentazione della stampa.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 10/10/2023

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Scarica La censura del libro in Europa dal XVI al XVIII secolo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 1. Le origini della censura Tacito racconta che al tempo dell’imperatore Tiberio Cremuzio Cordo fu accusato di un nuovo delitto: aveva pubblicato degli scritti in cui rimpiangeva le antiche virtù repubblicane e definiva Cassio l’ultimo dei romani. Nel 1933, poi, a Berlino venivano bruciati dei libri di autori liberali e democratici da parte dei nazisti. L’immagine del rogo diventa, quindi, il simbolo della censura. Nell’età moderna, tra XVI e XVIII secolo, in Europa si diffuse un sistema di controllo sulla produzione, circolazione e uso del libro attraverso organi di vigilanza deputati, soprattutto inizialmente, a punire chi diffondesse la Bibbia stampata a caratteri mobili. Il libro venne visto come un pericolo, tanto che la Chiesa di Roma elaborò un modello di organizzazione e repressione poliziesca. Nell’età del manoscritto, la riproduzione dei testi era affidata alle officine scrittorie ed era impossibile controllare un flusso limitato, perciò proibizioni e roghi avevano più un carattere simbolico. Città europee come Venezia, Lione, Parigi, Basilea, Anversa, Augusta e Colonia divennero luoghi principali per stampatori, librai e autori grazie all’industria tipografica. Il problema principale era dei centri più vivaci: in Germania, dove nacque la stampa; in Italia a Venezia e nelle corti, dove il libro poteva interferire con le idee assolutiste dell’età moderna. C’erano sia preoccupazioni filologiche, legate al fatto che un manoscritto scorretto faceva poco danno, mentre una tiratura sbagliata di un migliaio di esemplari poteva danneggiare un testo, sia preoccupazioni politiche e religiose. Nei primi decenni della stampa si segnalano: nel 1487 papa Innocenzo VIII aveva affidato al Maestro del Sacro Palazzo a Roma e ai vescovi di vigilare sulla diffusione di testi che andassero contro la morale religiosa; successivamente, nel 1501 Alessandro VI, con la bolla Inter multiplices rivolta agli arcivescovi di Colonia, Magonza, Treviri e Magdeburgo, aveva fissato i principi della censura preventiva; nel 1515 questi principi vennero estesi a tutta la cristianità da Leone X nel Concilio Laterano V. La Spagna allestì un suo sistema di controllo: Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia imposero una licenza preventiva per i libri di nuova impressione e per le importazioni all’estero. Venne istituita la figura del “censore”, un “letterato fedele e di buona coscienza” che proibiva le opere “apocrife, superstiziose, condannate, vane e inutili”. In Italia, nel 1491 a Venezia, il nunzio pontificio Niccolò Franco dispose che le opere religiose dovessero ottenere un’autorizzazione da parte dell’ordinario diocesano, ma, nonostante la crescita di alcuni editori come Manuzio e Giunti, non ci fu un controllo sistematico. Si attivarono dei funzionari che avevano più che altro il compito di disciplinare chi avesse il privilegio della stampa, una garanzia in più per l’editore che investiva sul libro. Così, nel 1518 Bernardino Stagnino poté stampare l’”Appellatio ad Concilium” di Lutero, l’unico suo opuscolo presente in Italia. Con le due bolle di Leone X del 1520, Exsurge Domine, e 1521, Decet Romanum Pontificem, Lutero venne scomunicato dalla Chiesa, perché i suoi scritti vennero pubblicati in oltre 300mila copie tramite mercanti e studenti fuori dalla Germania. Il sistema di censura va di pari passo alla diffusione dei testi della Riforma, che avvenivano sempre più in maniera clandestina, ma dopo svariati tentativi, la situazione cambiò nel 1540, dopo i fallimenti dei tentativi di riconciliazione con i protestanti. Con la bolla del 1542 Licet ab initio, papa Paolo III