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la chimera sebastiano vassalli, Formulari di Italiano

la chimera sebastiano vassalli docsity

Tipologia: Formulari

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Caricato il 01/11/2020

studentealessandro-dimodica
studentealessandro-dimodica 🇮🇹

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Scarica la chimera sebastiano vassalli e più Formulari in PDF di Italiano solo su Docsity! Sebastiano Vassalli La chimera MONDADORI La chimera ® 1990 e 1992 Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino ®1999 Mondadori - De Agostini Libri S.p.A., Novara Edizione su licenza Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino 1 Indice Premessa Il nulla I Antonia II L'uovo III Rosalina IV La bassa V Don Michele VI I fratelli cristiani VII Zardino Vlll Gente di risaia IX La tigre X Don Teresio XI Il Caccetta XII I Corpi Santi XIII Roma XIV Biagio XV Il pittore di edicole XVI La Beata Panacea XVII I lanzi XVIII L'ultimo inverno XIX Il processo XX I testimoni XXI La sposa XXII Il camminante XXIII I due inquisitori XXIV La tortura XXV Il porco XXVI La prigione XXVII L'ultimo viaggio XXVIII La sentenza XXIX I Paratici XXX La festa Congedo Il nulla Per la notte dei tempi [...] All'anima del mondo, insaziabile. 2 indumenti specifici che gli riparassero le mani e i piedi e sarebbe certamente morto se una bayia (balia) in servizio temporaneo presso la Casa di Carità, tale Giuditta Cominoli da Oleggio, non avesse compreso, dall'abbaiare dei cani e da altri indizi, che qualcuno s'era avvicinato al torno e non si fosse alzata dal letto per andare a vedere, sfidando il freddo polare di quella notte senza luna; se non avesse suonato la campana che obbligava le inservienti della Casa ad alzarsi: attirandosi ogni genere d'improperi, càncari, malemonì ed altre cortesie. Il mostro visse. Venne battezzato due giorni dopo il suo ritrovamento (era domenica) nella chiesetta medioevale di San Michele, annessa alla Pia Casa, e si chiamò Antonia Renata Giuditta Spagnolini: Antonia, perché qualunque fosse stato il giorno in cui realmente aveva visto la luce, era rinata (Renata) sopra il torno il 17 gennaio, Sant'Antonio; Giuditta, in ricordo della bayla che l'aveva salvata dalla morte per assideramento, e che s'era presa cura di lei; Spagnolini, infine, perché il colore nero dei suoi occhi e la pelle scura avevano fatto pensare ad una diretta discendenza da qualcuno dei non pochi ufficiali e soldati spagnoli che costituivano la guarnigione di Novara e che abitavano nel castello compreso dentro la cinta dei bastioni, a sud della città. A quell'epoca, si poteva ancora imporre col battesimo anche il cognome, oltre il nome: sicché in mancanza di padre accertato o presunto ci si poteva sbizzarrire a inventare un cognome, seguendo l'estro o i segni zodiacali o le proprie private congetture sull'origine del bambino, o quell'altro ancora che si voleva. Nel caso di Antonia l'invenzione fu facile; anche se poi, a ben vedere, il colore degli occhi e della pelle e la precocità dei capelli non dimostravano proprio niente, e le origini di Antonia avrebbero anche potuto essere diverse da quelle che il cognome alludeva. Alla fabbrica degli esposti, cioè dei bambini abbandonati sopra il torno, a Novara, lavoravano in molti oltre ai soldati spagnoli del presidio; a onor dei quali va anzi detto che talvolta, per orgoglio di sangue, per scrupoli religiosi e per chissà quali altri motivi, riconoscevano i loro tigli illegittimi davanti al fonte battesimale ed all'altare; e che lo stesso castellano di Novara, don Juan Alfonso Rodriguez de la Cueva, maestro di campo del quinto reggimento alabardieri di Sua Maestà Cattolica il Re di Spagna, puttaniere indefesso se mai ve ne furono e grandissimo fornicatore al cospetto di Dio, portò personalmente in Duomo perché vi fossero battezzati secondo il rito di Santa Romana Chiesa una mezza dozzina di suoi bastardi maschi e femmine, ai quali tutti fece imporre il dolce nome di Emmanuele (o Emmanuela), che significa appunto: «Mandato da Dio». Altre categorie di fornicatori che pure c'erano, in Novara, oltre agli spagnoli, non avrebbero potuto mostrarsi alla luce del sole, in quel modo tra coraggioso e sfrontato: e però certamente erano quelle che facevano girare il torno con maggiore frequenza. Novara, all'epoca della nascita di Antonia, era forse la più disgraziata in assoluto tra le molte disgraziatissime città che costituivano il regno disgraziato di Filippo II di Spagna: i cui domini, come già quelli di suo padre Carlo V, erano così vasti e sparsi per il mondo da giustificare il detto, che «il sole non vi tramontava mai». I guai di Novara cioè, i guai grossi: ché di guai minori ce n'erano sempre stati, come dappertutto erano cominciati nel 1550; quando l'allora comandante generale delle truppe imperiali, don Ferrante Gonzaga, guardando la carta geografica aveva avuto un'illuminazione, e aveva deciso che proprio Novara, e nessun'altra città, avrebbe dovuto diventare la roccaforte dell'Impero contro la Francia e gli stati suoi alleati, nel centrosud dell'Europa. Una città fortezza, cinta da mura inespugnabili: un baluardo a prova d'assedio e di cannoni, che sbarrasse l'accesso alla pianura del Po dalla parte del Ducato dei 5 Savoia, e delle valli alpine. Dal quartiere generale delle truppe imperiali erano giunti all'allora podestà di Novara, gentiluomo Giovan Pietro Cicogna, ordini perentori e insensati: provvedesse immediatamente a far distruggere i quartieri esterni, in cui risiedevano i tre quarti della popolazione civile, e a riutilizzare le macerie per rinforzare le mura aggiungendovi nuovi contrafforti, nuovi bastioni, nuove opere di difesa; erano in gioco, oltre alla carriera personale del Cicogna, le sorti del conflitto, l'avvenire, l'Impero, il mondo intero. Il Cicogna, uomo ambiziosissimo, si buttò a capofitto in quell'adempimento senza guardare in faccia a chicchessia, laico o ecclesiastico: distrusse tutto quello che doveva distruggere e poi anche cominciò a fortificare l'antica cerchia dei bastioni come gli era stato ordinato di fare; ma, arrivato a questo punto dell'impresa, si accorse di tre cose. La prima fu, che alla relativa facilità del distruggere non corrispondeva un modo altrettanto spedito di riedificare, e che per procedere alle opere di fortificazione volute dal Gonzaga occorrevano soldi: un mare di soldi. La seconda cosa di cui il Cicogna si rese conto fu che il teatro del conflitto, mentre lui spianava i sobborghi di Novara, s'era spostato in modo irreversibile verso altre parti dell'Europa e del mondo, e così da questa seconda constatazione discese l'ultima: che Novara e le sue difese, se davvero in passato erano potute interessare a qualcuno, ormai non interessavano più. I lavori furono abbandonati e non ne restano tracce nel presente; del resto, si trattava di muraglioni di ciottoli, laterizi e calcina che ben difficilmente avrebbero potuto sostenere un vero assedio e che al primo tiro diretto delle artiglierie sarebbero crollati come scenari di cartone: sicché anche dal punto di vista militare il progetto non era poi tanto buono. Novara giacque, stremata, in un mare di macerie. Dei sessanta o settantamila abitanti che vi risiedevano prima che i guai cominciassero a manifestarsi in tutta la loro forza, la maggior parte s'erano ritirati nel contado o erano andati a vivere in altre città; ma i guai, ancora, non erano finiti. Sarebbe stato uno smacco insostenibile per l'autorità civile e militare spagnola dire ai novaresi: «Scusateci, ci siamo sbagliati. Ricostruite le vostre case e che Dio vi aiuti. Le mura non si fanno più». Tutt'al contrario, gli spagnoli vietarono, nel più solenne e rigoroso dei modi, di costruire alcunché nella zona che s'era liberata dalle case, foss'anche solo un canile o una baracca per riporvi gli attrezzi da coltivarci un orto; lasciarono trascorrere qualche tempo e poi se ne vennero fuori, come niente fosse, con nuove tasse, straordinarie e pesantissime, «per terminare le intraprese opere di fortificazione»; «per portare a termine, con profitto dei cittadini e a loro esclusivo beneficio e vantaggio, le iniziate opere di difesa»; eccetera. Novara, definitivamente, si spopolò. Dentro la cerchia delle mura, oltre ai soldati spagnoli della guarnigione, restarono forse seimila, forse settemila abitanti: ed erano per la maggior parte preti o monache, esentati per antichissimo privilegio dal pagare tasse, o persone che avevano trovato il modo d'arricchirsi a spese appunto dei religiosi e dei soldati, con la legge o fuori della legge, per le vie più brevi. Avventurieri d'ogni razza e d'ogni genere, sensali d'ogni merce, trafficanti, puttane. Queste ultime soprattutto erano numerose. Nonostante il Cicogna e le sue distruzioni, e nonostante le prescrizioni del Concilio di Trento, ancora alla fine del Cinquecento la città di Novara poteva a buon diritto vantarsi d'avere il clero più gaudente e spensierato d'Europa: i frati più intriganti, le monache più mondane, i canonici più grassi, gli abati più felici, i parroci più ricchi. Alcuni alberghi, ben noti ai novaresi, ospitavano con garbo e discrezione i curati di campagna quando venivano in città per romper l'aria, come allora si diceva: cioè per sottrarsi ai miasmi della 6 risaia, e per sbrigare i propri affari di denaro e di cuore. E c'erano case private, accoglientissime, dove si poteva trovare ogni sorta di calore umano a un prezzo ragionevole; maschi e femmine, adulti e ragazzini circondavano il visitatore di tutte le attenzioni e le premure richieste e poi anche si giocava d'azzardo, si facevano scommesse, s'investivano denari in pratiche d'usura. La penuria di abitanti laici - per quanto la cosa possa sembrare strana - non aveva per niente rallentato le attività del clero, anzi al contrario le aveva stimolate. C'erano preti avvocati, preti usurai, preti tenutari di bordelli e di case da gioco, preti osti; c'erano ancora, ed anzi erano numerosi, i quistoni: avventurieri che si vestivano da preti e perlustravano le campagne predicando, spacciando «bolle» d'indulgenza o reliquie false, operando miracoli e trafficando in vari modi, ma sempre in nome di Dio. Le monache, e soprattutto le superiore delle monache, le badesse, facevano vita da gran dame, nei conventi e fuori. Così, tornando a San Michele, e ad Antonia, e alla Pia Casa degli esposti: c'era da stupirsi, visto il modo come andavano le cose in città, che la ruota della misericordia, il famigerato torno, continuasse a girare, e che anzi girasse sempre più in fretta? Il mostro crebbe, diventò una bambina dagli occhi e dai capelli nerissimi. Dalla casa del torno, dov'erano le bayle, passò all'ospizio vero e proprio: che era un edificio suddiviso in due sezioni, una per i maschi ed una per le femmine, ed era retto, all'epoca della nostra storia, dalle monache della congregazione di Sant'Orsola. Qui le rasarono i capelli - secondo quanto prescrivevano i regolamenti - e le misero indosso il grembiule di tela verde, lungo fino ai piedi, che era la divisa specifica degli esposti, il loro abito per tutti gli usi e per tutte le stagioni. A cinque anni cominciò ad uscire dalla Pia Casa, con le suore e con le compagne, per sfilare nelle processioni del Venerdì Santo, del Corpus Domini, dell'Assunta, di tutti i Santi e di tutte le feste del calendario in cui gli esposti maschi e femmine, con i crani rasati e i ceri in mano, davano al mondo la dimostrazione inconfutabile d'un fatto meraviglioso e prodigioso: la bontà umana! Destinata a trionfare sull'egoismo, sulla malvagità e su tutte le altre inclinazioni perverse che sembravano invece essere - in quell'epoca - il vero segno dei tempi. E non è tutto. L'apparizione in pubblico degli esposti, mantenuti dalla carità dei novaresi e accuditi e vigilati dalle monache, non era solo uno spettacolo edificante, e di grande elevazione morale: serviva anche a ricordare a chi vi assisteva che, facendo un'offerta alla Pia Casa, qualsiasi peccatore poteva ottenere nell'aldilà un sostanzioso sconto della pena, in anni e secoli di Purgatorio; e che lasciando per testamento i propri beni alla fabbrica dei bambini abbandonati, l'anima del benefattore se ne volava diritta in grembo a Dio, senza scali intermedi: tanto più raggiante di gloria e di beatitudine, quanto più consistente era stato il lascito. Così, tra una processione e l'altra, tra una funzione religiosa e l'altra, trascorsero i primi anni di vita di Antonia Renata Giuditta Spagnolini nella Casa di Carità di San Michele, a Novara; tutti sostanzialmente uguali, con gli inverni e gli esposti che tossivano, si arrossavano di febbre e poi morivano e venivano sepolti dietro la chiesa, tra il pollaio e la casa del torno. Con le estati e gli esposti che gonfiavano, diventavano gialli, agonizzavano per due o tre giorni o anche più: a causa dell'acqua infetta, dicevano i medici. Non ci fosse stato quel rapido ricambio tra vivi e morti, la Pia Casa non avrebbe mai potuto ospitare tutti i bambini che ci entravano attraverso il torno o ci venivano portati dai parenti, dai parroci, da chi aveva la ventura di trovarli per strada; sicché la morte di un esposto non era un dramma: al contrario! Erano i più fortunati - dicevano le monache - quelli a cui il 7 «Ve la tolgo di corpo, io, la malizia!» Di notte, a volte, capitava che qualcuna delle esposte più grandi s'infilasse al buio dentro al lettino d'Antonia e cominciasse a accarezzarla, sospirando, in certe parti del corpo e in un certo modo, che la riempiva di sorpresa e di vergogna. Lei cercava di sottrarsi, sussurrava per non essere sentita dalla conversa che dormiva dietro una tenda in fondo allo stanzone e che, se l'avessero svegliata, gli avrebbe inflitto chissà quali castighi: Chi sei? Smettila! Lasciami dormire! «Sta' zitta, - bisbigliavano le sciagurate, cercando di alterare la voce per non farsi riconoscere. (Antonia, però, le riconosceva sempre). Sono il tuo Angelo custode, ti porto in Paradiso... Dammi un bacio!» «È la Madonna che è venuta a visitarti! Vedrai che dopo ti piace! Abbi fede in me!» Crescendo, Antonia s'era fatta proprio bella, una bambina in cui già s'indovinavano i lineamenti e le fattezze della donna, e ciò, nonostante avesse solamente nove anni e i capelli tagliati coni per motivi d'igiene, come tutte le esposte. Perfino il grembiulo , ne verde in tela ruvida, per cui anche i maschi, fino , a una certa età, venivano scambiati per femmine, e le bambine e le ragazze più magre sembravano spaventapasseri, o, come dicevano le monache, «scope vestite», a lei stava bene indosso. Era quieta e taciturna di carattere; naturalmente portata alla riflessione, più che al chiasso e agli entusiasmi. Spesso, tra un funerale e l'altro, tra una messa cantata e l'altra, invece di partecipare ai giochi delle compagne e ai loro cicalecci maliziosi e pettegoli, ai loro piccoli intrighi di bambine già consapevoli di molti mali della vita, s'appartava per pensare ai casi suoi o andava attorno per la Pia Casa. Curiosava. Andava a vedere i capponi che erano sempre chiusi in certe stie di legno, strette strette e poco più alte di loro stessi, che erano appoggiate al muro esterno della casa in cui abitavano le suore, sotto le finestre del loro refettorio. Quei capponi avevano la particolarità di essere straordinariamente aggressivi, per la loro razza e per la loro condizione: bastava avvicinare un dito alle loro gabbie e loro subito s'avventavano a beccarlo, perché erano .incattiviti dalla prigionia e più ancora dal caldo: secondo quanto diceva il vecchio Adelmo che a San Michele era l'unico rappresentante adulto del sesso maschile, con mansioni di giardiniere e di sacrista. Quelle gabbie dei pulon - ripeteva I'Adelmo tutti i giorni in cui Antonia lo incontrava - non si sarebbero dovute tenere lì dov'erano perché lì il sole batteva da mezzogiorno fino a sera, ma riparate dall'altra parte dell'edificio; però l'altra parte dell'edificio era quella con l'ingresso, e le monache giustamente non volevano saperne di tenersi i capponi davanti alla porta di casa: sicché la questione non appariva risolvibile. Un'altra tappa obbligata delle passeggiate di Antonia era la cuccia di Diana, un bracco femmina che una volta all'anno «andava in calore» e compiva imprese mirabolanti: rompeva steccati, si feriva malamente con i vetri del muro di recinzione tentando di saltarlo, morsicava suor Clelia e tutto ciò, dicevano le monache, per quest'unico ridicolo motivo, che voleva scappare dalla Pia Casa e andare a «comprare i cuccioli»! (Con che soldi li avrebbe comprati? E poi: da chi? Chi vende cuccioli ai cani? Perché - pensava Antonia - la gente dice simili sciocchezze, e parla in modo così oscuro?) Diana di solito era una bestia mansuetissima e anche la faccenda del calore era tutt'altro che chiara: cosa significava, «andare in calore»? Oltretutto la cagna le sue mattane le faceva d'inverno! Antonia aveva anche provato a chiedere spiegazioni in proposito all'Adelmo ma nemmeno lui s'era voluto sbilanciare, le aveva detto: 10 «Così... tutt'a un momento le vien caldo...» A volte, in quelle sue passeggiate, Antonia incontrava una suora, suor Livia, che si fermava a parlare con lei come se lei fosse stata un'adulta; si lamentava del tempo, degli acciacchi, della superiora che la maltrattava, delle esposte che le facevano scherzi anche crudeli: le mettevano topi morti nel bucato o le tendevano dei fili invisibili dove lei doveva passare, e lei passava, e naturalmente cadeva... Tutto ciò veniva raccontato un po' a parole e un po' a gesti, perché suor Livia era straniera, d'un paese chiamato «Napoli» e non sempre Antonia capiva i suoi discorsi: diceva isso, issa per dire lui, lei, vien'accà per dire vieni qua, guagliona per dire ragazza e così via. A San Michele, suor Livia era la «conversa anziana» addetta alle pulizie - così come suor Clelia era la «conversa giovane» addetta all'istruzione delle esposte - e le altre mona che la trattavano da serva, le dicevano: «Suor Livia; per favore! Non vedete che c 'é una ragnatela sulla finestra del refettorio? Che queste panche sono sempre impolverate? Che questo pavimento è sporco? Cosa aspettate a pulire?» La rimbrottavano: «Suvvia! Vi fate sempre ripetere le cose!» Lei arrivava con secchio e spazzolone, ciabattando a più non posso. Borbottava: «La