istituisce l’Inquisizione romana, un tribunale fortemente centralizzato presente in ogni diocesi. L’intento romano era quello di sottoporre tutta la produzione libraria europea sotto il controllo dell’autorità religiosa. L’imprimatur era, infatti, l’autorizzazione ecclesiastica per la stampa ed era l’unica che consentiva la pubblicazione e la circolazione di un’opera; i suoi estremi erano indicati nelle prima pagine del libro. I conflitti tra Stato e Chiesa su chi dovesse concedere l’autorizzazione non mancarono e durarono fino al ‘700. All’imprimatur religioso si contrapponeva spesso la licenza di stampa rilasciata dal principe (“con licenza de’ superiori”) e così i trafficanti ne poterono approfittare. Sono da considera, appunto, le ragioni non solo politiche ma anche economiche dell’editoria, soprattutto nei Paesi industriali. A fine ‘500 si erano sviluppate strutture burocratiche adibite alla vigilanza sulla stampa: • Spagna, la stampa protestante fu quasi del tutto assente, ma le disposizioni dei Castiglia rimasero almeno fino alla metà del secolo. Dopo di allora l’Inquisizione ebbe una grande influenza, perché nel 1558 una nuova prammatica istituì il controllo del libro non solo all’entrata della penisola iberica, ma durante tutto l’iter della distribuzione. Si decisero ispezioni periodiche a librerie e biblioteche effettuate da inquisitori, vescovi e autorità locali. Solo il Consiglio Reale, con i suoi Consejos, poteva autorizzare la stampa e solo il Consiglio Supremo dell’Inquisizione poteva reprimere. Dallo sguardo dell’Inquisizione, neppure i libri che erano stati precedentemente autorizzati potevano essere salvi e questo perché essa deteneva dei poteri illimitati; essa agiva grazie alle confessioni delle persone o alla sua attività di ispezione e la stessa professione del libraio venne compromessa. La pratica censoria alla fine del ‘500 comprendeva ormai: libri in volgare, devozione popolare, produzione accademica e scientifica, opere di pensatori antichi, di pedagogia e di erudizione; • Francia, a Parigi non vennero mai accettati i sistemi di controllo romani, poiché era un privilegio della monarchia. Fino agli anni ’20 del ‘500 solo l’”Apologia” di Pico della Mirandola venne censurata, ma successivamente, su domanda di Francesco I, il Parlamento di Parigi impose una revisione per le opere religiose da parte della Sorbona. Inizialmente diversi organi si contesero questo compito, come i teologi universitari, il Parlamento stesso e la monarchia, ma poi collaborarono tanto che tra il 1544 e il 1556 vennero redatti sei indici. Ad es. in questi era compreso “Gargantua e Pantagruel” di Rabelais per questioni morali. Nel 1551 con l’editto di Chateubriand, in cui le tre istituzioni hanno collaborato, venne imposta la vigilanza sulla produzione e circolazione dei libri, il divieto di stampe anonime, le ispezioni sulle importazioni e le visite ai librai. Si tento di ridurre il controllo dei teologi solo alla materia religiosa e, sotto minaccia di morte, veniva resa obbligatoria la licenza di stampa concessa dalla Cancelleria. Si tratta dell’unico Paese in cui l’Inquisizione non aveva nessun potere in materia; • Inghilterra, dopo la bolla di Leone X, il vescovo di Londra prescrisse il divieto di importazione dei libri dall’estero e l’obbligo di licenza concessa dall’arcivescovo di Canterburry. Negli anni ’30, il permesso veniva dato dal Consiglio della Corona e dopo l’atto di supremazia di Enrico VIII, il potere della Chiesa venne limitato; nel 1557 con la cattolica Maria Tudor, invece, si concesse il monopolio dell’esercizio sulla stampa alla cooperazione dei librai inglesi (la Stationers’ Company); con Elisabetta, questo rapporto privilegiato rimase senza aver mai costituito un sistema di vigilanza efficace; • Italia, presenta una situazione confusa per via della frammentazione politica e della vigilanza della Santa Sede. Si conosce poco dell’editoria romana, secondo luogo dopo Venezia, e tra il ‘500 e il ‘700, Sicilia e Sardegna erano sotto la vigilanza censoria spagnola, mentre i regni di Milano e Napoli sotto l’Inquisizione romana. A Milano Francesco Sforza prese le prime decisioni nel 1523 e successivamente il governo spagnolo proibì la stampa senza licenza, come dimostrato dai decreti tridentini di Carlo Borromeo che imponevano la professione di fede a librai e stampatori; nel regno di Napoli erano forti le imposizioni pontificie e nel ‘600 anche il viceré e il Consiglio Collaterale imposero delle disposizioni in materia di autorizzazione. Negli altri Stati italiani in cui l’influenza spagnola era minore, rimase molto forte quella ecclesiastica e, nella pratica quotidiana, le autorità religiose imponevano la vera legge. A Venezia l’obbligo della licenza di stampa fu stabilito subito dal Consiglio dei Dieci, un complesso di norme di censura preventiva da parte dello Stato per evitare l’ingresso di opere estere “disoneste e di mala natura”. Successivamente il controllo doveva essere effettuato da tre principali lettori: uno ecclesiastico dell’Inquisizione, un lettore pubblico nominato dalla Repubblica e un segretario ducale. Ciascuno di questi avrebbe scritto una “fede” sul libro per motivare la pubblicazione. I sistemi censori del XVI secolo hanno puntato sulla censura ecclesiastica come arma della Controriforma contro l’eresia. I sovrani assolutisti cercavano di far rientrare la censura nelle loro competenze ed i risultati del monopolio tra Stato e Chiesa furono diversi negli Stati. La posizione degli uomini riformisti come Lutero era di estrema cautela, seppur la stampa venne utilizzata come arma principale, così come Calvino, il quale riteneva che i libri dovessero essere letti solo da chi era in grado di comprendere senza fraintendimenti. Alcuni libri, soprattutto religiosi, vennero vietati seppur non appartenessero alla Riforma, come il Talmud ebraico, il Corano, le opere magiche e immorali. Fino alla Rivoluzione Francese si riteneva che il divieto della pubblica circolazione dei testi presenti nell’Indice fosse ovvio e necessario, affinché potessero essere educati anche gli intelletti attraverso le letture. Non vi era spazio per la libertà di scelta o di espressione; la Chiesa era come una “madre che doveva restringere le libertà del bambino” per ripararlo dai pericoli attraverso le “candide e prudenti censure”. Si dovrà attendere il XVII secolo per un cambiamento, solo nel 1966 Paolo VI abolì definitivamente l’Indice. 3. I limiti della censura La pubblicazione dell’indice clementino ha suscitato qualche resistenza in Italia, come nel ducato di Savoia e nella Repubblica di Venezia, in cui venne accettato solo dopo una serie di trattative e un concordato che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa. A Venezia, l’imprimatur non aveva libero corso e venivano esonerati i librai dall’obbligo prescritto dall’indice di prestare giuramento al vescovo. Dal 1596, però, l’Inquisizione rafforzò il suo potere e fu concepito il progetto di far pervenire a Roma tutte le liste dei libri proibiti provenienti dai vari inquisitori: nelle città come Modena, Genova, Alessandria e Faenza vennero pervenute molte opere a carattere clericale che richiesero l’intervento del Sant’Uffizio. La maggiore libertà con la quale potevano operare i censori ecclesiastici permisero che molte opere, come l’”Orlando innamorato” di Boiardo, il “Decameron” di Boccaccio, le “Rime” di Bembo e gli scritti di Ariosto, venissero confiscate seppur non erano presenti nell’indice. Tuttavia, l’immagine dei monasteri e delle biblioteche dell’epoca era ben diversa da quella che si prefigurava l’Inquisizione perché la cultura umanistica continuava a permeare proprio in questi luoghi. Ad es. il gesuita Antonio Possevino scrisse la Bibliotheca selecta, una