ragnatela, senti un po'! Se la togliessero con le loro belle mani, la loro polvere!» Un giorno che suor Leonarda le aveva fatto una gran sgridata di fronte a tutta la Pia Casa, suor Livia le aveva risposto brontolando, non così sottovoce, però, che Antonia e le altre ragazze non sentissero: «Ha parlato suor Chiavica! Riverisco!» «Sarà fatto come dice suor Vernacchia!» (Letteralmente: «Suor Scorreggia»). «È un po' matta, - dicevano le suore, mettendosi l'indice sulla fronte. - Poveretta! Non lo fa per cattiveria. È proprio un po’ suonata!» Quando fu annunciata una visita a San Michele del nuovo vescovo di Novara, monsignor Carlo Bascapè - le solite persone bene informate dissero che sarebbe venuto a piedi dalla città, con gli allievi del Seminario e con alcuni canonici dei capitoli di San Gaudenzio e del Duomo - le Orsoline, dopo lunghi conciliaboli, scelsero proprio Antonia tra tutte le esposte per recitare al vescovo la poesia di benvenuto: forse perché era più bella delle altre ragazze, o perché era più assennata... Chissà! Per settimane e settimane, prima del gran giorno, la costrinsero a ripetere certi orribili versi che la superiora suor Leonarda aveva scritto in occasione della visita («Noi miserelle plaudiamo I Al grande vescovo cristiano I Campione invitto della Fede I Di quel Dio in che ciascuno crede», eccetera), fino a stordirla; le diedero zuccherini per incoraggiamento e schiaffi e pizzicotti per punizione. La assillarono di raccomandazioni: - Mi raccomando! Ricorda! Stai bene attenta! Non sbagliare! - Venuto il giorno lungamente atteso e temuto la tirarono fuori dal letto che era ancora buio e la portarono nel locale dove si lavano i panni, la spogliarono, la misero dentro una tinozza d'acqua così calda, che quando infine si decisero a tirarla fuori sembrava un gambero dopo la cottura, tanto era rossa: la lavarono col ranno (acqua di cenere) e poi anche la scorticarono viva per asciugarla con certi panni di lino misto a canapa che chiamavano asciugatoi, la fecero gridare di dolore. La vestirono tutta di bianco; le attaccarono sulle spalle due ali di canone in cui suor Clelia aveva appiccicato centinaia di piume di colomba per farle sembrare delle vere ali; le misero in testa una parrucca bionda di granoturco, con un'aureola di cartone. Siccome intanto s'era fatto giorno, la costrinsero a bere un uovo crudo per «prender forza». (Così, almeno, si era espressa suor Leonarda; in realtà, ad Antonia le uova crude davano disgusto, non forza, ma non ci fu modo di sottrarsi a 11 quel beneficio: bisognò trangugiare l'uovo come volevano le suore, ad occhi chiusi e tutto d'un fiato). Con l'uovo in pancia e con suor Clelia che la teneva per mano, Antonia poi dovette correre in chiesa ad implorare da Dio e dalla Madonna che l'assistessero, recitandogli le preghiere del rosario ed altre specifiche per quella circostanza; mentre tutti gli esposti maschi e femmine erano già fuori della Pia Casa, schierati sulla strada che saliva verso Porta Santa Croce, e per passare il tempo mentre aspettavano il vescovo cantavano inni di rin, graziamento ed inni di lode, fino a sgolarsi. Arrivai rono dal castello alcuni archibugieri che si appostarono lungo il passaggio del corteo; nessuno dalla Curia li aveva richiesti, ma il castellano personalmente aveva preso l'iniziativa di mandarli a vigilare sull'incolumità di quel cabron (caprone), di quel loco (matto): cioè del vescovo Bascapé. «Se i suoi nemici lo vogliono ammazzare, - diceva su excellencia il castellano spagnolo ruotando gli occhi in atto di minaccia e tormentandosi con le dita i lunghi baffi affusolati che erano il suo orgoglio di cuballero e la sua principale cura nella vita, dovranno farlo lontano da Novara!» E poi aggiungeva sottovoce, ma non abbastanza perché quelli che gli stavano più vicini non potessero capire ed ascoltare ciò che diceva: «Mi dà già abbastanza guai da vivo, quel cabron, e da morto me ne darebbe il doppio!» Fortunatamente, però, i nemici del cabron quel giorno non si fecero vedere. Comparve lui, a una certa ora della mattina, quando ormai gli esposti non avevano più fiato né forza per cantare, e qualcuno anche s'era sentito male per via del sole che gli batteva in testa; si videro venire fuori a due per volta, dalla Porta di Santa Croce in cima alla salita detta della Cittadella, i seminaristi del Duomo: tutti vestiti di nero, con guance e testa rasate e una gran croce di legno in mezzo al petto. Dietro i seminaristi apparvero poi i canonici, riconoscibili per i cappelli rotondi e per i contrassegni di porpora dell'abito talare; tra essi faceva spicco da lontano, per grandezza di corporatura e floridezza di carni, quel Giovan Battista Cavagna da Momo che era destinato, di lì a pochi anni, a diventare più celebre di quanto lui stesso potesse prevedere o desiderare: come poi si vedrà. Il giorno in cui venne in visita alla Pia Casa con il vescovo, invece, monsignor Cavagna era ancora poco conosciuto, un prete come tanti: ma già circolava sul suo conto la facezia che il poeta medioevale Dante Alighieri avesse previsto la sua nascita con tre secoli d'anticipo, e che avesse pensato a lui quando scrisse quel verso, in cui si parla d'un'«oca bianca più che burro»... I preti della provincia italiana, nel Seicento, ridevano così e nel caso del Cavagna qualche ragione di ridere ce l'avevano davvero: perché il poveretto, che veniva da una zona del novarese ricchissima di oche, sembrava lui stesso un'oca, anzi un ocone smisurato, nell'andatura e nella voce e nella struttura fisica; aveva infatti un gran sedere, spalle strette e una testolina da bambino su un lungo collo che muoveva camminando, come per curiosare ai due lati della strada. Soltanto il colore dell'abito, che era nero, non corrispondeva all'immagine dell'oca. Dietro i canonici veniva il vescovo: vestito tutto di bianco, sotto un baldacchino dorato sorretto da quattro seminaristi che camminavano a tempo con lui e che lui sovrastava d'una parte del capo; magrissimo, con la pelle del colore della cera, la barba grigia e i capelli anch'essi grigi sotto la minia. Nonostante il viso fosse sciupato e precocemente vecchio, appariva però evidente, a chi lo guardava, che questo vescovo Bascapè da giovane doveva essere stato un uomo vigoroso e dotato d'un certo fascino anche della persona; e che a quarantanove anni, quanti allora ne aveva, non era ancora quel «cadavere vivo» di cui avrebbe parlato lui stesso di li a poco, inaugurando in Novara 12 carità e del suo amore del prossimo, informandosi della salute d'una esposta - lei - e addirittura mandandola a chiamare per benedirla. Badasse dunque - l'ammonì suor Clelia - a non combinare altri guai, scambiando il vescovo con qualcuno dei monsignori che l'accompagnavano, voltandogli le spalle per uscire o facendo qualche altra stupidaggine: per esempio, toccandogli la mano con le sue mentre gli baciava l'anello. Antonia entrò; vide che le tavole del refettorio erano state separate, da una parte c'era il vescovo con il suo seguito e dall'altra suor Leonarda con le monache che le facevano dei segni concitati, le dicevano a gesti: cosa aspetti? Sbrigati! Non vedi che sua signoria ti sta aspettando? Inginocchiati! Si inginocchiò. Contrariamente a quanto le avevano raccomandato di fare, prese la mano del vescovo tra le sue e la guardò, prima di baciare l'anello. Era una mano bianca e scarna, con unghie diafane, lunghe e ben curate; avrebbe anche potuto essere una mano femminile, se le nocche non fossero state così grandi e se non ci fossero stati tutti quei peli, neri e lucidi come seta, che ne infioravano il dorso, spingendosi giù giù fino alla seconda falange delle dita. Baciò l'anello. Il vescovo Bascapè ritirò la mano e cominciò a pulirla con un tovagliolo ricamato, minuziosamente e anche con una certa energia, nei punti dov'era stata sfiorata dalle dita dell'esposta. Le domandò: «Come ti chiami?» «Antonia Spagnolini, per servirvi». «È stato il Diavolo, - disse con forza suor Leonarda, - che è entrato nel corpo di questa creatura, stamattina, per impedirle di rivolgere a vostra signoria il saluto e la preghiera di tutti gli esposti presenti nella Pia Casa. - Ribadì, con disgusto e esecrazione: - Non ce ombra di dubbio: è stato lui!» «Come ci state a San Michele: state bene?» domandò il vescovo all'esposta. Antonia, che non s'aspettava una tale domanda, si rivolse alle monache per averne un cenno di suggerimento e di conforto: ne ebbe invece un'occhiata talmente folgorante da toglierle quasi la forza di rispondere. Balbettò: «Sì... Sissignore!» Monsignor Cavagna, alla sinistra del vescovo, teneva un lembo del tovagliolo infilato tra il primo e il secondo bottone dell'abito talare e aveva tracce di sugo, ben visibili, sul colletto e sul mento. Chiese all'esposta, e il viso e gli occhi gli ridevano: «Mangiate bene? Tutti i giorni? A pranzo e a cena?» «Due volte al giorno! A pranzo e a cena! Sissignore!» Ci fu ancora un momento di silenzio, mentre Bascapè finiva di pulire l'anello su cui si erano posate le labbra dell'esposta e suor Leonarda guardava le altre monache con un'espressione tra compiaciuta e sollevata, come a dirgli: anche questa è fatta! È andata bene! Poi il vescovo posò il tovagliolo, alzò la mano. Disse: «Antonia. Io ti benedico nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». La congedò: «Vai con Dio!» L'esposta allora si rialzò, si inchinò come le aveva insegnato suor Clelia. Se ne andò camminando all'indietro, con gli occhi di tutti fissi su di lei: e non vedeva l'ora di arrivare alla porta. Monsignor Cavagna le fece un cenno di saluto, alzò il mento e mosse il collo come un'oca - ma quello era un gesto che lui faceva abitualmente, perché il colletto inamidato gli dava fastidio - e poi subito si rivolse alle monache per chiedere che gli versassero nel bicchiere un altro goccio di vino, «un goccio solo»: «Scusate tanto, sorelle! È per lo stomaco! - Spiegò: - Altrimenti, non riesco a digerire il cappone!» 15 Capitolo terzo Rosalina Finì la primavera, arrivò l'estate. Il torno, alla Pia Casa, continuava a girare, ma con minore frequenza che in passato: ed era anche questo un segno certo che la presenza del vescovo Bascapè stava cambiando molte cose a Novara, nel clero e non soltanto nel clero; si vedevano per strada meno monache, meno parroci di campagna, meno donne che restavano affacciate alle finestre o che s'atteggiavano in modo da lasciar intendere, oltre ogni ragionevole margine di dubbio, quale fosse il loro mestiere. Anzi quel genere di donne sembrava essere del tutto scomparso dalle vie del centro e soltanto se ne vedevano alcune sui bastioni, dalle parti del castello e verso sera: quando la loro presenza diventava necessaria per evitare che i soldati in libera uscita, assatanati com'erano, e sfrontati!, dedicassero tutte le loro energie a molestare le donne oneste. Le locande chiudevano i battenti due ore dopo il tramonto del sole, gli alberghi compiacenti non c'erano più, o, se c'erano, non mettevano l'insegna sul portone e non tenevano registri. La città, un tempo gaudente, sembrava essersi ricomposta in una sua gelida moralità esteriore, in cui nessuno più si fidava di nessuno e in cui ognuno continua- va, bene o male, a fare ciò che aveva sempre fatto in passato: con molte più precauzioni, però, ed anche con maggiori difficoltà; causate, queste ultime, dai maggiori rischi che si correvano. Tutti infine maledivano il nuovo vescovo e chi l'aveva mandato proprio lì. «Con tante diocesi che ci sono in Italia, - dicevano, - proprio a noi doveva capitarci: a romper l'uova nel paniere, qui a Novara! Gli venisse un accidente, da lasciarci in pace!' Un giorno a San Michele scomparve suor Livia, la «conversa anziana» addetta alle pulizie della Pia Casa e la faccenda lì per lì sembrò inspiegabile: era scappata? Con chi? E come aveva fatto? Da sola certamente non poteva essere arrivata lontano - dicevano le esposte se qualcuno non l'aveva aiutata! Ad Antonia che la conosceva bene, invece, l'idea che suor Livia potesse essere andata chissà dove, e addirittura con un uomo, appariva assurda. Alla sua età, e senza nemmeno saper parlare quel dialetto novarese, che parlavano tutti! Senza capire chi lo parlava! E poi - pensava Antonia - certamente suor Livia era già scappata una volta, in vita sua, quando era venuta lì da loro; parenti non ne aveva; amicizie fuori del convento, nemmeno; se scappava di nuovo, dove andava: ritornava a Napoli? Per parte loro, suor Leonarda e le altre monache pensarono dapprima che la «conversa anziana» si fosse sentita male e la fecero cercare dappertutto: in cantina, in chiesa; mandarono anche Adelmo a controllare il rigagnolo che scorreva proprio di fianco alla Pia Casa, casomai fosse caduta lì dentro e ci fosse affogata: ma non c'era. Allora smisero le ricerche. La trovarono all'alba del giorno successivo, quando arrivò il cappellano da Novara per dire messa, come faceva tutte le mattine, e Adelmo andò a suonare la campana e non trovò la corda: guardò su, e vide suor Livia appesa sopra la sua testa con la faccia gonfia colorata a chiazze, gli occhi bianchi spalancati e le labbra contratte in un sogghigno così orribile che al poveretto mancò poco gli venisse un colpo; uscì fuori, talmente stralunato che andava attorno senza riuscire a parlare, e soltanto dai suoi gesti e dal suo aspetto le monache capirono cos aveva visto... Corsero al campanile e la prima cosa a cui pensarono, passato il raccapriccio per quella scoperta, fu il modo di evitare lo scandalo: una religiosa suicida, e per giunta in chiesa, avrebbe fatto notizia, e che notizia! Bisognava nascondere tutto. La storia del suicidio - disse il cappellano a suor Leonarda e alle 16 altre monache che continuavano a farsi il segno di croce, e a sbirciare in su - non doveva uscire da San Michele; gli esposti non ne avrebbero mai saputo niente e soltanto il vescovo, in città, ne sarebbe stato informato. Per chiunque altro, suor Livia era scappata: delusa della vita del convento, aveva prestato orecchio alle lusinghe del mondo e s'era sbarazzata di quell'abito, che portava indegnamente. Del resto - si chiese il prete, e rivolse la domanda anche alle monache non era quella la pura verità? Se per abito si intende questo involucro di carne che Dio ci ha dato come fardello da trascinare nel mondo, e che é lo scrigno dell'anima... Il corpo della sciagurata conversa, da lei rifiutato, doveva essere sepolto in gran segreto, di notte, in terra sconsacrata e a lampade velate; con il corpo, si doveva anche seppellire il ricordo di lei. Le monache ubbidirono; ma le cose, poi, andarono in un modo un po' diverso rispetto alle intenzioni, perché all'interno della Pia Casa la verità su suor Livia e sulla sua morte la seppero tutti: e se la storia non arrivò fino a Novara fu soltanto perché, fuori San Michele, suor Livia non la conosceva nessuno. Per Antonia, che pure era abituata fino dall'età di cinque o sei anni a ogni genere di funerali e di funzioni funebri, quell'evento fu il primo incontro con la morte: su cui lei in passato non si era mai soffermata seriamente a riflettere e che soltanto dopo il suicidio di suor Livia le apparve come una cosa reale, indipendentemente dal commercio che se ne faceva alla Pia Casa, coni cosiddetti benefattori; una cosa vera. Anche la vita di suor Livia, di cui lei non aveva mai saputo niente e che poi era finita così male, la incuriosiva. A volte, nelle sue passeggiate solitarie, si domandava dove potesse essere quella Napoli da cui suor Livia era venuta fin lì, a fare la serva e ad ammazzarsi. Si chiedeva: perché ne era scappata? Perché s'era fatta suora? Che mistero era nascosto in quella morte - e, prima ancora, in quella vita - così angoscioso per chi lo aveva portato e così insignificante per gli altri? Aveva un senso la vita degli uomini, al di là di quelle storie un po' melense che alla Pia Casa si ripetevano tutti i giorni, più e più volte ogni giorno, e in cui lei credeva come si crede nelle favole, cioè credeva che erano favole... Si viveva, si moriva: perché? In quell'estate del 1599 Antonia ancora non aveva dieci anni e seppe tutto del sesso: di come i bambini si formano in fondo al ventre delle donne dopo che il maschio, montandole, le ha ingallate (cioè ci ha lasciato dentro quella gocciolina colorata che si vede anche nell'uovo di gallina, quando si rompe); delle lune che infastidiscono le donne e sono il segno tangibile della loro inferiorità rispetto al maschio, della loro impurità; del piacere che le donne provano quando il maschio le ingalla e che in misura minore possono anche provare da sole, compiendo un certo gesto o addirittura senza fare niente: com'era successo per l'appunto a Antonia, una domenica mattina alla Pia Casa, mentre veniva giù dalle scale che portavano al dormitorio delle esposte. Improvvisamente le era sembrato di morire, e che le succedesse qualcosa di terribile... I fatti erano andati così, che lei quel giorno si trovava insieme ad un'altra ragazza, di nome Carla, e tutt'e due scendevano le scale trattenendo il fiato per lo sforzo che stavano facendo, tutt'e due prestavano la massima attenzione a dove mettevano i piedi perché avevano in mano un manico ciascuna d'un recipiente di coccio con coperchio che era il vaso da notte collettivo, la ruera del dormitorio femminile; quel vaso era molto pesante, almeno per loro, ma non c'era niente da fare, bisognava portarlo fino al fosso e vuotarlo; da quando suor Livia aveva smesso di fargli quel servizio, tutte le ragazze, a turno, dovevano provvedere a tener vuota la ruera: e quel giorno era il loro turno. Antonia - come 17 ultimi mesi: con il padrone di casa, con i fornitori. Erano arrivati gli sbirri, avevano interrogato le ragazze e poi le avevano rispedite ai rispettivi luoghi di provenienza, senza punirle in alcun modo ma con un solenne avvertimento: guai a loro, se si fossero fatte rivedere in città! Rosalina era stata ricondotta alla Pia Casa: che era l'ultimo posto al mondo dove sarebbe ritornata di sua iniziativa. Aveva pianto e gridato, s'era anche buttata per terra in mezzo alla strada ma le sue scene non erano servite a niente, aveva dovuto rivestirsi da esposta: col grembiulaccio in tela verde e quelle orribili zoccole di legno che le riempivano i piedi di vesciche e di piaghe... Le Orsoline, che s'erano assunte l'impegno di redimerla, le avevano dato alcuni incarichi: anzitutto, doveva provvedere tutte le mattine a vuotare nel fosso la ruera del dormitorio maschile; ciò - dicevano le suore - le avrebbe giovato sia come esercizio fisico, sia per ispirarle un salutare disgusto del fango di cui é fatto l'uomo. Avrebbe poi lavorato in cucina come sguattera e ancora al fosso come lavandaia; sarebbe andata ad attingere l'acqua dal pozzo, avrebbe tenuto pulito il cortile con la ramazza e infine, al termine della giornata, si sarebbe ritirata in chiesa e ci sarebbe rimasta fino a notte, per le pratiche di devozione: le preghiere, le penitenze, i dialoghi con Dio. Il suo vitto era il più semplice che si potesse pensare, un poco di polenta scondita e un poco d'acqua due volte al giorno; per evitare - diceva suor Leonarda - che gli umori tornassero a riscaldarsi in quel suo corpo già provato dal vizio, e che poi gli umori riscaldati suscitassero le passioni, istigatrici dei più sozzi peccati. Lei, Rosalina, aveva finto d'adattarsi, per poi scappare: era scappata, o per lo meno ci aveva provato; ma non era riuscita, e così era finita lì, nello stanzino del digiuno. Scavalcando al buio il muro di recinzione della Pia Casa s'era ferita malamente con i vetri, e poi anche ci s'era messa quella maledetta bestiaccia - la cagna Diana - ad abbaiare e a tentare d'azzannarla da sotto: erano uscite le suore con i lumi, perfino i soldati di guardia alle mura di Novara erano scesi a vedere cosa fosse accaduto, e a ridere di lei... Un fallimento completo, ed a che prezzo! Rosalina aveva tutt'e due le mani fasciate con delle bende ormai quasi nere per via dello sporco e andò sotto l'inferriata, le sfasciò, mostrò ad Antonia le ferite che si stavano infettando. Disse a se stessa: «Sono stata stupida! La prossima volta che ci provo, a scappare, non sarà di notte e non sarà scavalcando il muro. Uscirò di giorno e dalla porta principale, dovessi anche ammazzare qualcuno! - Chiese ad Antonia: - Non mi credi capace?» «Cosa farai? - domandò Antonia. - Dove andrai?» Rosalina si riavvolse le bende intorno alle mani piagate. Fece una smorfia, alzò le spalle: e Antonia, che fino a quel momento l'aveva considerata «una grande», s'accorse da quel gesto che aveva voglia di piangere. Ma durò un attimo. «Andrò in un'altra città, - disse la ragazza. - Almeno per il momento e per togliermi d'attorno: forse a Casale, o a Pavia... Farò la puttana: cos'altro credi che possiamo fare nella vita, noialtre esposte?» Alzò le spalle. Storse il viso, in un sorriso un po' forzato che avrebbe voluto essere spavaldo; prese il mento di Antonia con due dita, la costrinse ad alzare gli occhi. Scoppiò a ridere. La bambina cominciava a sentirsi a disagio per quei discorsi che la turbavano ed anche un po' per quel modo di fare della compagna; ma Rosalina le parlava senza più guardarla, e non ci fece caso. «Anche voi che adesso siete piccole, - le disse, - nella vita farete le puttane, o le bestie da lavoro: non c'è scampo! Per quanti rosari abbiate recitato, e per quante comunioni abbiate fatto! Tutte le favole ché vi raccontano le monache, fuori di qui non hanno il minimo valore. La Madonna, le Sante, la verginità... Tutte scemenze!» Scosse la 20 testa. Disse ad Antonia: «Del resto, loro stesse sono le prime a non crederci... Ma si farebbero ammazzare piuttosto di dirvi che, come donne e come esposte, la sola cosa che xi aiuterà ad affrontare il mondo è quell'affare che avete tra le gambe. Li c 'é la Provvidenza, quella vera, l'unica che ci viene in aiuto anche quando il mondo intero ci è contro! Tutto il resto sono storie: non mi credi?» Buttò indietro la testa, rise ancora, poi con la mano fasciata diede un colpetto sul grembiule di Antonia, nel punto dove approssimativamente doveva esserci la Provvidenza. Ritornò seria. Mormorò: «Quella è l'unica risorsa che madre natura ci ha dato quando ci ha fatto nascere esposte, e gran parte della nostra vita dipende dall'uso che sappiamo farne, dai retta a una che il mondo l'ha già visto e ha capito come funziona! Ti ridurranno una polpetta se cercherai di affrontare il mondo come dicono le suore! Finirai martire subito, te lo dico io! Anche loro, del resto, le cornacchie: ci hai mai pensato perché sono venute a chiudersi qua dentro? Spose di Dio... I miei coglioni! Sono qui perché nessuno le ha volute, o perché dovevano nascondere i panni sporchi sotto il grigio dell'abito, o per qualche altro motivo che nemmeno mi interessa sapere! Io me le ricordo ai tempi di suor Anna, le Orsoline di San Michele: c'era un viavai tra Novara e la Pia Casa che con quest'altra superiora, brutta com’è, non ci sarebbe stato di sicuro! Uomini di tutte le razze: spagnoli, piemontesi, milanesi, perfino un moro c'è venuto, una volta... Si può sapere cosa ti prende? Ehi, tu: sta' ferma!» Antonia improvvisamente s'era buttata su di lei, le dava pugni, le tirava i capelli. «Non è vero niente! Sono tutte bugie! Tu sei cattiva!, Singhiozzava: «Vuoi farmi andare all'Inferno! Io non ti ascolto!» Si faceva un segno di croce dopo l'altro e guardava la compagna: se era il Diavolo, doveva sparire! Rosalina fece una smorfia: «Che cretina!» S'alzò in piedi; allora Antonia corse all'uscio, tenendosi le mani premute sulle orecchie per non sentire più quello che l'altra le diceva, le mostrò la lingua in segno di irrisione. Minacciò: «Guarda che chiamo suor Clelia! Le racconto tutto!» Capitolo quarto La bassa Di tanto in tanto, alla Pia Casa, capitava gente che nessuno conosceva e che la superiora suor Leonarda accompagnava personalmente a vedere gli esposti. Molte di quelle persone erano nobili squattrinati, o, come allora si diceva, strapelati, che cercavano un paggio; altri invece erano artigiani o mercanti che, avendo necessità d'un garzone, s'erano detti: «Andiamo a dare un'occhiata a San Michele, se c'è un ragazzo che può fare al caso nostro!» Quand'erano in mezzo agli esposti si comportavano come al mercato dei cavalli; li guardavano ad uno ad uno, li palpavano, chiedevano a suor Leonarda: «Non sarà un ribelle? Non avrà cattive abitudini? Non sarà malato?»; e poi infine si decidevano a scegliere, tra quei poveracci che s'atteggiavano a spavaldi ma in realtà erano terrorizzati dall'idea di separarsi dai compagni, quello che gli sembrava il più adatto per le loro esigenze, di casa odi bottega. Se ne andavano insieme al malcapitato che li seguiva piangendo tutte le sue lacrime: mentre i compagni, ritornati seri, gli stringevano la mano o lo toccavano, in un ultimo silenzioso saluto. A volte anche accadeva che qualcuno di quei visitatori s'interessasse alle femmine: sapevano cucinare, cucire, assistere un infermo? Ma generalmente tutto finiva lì. Le richieste da parte di privati d'avere in 21 affidamento un'esposta erano diventate molto rare, alla Pia Casa, da quando il vescovo Bascapè aveva fatto rigoroso divieto che venissero cedute ragazzette «in prova», ad uomini che dicevano di volerle sposare: com'era accaduto a Rosalina, in passato, e a molte altre. Capitavano di tanto in tanto vecchie dame che cercavano ragazze speciali, per accudire un'ammalata o un paralitico, e che, dopo approfondita ricerca, rinunciavano a trovarle perché non c'era mai stata, né lì né altrove, un'esposta come la volevano quelle: dolce di carattere, robusta, laboriosa, onesta e soprattutto... brutta; tanto brutta, da tenere a bada gli uomini soltanto con il suo aspetto e da evitare ai suoi ospiti l'imbarazzo di una gravidanza, con tutto ciò che questa, poi, avrebbe comportato. Per farla breve: mentre i maschi, alla Pia Casa, più erano belli e più venivano richiesti, le femmine trovavano chi si interessava a loro soltanto se erano gobbe, o storpie, o bruttissime: e un'esposta come Antonia sembrava destinata a diventare adulta li dentro, perché nessuna benefattrice se la sarebbe mai presa. Anche se tutte la guardavano: non occorreva essere indovini, né profeti, per capire che, crescendo, quella ragazzetta con gli occhi neri come la notte e con quel neo sopra il labbro superiore avrebbe portato il trambusto attorno a sé, dovunque fosse capitata! «Come ti chiami?» le chiedevano le dame. Lei rispondeva «Antonia Spagnolini» e quelle allora le accarezzavano la testa rapata, a volte anche le davano un confetto, una caramella; poi però sceglievano sempre qualcun'altra, con il naso schiacciato e i denti in fuori, o se ne andavano com'erano venute, scuotendo il capo: peccato! Non c'era più, nella Pia Casa di Novara, una sola ragazza con la gobba, o col gozzo, o con le gambe storte. Erano tutte belle: e nessuno voleva prenderle... Arrivò il 1600, l'Anno Santo; cominciò il secolo. Ad aprile, in un giorno di mercato, capitarono a San Michele due visitatori d'un genere insolito: contadini, anzi, contadini della bassa; che è la parte piana del contado di Novara, ricca d'acque sorgive, e, a sud della città, coltivata prevalentemente a riso. Lui, Bartolo Nidasio da Zardino, era un uomo di circa cinquant'anni, basso e tarchiato, con la barba grigia; sorrideva in un ceno modo un poco goffo, come fanno appunto i contadini in città, e si passava da una mano all'altra un cappello a cono, il proverbiale «cappello aguzzo» dei villani. Sua moglie Francesca, che teneva la mano sotto il braccio di lui, aveva un viso rotondo senza età, con due occhi azzurri che mettevano allegria solamente a guardarli; il suo corpo, però, infagottato in uno scialle e in un vestito di lanetta lungo fino ai piedi, appariva sproporzionato e anche un po' informe, con un seno enorme e un sedere così grosso che le ragazze della Pia Casa, non appena la videro, dissero: «La culona! La culona!» I visitatori vennero in mezzo alle esposte accompagnati da suor Clelia - suor Leonarda non aveva ritenuto di doversi scomodare per due contadini - e la «culona» portava in mano un cartoccio di quei biscotti che oggi si chiamano «biscottini di Novara» e che allora, un po' più tozzi e un po' più duri, si chiamavano «biscottini di San Gaudenzio» o «delle monache»: perché una credenza popolare ne faceva risalire l'invenzione ai tempi del primo vescovo di Novara, Gaudenzio, e ne attribuiva il merito alle suore di clausura. Quando si vide che la visitatrice aveva portato il cartoccio per aprirlo lì, e per distribuire i biscotti, la gioia delle esposte salì alle stelle: «Evviva la culona! Ci ha portato i biscottini delle monache!» Fu un arrembaggio: «A me! A me!» «Non è permesso dargli da mangiare! - strillava suor Clelia, mentre le esposte saccheggiavano il cartoccio. - È proibito dai regolamenti! Date qua!» 22 i sassi del guado. - Cercheremo nei miei vestiti da ragazza: qualche gonna e qualche farsetto che ti vada bene ci deve essere ancora! E poi compreremo della stoffa, ne faremo dei nuovi. Non te la voglio più vedere addosso, quella roba!» Oltre i boschi della valletta dell'Agogna, «ombrosa d'alberi fitti» come ebbe a scrivere - in latino - un poeta della bassa, il Merula, la campagna che oggi appare piatta come un tavolo da bigliardo era allora ondulata e colorata con tinte a tratti vivacissime, dal giallo accecante del ravizzone al blu celeste del lino, passando per tutte le varietà di verde: verde smeraldo della segale, verde luminoso del grano, verde azzurro dell'avena, verde tenero delle fave e dell'erba... Più avanti invece, dove la terra ancora non era stata mossa dall'aratro, erano i fiorellini del marrubio, che è una pianticella selvatica, a ravvivare la tavolozza primaverile formando grandi macchie irregolari d'un colore violetto che s'accendeva per contrasto attorno al giallo sulfureo dei tarassachi o alle chiazze dorate dei ranuncoli; mentre già i primi iris si specchiavano nelle pozzanghere e le delicate infiorescenze dei salici sembravano rabbrividire, sopra i fossi, non appena una brezza leggera arrivava a sfiorarle. Lungo la strada, a ogni incrocio, c'erano edicole votive dedicate alla Madonna, a Sant'Anna, a San Martino, a San Rocco, al Sacro Cuore di Gesù; sul bivio di Gionzana, una cappella con annesso un piccolo porticato serviva in caso di necessità, a offrire riparo al viaggiatore che fosse stato sorpreso in quei paraggi dalla notte o da un acquazzone improvviso. La volta interna del portico, che un tempo doveva essere stata affrescata, era ormai tutta annerita dal fumo e così pure erano nere di fuliggine alcune grosse pietre disposte per terra in modo da formare un rustico focolare. Mentre il carro dei Nidasio passava lì davanti, si sentì venire dal villaggio nascosto tra i boschi un suono festoso di campane - era l'Angelus, che annuncia il mezzogiorno - e la signora Francesca si segnò, Bartolo, che sonnecchiava o meditava, assorto in uno di quei pensieri profondi che il dondolio del carro e la monotonia di un tragitto fin troppo noto gli ispiravano sempre, si riscosse, si raddrizzò; disse: «Ah! Va là!», schioccando anche la frusta per incitare il cavallo ad andare più in fretta. Attraversarono un boschetto di betulle e di querce e quando ne uscirono Antonia si accorse che il paesaggio era cambiato, da terrestre che era stato fino a quel momento, d'un tratto s'era fatto acquatico. Era il paesaggio della risaia: una laguna abbagliante nel riverbero del sole, suddivisa in una serie innumerevole di scomparti a forma di quadrato, di triangolo, di trapezio, di rombo; un mosaico di specchi che però presentava, qua e là, delle zone opache: dove l'acqua si fermava e imputridiva diventando palude. Come il Borgo di San Gaudenzio, che i nostri personaggi avevano attraversato venendo da Novara, anche quelle risaie, per la legge, non esistevano: avendo il governatore di Milano marchese d'Ayamonte, eccetera (l'eccetera sta al posto dei quindici o venti titoli nobiliari che ne formavano e ne seguivano il cognome), ordinato «a qualunque persona di qualsivoglia grado, e stato ancora privilegiato, che non ardisca di seminare, ne far seminare riso intorno alla città di Milano per sei miglia, e intorno alle altre città dello Stato per miglia cinque, riservato però, che nel novarese Sua Eccellenza non vuole, che si possa seminare riso in luogo alcuno della provincia senza espressa licenza sua, sotto la pena a chi contravverrà alli predetti Capitoli, o ad alcun d'essi per la prima volta della perdita delli frutti, e di scudo uno per pertica, la seconda volta la perdita delli frutti e de tre scudi per pertica, e la terza volta sotto la pena se sarà fittavolo, massaro, o brazzante della galera per tre anni, e se sarà padrone della pertica del terreno, di scudi sei la pertica e del bando per 25 tre anni da questo Stato, la qual pena pecuniaria, e ammissione de beni si applicherà per la terza parte alla Camera, e l'altra terza parte all'accusatore, qual sarà tenuto secreto, e l'altra terza parte all'officio della Sanità». E ciò, chiariva la grida, perché «il seminar de' risi in alcune parti di questo Stato causa da anni in qua manifesta corrutione et infettione di aere e per conseguente mortalità grande ne' sudditi». La data in calce alla grida era il 24 settembre 1575, anno d'inizio di quell'epidemia che avrebbe poi colpito più duramente la città e il contado di Milano nell'anno successivo, il 1576: ma quale altro stimolo, o motivo, potevano avere le autorità in generale, e quelle spagnole in particolare, per interessarsi alla coltivazione del riso, se non quello, ricorrente, delle epidemie? Però poi le epidemie passavano, e la coltivazione del riso continuava a prosperare, anzi s'ingrandiva: essendo di gran lunga più redditizia della coltivazione della segale o del foraggio, ed essendo quella che consentiva al contado e alla città di Novara di portare un carico d'imposte superiore,' in proporzione al numero degli abitanti, rispetto ad altre città. Contro le gride del d'Ayamonte, e del suo successore Carlo d'Aragona, il 21 aprile 1584 erano quindi insorti «i Professori Medici del Collegio di Novara»; affermando sotto giuramento che le risaie «puoco danno possono apportare a l'Acre et alla sanità Universale de gl'homini, sempre che distino dalla Villa (città) un miglio, conforme à l'ordine di Sua Eccellenza, ò puoco meno, e nei fuochi il più inhabili à produr altri frutti lontani dalle strade correnti e sopra tutto provvedendo che le Acque dei Risi decorrino liberamente, ne in modo alcuno si fermino, et impaludino». Nel 1593, allontanandosi il ricordo dell'epidemia, il governatore Ferdinando Velasco, conestabile di Castiglia, eccetera, aveva concesso che si diminuissero le distanze: per Milano e Novara quattro miglia, per le altre città tre miglia. Restando su queste anche il suo successore don Pedro Enriques de Azevedo conte di Fuentes, eccetera, la città di Novara incaricò il suo oratore ufficiale, il Langhi, di protestare formalmente con il governo di Milano in ogni sede a ciò idonea: «Perché, - spiega uno scrittore dei nostri tempi, il Cognasso, le coltivazioni di riso nel novarese sono a occidente della città fuori Porta Vercelli e Porta Mortara, sino a Borgo Vercelli, se si proibisce da Novara per quattro miglia e da Borgo per tre, praticamente non vi è più posto per la coltivazione. Si faceva inoltre osservare che la città non ritraeva alcun danno dall'aere, e che non avendo altri introiti provvedeva a pagare tutti i pesi (cioè: tutti i carichi fiscali) con i proventi del risme. Il Langhi dunque riferì al governatore le ragioni dei novaresi; il governatore le ascoltò, e lasciò che le leggi rimanessero com'erano. Del resto, era una precisa tecnica di governo al tempo della dominazione spagnola in Italia, questa di costringere i sudditi a convivere con leggi inapplicabili e di fatto inapplicate, restando sempre un poco fuori della legge: per poterli poi cogliere in fallo ogni volta che si voleva riscuotere da loro un contributo straordinario, o intimidirli, o trovare una giustificazione per nuove e più gravi irregolarità. Così è nata l'Italia moderna, nel Seicento: ma può essere forse motivo di conforto, per noi, sapere che il malcostume ci è venuto da fuori, e che è più recente di quanto comunemente si creda. Tornando dunque al carro dei Nidasio, ed alla storia di Antonia: tale era l'aspetto della campagna novarese in quella mattina d'aprile dell'anno del Giubileo in cui l'esposta, rannicchiata tra due sacchi, la guardava scorrere neisuoi occhi spalancati; e chissà mai cosa le passava per la testa vedendo per la prima volta le montagne riflesse e