lista dei libri sicuri da detenere. Proprio per via delle difficoltà degli inquisitori a modellare certi comportamenti, ricordiamo la lettera del cardinale della Congregazione dell’Inquisizione Bellarmino, scritta nel 1614, in cui fornisce il quadro della situazione in quel momento. Aveva ricevuto la lista dei libri in vendita a Francoforte e ne ritrovò molti che egli definì come “infetti” e suggeriva delle precauzioni da adottare in Italia. Per Roma, infatti, l’Italia era l’unica nazione da difendere e si preferivano gli interventi silenziosi degli inquisitori piuttosto che i grandi eventi pubblici come i processi. Si può citare la vicenda del libraio veneziano Roberto Meietti, il quale, nonostante era stato molteplici volte chiamato dal Sant’Uffizio, continuava a frequentare gli ambienti riformatori e a pubblicare opere di Rabelais e neoplatoniche. Accadde che la sua attività era ormai più forte delle decisioni delle Inquisizioni e il Sant’Uffizio decise di scomunicarlo nel 1606. Negli stessi anni, la Repubblica di Venezia, negli anni di Sarpi, anche se opponeva resistenza dovette a malincuore dichiarare le teorie copernicane come eretiche e condannarle affinché il giudizio dell’Inquisizione non ledesse la dignità dello Stato. Proprio tra gli anni ’20 e ’40 si colloca il libertinismo veneziano, in cui opere proibite dall’Inquisizione riuscirono comunque a uscire anche senza il visto ecclesiastico. Per tutta la metà del XVII secolo il conflitto Roma Venezia continuò e cambiò anche il clima culturale, perché si passò da opere religiose e politiche a libri di bassa qualità, per la semplice soddisfazione di aver passato i controlli della Curia romana. L’avversione veneziana verso l’Inquisizione si affiancò anche a quella nei confronti della famiglia Barberini e del Papa Urbano VIII. Ci furono molte pubblicazioni dal tono fortemente irreligioso, come quelle di Ferrante Pallavicino, il quale, con i suoi scritti offensivi nei confronti del pontefice, fu chiamato ad Avignone con un inganno, processato e decapitato. Nel 1655, dopo l’attacco dei turchi alla colonia veneziana di Candia, la Repubblica fu costretta ad accettare la censura e l’imprimatur ecclesiastico sui libri stampati nella città. Dopo la fine del XVI secolo la censura continuò in Spagna, Italia e Portogallo. Se l’indice di Clemente VIII aveva 2100 voci, quello di Clemente XI ne conteneva 11000. Nel 1664 e nel 1681 vennero redatti dei nuovi indici dai segretari dell’Inquisizione Libelli e Ricci: abbandonarono la tripartizione del tridentino e le opere vennero organizzate in ordine alfabetico aggiungendo anche le opere riferite all’eliocentrismo, al giansenismo e al misticismo. Venivano concessi dei permessi di lettura dei libri proibiti dal Sant’Uffizio, per un periodo non maggiore di tre anni, ma non includevano libri di Machiavelli, di astrologia e contro la religione. Dal ‘600 in poi non si registrano particolari vicende, ma la repressione era per lo più rivolta verso le dottrine considerate socialmente pericolose. Per es. l’Inquisizione spagnola richiedeva ogni anno che i librai dichiarassero i libri in loro possesso e consegnassero quelli vietati; c’era maggiore rigidità nei confronti delle esportazioni in America e durante le perquisizioni si trovarono anche lì dei libri di Machiavelli. Essa controllava le zone di Sicilia e Sardegna e talvolta venivano usate assieme le regole spagnole e romane: in Sicilia venne accettato l’indice tridentino e furono rinvenute per lo più opere di stregoneria, chiromanzia e magia. Il testo più perseguitato in questo genere era il “Clavicula Salomonis”, scritti pratici di magia attribuita alle credenze popolari di Salomone. Solitamente, l’intervento repressivo non traeva origine dall’iniziativa inquisitoriale, ma era i confessori che portavano i fedeli ad autodenunciarsi, cui seguiva spesso l’assoluzione. Il massimo