frantumate negli specchi delle risaie, e le lunghe file dei salici con i rami tagliati, e tutto il resto. Forse pensava ancora a San Michele e a ciò che le sue compagne stavano facendo in quel 26 momento, a suor Clelia, a suor Leonarda, alla cagna Diana; forse cercava di prefigurarsi ciò che l'attendeva: chi può dirlo! Forse, anzi probabilmente, non pensava a niente; lasciandosi cullare dal dondolio del carro e lasciandosi distrarre dalla novità e dalla varietà delle immagini che si riflettevano automaticamente nei suoi occhi e s'imprimevano nel suo ricordo: un airone ritto in mezzo a una risaia, un volo d'anatre, un serpe che attraversava a nuoto un rigagnolo o addirittura il martirio d'un Santo (San Lorenzo) raffigurato in una pittura d'un edicola con la graticola, i carnefici, gli Angeli in cielo... Anche agli adulti, assai spesso, capita di vivere i grandi mutamenti dell'esistenza - magari lungamente attesi, o presagiti, o temuti - in una sorta di assenza, e di stupore, che non lascia spazio alla concatenazione logica dei pensieri; in un vuoto di volontà: quasi in un sogno. Capitolo quinto Don Michele «Hai visto? Quella lì è la nostra casa», disse la signora Francesca alla bambina che era rimasta in piedi vicino al carro, dopo che Bartolo l'ebbe tolta di mezzo ai sacchi, prendendola per le ascelle, e l'ebbe messa a terra: e le indicò una bella casa di due piani, con le balconate in legno e il tetto d'ardesia, avvolta e in parte nascosta da un'edera secolare. Ma Antonia non l'ascoltava: guardava l'aia dei Nidasio, tenendo il mento sul petto, da sotto in su. In fondo all'aia, dove il carro era venuto a fermarsi, c'era un albero di fico; poi & erano le stalle, il granaio, la casa del colono, la tettoia degli attrezzi, le stie dei polli e la montagna del letame. Dietro il letame c'era il resto di Zardino o per lo meno ciò che se ne vedeva stando lì: altre stalle, altri cortili, altre case con i balconi in legno, con i tetti d'ardesia o di coppi o di paglia impastata con il fango; altri muri coperti d'edera, altri alberi di fico, altri pollai, altri cortili tenuti separati tra loro da muriccioli irti di chiodi o di vetri perché i ladri e i monelli non potessero scavalcarli. Laggiù, proprio sotto il mucchio del letame, s'era radunato un gruppetto di donne: erano le comari del villaggio, infagottate nei loro scialli neri o grigi, che guardavano l'esposta e parlavano fitto fitto tra loro commentando quella gran novità, della Francesca che era dovuta andare fino a Novara, in capo al mondo!, per cercarsi e per trovarsi una mocciosa; come se il paese non fosse già stato pieno di marmocchi, sani e malati, legittimi e illegittimi, di tutte le razze e di tutte le taglie, con un'unica caratteristica in comune, quella di mangiare a ufo! E pazienza ancora - dicevano le comari - se la Francesca fosse andata a prendersi un maschio, i maschi crescono e lavorano nei campi; ma andare a prendere una femmina, in città, era una cosa che non stava né in cielo né in terra, che non s'era mai udita. Un controsenso! «Come cambiano i tempi! - commentavano. - E pensare che le nostre madri, e le nostre nonne, affogavano le figlie femmine nella Crosa (cioè: nella roggia del mulino) il giorno stesso che nascevano, se erano troppe, o se non avevano più fil latte per allattarle, o se le annate erano scarse: sissignore! Le affogavano come si affogano i gatti o i cagnolini e nessuno ci trovava niente da ridire, nemmeno il prete!» Attribuivano la colpa di tutto ciò che di strano e di sbagliato succedeva nel mondo al nuovo secolo e alla sua smania di novità, per cui la gente, dicevano, «non è più come una volta!» Si chiedevano: «Di questo passo, dove andremo a finire?» Un po' in disparte rispetto al gruppo delle comari, due donne piccolissime e rugose e quasi identiche tra loro stavano ferme a guardare 27 forzati, condannato per frode e furto ai danni d'una vedova di Pettenasco, sulla Riviera d'Orta s'era preso il mal franzese ma ne era guarito; per un paio di stagioni e per prova aveva anche commerciato in Reliquie (frammenti di Sante Croci, unghie e denti di Manifili di Sante Vesti e così via); finché, avendo quasi raggiunto i cinquant'anni d'età, s'era reso conto che la Chiesa e il mondo erano ormai molto cambiati rispetto ai tempi della sua giovinezza; e che continuando a fare il quistone come l'aveva fatto fin lì, sarebbe finito a lavorare in miniera con i ferri ai piedi per il resto dei suoi giorni, o addirittura sulla forca. Bisognava cambiar vita. Andò a Novara: aveva qualche conoscenza tra i monsignori della Curia e tanto blandì, corruppe e trafficò che ottenne d'essere fatto chierico minore. Prese quindi - come allora si diceva - le patenti di cappellano di Zardino, pagando all'amministrazione vescovile una somma piuttosto contenuta, d'una ventina di ducatoni: con quei soldi, al di fuori della Chiesa, non si compravano nemmeno due stanze per andare a viverci, sicché il suo fu senz'altro un buon affare; in quanto poi alle sue capacità di amministrare il culto, ed ai titoli che poteva accampare per fare il prete, nessuno si prese la briga di verificarli e la faccenda, almeno sulla carta, ebbe i crismi della legalità. A quell'epoca, parrocchie e vescovadi si compravano e si vendevano per denaro come ancora oggi in Italia si comprano le farmacie, le tabaccherie, i banchi del lotto; il prezzo variava a seconda dell'importanza e dell'estensione della parrocchia stessa, della sua rendita accertata o presunta di decime, elemosine, donatici e benefici vari; le verifiche sull'idoneità dei preti non sempre si facevano, e non sempre erano rigorose. Don Michele diventò prete, legalmente: nonostante il suo specifico chiericato (era ostiario) gli consentisse soltanto di «aprire e chiudere le porte della chiesa, suonare le campane e benedire i fedeli». Celebrò messa, a modo suo e quando proprio non poteva farne a meno: con lunghe prediche sull'immortalità dell'anima, l'Inferno e il Purgatorio e la remissione dei peccati; battezzò, confessò, unì in matrimonio e accompagnò alla tomba gli abitanti di Zardino; ma, soprattutto, organizzò la seconda parte della Isua personale esistenza mettendo a frutto alcune cognizioni acquisite negli anni in cui girava il mondo facendo il quistone, e che avrebbero dovuto assicurargli - in quel borgo sperduto della bassa dove s'era ritirato per viverci e per morirci - una vecchiaia serena e confortevole, al riparo dei colpi di fortuna. S'attrezzò dunque di caldaie e di alambicchi per la distillazione delle graspe, di lettiere per la cova dei bigatti, di vasi blu di maiolica in cui teneva certe erbe secche e certe polverine che i villani dei paesi tutt'attorno a Zardino venivano a comperargli anche di notte, quando avevano male di denti o male di stomaco o le loro donne soffrivano le lune. Tutte le sere attraversava la piazza della chiesa ed entrava all'Osteria della Lanterna, ch'era proprio di fronte, per incontrarsi con i suoi parrocchiani e per giocare a carte; ogni due settimane, infine, tirava fuori il carro dalla rimessa e se ne andava a Novara a romper l'aria, come anche facevano i veri preti. Alloggiava in certe pensioni familiari, fin troppo ospitali a detta di alcuni, rette da donne di non eccelsa virtù: una tal Paola, una Gradisca, una «Isabela de Valves dita la Sciveta» (Civetta) che abitava in contrada della Tela e che tanto s'affaccendò, nei tempi suoi, che arrivò a lasciare traccia di sé nei registri della chiesa cattedrale - reparto nati illegittimi - ed anche in quelli delle carceri del Broletto. Così vivendo e amministrandosi don Michele aveva ormai raggiunto i sessant'anni d'età, in buone condizioni economiche oltreché in perfetta salute fisica e mentale; finché un giorno, improvvisamente, il mondo gli era crollato addosso, mandando in frantumi la sua quiete e rimettendo in 30 discussione tutto ciò che lui s’era costruito nel corso della sua vita, anzi: la sua vita stessa. Convocato a Novara, esaminato per conto del nuovo vescovo Carlo Bascapè dal canonico decano del Duomo di Milano, monsignor Antonio Seneca, il povero Michele Cerruti era stato giudicato da costui per ciò che era: un impostore ed un usurpatore dei sacri uffici, meritevole d'essere mandato a tirare il remo sulle galere e forse anche di salire il patibolo; solo l'età già avanzata - diceva la sentenza del processo canonico - rendendolo prossimo al giudizio d'un più solenne e tremendo Tribunale, avrebbe potuto mitigare la condanna dei giudici terreni, e salvargli la vita. Consegnato all'autorità civile allora rappresentata in città dall'eccellentissimo dottore utriusque iuris don Vincenzo Zuccardo, il reo Michele Cerruti («vero quistone e falso prete», come fu scritto negli atti di quest'altro processo) si vide mettere al bando da Novara, e dal suo territorio, e da tutte le terre dello Stato di Milano: con pena, nel caso avesse osato tornarci, la prima volta d'essere frustato e poi mandato a remare sulle navi, o a lavorare in miniera; la seconda volta, d'essere appeso per la gola sulla pubblica piazza, in Novara o nel luogo stesso dove si fosse ritrovato, secondo l'opportunità e l'arbitrio di chi avrebbe dovuto decidere in quella circostanza. Atterrito, confuso, don Michele andò al Po in compagnia degli sbirri; si trattenne qualche giorno di là dal confine, a Casale, e poi con mezzi di fortuna e alla chetichella se ne tornò a Zardino; avendo deciso che comunque si mettevano le cose lui non aveva un altro luogo al mondo dove rifugiarsi, e che era troppo vecchio per cambiare ambiente e abitudini di vita; ed anche, che i guai suoi e degli altri quistoni divenuti preti si sarebbero risolti entro breve tempo con la scomparsa del comune persecutore, cioè del vescovo Bascapè. Costui - secondo quanto ne diceva chi aveva avuto modo di vederlo da presso - era un uomo esangue, afflitto da una quantità di malattie che lo tormentavano in ogni momento della giornata e di cui poi lui si ripagava tormentando i suoi prossimi; non era ancora lì lì per render l'anima, purtroppo, ma comunque le sue condizioni erano tali da far ragionevolmente sperare che non sarebbe durato a lungo a reggere una diocesi come quella di Novara, e con quei metodi, poi! La diocesi di Novara, lo sapevano tutti, aveva più di duecento parrocchie senza preti, nella bassa, nelle valli, intorno ai laghi; che male c'era, se qualcuna di quelle parrocchie veniva retta e amministrata da un quistone, o da un chierico minore, o da uno qualsiasi di quei preti che venivano messi sotto in chiesta proprio in quei giorni, a Novara, per tantissime colpe: simonia, concubinato, usura, ignoranza delle Scritture, negligenza nei propri uffici e però in fondo - diceva don Michele - non si erano mica creati da sé soli, così com'erano! Erano anche loro figli di Santa Madre Chiesa: magari discoli o illegittimi, ma pur sempre figli; e quale madre snaturata si sbarazza dei suoi figli, perché non le piacciono come sono fatti o perché pensa che non siano degni di lei? E poi: chi li avrebbe sostituiti, quei figli imperfetti? Non ci sarebbero mai stati abbastanza preti per realizzare i progetti del vescovo Bascapè: tanto più - s'infervorava don Michele - che il mondo già s'era girato un'altra volta e nessun giovane moderno, dopo essersi sacrificato e aver studiato per diventare prete, sarebbe poi venuto a seppellirsi in un posto come Zardino: grazie al cielo, avevano altro per la testa, i giovani di quell'epoca! Se erano ambiziosi pensavano alla carriera, a diventare monsignori, a andare a Roma; se erano idealisti o sognatori, progettavano di fare i missionari in terre lontanissime: l'India, il Giappone, le Americhe; la nuova Chiesa, rinata dal Concilio, e il Papa personalmente, li spingevano laggiù. Così aveva ragionato don Michele ritornando a Zardino; e s'intende però che era anche pieno di paure 31 d'essere denunciato, incatenato, mandato a fare il minatore in una cava di granito o di ghiaia e che quindi aveva cambiato tutte le sue abitudini: si muoveva poco, non andava più a Novara per nessun motivo, non usciva dal paese. Beveva molto più che in passato, all'osteria con gli amici e anche da solo; parlava ad alta voce con se stesso: si poneva domande, si dava le risposte. Non diceva messa, non predicava e non amministrava altri sacramenti che il battesimo, ma non era più successo niente che lo riguardasse, a Novara in Curia: mese dopo mese, stagione dopo stagione, erano ormai trascorsi quattro anni da quando la sentenza contro di lui era stata pronunciata e lui ancora se ne stava là, gli sbirri non erano venuti ad arrestarlo e nessun vero prete s'era presentato per fare il cappellano al posto suo: il vescovo non moriva, non succedeva niente. Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato: ma a don Michele andava bene anche così. Che lo lasciassero in pace: non chiedeva di meglio! Finita la preghiera, don Michele si chinò, prese il viso di Antonia tra le mani, la baciò in fronte. Poi le mise le dita tra i capelli, dietro le orecchie, sulla nuca: le tastò pian piano le ossa temporali fino all'occipite, e poi le ossa degli zigomi; le prese il polso sinistro e guardò le linee sul palmo della mano. «Crescerà sana e anche molto graziosa, - disse alla signora Francesca che era entrata in casa e poi subito era tornata fuori, reggendo con tutte due le mani un gran vassoio di frittelle. - Dalla forma della testa, - continuò, - direi buona e generosa di carattere ma anche un po' capricciosa, sicché non bisognerà avere troppa fretta a darle marito. La linea della vita, nella mano, è lunga e netta; c'è soltanto un'interruzione sui vent'anni, un pericolo mortale che però verrà superato. Lo sposo voluto dalla Provvidenza non sembra essere un giovane di qua ma un forestiero; da lui, Antonia avrà un solo figlio e sette dolori, tanti quanti ne ebbe nella sua vita la Vergine Maria. Resterà vedova quando già suo figlio sarà diventato adulto e vivrà a lungo. Non morirà di morte naturale, ma per una fatalità: forse, un incendio. Lasciò andare la mano dell'esposta. Prese con garbo una frittella dal vassoio che la signora Francesca gli stava porgendo, ne assaggiò un angolo. Disse: «E molto buona. Complimenti a chi l'ha preparata!» Allora tutti si fecero avanti per reclamare la loro parte di frittelle, i monelli, il chierichetto, le figlie del colono; quelle stesse comari che fino a pochi minuti prima erano state così indignate e seriamente preoccupate per la venuta a Zardino dell'esposta, non esitarono ora ad avvicinarsi a lei e alla signora Francesca per mangiare le sue frittelle. Soltanto Antonia rimase ferma dov'era, guardando intimidita i ragazzi che s'azzuffavano intorno al vassoio; e dovette intervenire il padrone di casa, cioè Bartolo in persona, a prendere nel vassoio due frittelle e a mettergliele tra le dita. A dirle: «Mangia. È per te che Consolata le ha fatte, per festeggiare il tuo arrivo. Sono tue!» Capitolo sesto I fratelli cristiani A Pasqua piovve e il fiume straripò: invase boschi e campi seminati, riempì i fossi dentro e fuori del villaggio d'un acqua scura e fangosa che in certi punti si riversava nelle strade, trasformando in torrenti i sentieri acciottolati e i cortili e gli orti in paludi. Per due o tre giorni non si vide che acqua; a nord, a sud, in ogni direzione fino all'orizzonte; poi pian piano Ìe acque defluirono, si ritirarono negli alvei a loro destinati e il paesaggio riacquistò le sue caratteristiche abituali, coi monelli che 32 di lavoro che si fa d'estate, seminudi nell'acqua e tenendo la pane ignobile del corpo più alta di quella nobile, che è la fronte - della loro sconcia femminilità: che invece doveva essere tenuta accuratamente nascosta e repressa, secondo quanto prescriveva la Chiesa e volevano i costumi dell'epoca. «I risaroli! I risaroli!» Il grido si propagò di cortile in cortile, arrivò all'aia dei Nidasio. Antonia, da quando era a Zardino, trascorreva la maggior parte del suo tempo con le due figlie minori dei Barbero, Anna Chiara e Teresina, che abitavano dall'altra parte del cortile ed erano state le prime ragazze del paese ad avvicinarsi all'esposta il giorno del suo arrivo: Anna Chiara l'aveva toccata con il dito, per vedere come reagiva e se mordeva, Teresina invece le aveva chiesto perché portava i capelli tagliati corti. Aiutavano ad accudire agli animali, soprattutto alle oche, oppure anche giocavano tra loro o con le ragazze dei cortili vicini: come appunto quel giorno. Al primo grido, corsero tutte sulla piazzetta della chiesa e i risaroli erano già là, guardati a vista da due tizi armati di staffile, che era l'attrezzo specifico dei capi: una striscia di cuoio larga un dito che s'avvolgeva attorno alla mano e che, quando veniva usata per frustare, stampava sulla pelle certi segni così nitidi, da sembrare fatti con un ferro incandescente. Uno dei due bravacci aveva una benda nera sopra un occhio, un pistoiese infilato nella cintura e un corno appeso sul petto: impugnò il corno, sorridendo verso le bambine in un certo modo che Antonia si sentì un brivido nella schiena, lo portò alle labbra; ci soffiò dentro più e più volte, fermandosi ogni tanto per riprendere fiato. Quel suono lungo e ricco di echi serviva ad avvisare i contadini del paese, dovunque fossero nel raggio d'un miglio, tra le case o nei campi, che erano arrivati a Zardino i risanali, e che erano in piazza. Che venissero a vederli. Soffiando, le guance del briccone si gonfiavano da una pane e dall'altra, e il suo viso, già non particolarmente bello, diventava mostruoso. I ragazzi ridevano a crepapelle. Qualcuno gli gridò: «Sembri proprio un porco!» «Ne fan pochi, di affari, qui a Zardino!», disse Teresina Barbero: che aveva quasi tredici anni e una predisposizione naturale all'assennatezza, parlava sempre come avrebbe parlato sua madre Consolata. Spiegò: «Quei due capi. Quello con la benda sull'occhio e l'altro. Chissà da dove vengono, chi sono: a vederli, sembrano proprio due banditi!» Si chiese, o forse chiese alla sua compagna: «Come fa un massaro, a prendersi in casa degli uomini così?» Antonia, però, non l'ascoltava. Stava là, con gli occhi spalancati e la bocca aperta: guardava i risaroli che s'accalcavano in quella parte della piazza dove c'era il sole e si spingevano, s'urtavano per mettersi al sole, avvolgendosi dentro certe coperte militari che, a giudicare da com'erano ridotte, dovevano essere molto antiche, del tempo di Carlo V o più vecchie ancora. Qualcuno tra loro batteva i denti; tutti mostravano di avere un gran freddo per la notte trascorsa chissà dove, certamente all'aperto. C'erano dei vecchi coi capelli bianchi, e la pelle del viso e delle mani violacea; c'erano due poveri idioti, riconoscibili per la posizione innaturale degli occhi e per il tremolio della testa e delle mani; c'era un uomo con un gozzo così grosso che doveva per forza tenerlo fuori dal giaccone e quella mostruosità pulsava pian piano sottopelle, sembrava vivere di vita propria: era un parassita appeso al collo di quell'uomo, una sanguisuga di forma inusitata, e di dimensioni enormi... C'era un giovane nero di capelli, con il viso devastato da una sorta di lebbra che gli rodeva le labbra, le narici, le orecchie; alzò su Antonia gli occhi lucidi di febbre e la ragazzetta allora si voltò, tentò di dire qualcosa alla compagna ma era 35 così sconvolta che balbettava, non riusciva a parlare normalmente. Teresina la prese per un braccio, le chiese: «Cosa c'è? Non ti senti bene?» «Quei poverini, - riuscì finalmente a dire Antonia. - Da dove vengono? Chi sono?» La sua nuova compagna alzò le spalle. «Sono quelli che lavorano nei risi, cosa vuoi farci... Vengono tutti gli anni!» Dopo un momento di silenzio, disse ancora: «Ce li ha anche massaro Bartolo. Gli arriveranno a giorni: non te l'ha detto la signora Francesca?» Antonia strinse i pugni: «Li farò scappare!» Le brillavano gli occhi. Sussurrò: «Resterò sveglia di notte: non mi credi? Poi, quando tutti dormiranno...» «Sei matta?» Teresina la guardò seria, l'ammonì: «Non pensarci nemmeno!» «In primo luogo, - spiegò, - i nostri risaroli non scappano perché massaro Bartolo e la signora Francesca li trattano bene. In secondo luogo, se scappassero, i fratelli cristiani li riprenderebbero e forse anche li ammazzerebbero... È già successo altre volte!» Si guardò attorno, se qualcuno le ascoltava. Domandò a Antonia, sottovoce: «Lo sai, tu, chi sono i fratelli cristiani? Li hai mai visti?» Antonia fece segno con la testa: no. «Vieni con me, - le disse Teresina prendendola per mano. Andiamo via. Tanto, qui non c'è proprio niente da vedere: ci sono solo quei disgraziati... Entriamo in chiesa! Se don Michele l'ha lasciata aperta, come fa di solito, voglio mostrarti i fratelli cristiani». La tirò, ma Antonia non si muoveva. L'altra rise. «Su, su! le disse. - Non avere paura: son dipinti!» Entrando in chiesa c'erano un gran silenzio, ed un gran buio. Le due ragazzette avanzarono a tentoni, tenendosi per mano e respirando con qualche difficoltà per via dell'aria riscaldata dai bracieri e dell'odore dei bachi da seta; ma il buio, dapprincipio così fitto, era in realtà soltanto una penombra a cui gli occhi s'abituavano in fretta e che poi permetteva di vedere, oltre alle luci rossastre dei bracieri, anche le lettiere dei bigatti disposte sopra i banchi e perfino le pitture dei muri... Teresina ne mostrò alcune alla compagna, indicandogliele col dito. «Quella è Sant'Agata, a cui viene tagliata la mammella! Quello è San Giulio, che attraversa il lago sul mantello per andare a liberare l'isola dai serpenti! Quel cavaliere inginocchiato è Sant'Ubaldo, e davanti a lui c 'é la cerva con la croce!» Proprio di fianco all'altare, sulla destra, c'era un affresco che riceveva più luce degli altri attraverso la vetrata dell'abside e Teresina vi condusse Antonia: «Sono loro! Guardali! I fratelli cristiani!» L'affresco rappresentava un Santo, riconoscibile dall'aureola, che benediva un gruppo di uomini inginocchiati davanti a lui e quegli uomini erano tutti vestiti d'una tunica bianca legata in vita, tenevano una torcia in una mano e uno staffile nell'altra e avevano la testa ricoperta da un cappuccio con una croce rossa sopra i buchi degli occhi. La scena, pur raggelata nelle forme dell'immagine devota, comunicava allo spettatore un senso d'inquietudine: dove sarebbero andati quegli uomini col cappuccio, dopo aver ricevuto la benedizione del Santo, e cosa avrebbero fatto, così equipaggiati com'erano? «Quegli uomini col cappuccio, – disse Teresina a Antonia parlandole sottovoce come se loro, lassù, avessero potuto ascoltarla, – sono i fratelli cristiani di Zardino, e quello in piedi con la faccia scoperta è il loro protettore San Rocco». Le bisbigliò nell'orecchio: «Vanno a cavallo di notte, con le torce; e finché portano in testa il cappuccio con la croce, devono difendersi l'uno con l'altro, e restare insieme senza mai dividersi: uniti fino alla morte! Perciò si 36 chiamano fratelli... Ci riportano i risaroli quando scappano e ci proteggono dagli zingari, dai ladri di cavalli, dagli spiriti delle persone insepolte e perfino dal Diavolo... Così, almeno, dice mia madre Consolata! E così, in paese, credono tutti!» Antonia, zitta, guardava la pittura. Lei li aveva già visti, i fratelli cristiani: anche se non sapeva che si chiamassero con quel nome. A Novara, nelle processioni del Venerdì Santo: c'erano gli uomini con i cappucci neri e le cocolle (mantelli corti che gli coprivano le spalle fino al gomito) che venivano avanti producendo un frastuono spaventoso, da rompere i timpani, facendo girare alti sopra le loro teste certi attrezzi di legno chiamati raganelle; quelli erano i tenebrofori, letteralmente: portatori di tenebra, e dietro loro, a piccoli gruppi, venivano gli incappucciati dei paesi della bassa: le croci rosse, le croci nere, le croci a due braccia e le croci a quattro braccia, con le torce spente; sfilavano, nella luce debolissima dei lumini ad olio sui davanzali delle case, sfilavano, così lenti che sembrava non dovessero finire mai di passare. Dietro alle confraternite degli incappucciati ne venivano delle altre, di uomini che si mostravano a viso scoperto, e poi venivano le suore, e i seminaristi, e le pie donne: tutte vestite di nero e tutte in lacrime portando la statua della Madonna Addolorata e una bara vuota che si chiamava «il Cristo Morto». Dietro la bara, cantando il Miserere, venivano gli ordini religiosi, e i preti secolari, e i canonici dei due capitoli, quello di San Gaudenzio e quello del Duomo, e i vicari del vescovo, e il vescovo, e le autorità civili, e gli ufficiali e i soldati, e la folla con i lumi... Si riscosse. Teresina la teneva per mano e la guidava verso l'uscita posteriore della chiesa, continuando a parlarle sottovoce di cose misteriose. Sussurrava: «Mia madre dice che, di notte, tutt'attorno a Zardino ci sono i Diavoli. Vengono giù dai dossi o dalla parte del mulino, non te l'ha detto la signora Francesca? Ce n'è uno che tutti chiamano il Biron ed è un capro con gli occhi rossi come la brace, che si porta via le ragazze se le trova fuori di casa quand'è buio. Se ne è portate già tante! Anche le mie sorelle più grandi, la Liduina e la Giulia, uscivano di notte e il Biron le ha prese». Dietro la chiesa non c'era nessuno, il paese finiva lì e le due amiche andarono a sedersi sul bordo di un sarcofago in pietra grigia che, dopo essere stato per chissà quanti secoli il sepolcro d'un tale Cornelio Corneliano, decemviro novarese – secondo quanto ancora si poteva leggere scritto nella pietra - ora fungeva da vasca per abbeverare il bestiame e lavare i panni. Era una bella mattina di primavera, luminosa e piena di sole ma Teresina aveva incominciato a parlare del soprannaturale di Zardino e quello per lei era un argomento irresistibile, che l'appassionava come nessun altro. Del resto, si sa che certi discorsi bisogna farli di giorno e alla luce del sole, perché poi di sera mettono spavento! Anche Antonia l'ascoltava a bocca aperta, senza più pensare a quei poveri risaroli che erano ancora sulla piazza della chiesa, e che con il loro arriva avevano in qualche modo causato quel suo viaggio tra le ombre e i misteri della bassa. Ascoltava con l'avidità istintiva che hanno i ragazzi di ogni paese e di ogni epoca per quel genere di storie. A nord di Zardino - le disse Teresina - in un luogo chiamato la Fonte di Badia c'erano le Madri: donne crudeli, capricciose, terribili, sopra il cui altare e alle cui immagini chiunque passava di lì doveva sacrificare qualcosa di ciò che aveva indosso, o che portava con sé, per placarne la collera... Anche il gorgo della Crosa, un ruscello d'acqua sorgiva che scorreva tuta attorno al paese venendo da levante, e faceva girare la ruota del mulino, era un luogo fatato, pericolosissimo. Lì, sul fondo, c'era in agguato la 37 i giudici e gli sbirri di città non sarebbero certamente arrivati a Zardino per così poco; ognuno badava a se stesso e alle sue cose, nel Seicento, e per badare a tutti c'era solo Dio; avevano ben altre faccende a cui pensare, i Tribunali dell'epoca! In quanto al mulino, di già che l'abbiamo nominato, basterà dire che si chiamava «dei tre Re» per via d'una pittura quasi cancellata dal tempo e dalle intemperie, di cui restavano soltanto poche tracce per l'appunto, tre teste barbute e coronate - sulla facciata e sul portone d'ingresso; e che era uno dei mulini più antichi e più noti di questa riva del Sesia, da Borgo Vercelli su su fino a Biandrate. Il mercato a Zardino si faceva sulla piazza della chiesa, due volte al mese, il primo e il terzo lunedì; arrivavano gli ambulanti da Novara e dai paesi della valle del Ticino: Trecate, Oleggio, Galliate ed esponevano le loro mercanzie di terrecotte, di attrezzi per l'agricoltura, di lettiere e d'altri strumenti per allevare i bigatti, di trappole per gli animali selvatici e di reti per i pesci, di calzature, di tessuti. In quei giorni, l'Osteria della Lanterna di fronte alla chiesa diventava un locale animatissimo, un vero e proprio mercato nel mercato per ogni genere di trafficanti, dal baciale (sensale di matrimoni) al cavadenti, dal barbiere che tra una barba e l'altra s'occupava anche d'affari di salute e di cuore, al venditore di grasso di marmotta per curare le artriti, al pénat: che era un eroe di queste contrade della bassa, l'individuo più odiato e più adulato dalle comari. Sul suo conto, correvano voci incontrollabili che gli attribuivano vizi e malvagità tali da far impallidire la memoria di Erode, o di Giuda Iscariota, odi Nerone; ma quando poi le comari lo incontravano per strada, gli si appianavano tutte le rughe del viso e gli occhi gli brillavano di felicità. Era lui, il pénat, che gli comprava la spiumatura delle oche pagandola al minor prezzo che riusciva a strappargli, ma pagandola in contanti: e l'amore e l'odio che le comari provavano per lui si può capire soltanto se si pensa che la vendita di quelle piume, per le donne della bassa, era l'unico modo di guadagnare del denaro, indipendentemente dai mariti; e che quelle berlinghe che gli dava il pénat, per antica consuetudine le donne non le dividevano con nessuno, erano soldi loro; il principio della loro autonomia economica, il primo passo dell'emancipazione femminile in questa parte di pianura e di mondo. Circolavano tra le comari, e si tramandavano di madre in figlia, le leggende d'alcuni pénat divenuti ricchissimi rivendendo a caro prezzo ai materassai di Novara, di Vigevano o addirittura della lontana Milano quelle stesse piume che loro, le povere comari!, avevano dovuto cedergli per pochi spiccioli. Palazzi, carrozze, servitori; mezzi quarti e quarti di nobiltà con le relative carriere nell'esercito e nel clero, messi sua forza di spiumar oche, cioè comari... Queste cose in genere si raccontavano d'inverno, quando ci si riuniva di sera nelle stalle per stare al caldo e fare chiacchiere; e veniva anche sussurrato, in gran segreto, il nome di una famiglia di nuovi nobili novaresi ch'erano saliti in auge dopo l'arrivo degli spagnoli e che, senz'ombra di dubbio, discendevano da una lunga, lunghissima prosapia di usurai e di commercianti di piume. Quei nuovi nobili - si bisbigliava nelle stalle - ora avevano titoli e palazzi e sui portoni di quei palazzi c'erano stemmi scolpiti nella pietra che rappresentavano un animale a quattro zampe, venuto fuori da chissà dove. Ma se si fosse voluta rappresentare la vera origine della loro nobiltà - dicevano le comari - su quegli stemmi ci sarebbe dovuta essere un'oca. Una bella oca rampante: ecco il loro emblema! Per vedere Zardino un po' dall'alto, al di sopra dei tetti e dei comignoli, bisognava salire sul campanile della chiesa dedicata a San Rocco oppure anche su uno dei due 40 dossi che il Sesia aveva formato nei secoli accumulando materiali durante le sue piene e che i viventi all'inizio del Seicento chiamavano, rispettivamente, ceppi rossi e dosso dell'albero. Quelle due montagnole, basse e larghe, sono scomparse da tempo immemorabile, come il paese: i ciottoli di cui erano fatte sono poi serviti a costruire i nuovi argini del fiume e la terra è stata spianata, prima con i buoi e poi con le pale meccaniche, per dare spazio alle tradizionali coltivazioni del granoturco, del grano o del foraggio o a quella nuova, importata dall'America, del pioppo canadese; sicché ormai si può dire che di quei luoghi, e di quell'ambiente in cui si svolse gran parte della nostra storia, non esiste più nulla, nemmeno la memoria! La pianura, che ai tempi di Antonia era ondulata e in parte incolta, oggi é piatta e coltivata dappertutto; le lunghe file dei pioppi s'intersecano ad angolo retto con i bordi delle risaie, creano un paesaggio nuovo e assai diverso rispetto a quello che fu nei secoli il paesaggio originario di questa regione, di boschi e di brughiere, di paludi e di prati. Anche il corso dei cosiddetti fontanili, cioè delle acque sorgive, che una volta era tortuoso e imprevedibile - qua torrente o rigagnolo, là stagno - ora è stato rifatto con la squadra e in molti casi col cemento. Tutto è ordinato e geometrico e tutto è disposto per dare il massimo profitto: una fabbrica a cielo aperto di cereali, cellulosa e granaglie, senza quasi più storia. I due dossi che sovrastavano Zardino, invece, erano già molto antichi all'inizio del Seicento: antichi di secoli, forse addirittura di millenni. Il dosso dell'albera, sul cui pendio dalla parte del paese un tempo doveva esserci stata una vigna, perché le radici delle vecchie piante ancora rigermogliavano qua e là, prendeva nome da un albera secolare un castagno così grande che per abbracciarne il tronco due soli uomini non bastavano, dovevano essercene tre; sul tronco del castagno era ancora decifrabile una scritta intagliata col coltello, a lettere maiuscole e con le erre rovesciate, che tutti gli abitanti di Zardino e dei dintorni leggevano, anche se non sapevano leggere: albera dei ricordi. Naturalmente e per quanto l'ipotesi possa forse sembrare suggestiva, i ricordi intesi come memoria non c'entravano per nulla: il significato vero della scritta era un'attribuzione di proprietà dell'albera e dei frutti della stessa a una famiglia di mezzadri - i Ricordi, appunto - emigrati dal milanese o forse addirittura dal Veneto, che ormai da quasi mezzo secolo erano andati via da Zardino, non essendo riusciti a mettervi radici; chi si ricordava ancora di loro ne parlava come di gente prepotente e rissosa, che aveva cercato di attribuirsi, senza averne diritto, la proprietà di alcune ba ragie e di alcuni terreni destinati a pascolo, tra cui appunto il dosso dell'albera. L'altro dosso, quello dei ceppi rossi, era invece un roveto, una pietraia popolata di serponi assolutamente innocui, a cui però la fantasia popolare attribuiva la capacità di emettere suoni, di parlare, di fascinare la gente con lo sguardo e d1 compiere prodigi, se possibile, ancora più straordinari di questi che s'è detto: arrivando addirittura ad immaginarseli in forma di draghi, forniti di ali e di creste e di artifici pirotecnici che gli uscivano dalla bocca e dalle narici. La gente di Zardino considerava maledetti i ceppi rossi per via d'un fulmine che in un passato nemmeno troppo lontano aveva spezzato e bruciacchiato due alberi di quercia che ne ornavano la sommità, distruggendo anche un'immagine votiva d'una Madonna - con la sua edicola di legno - inchiodata sul tronco d'uno di quegli alberi. I ceppi delle due querce, corrosi dall'umidità e lavorati dagli agenti atmosferici, s'erano poi ricoperti, col passar del tempo, d'una sorta di lichene, o di muffa rossastra, che nei riflessi del tramonto s'accendeva sempre d'un colore rosso vivo; e quel fenomeno, visibile anche dall'altra parte del Sesia, aveva fatto sì che il nome del dosso 41 cambiasse rapidamente, nel volgere di pochi anni: da dosso della Madonna, che era stato, a ceppi rossi. Meno chiare erano invece le ragioni per cui la gente considerava maledetto il dosso dell'albera. Circolava da un po' di tempo quella voce che Teresina aveva riferito a Antonia, che vi andassero le streghe a fare il sabba e ad adorare il Diavolo: ma, come fosse nata, nessuno avrebbe saputo dirlo. Non c'erano streghe nel passato di Zardino, per lo meno nel passato prossimo; in quanto poi al dosso, i più vecchi si ricordavano d'un'epoca quando ancora l'albera non apparteneva ai Ricordi, e chi voleva poteva salirci: non proprio fino alla sommità ma comunque fino a un'altezza notevole, di trenta piedi e anche più. C'erano dei rudimentali scalini in legno inchiodati sul tronco dell'albera e da lassù - dicevano i vecchi - quando il cielo era sereno e l'aria limpida, si vedevano le guglie del Duomo di Milano a trentacinque miglia di distanza, e Moncalvo nel Monferrato, e i santuari del biellese; si vedevano le Alpi dal Monte Bianco al lago di Garda e il Sacro Monte di Varano: si vedeva il mondo. Poi erano venuti i Ricordi con le loro pretese di proprietà: avevano cercato di trasformare il dosso in una vigna e attaccavano lite con chiunque si avvicinava all'albera; e poi ancora aveva incominciato a circolare quella voce delle streghe, che a Zardino in realtà non s'erano mai vedute, e la gente, sui dossi, non ci andava più... A Zardino, la vita era monotona. Soprattutto d'inverno, quando il lavoro dei campi era quasi fermo; gli animali, rannicchiati nella paglia, attendevano la primavera e il nuovo sole e ogni genere di rapporti sociali si trasferiva dalle aie nelle stalle: dove i monelli continuavano i loro giochi, i vecchi sonnecchiavano oppure anche raccontavano, a richiesta, le storie dei tempi andati a chi desiderava ascoltarle e le comari si mettevano sedute in cerchio per cucire o per filare, secondo quanto