impegno dell’opera repressiva fu, appunto, nel XVI secolo per la lotta ereticale; in Spagna la produzione locale ebbe poco rilievo, mentre era maggiore la rilevanza dell’attività commerciale di alcuni librai. In Italia le sorti degli imprenditori principali dipendevano molto dal rapporto tra autorità politiche ed ecclesiastiche. In questo secolo e fino al ‘700, sono poche le stampe proibite che sono state rinvenute, ma per lo più manoscritti, conseguenza dell’attività repressiva nei confronti degli editori. Adriano Prosperi ha definito gli “effetti involontari della censura”, cioè reazioni di vario genere all’attività repressiva, soprattutto da parte di chi aveva subito i danni maggiori: • i librai non potevano lavorare in tranquillità e dovevano conoscere ed escogitare mezzi per eludere i controlli in situazioni molto mutevoli. Furono proprio loro a maturare una prima educazione liberale, mentre i grandi imprenditori cattolici che riuscirono a superare la repressione del ‘500 si conformarono sin da subito agli indici; • gli autori, la maggior parte di esso fu costretto ad adeguarsi alle indicazioni censorie, perché furono poche o del tutto assenti le trattative tra scrittori e censura. In Italia, furono proprio gli scrittori libertini a pagare le maggiori conseguenze; Ferrante Pallavicino nel “Corriere svaligiato” immagina un gruppo di gentiluomini leggere le lettere sottratte ad un corriere, una di queste rivolta proprio a “chi proibisce i libri”, lamentando ingiustizie e l’accanimento dei controlli anche verso opere non religiose. Il letterato, quindi, perdeva la sua libertà e il senso di dignità nella sua professione per sottomettersi alla “tirannide religiosa”. Sulla base di questi pensieri, gli organi inquisitori finirono pian piano per perdere la loro valenza minacciosa. Ad es. il bibliotecario inglese Thomas James pubblicò l’”Indice generale dei libri proibiti dal pontefice” in cui raccomandava di leggerli; fu l’indice che consigliò Sarpi quando l’ambasciatore francese gli chiese consigli sui libri per costruire un’ottima biblioteca. In Inghilterra, nel 1644, il poeta John Milton scrisse l’”Areopagitica”, una riflessione a difesa della libertà di stampa: “uccidere un buon libro è quasi come uccidere un uomo”. L’opera fu scritta in un momento in cui il Parlamento inglese, nel clima della Rivoluzione, emanò il licensing order, cioè ripristinava la censura preventiva. Milton ebbe l’occasione di viaggiare in Italia e conoscere Galilelo e la sua lotta terminò quando per la prima volta, nel 1695 l’Inghilterra abolì la censura preventiva. 4. Assolutismo e censura Nel corso del XVII secolo il rapporto tra Chiesa e Stato in materia di censura cambiò. Gli ultimi tentativi di censura dell’Inquisizione risalgono al pontificato di Alessandro VIII, ma le capacità repressive del Sant’Uffizio si stavano ormai esaurendo. In Spagna l’attività degli inquisitori rallentò nella seconda metà del ‘600 e con la salita al trono di Filippo V si intensificò il controllo regale, mentre dalla Francia giungevano sempre più libri a carattere scientifico e tecnico. In Italia, invece, si rianimavano il commercio librario e le grandi biblioteche pubbliche e private; nel regno di Napoli giungevano molti libri dal nord Europa e a Venezia la Repubblica recuperò molti spazi ceduti alla Chiesa. C’era uno stretto legame tra l’assolutismo delle monarchie seicentesche e il sistema censorio, infatti tra il ‘600 e il ‘700, si aggiunsero delle contrapposizioni: Stato-Chiesa, ortodossia-eresia; autorizzazione-proibizione. La centralizzazione del potere monarchico spingeva verso un controllo maggiore sulle idee e sulle informazioni in possesso dei sudditi, ma ancora non si parlava di vera e propria opinione pubblica in grado di influenzare i meccanismi politici. La Francia rappresentò un vero modello: si mise a punto un sistema negli anni tra Richelieu e