dicevano loro stesse; in realtà, per chiacchierare fitto fitto, fino a notte inoltrata. Era lì che nascevano «le voci»: quelle stesse voci - pettegolezzi, intrighi, calunnie e assurdità varie - che ancora oggi, alla vigilia del Duemila, sono un elemento essenziale e irrinunciabile della vita dei paesi della bassa; ma che ora, per effetto del progresso, possono intrecciarsi con le notizie del giornale e della televisione, e possono diffondersi anche in altri modi rispetto a quelli d'una volta: per esempio col telefono, o addirittura - potere dell'alfabetizzazione! - con le lettere anonime. All'inizio del Seicento, invece, le voci nascevano per intero dalle ossessioni e dai livori di chi le metteva in circolazione e si diffondevano in un stilo modo, da bocca a orecchio; ma il risultato finale non aveva poi niente da invidiare a quello di oggi, perché quelle voci passavano con grandissima rapidità da una stalla all'altra intrecciandosi con altre voci d'altre stalle, d'altri villaggi, d'altri inverni: formavano un tessuto inestricabile di menzogne e di mezze verità, un delirio verbale di tutti contro tutti che finiva sempre per sovrapporsi alla realtà, condizionandola, nascondendola, determinandone sviluppi imprevedibili; fino a diventare, esso stesso, la realtà. Con la buona stagione, poi, le voci continuavano a circolare e a fare danni ma l'attenzione della gente si spostava altrove, sulle «liti di cortile» e sulle «liti d'acqua»: due elementi che rimescolarono per secoli gli umori altrimenti torpidi degli abitanti della bassa, e assicurarono a Novara la presenza in città di una colonia molto folta di legulei, causidici, procuratori, notai, periti agrimensori, scrivani ed altri addetti alle cause giudiziarie; seconda solo per numero - la colonia di cui sopra - a quella, ancor più numerosa, dei preti e dei religiosi in genere. E mi sia consentito, a questo punto del racconto, di deporre per un istante la penna, e di soffermarmi a riprendere fiato e slancio: perché qui la materia del narrare s'innalza, 42 dei Barbero: la signora Francesca e Consolata gli caricavano i cibi sul carretto «dei panni» - così detto perché nelle altre stagioni serviva soltanto a portare i panni al lavatoio - e loro quattro, al tocco dell'Angelus, uscivano dal paese. Vedendole arrivare, Bartolo dava fiato al corno: allora i risaroli si raddrizzavano, adagio e non senza difficoltà, perché dopo tante ore di lavoro, le giunture stentavano a riprendere il loro assetto normale. Barcollando, inebetiti dalla fatica, storditi dal sole, s'inerpicavano sull'argine e quand'erano all'asciutto si mettevano seduti con la schiena appoggiata a un salice, o si buttavano per terra lì dov'erano, con gli occhi aperti spalancati a fissare il cielo. Se parlavano - e ciò accadeva quando proprio non potevano farne a meno - si scambiavano pochissime parole in un loro dialetto gutturale che le ragazze non capivano; di solito, però, non dicevano niente. Prendevano il pane dalle mani di Antonia e a volte non alzavano nemmeno gli occhi per vedere chi glielo porgeva, a volte invece la guardavano in un modo tale che alla ragazza faceva ancora più impressione dei loro visi irsuti, dei loro denti gialli e radi, delle loro cicatrici. La guardavano come si guarda il nulla: senza vederla. S'avventavano sul pane. Un'altra macchina da lavoro con cui Antonia s'incontrava tutti i giorni era quel Giuseppe Barbero, colono dei Nidasio e marito della già nominata Consolata, di cui tutte le bambine di Zardino avevano una gran paura, a cominciare dalle sue stesse figlie, e l'avevano subito detto anche alla loro nuova compagna: che per amor del cielo non restasse mai sola col Giuseppe! Che scappasse non appena lo vedeva, e, se lui la chiamava, che scappasse più in fretta! «Forse poi non ti fa niente, ma chissà! È meglio non metterlo alla prova!» Giuseppe Barbero era un uomo piuttosto basso di statura, quasi calvo, con le braccia troppo lunghe rispetto al resto del corpo e la bocca priva di denti a seguito d'una infezione delle gengive, per cui, anziché parlare, farfugliava; quella mancanza dei denti non gli impediva però di continuare ad essere ciò che a detta dei suoi compaesani era sempre stato, cioè un gagliardo mangiatore d'ogni cosa mangiabile oltreché un bevitore di capienza smisurata, tra i più capienti che mai si fossero visti nella bassa: che è una terra, si sa, tanto ricca d'acqua quanto assetata di vino. A vederlo camminare per strada, con la parte inferiore del viso che si muoveva come per masticare l'aria, gli occhi persi nel vuoto e le mani che gli arrivavano alle ginocchia, sembrava un essere privo d'intelletto, uno scimmione; ma chi lo conosceva bene assicurava che il Giuseppe Barbero era furbo, e mica poco! Era un balòs: un furbo pieno di malizia, un furbo cattivo. Quanti figli avesse, nessuno lo sapeva, perché in pane erano nati dalla moglie e in pane dalle due figlie maggiori, Liduina e Giulia: che però ormai da tempo se ne erano andate a vivere chissà dove, e non davano più notizie. Grande lavoratore, grande mangiatore, grande bevitore come s'è detto e poi anche, naturalmente, grande ingallatore di femmine, da più di trent'anni il Giuseppe Barbero una volta alla settimana s'ubriacava e nella notte tra il sabato e la domenica cercava d'ingallarsi tutto il pollaio domestico, che all'epoca della nostra storia era composto dalla moglie Consolata e da tre figlie ancora piccole: Teresina di tredici anni, Luisa di dieci e Anna Chiara di otto. Dall'altra parte del cortile, ogni sette giorni, si sentiva un fracasso indiavolato: arrivavano le bambine in lacrime a casa dei Nidasio chiedendo di passare la notte lì, perché «papà era diventato cattivo»; la signora Francesca le metteva a dormire nella stanza di Antonia dove c'erano due lettini, due per letto; e poi tutto, pian piano, s'acquietava. Questi fatti succedevano anche in molte altre case di Zardino e dei paesi attorno; ovunque nelle campagne, all'inizio del Seicento, 45 la notte del sabato era una notte maledetta, in cui accadevano cose che poi, chi le faceva, avrebbe voluto non averle fatte e però puntualmente ritornava a farle la settimana dopo, perché non c'erano alternative: il lavoro dei campi era duro, anzi durissimo, gli svaghi erano inesistenti, la televisione doveva ancora essere inventata... Dei figli maschi dei Barbero soltanto un bambino di sei anni, Irnerio, abitava con i genitori. Due ragazzi più grandi, Pietro Paolo e Eusebio, lavoravano come famigli alla Badia, dove anche vivevano. Un altro figlio, di nome Gasparo, faceva invece lo stalliere a Novara, a servizio d'un nobile Tornielli; e qui dobbiamo fermarci, perché Antonia conobbe solo questi e perché un elenco completo dei figli maschi e femmine di Giuseppe e Consolata Barbero non era mai stato fatto da nessuno e sarebbe stato lungo. La stessa Consolata, quando iniziava la rassegna déi suoi figli, perdeva il conto. S'aiutava con le dita. «Questo è vivo, - diceva; - quello è morto. Questo partì nell'ottantotto per fare il carradore. Quello lo mise al mondo la mia Giulia nell'anno dell'eclisse: che anno era? Quest'altro abita a Ghemme e fa il sacrista. Quello se ne è andato di casa l'ultima volta che suo padre lo ha battuto e non ha più mandato a dire niente: forse è morto». S'asciugava gli occhi. Le dita delle mani finivano subito e allora lei si rassegnava: «Così è! Così dev'essere, donna! l figli volano, se ne vanno per il mondo: vivono, muoiono, soltanto Dio può sapere dove sono!» Difendeva il marito in ogni circostanza. «Il mio Giuseppe è un brav'uomo! - sosteneva. - Non è vero che sia vizioso. È un gran lavoratore! Lui lavora dalla mattina alla sera come un animale da fatica e soltanto quando è ubriaco cerca di molestare anche le figlie. Se fosse vizioso, cercherebbe sempre!» Se la prendeva con Zardino, con la bassa. «In questi paesi, - borbottava tra sé e sé, - l'unico divertimento è fare figli! Non c'è altro!» Se nessuno la vedeva, verso sera, Antonia attraversava l'aia dei Nidasio, girava dietro al mucchio del letame e andava a cercare Biagio per insegnargli a parlare. Biagio (il cui nome, negli atti del processo, compare sempre accompagnato dall'aggettivo stulidus: «stulidus Blasius» cioè «Biagio lo scemo») era un ragazzo di dodici o tredici anni, nipote e servo di quelle gemelle Borghesini - Agostina e Vincenza - di cui già abbiamo avuto occasione di dire che erano vicine di casa dei Nidasio, e in lite con loro. Queste gemelle Borghesini erano entrambe nubili; possedevano una bella vigna, un bell'orto ed erano anche padrone di Biagio: che gli era stato regalato quand'era ancora piccolo, da un loro fratello residente a Pavia. Il fratello s'era accorto che nel bambino qualcosa non funzionava e aveva deciso di portarlo in campagna alle sorelle, perché crescendo le aiutasse, come sta scritto negli atti del processo di Antonia: «A fine che le ajuti nel botto et conzi per loro li lavori grossi, quali che loro essendo temine no podono per se sole eonzarsi». Nessuno dice, ma s’intende agevolmente, che il bambino era figlio del fratello stesso, forse addirittura figlio legittimo; in quanto poi al verbo conzare, eonzarsi (acconciare, acconciarsi), dovette essere una parola assai diffusa in questi luoghi e in quell'epoca, a giudicare dalla frequenza con cui ricorre nelle nostre carte: non solo nel suo significato specifico di «aggiustare», «adattare» e simili, ma anche spesso con significati più generici, di «fare» o addirittura di «andare» («si conzò a Pavia»). Fosse merito dell'aria di campagna, o della sua naturale costituzione fisica, il povero Biagio crebbe e si sviluppò nel volgere di pochi anni, diventò un ragazzone grande e grosso: ma il suo cervello non cresceva di pari passo con il corpo, anzi a ben vedere non cresceva per niente. Era però molto mite e molto docile: faceva tutto quello che gli dicevano di fare e capitava spesso di vederlo riferì un testimone 46 al processo - venire su dalla vigna tirando un carretto o portando una trave sulle spalle, con dietro una delle due gemelle che lo sgridava e gli dava bastonate come si fa con gli animali, senza che lui mai accennasse a ribellarsi. Grande e grosso com'era, si faceva battere dalle gemelle e da chiunque: perciò tutti lo chiamavano «lo scemo»! Soltanto Antonia non rideva di Biagio, anzi gli si avvicinava quando le gemelle non potevano vederla; lo prendeva per mano, gli insegnava i nomi delle cose. Gli diceva: «La casa. L'albera. Il cielo», indicandogli gli oggetti nominati. (L'albera era il fico in fondo all'aia dei Nidasio). Lui guardava il dito di Antonia; sembrava trasognato. Ripeteva: «La casa. L'albera. Il zielo»; perché cadendo s'era rotto un dente davanti, e certi suoni non riusciva a pronunciarli. A volte anche Antonia lo prendeva per mano, lo faceva entrare nella stalla o dentro casa per dargli da mangiare qualcosa che aveva messo da parte apposta per lui; ma faceva ciò con molte precauzioni, perché se le gemelle Borghesini se ne fossero accorte, avrebbero citato i Nidasio davanti ai consoli di Zardino accusandoli - come già era successo in passato - «d'avergli voluto rubare il loro nipote»; «di aver dato delle vivande appetitose al loro nipote per attirarlo verso la loro casa». Lo accarezzava sulle guance, gli diceva: «Poverino. Devi aver pazienza!» «Prima o poi creperanno, quelle due vecchiacce!» Come già a San Michele, anche a Zardino Antonia di tanto intanto s'appartava, o andava a spasso per suo conto. Fu così che diventò amica del camparo Maffiolo, quello che i ragazzi del paese chiamavano il Fuente. Quando lui camminava per le stradette di Zardino, impettito come soltanto i vecchi militari sanno esserlo e così alto che passando davanti all'osteria doveva piegarsi per non urtare nell'insegna, i monelli gli gridavano: «Viva 'l Fuente! Viva 'l Fuente!» (Cioè: viva il conte di Fuentes governatore dello Stato di Milano; che, per burla, fingevano di riconoscere nel Maffiolo). Se lui invece appariva a cavallo della mula, coi piedi che quasi gli toccavano terra, i monelli gridavano: «Viva 'I Fuente e la mujé!», evviva il governatore e la sua consorte; e tiravano la coda alla mute, o addirittura ci si attaccavano per farsi trascinare. Per Antonia, invece, l'anziano soldato diventò presto «nonno Pietro»: un amico che vigilava sui suoi giochi e le raccontava com'è fatto il mondo. Capitava a volte di vederli camminare fianco a fianco, con lei che lo teneva per mano e lo ascoltava a bocca aperta, guardando in su, e lui che le parlava delle guerre che aveva combattuto, dei paesi lontani che aveva visitato, dei grandi uomini che aveva visto da vicino, e con cui aveva parlato... Di «don» Pietro Maffiolo, guardia campestre di Zardino all'epoca della nostra storia, oltreché nonno adottivo della piccola Antonia, si sapeva soltanto che era stato soldato del Re di Spagna per più di trent'anni, su vari fronti; e che poi, quando s'era ritirato nella bassa a fare il camparo, s'era portato con sé quella sua vita anteriore legata al braccio, come allora usavano i soldati, chiusa in un astuccio di latta che conteneva i suoi tre brevetti: di soldato scelto, di sergente, di alfiere; oltre ad un numero imprecisato di encomi e di attestati di merito e al diploma di congedo «con onore» firmato personalmente da sua eccellenza don Pedro Alvarez de Zufliga, capitano generale del ventisettesimo tercio (reggimento) di stanza nelle Fiandre. I suoi capelli, già allora, erano tutti grigi: ma ciò non era bastato a frenare gli impeti amorosi delle comari di Zardino e dintorni, per cui l'arrivo in paese d'uno scapolo - e d'uno scapolo così distinto, così pratico del mondo! - non era cosa di tutti i giorni. Come tante altre terre della valle del Po, all'inizio del Seicento, anche la bassa Valsesia aveva sovrabbondanza di donne, vedove e•nubili; e più d'una, dopo l'arrivo 47 Paratici e guardando attraverso le feritoie nella prima luce del mattino vedeva sotto di sé il rosso dei tetti, e le nebbie della pianura, e il Monte Rosa che affiorava da quelle nebbie, irraggiungibile, come il suo sogno di salvezza... «Ecco, - avrebbe pensato in quei suoi ultimi giorni - io vorrei essere lassù!» Arrivarono alla Fonte di Badia che il sole era già fuori dai vapori, ma l'erba nei prati era ancora bagnata di rugiada: e si stupirono, scendendo, di non vedere le Madri rispecchiarsi sulla superficie dello stagno, tra le ninfee e i rami dei salici che scendevano fino ad unirsi con i loro riflessi. «Non ci sono più le Madri!», esclamò Teresina. Si guardarono attorno. La lastra di marmo con lo gnomone conficcato nel mezzo stava sempre là, sopra i gradini di pietra grigia della fonte, a segnare le ore della bassa; sulla sua base in muratura una scritta ammoniva: TEMPORA METIMUR SONITU UMBRA PULVERE ET UNDA NAM SONUS ET LACRIMA PULVIS ET UMBRA SUMUS («Misuriamo le ore - Col suono e con l'ombra - Con la polvere e con l'onda - Perché noi stessi siamo polvere e ombra I Rumore e lacrime» e nient'altro); ma sulla riva opposta dello stagno erano stati tolti i due blocchi di marmo, informi e levigati dalle intemperie più che dalla mano dell'uomo, in cui la fantasia popolare per almeno due millenni aveva visto effigiate le più antiche divinità della regione, le Matrone celtiche: diventate Madri Matute in età pagana e poi, con il cristianesimo, le Madri. Al loro posto c'era un rustico altarino: pochi mattoni legati insieme con la calce e, sopra questi, una Madonna bianca e blu di ceramica dipinta alzava gli occhi al cielo in gesto di preghiera, tenendo tra le mani una corona del rosario. «Chissà poi a chi davano fastidio, le Madri! - disse la signora Francesca in tono contrariato. - Stavano h da sempre, e, per quello che so io, non avevano mai fatto male a nessuno!» Le due donne si sedettero sui gradini della Fonte, scoprirono le panzere e diedero ai ragazzi, come prima colazione, un uovo sodo e un pezzo di focaccia ciascuno. Si sentivano a disagio. C'era un gran silenzio, lì attorno: nemmeno un uccello che cantasse tra le fronde dei salici, né un pesce che guizzasse sulla superficie dello stagno. Forse – pensò la signora Francesca – quel posto era sempre stato così silenzioso: ma perché lei non ci aveva mai fatto caso, come ora? «Chiunque ha tolto le Madri, non gliene verrà bene!», disse Consolata: che, come quasi tutte le donne della bassa, era molto attenta a ogni genere di presagi e di superstizioni. Aggiunse, dopo un breve silenzio: «Le Madri si vendicheranno!» Teresina rifletteva. «Non eran poi così terribili! – disse infine. – Per quante storie si raccontassero su di loro... Bastava fargli un regalino quando si passava, una cosa qualsiasi: un frutto, un fiore che si raccoglieva per strada prima di arrivarci, e loro erano contente. Perché le han tolte? Chi le ha tolte?» Si rimisero in cammino che il sole era già alto e di lì a poco arrivarono in vista del paese. Ad Antonia, che non c'era mai stata prima d'allora, Biandrate sembrò una piccola città: c'erano perfino dei portici, bassi bassi, ed una strada acciottolata che, come quelle di Novara, aveva in mezzo due guide in pietra per facilitare lo scorrimento dei carri. C'era molta confusione, molta gente: carri e carretti dappertutto, e contadini vestiti della festa, coi cappelli a cono; comari agghindate 50 come la signora Francesca, con il costume della bassa Valsesia, o tutte in nero, come la Consolata Barbero; giovanotti e spose, cioè ragazze in età da marito con in testa il diadema di spilloni (l'argento) che era l'emblema della loro condizione; ragazzetti e monelli e bambini piccoli che le madri tenevano per mano o legati con una strisciolina di cuoio, perché non si perdessero. La presenza dei missionari e della tigre aveva richiamato nel borgo una quantità di girovaghi: venditori ambulanti, ciarlatani, procacciatori d'affari, giocolieri, musici, accattoni... Attorno a costoro, come sempre, s'era creata un'atmosfera rumorosa e festosa, da sagra di paese, che rendeva i nostri ragazzi eccitatissimi e li faceva sostare ad ogni passo, di scoperta in scoperta: «Laggiù! L'uomo più forte del mondo!» «Il mangiafuoco!» «L'uomo che cammina sui vetri rotti!» «Per favore, mamma, dammi almeno un mezzo soldo!» «Una moneta di rame, per comprarci lo zucchero!» Comperarono cinque canne di zucchero e Io mangiarono guardando l'uomo che camminava scalzo sopra i cocci di vetro; ma, sebbene poi ne raccontassero mirabilie, di fatto videro pochissimo, soltanto le schiene delle persone che avevano davanti e di là dalle schiene la faccia dell'acrobata che si stava spostando. Un suo compare col tamburo faceva un rumore basso e continuo d'accompagnamento e lui, l'acrobata, veniva avanti piano piano, con gli occhi chiusi per aumentare la concentrazione: tutti i muscoli del suo viso erano tirati e anche i capelli erano legati sulla sommità della testa, a formare una specie di coda. Quando arrivò in tondo, il tamburo smise di rullare; gli occhi dell'uomo si aprirono, le schiene si mossero, ci fu un applauso non troppo caloroso: qualche mano frugò nel borsellino, qualche moneta tintinnò sul selciato. La gente si disperse, mentre lo zingaro e il suo aiutante raccoglievano le monetino di rame. Il piccolo Irnerio era eccitatissimo. Correva avanti, si perdeva tra la gente; poi d'un tratto ricompariva, gridando cos'aveva scoperto. Pretendeva che le donne lo seguissero. «Di qua, - gridava: - venite! Giocano a dadi! Fate in fretta!» Non fu impresa da poco quella di togliere il bambino d'attorno a un gruppo di uomini - facce nient'affatto raccomandabili, capelli lunghi, coltellacci alle cinture - che si erano radunati, in atteggiamento tra curioso e circospetto, attorno a un tizio con una gran barba rossa ed una gran cicatrice che gli attraversava la fronte, e al suo minuscolo banco: un panchettino pieghevole, lavorato a intarsio, su cui l'unica merce esposta erano un bicchiere di legno, ed un paio di dadi. La partita ancora non era incominciata, tutto era fermo. L'uomo dalla barba rossa guardava in faccia i suoi possibili avversari e non diceva niente; teneva in mano due reali d'argento e li faceva saltellare sulla palma aperta. Consolata e Teresina dovettero portare via Irnerio sollevandolo per le braccia, di peso, mentre lui recalcitrava e piangeva tutte le sue lacrime. Un po' più in là, un mercante di vasi e di bottiglie aveva sciorinato per terra la sua mercanzia e attirava i bambini con certi uccellini di terracotta colorata che bastava riempirli d'acqua e soffiarci dentro per sentirli gorgheggiare come uccelli veri. Costavano piuttosto cari, un soldo l'uno: ma fu a quel prezzo che Irnerio si quietò, e ricominciò a sorridere con le guance ancora bagnate di pianto. A ciascuna delle ragazze, invece, la signora Francesca regalò un salvadanaio di coccio dipinto a fiorellini. Proseguirono: il mercato s'allargava con i venditori di tisane, di unguenti per qualsiasi genere di piaga, di elisir per vivere cent'anni, di panacee o rimedi universali per tutti i mali. «La teriacca! La teriacca!», gridavano certi venditori vestiti di nero da capo a piedi, come i medici: e allineavano sul banco che avevano davanti certe bottigliette piene d'un farmaco oleoso che, variando le dosi e 51 le modalità d'assunzione, curava tutto. «La teriacca di San Marco!» (Che si faceva a Venezia e veniva considerata migliore delle altre). Più avanti, si passava tra due file di statuette e di statue di ceramica dipinta, in una festa di colori: c'erano i blu degli abiti delle Madonne, i rossi accesi dei Sacri Cuori, le tinte bruciate dei Sant Antonii e dei San Franceschi, i gialli e gli ori delle aureole, i verdi dei piedestalli, gli avori e i rosa dei visi... I villani s'incantavano a guardare, con gli occhi spalancati e le bocche aperte. Esclamavano: «Che belle statue! Sembran vere!» (Volendo dire che sembravano persone, o qualcosa del genere). Comperavano certe Madonne e certi Redentori così grandi, che, per trasportarli fino al loro paese, se li dovevano legare sulla schiena, avvolti alla bell'e meglio dentro una coperta. E il mercato continuava. Si vendevano crocefissi, d'ogni misura e d'ogni materiale: in terracotta, in legno, in bronzo, in legno e bronzo, in legno e avorio, in argento, in peltro... Si vendevano reliquiari fatti a sbalzo, cesellati, con incastonate pietre e vetri colorati, con dentro – spesso una microscopica Reliquia; piccole teche ed urne di cristallo, per riporvi gli oggetti di devozione; campane di vetro sigillate, con dentro riprodotti gli episodi del Nuovo Testamento: l'Annunciazione, l'Ascensione, la Resurrezione; immagini della Via Crucis, cioè dei tormenti che Gesù Cristo ebbe a patire trascinando la sua croce fino sul luogo del martirio; lampade cosiddette «perpetue»; ceri, di tutte le grandezze e di tutte le fogge: colorati, scolpiti, ornati tutt’attorno da corone in ferro smaltato che raffiguravano tralci di vite con attaccati i grappoli dell'uva, oppure gigli e crisantemi intrecciati tra loro. Si vendevano le acque miracolose, dentro ampolle che facevano bella mostra di sé allineate sulle panche o imballate nella paglia. Secondo quanto dicevano le etichette, quelle ampolle provenivano dai luoghi santi di tutto il mondo cristiano: dall'Abbazia di Montecassino al Monte Athos, da Santiago de Compostela, in Spagna, alla Santa Casa di Loreto, nelle Marche; e l'autenticità delle acque in esse contenute era attestata da lettere patenti di reverendi abati e d'altri ecclesiastici d'alto rango, incorniciate e appese al muro dietro le spalle dei venditori. Non mancavano, naturalmente, le acque dei santuari locali: del Sacro Monte di Varano, della Madonna di Re, della Madonna Nera di Oropa, della Madonna del Latte di Gionzana: particolarmente ricercate, queste ultime due, dalle donne che non riuscivano ad avere figli. Si vendevano messali, e libri di devozione, e libri d'ore, variamente illustrati e colorati; si vendevano stampe in bianco e nero o colorate a mano di tutti i Santi elencati nel calendario ma soprattutto di quelli le cui virtù erano ben note nella bassa, e che quindi si invocavano più frequentemente nelle preghiere dei contadini: San Modulo che preserva i campi dalla grandine; San Defendente che difende i fienili dagli incendi; San Giovanni Nepomuceno che tiene a freno gli straripamenti del Sesia; San Cristoforo che impedisce le cadute; San Rocco che allontana i contagi; San Martino che protegge i mezzadri; Sant'Apollonia che cura i mali della bocca... Tutte le stampe di questi Santi, e d'altri ancora, erano appese come panni di bucato sopra le teste di quelli che passavano e che, se si fermavano a guardarle, dopo aver lodato la bravura dell'artista dicevano del Santo, o della Santa: «Gli manca solo la parola! Sembra proprio vivo!» («Sembra proprio viva!») Ad Antonia, che era vissuta dicci anni tra chiese, suore, devozioni e processioni, quel mercato di oggetti religiosi non piacque granché; ma le due donne, e le ragazze, e lo stesso Irnerio, trascorrevano di entusiasmo in entusiasmo, di sorpresa in sorpresa: per le stampe dei Santi, per le acque miracolose, per le Reliquie, per i crocefissi, per tutto. Tra un'esclamazione e l'altra, tra un acquisto e l'altro, come Dio volle arrivarono in un punto dove il mercato finiva: lì c'erano i padri missionari, i 52 quel granaio e in mezzo a quella gente, per opera di quei preti dalle grandi barbe... Sentì di odiarli. Che diritto avevano, quei preti, di rimescolare a quel modo le cose del mondo? Capitolo decimo Don Teresio Davanti a me, sul mio tavolo, mentre scrivo, c 'é una fotografia a colori che avevo fatto io stesso tanto tempo fa, forse nel 1970, forse un paio d'anni dopo, e che non speravo nemmeno più di ritrovare, tanto a lungo l'ho cercata! La fotografia d'Antonia. Sul retro della fotografia ci sono scritte alcune parole di mio pugno: «Madonna adolescente, con neo sul labbro superiore sinistro. Fotografata a...» (Tra la Valsesia e il biellese). Di Madonne adolescenti e con il neo, il pittore ambulante Bertolino d'Oltrepò ne dipinse moltissime, per anni, nella bassa ma soprattutto nelle valli alpine: e chissà, forse ancora ne é rimasta qualcuna, sul muro esterno di qualche cascinale o di qualche oratorio campestre. Questa che io ho fotografato, purtroppo, non ce più e già si vede nell'immagine che il tetto sopra l'affresco stava cedendo, e che l'acqua di vent'anni fa cominciava a infiltrarsi in quella pane di muro dove c'è la pittura. A quell'epoca, io non sapevo niente di Bertolino d'Oltrepò e non avevo ancora avuto modo di imbattermi nella storia di Antonia; ignoravo tutto di ciò che ora sto raccontando. In quell'affresco sbiadito e rovinato mi attirò il viso della Madonna: così vivo, da sembrare estraneo al resto della pittura e da farti restare là incantato a guardarlo. Quegli occhi neri come la notte, e luminosi come il giorno; quel neo sul labbro superiore; quelle labbra rosse e carnose e poi quel ricciolo ribelle che scappa fuori dal panneggio, sulla guancia sinistra... Dovevano passare molti anni prima che io venissi a sapere che le Madonne adolescenti e con il neo sono l'unica cosa riconoscibile, una sorta di firma, i quel madonnaro Bertolino d'Oltrepò di cui risulta, dagli atti del processo di Antonia, che ritrasse la strega quindicenne in un'edicola votiva di Zardino, vestita appunto da Madonna... Chissà quanti piccoli affreschi di Madonne quindicenni sono esistiti nei secoli passati tra il Monte Rosa e la bassa! E chissà anche quante preghiere sono state dette, davanti a quelle rappresentazioni devote d'una strega! Ma così è l'Italia, fortunatamente, e così è l'arte. In quanto a Bertolino, credo che lui continuasse a dipingere il viso di Antonia perché s'era innamorato di quell'immagine, o, per meglio dire, s'era innamorato di qualcosa che l'immagine gli avrebbe conservato per sempre e che nell'originale, invece, era destinato a dissolversi: l'adolescenza. Gli artisti, a volte, s'innamorano di questo genere di cose. Ciò che Bertolino volle rappresentare nel ritratto che ho davanti, e che in qualche misura e in qualche modo effettivamente rappresentò, col suo talento istintivo e coi suoi mezzi di pittore di campagna, é uno stato di grazia, prima ancora che un'età; una stagione dell'anima a cui tutti, e gli artisti più degli altri, vorrebbero tornare; una primavera in forma di donna, o di Madonna. Già altri pittori, prima di lui, avevano provato a rappresentare la primavera in forme femminili; ma Bertolino doveva soddisfare i suoi rozzi committenti, doveva dargli quelle Madonne con le aureole, e con i manti di stelle, che loro volevano: non era mica Botticelli, o Raffaello! Lui, al massimo, poteva esprimersi nei visi; e così fece. Questo viso di Madonna è una giornata di maggio nella bassa: piena di luce, e di papaveri, e di nuvole nell'acqua... 55 Devo ora introdurre un nuovo personaggio. Don Teresio Rabozzi, il giovane prete che tanta parte avrebbe avuto nella vicenda successiva di Antonia, arrivò a Zardino un sabato d'ottobre di quell'annus domini 1601, all'ora del vespero, venendo a piedi da Novara; e nessuno ancora lo conosceva o lo aspettava. Passò davanti all'Osteria della Lanterna e gli uomini seduti sotto il pergolato si voltarono tutti insieme per squadrarlo, come facevano sempre con i forestieri: chi era? Che ci faceva, a Zardino? L'abito, la croce, la bisaccia che portava a tracolla erano quelli stessi dei pellegrini dell'Anno Santo, o, come allora ancora si diceva, dei romei; ma l'Anno Santo era finito da dieci mesi, e la strada dove il pellegrino era incamminato andava a perdersi fuori del villaggio, tra i canneti del Sesia. Quasi gli avesse letto nel pensiero, il forestiero svoltò; attraversò la piazzetta della chiesa ed entrò senza esitazioni, come sarebbe potuto entrare in casa propria, nella casa del cappellano don Michele: che, finché non si ritirava per andare a dormire, lasciava sempre la porta aperta. Dunque, la faccenda si complicava! Massari e famigli scrollarono le spalle, ripresero in mano i bicchieri e le carte da gioco che avevano messo giù quando il forestiero era apparso, tornarono a battere i pugni sopra il tavolo o a discutere d'argomenti irrilevanti con molta foga, come facevano di solito per passare il tempo; in realtà, attendevano gli sviluppi di ciò che avevano appena visto, si chiedevano chi potesse essere quel pellegrino: un amico di don Michele? Un quistone? Un chierico vagante? E, in ogni caso: perché era venuto proprio lì, nel loro villaggio, a cercare il prete? Trascorsero una decina di minuti, giusto il tempo che si facesse buio nella piazza e che Assalonne, cioè l'oste, venisse fuori con la torcia sul bastone per accendere quella lanterna in ferro battuto che dava luce e nome all'osteria: e poi cominciarono a sentirsi degli strani rumori dalla casa del prete, di porte sbattute e di voci concitate, di vetri rotti; si videro luci di candele che si muovevano velocemente da una finestra all'altra, da un piano all'altro. Si sentì una voce che gridava: «Fornicatore! Servo del Demonio! Dall'altra parte della casa il cane di don Michele abbaiava e latrava come se l'avessero scorticato vivo e tutti i cani di Zardino si scalmanavano a rispondergli; ma ancora non si capiva cosa stésse succedendo, là dentro, e comunque tutto succedeva così in fretta! Finché si spalancò una finestra al piano superiore e cominciarono a venir giù uno dopo l'altro i grandi vasi di ceramica della farmacia del prete, con dentro le erbe e i sali minerali e gli altri medicamenti. Cadevano sui ciottoli rompendosi in un certo modo che sembrava scoppiassero, mentre di sopra il forestiero gridava con tutto il fiato che aveva in corpo: «Usurpatore dei sacri uffici! Sacerdote del Diavolo! Falso prete!» «Don Michele! – chiamavano gli uomini dell'osteria, tenendosi a prudente distanza dalla traiettoria di vasi, alambicchi e mortai ch'erano stati, per quasi quindici anni, le uniche attrezzature farmaceutiche esistenti in quella parte della bassa. – Cosa sta succedendo? Rispondete!« «Presto! Presto! Cercate i consoli e il camparo! - diceva anche qualcuno delle retrovie a qualcun altro, nell'ombra. - Chiamate gente! C'è un bandito nella casa del prete!» «Seminatore di scandalo! - strillava intanto il bandito dentro casa. - Corruttore di anime! Diavolo incarnato!» Quando anche l'ultimo vaso d'erbe e l'ultimo alambicco ebbero raggiunto quelli che li avevano preceduti, fracassandosi sui ciottoli, e tutta la piazza fu piena di cocci, e fragrante d'erbe secche e di elisir come una bottega di farmacista, ci fu un momento di silenzio; poi la porta della canonica si apri e il forestiero venne fuori, 56 reggendo un candeliere in una mano e spingendo avanti con l'altra don Michele, gli intimò: «Parla. Spiega a questa gente chi sono io e cosa sono venuto a fare a Zardino. Digli infine una verità, dopo tante menzogne!» Don Michele aprì la bocca per parlare, ma non ci riuscì e si mise a piangere. Proprio in quell'istante alcune voci gridarono: «Largo! Largo! Lasciate passare il camparo!» La piccola folla si aprì e nella luce delle torce venne avanti «don» Pietro, altissimo, magrissimo, tenendo il bastone uncinato sulla spalla sinistra come se fosse stato un archibugio, e la mano destra sollevata in un gesto che significava, all'incirca: fermi tutti! C'è qua il camparo e tutto si risolve. Domandò al forestiero: «Usted, chi siete?» Per tutta risposta il misterioso pellegrino si rivolse di nuovo a don Michele, gli gridò in viso: «Rispondi! Diglielo tu a questa gente, sciagurato, chi sono io e chi mi manda tra di loro! Diglielo forte, che ti sentano tutti!» «È il nuovo cappellano, - singhiozzò don Michele; tenendo la testa abbassata con il mento sul petto. - Ha portato le lettere patenti di sua signoria il vescovo di Novara. Non c'è niente da fare: è un vero prete!» La gente, adesso, mormorava, trasecolava: »Questa, poi...» «Vescovo o non vescovo, - disse uno più deciso degli altri, - se dobbiamo mandarlo via, lo mandiamo via subito»; ma si sentiva dalla voce che non c'era forza in quell'affermazione, e che nessuno, alla fine, avrebbe mosso un dito in difesa del vecchio cappellano. «Diteci voi, don Michele: cosa dobbiamo fare?» «Ve l'ho già detto, - gli rispose don Michele. - Non c'è niente da fare. Andate a casa». E il nuovo cappellano, don Teresio, gli gridò dietro: «Vi aspetto tutti domani, per la santa messa!» «Al primo tòcco! Mi raccomando! Tutti in chiesa!» Quella sera nessuno riprese in mano le carte, all'Osteria della Lanterna di Zardino; gli uomini parlarono, parlarono e quando gli orologi dei campanili della bassa batterono tre colpi (mezzanotte e mezza), andarono a dormire. Il giorno dopo, tutto il paese era in chiesa per vedere da vicino quella gran novità, del nuovo cappellano arrivato da Novara. In quanto a lui, don Teresio, doveva avere trascorso tutta la notte a fare pulizie perché la chiesa appariva rassettata da cima a fondo: i pavimenti erano stati lavati, gli affreschi rinfrescati con la spugna, gli ottoni lucidati brillavano come oro. Nei vani delle finestre e tra le crociere della volta non era rimasta una sola ragnatela, delle centinaia che avevano fatto bella mostra di sé fino al giorno precedente. La chiesa tutta sfolgorava di candele: a memoria d'uomo, non ce n'erano mai state tante accese in una volta sola. Il nuovo cappellano, visto alla luce del giorno, era giovanissimo – poteva avere al massimo venticinque anni – e ancor più magro e più pallido di quanto fosse sembrato poche ore prima, di notte, nella luce delle lanterne e delle torce che deformava gli oggetti e li faceva sembrare più grandi. Aveva occhiaie incavate, pelle chiara e guance lisce come quelle delle donne, con un poco di barba mal rasata soltanto sul mento. Ritto sulla porta della chiesa, smistò i fedeli: da una parte gli uomini, dall'altra le donne; davanti a tutti, i bambini; i ragazzi e le ragazze in età da marito rispettivamente alla destra e alla sinistra dell'altare, negli scanni del coro. Poi, sparì: e mentre già i massari protestavano battendo i piedi e borbottando a mezza voce («Cosa stiamo aspettando? Che si sbrighi! Abbiamo da fare, noialtri!») ricomparve vestito coi paramenti di seta viola ricamata d'oro. Andò all'altare: s'inginocchiò fino a toccare il 57 unguenti per il corpo e compiendo ogni genere di azioni, indegne d'un vero prete. Citò i Vangeli: «La mia casa era la casa del Signore, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri! Un vero prete - disse don Teresio, indicando se stesso - deve vivere, secondo dicono le Scritture, delle elemosine e dei tributi dei fedeli». S'infervorò, sollevandosi sulle punte dei piedi come aveva fatto all'inizio della messa, quando davvero per un momento le comari avevano potuto credere che stesse