Colbert. Nel 1623 si stabilì di porre tutta la stampa a sorveglianza reale istituendo un Consiglio del re con 4 censori in modo da esonerare l’Università della Sorbona. I libri profani erano sotto il controllo del Sigillo e Colbert ridusse il numero dei librai parigini e si preoccupò di fissare le norme per le importazioni dall’estero e le attività dei tipografi provinciali. Era l’inizio della costruzione di un apparato burocratico che venne perfezionato da Bignon con l’istituzione di un ministero incaricato alle attività editoriali, chiamato librairie. A fine secolo l’intera attività editoriale sembrava sotto il controllo della Cancelleria, in cui un censore forniva il suo parere su un manoscritto da pubblicare anche dopo vari mesi. C’erano diverse categorie di libri: superstizione, pezzi scandalosi o satirici, opere politiche o libri poco utili. Ci fu un particolare potere di vigilanza sui libri giansenisti, quietisti, cartesiani, perché alle dipendenze del cancelliere c’era un luogotenente di polizia che controllava il rispetto dei decreti reali e i traffici illeciti. Infatti, alcuni responsabili di questi reati furono detenuti nella Bastiglia. Contemporaneamente, la monarchia collaborò con giornali, storici e letterati per ricostruire il passato recente e per illustrare l’attualità: era un tentativo di manipolazione delle masse ed infatti molti letterati erano ostili a questa controriforma. La crescente produzione editoriale richiedeva un numero più elevato di censori per la concessione delle licenze e, spesso, vista la confusione dei censori, l’attività clandestina aumentava. Malesherbes divenne direttore della librairie e limitò i divieti alle opere calunniose, oscene, contro il re e alla religione, conseguenza delle reazioni di alcune riforme dettate dal Parlamento. Ad es. concesse il privilegio alla pubblicazione di “De l’Esprit” di Helvetius, ma il Parlamento e la Chiesa chiesero di ritrattare e così il privilegio du annullato. Questo episodio si lega all’Encyclopedie, che nel 1750 era arrivata alla pubblicazione del decimo volume. Anche qui, l’opera aveva incontrato diversi avversari e venne vista come un attacco alla religione e alle autorità e lo Stato si prodigò per bloccarne le vendite. Malesherbes permise Diderot e gli altri di continuare con la pubblicazione attribuendo una falso luogo di produzione, quello di Neuchatel. Un altro caso fu l’”Émile” di Rousseau, autorizzato ma poi sequestrato. Il libro doveva essere bruciato e l’autore incarcerato, ma le guardie della Bastiglia gli diedero tutto il tempo per allontanarsi da Parigi. In Italia, con l’eccezione di Venezia, il tentativo della completa censura arrivò più tardi, verso la metà del ‘700: • nel 1648, nel Ducato di Savoia, Maria Cristina ottenne che lo Stato e la Chiesa avrebbero avuto lo stesso ruolo in materia di concessione delle licenze. Tuttavia, questi confini rimasero labili e pian piano si concepì un progetto simile a quello veneziano in cui l’imprimatur veniva ridotto ad un semplice visto. Si ripresero gli scritti di Bodin, Galileo, Cartesio e altri, mentre restarono banditi gli scritti immorali, come quelli di Hobbes e Spinoza; • a Napoli, successivamente all’arrivo dei Borboni si iniziò a rafforzare il ruolo dello Stato rispetto alla Chiesa, ma il contrabbando continuò, come aveva dimostrato Lorenzo Ciccarelli, che agì indisturbato con le opere di Boccaccio, Pulci e Galileo e qualche opera di Newton; • a Firenze si dovette attendere la famiglia dei Lorena dopo quella dei Medici. All’Inquisizione si lasciò solo la competenza dei libri religiosi e l’autorizzazione finale doveva comunque spettare all’autorità regia, per impedire i tentativi ecclesiastici di insinuarsi presso i librai, che chiedevano ancora l’imprimatur. Si definì il divieto di avere delle stamperie private in casa e
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