per alzarsi in volo. Gridò, mettendosi nei panni di Dio padre: «Io, Dio solo in tre Persone, vi domando: che fine hanno fatto, in questi anni, le decime che mi erano dovute? Egli apendizii, e i donatici, legati per tradizione a tutte le feste del calendario liturgico, e ai nomi dei miei santi Martiri, chi me li ha sottratti? E il diritto di macinare, e di trarre acqua, e di avere tante carte di legna ad ogni inverno, che stanno scritti negli atti dei notai, quali piedi sacrileghi li hanno calpestati?» Puntò adito contro gli uomini: «Tu. E tu. E tu. E tu. Voi tutti, fornicatori ed anche ladri, perché avete rubato a dio ciò che era di Dio!» La voce ora gli tremava per l'ira, ed anche il braccio. Restò così in silenzio a fissare i suoi nuovi parrocchiani, più o meno, nello stesso atteggiamento in cui Michelangelo, negli affreschi della Cappella Sistina, aveva rappresentato il Cristo giudice: guai a voi! Poi però abbassò il braccio, unì le mani sul petto in gesto di preghiera. Disse: «Di ciò che era dovuto a Dio negli anni trascorsi, e che non gli è stato dato, sarà lui stesso a presentarvi il conto quando morirete. Di ciò che invece gli dovete nel presente, per l'anno in corso e per i mesi che verranno, sarò io, suo servitore, a chiedervi ragione. Con i miei poveri mezzi, se questi, come mi auguro, basteranno; oppure anche ricorrendo alle leggi degli uomini ed ai loro Tribunali, se sarà necessario per la maggior gloria di Dio e della sua santa Chiesa. Così sia». Capitolo undicesimo Il Caccetta Le foglie caddero e il cielo s'ingrigì: vennero l'inverno, e le arature, e la prima neve. Tenendo fede alle promesse, don Teresio si sforzò in ogni momento e in ogni modo d'intristire e di affliggere gli abitanti di Zardino con l'assiduità della sua presenza nelle case e nei cortili, con le sue continue funzioni religiose, tutte obbligatorie («di precetto») e importantissime, anzi indispensabili per salvare l'anima; con le sue assillanti rivendicazioni di donatici e di decime e con il frastuono delle sue campane: che suonava a distesa tutti i giorni, sei o sette volte ogni giorno ed anche più; per richiamare quali folle - diceva Pietro il camparo - «Dios lo sabe» («Lo sa Iddio»). Ma, nonostante la sua attività fosse frenetica, e la sua fantasia fosse inesauribile, a Zardino come in tutti gli altri villaggi della bassa quella fine d'anno del 1601 e i primi mesi del 1602 sarebbero poi stati ricordati dalla gente non come l'inverno di don Teresio ma come d'inverno del Caccetta»: che fu invece un feudatario novarese - si chiamava, in realtà, Giovan Battista Caccia - ridottosi, per via di bandi e di condanne, sull'altra riva del Sesia, a Gattinara; negli Stati del duca di Savoia. Da lì, approfittando della magra del fiume ed anche dello scarso controllo che gli spagnoli mantenevano su questa frontiera, considerata sicura per via dell'alleanza con Carlo Emanuele I, quasi ogni giorno gli uomini del Caccetta si spingevano nei villaggi della bassa a fare razzie; e in tutte le stalle di tutti i villaggi, e anche a Zardino, non si parlava d'altro che delle loro imprese. Rapimenti, incendi, delitti: c'era materia per ogni genere di storie, e per molti anni! Un tale detto il 60 Barbavara - si raccontava tra l'altro nelle stalle - e un tale detto il Marchesino, notoriamente uomini del Caccia, attraversato il Sesia con alcuni altri armati avevano preso per strada a Carpignano due gemelle di tredici anni, tali Costanza e Vincenzina Mossotto figlie d'un barbiere Mossotto che abitava in quei paraggi, e se le erano portate di là dal fiume. E ancora: era stato dato fuoco a un cascinale a un miglio forse dal borgo di Accetto; rubati cinque cavalli; il proprietario, un brav'uomo, tale massaro Nicola De Dominicis, sfinito a bastonate era morto dopo pochi giorni senza aver più ripreso conoscenza e senza aver parlato con alcuno. In compenso, una tale Iselda detta la Magistrina di anni ventiquattro di cui si erano perse le tracce da assai tempo, e che i genitori avevano pianto per morta, era ricomparsa al suo paese, Vicolungo, ed attendeva di partorire l'Anticristo di cui il Caccetta personalmente, o qualcuno dei banditi che stavano con lui, l'avevano ingravidata... Questi ed altri racconti si facevano ogni sera in tutte le stalle della bassa e tutte le ragazze, e tra esse Antonia, dovevano ascoltarli con il loro seguito di prescrizioni, di divieti e di raccomandazioni rivolto specialmente a loro: stessero attente - gli dicevano le comari - a non uscire da sole, per nessun motivo! A non aprire la porta di casa a gente sconosciuta! A non commettere imprudenze d'alcun genere! A non far questo e a non far quello! Dai e dai, a forza di sentirne parlare, finì che molte se li sognarono, i banditi. Che venivano a rapire proprio loro e le portavano di là dal Sesia, in un gran castello; dove, seduto in trono ad aspettarle, c'era lui, il Caccetta; e non era né brutto né malvagio come dicevano le loro madri. Anzi, al contrario: era il Principe Azzurro delle favole. E, come accade nelle favole, le sposava! Il Caccetta... Se la fama degli uomini non fosse così effimera, e la loro memoria così insignificante per gli uomini stessi, come è di fatto, già da molto tempo la vita del nobile novarese Giovan Battista Caccia sarebbe stata ricomposta in carta e inchiostro, in un numero ragionevole di capitoli, e restituita al suo romanzo; che, invece, aspetta ancora di essere scritto. Cercherò di rimediare per quanto mi è possibile dicendo di Giovan Battista Caccia che in quell'inverno del 1602 non aveva ancora compiuto trentun anni, essendo nato nel suo castello di Briona il 22 luglio 1571, sotto il segno del Cancro: di cui portò fin che visse quasi tutti i caratteri negativi, sia fisici che morali. Era infatti molto basso di statura, un omiciattolo (perciò gli venne affibbiato quel diminutivospregiativo: Caccetta!); con una vistosa sproporzione tra la parte superiore del corpo, normalmente sviluppata c anzi robusta, e le gambe, corte corte e gracili. Erede d'un nome illustre, e d'una cospicua fortuna, crebbe, beato tra le donne, nei suoi palazzi di Novara e di Milano, e nel castello di Briona: avendo come maestro e istitutore un prete Alciato - quello stesso prete Alciato che ritroveremo, divenuto monsignore, tra i giudici del processo d'eresia a carico d'Antonia - che si limitò ad assecondarne tutte le velleità, a compiacerne tutti i capricci, a giustificarne tutti gli impulsi; intimamente convinto com'era, e come era anche una gran parte del clero di quell'epoca, che nel mondo esistono due categorie di persone, quelle che possono tutto e quelle che non possono niente; e che se anche poi le nude anime sono uguali davanti a Dio nell'aldilà, nell'aldiqua le differenze tra gli uomini sono così grandi che ammazzare un contadino, per un feudatario, non è colpa più grave che prendere al laccio un coniglio, o pescare una trota. Quell'idea del mondo, già presente nel maestro, venne dunque assimilata dall'allievo che poi anche, crescendo, la perfezionò e la integrò con un'opinione altissima e certamente eccessiva del suo intelletto e del suo 61 rango: considerati, dal giovane Giovan Battista Caccia, molto superiori all'intelletto e al rango di quasi tutti gli altri esseri umani. Prima ancora di compiere i vent'anni, il nostro eroe sposò un'Antonia Tornielli: senz'amore, e senz'altro interesse reciproco, che non fosse il calcolo delle rispettive famiglie, tra le più illustri e facoltose di questa pane d'Italia; ne ebbe un figlio, che chiamò Gregorio. In età imprecisata, ma certamente anteriore ai venticinque anni, vide e conobbe in Novara una donna molto bella, molto frivola, da poco vedova, che tutti corteggiavano: e provò per lei - o credette di provare - un'attrazione immediata e irresistibile. «Quella donna, - pensò, - dev'essere mia: a qualunque costo!» La vedova allegra (sarebbe stata forse meno allegra, avesse potuto leggere le idee che passavano nella testa del Caccetta) veniva da Milano, si chiamava Margherita Casati e aveva una relazione nemmeno troppo segreta con quell'Agostino Canobio che era, all'epoca dei fatti, il giovane più corteggiato dalle ragazze novaresi, quello con cui tutte sognavano di sposarsi: erede unico di una famiglia di banchieri, aveva anche la fortuna d'essere un bel giovane, abbastanza alto di statura, proporzionato di membra e bianco e rosso di salute. Tutto l'opposto del nostro feudatario che era piccolo, sgraziato e giallo in viso e che comunque si buttò all'assalto della dama non pensando di avere un rivale e di poterlo mai avere: chi, al mondo, avrebbe osato mettersi contro uno come lui? Agostino Canobio gli rise in faccia; in quanto a lei, alla bella Margherita, qualche sospetto della pericolosità di quel nuovo spasimante dovette averlo, perché finse di prenderlo sul serio, gli disse: «Signor mio, come potrei corrispondere a questo sentimento che dite di provare per me, e che pure mi lusinga moltissimo? Voi siete un uomo ammogliato, io sono una donna onesta; sicché, vedete voi stesso che una nostra relazione non potrebbe esistere, e, esistendo, non potrebbe andare a buon fine«. Il Caccetta lì per lì non diede risposta; ma dopo pochi giorni, improvvisamente, la gentildonna Antonia Tornielli sposata Caccia morì: d'un arresto cardiaco, dissero i dottori; di veleno, dissero i novaresi; e, quasi a dargli ragione, in quella stessa settimana morì anche il cuoco del Caccetta, precipitando da un tetto: dove Dio solo sa cosa fosse andato a farci. Margherita Casati, che capì l'antifona, scappò a Milano; non prima, però, che il Caccetta fosse venuto a sapere che lei era stata l'amante del Canobio, e lo era ancora: la qual notizia – riferì poi chi lo conosceva - gli procurò il più violento e durevole accesso d'ira della sua vita. Dunque le cose erano andate tant'oltre che un borghesuccio, un nipote d'usurai, aveva avuto il coraggio o l'incoscienza di credere di potersi opporre a lui, e addirittura di poter vincere! È a questo punto della storia che i fatti precipitano e i morti non si contano più: perché il Caccetta, cercando di ammazzare il Canobio, gli ammazza amici, conoscenti, parenti, guardie del corpo, gli fa il vuoto attorno; mentre il Canobio, che non s'aspettava una simile tempesta e che a stento riesce a salvare la pelle (morirà poi, in circostanze poco chiare, nel 1602, in età di ventisette anni: forse infine il Caccetta era riuscito a toglierlo di mezzo, o forse invece era destino del Canobio morir giovane e la sua morte fu naturale: chissà!), un po' cerca di contrattaccare, facendo ammazzare i gregari del Caccetta dai suoi gregari, un po' si appella alla legge e agli uomini che la rappresentano, in Novara e in Milano:'al capitano di giustizia, al podestà, ai giudici criminali. Pensino loro, cui spetta per dovere, a difenderlo dalla furia di un pazzo scatenato che ammazza gente, brucia case, e nemmeno si capisce perché lo faccia! La vittoria del Caccetta sul Canobio, totale e travolgente, ha però almeno due caratteristiche che, se non si riferissero a fatti tragici, sarebbero certamente comiche: innanzitutto, é una vittoria 62 un nome che da solo bastava a incutere spavento: «II Caccetta! Arriva il Caccetta!» La povera Consolata fu presa dal panico. Cosa doveva fare, per sé e per le ragazze? Tornare a casa non era più possibile, perché per far ciò si sarebbe dovuto attraversare la strada e invece la strada oltre la siepe era già tutta piena di uomini a cavallo: c"era anche una carrozza chiusa, con le tendine tirate a coprire i vetri; quando una tendina, per un momento, si scostò, apparve un viso di donna. Non avendo altre vie di scampo, Consolata afferrò entrambe le ragazze, le piegò, le spinse con forza dentro la siepe di biancospino che cingeva la zolla; cercò di entrarci anche lei, mettendosi in ginocchio per non essere vista. Gli aculei del biancospino laceravano la pelle e la stoffa leggera dei vestiti, entravano nella carne facendola sanguinare: ma nessuna delle tre donne disse «ahi», nessuna si mosse per trovare una posizione più comoda. Anna Chiara raccontò poi d'avere trattenuto il fiato il più possibile e d'essere rimasta immobile, a occhi chiusi, finché i banditi se ne furono andati. Antonia, invece, guardò tutto e vide tutto; nonostante i cavalli fossero così vicini alla siepe che se ne poteva sentire l'odore, e nonostante lo spavento che provava quando i banditi si voltavano dalla sua pane, quei tuffi al cuore: mi hanno vista! Stanno guardando proprio me! In lei, più forte dello spavento fu la curiosità. Vide il Caccetta; stava ritto a cavallo al centro della piazza, e diceva ai suoi bravacci: «Se non vogliono venire, portateceli per forza: ma badate bene, che non vi avvenga anche per sbaglio di far del male ad alcuno!» Tutta la piazza era piena di cavalieri e il Caccetta a tratti si vedeva, a tratti no; nonostante le sue imprese e la sua fama era mingherlino, un omiciattolo, e per giunta brutto; la pelle del suo viso aveva il colore stesso della cera con cui si fanno le candele, la sua fronte era rotonda e prominente e anche i suoi occhi erano sporgenti e lucidi - pensò Antonia - come di solito sono quelli degli ammalati di mal sottile. Alcuni cavalieri con in mano gli archibugi, intanto, bussavano alle finestre ed entravano nei cortili, gridavano: «Dove sono i consoli?» Ed anche: «Venite fuori, mangiaterra, tanto nessuno Vi farà del male!» In pochi minuti, riuscirono a radunare sul sagrato della chiesa una trentina di abitanti di Zardino: c'erano l'oste della Lanterna, Assalonne, con i due figli maschi; c'erano i consoli in carica quell'anno, tali Benvenuto e Giacomo Ligrina; c'erano alcuni famigli e schiavandaf e tutti si appellavano alla clemenza del Caccetta, dicevano: sii buono, non ti abbiamo fatto niente, siamo dei poveri mangiaterra, cosa vuoi da noi? Quando gli sembrò che fossero in numero sufficiente, il Caccetta fece segno ai suoi uomini che arretrassero e si mettessero in disparte. Domandò ai contadini: «Sapete voi chi io mi sono? Mi riconoscete?» «Sì, - disse Giacomo Ligrina, tenendo in mano il cappello, come lutti gli altri: - Tu sei il nobile Giovan Battista Caccia, feudatario della Rocca di Briona e signor nostro. Comanda c noi ti ubbidiremo». Il Caccetta mostrò il pugno sinistro, con il pollice alzato. Chiese ancora: «Sapete voi che significa questo gesto?» Nessuno lo sapeva e nessuno rispose. «Io sono quel famoso che tutti chiamano il Caccetta, - disse il Caccetta: - e se fosse vera la metà delle favole che in Milano e in Novara si raccontano sul mio conto, dovrei essere un animale crudelissimo, dedito al sangue e ad ogni sorta di eccessi, che ammazza, brucia e fa rapire le vergini. Invece voi vedete, e lo dice anche il proverbio, che il Diavolo non è così brutto come si dipinge». Si drizzò sul cavallo in un certo modo che Antonia pensò: «Crede d'esser bello!» 65 Ma fu affare d'un attimo. «Stringete il pugno sinistro come faccio io, - disse poi subito il Caccetta ai contadini. - Alzate il pollice. Venite qua, e toccate il vostro pollice con il mio, e dite forte viva Franza, e viva il Roi: perché il vostro signore è Enrico, il Roi!» I cavalieri ch'erano al seguito del Caccetta si tolsero i cappelli piumati e li agitarono al di sopra delle loro teste, gridando tutti assieme: «Abbasso Spagna! Viva Franza! Viva il Roi!» Qualcuno anche sparò per aria dei colpi d'archibugio che rieccheggiarono tra le case, facendo uggiolare e ululare i cani del paese. «Viva Franza! Viva il Roi!», gridarono i contadini; senza molta convinzione, però. «Io ora vado nella città di Parma», disse il Caccetta agli abitanti di Zardino; e avrebbe potuto dirgli qualunque cosa, tanto era strano e quasi assurdo quel fatto, che un feudatario si fermasse in un villaggio per raccontare ai bifolchi che abitavano lì dove lui stava andando, e perché ci andava. «Sua altezza il duca mi ha mandato a chiamare e ciò significa che ci sono in vista grandi mutamenti: sappiatelo! Tra qualche mese, al massimo tra un anno, io ripasserò di qui e allora tutto sarà cambiato, perché sui castelli di Novara e di Milano s'alzerà la bandiera con il giglio. La bandiera del Roi!» «Viva il Roi!», ripeterono i contadini più forte che poterono. E gli sembrò di cavarsela fin troppo a buon mercato, che il Caccetta se ne andasse così: senza prendergli né donne né cavalli e senza aver bruciato nemmeno una casa. Pensarono che probabilmente era diventato matto e che loro, comunque, avevano avuto una gran fortuna. Della Franza e del Roi non pensarono granché; anzi, a voler proprio dire le cose come stanno, non pensarono niente. Capitolo dodicesimo I Corpi Santi Faceva freddo e pioveva, quel giorno di marzo dell'anno del Signore 1603, quando tutte le campane della bassa incominciarono a suonare all'impazzata, rispondendosi da un paese all'altro e continuando per delle mezzore come di solito accadeva soltanto la mattina di Pasqua, per comunicare al mondo la lieta novella: finalmente, erano arrivati da Roma i Corpi Santi! Monsignor Cavagna aveva mantenuto la promessa che aveva fatto l'anno precedente, di portare a Novara tanti Corpi di Santi Martiri della fede e tante nuove Reliquie da dotarne ogni più sperduta parrocchia ed ogni chiesa della diocesi! Don Teresio, a Zardino, non stava nella pelle per la contentezza. Dopo aver scampanato in lungo e in largo fino a riempirsi le mani di vesciche, s'armò d'una bisaccia da pellegrino, d'un mantello pesante con un cappuccio di cuoio e d'un paio di stivaloni pure in cuoio, di quelli stessi che i contadini usavano per entrare nei fossi e così equipaggiato se ne andò a Novara, attraversando tutto il fango e tutta l'acqua dei fontanili e dei canali straripati lungo il percorso. Tornò dopo tre giorni - era ormai sabato - quando già molti abitanti di Zardino incominciava- no a sperare che fosse affogato nel guado dell'Agogna, e che il paese se ne fosse liberato. Al contrario, lui non solo stava bene, ma era anche fuori di sé per la contentezza, così eccitato e così felice che sembrava ubriaco: cantava camminando, benediva tutti quelli che incontrava, uomini e animali, gridava al cielo le lodi del Signore. Portava il mantello arrotolato sotto il braccio perché nel frattempo aveva smesso di piovere, il cielo si schiariva: i nuvoloni grigi che erano gravati sulla bassa 66 per otto giorni, ininterrottamente, si diradavano e s'alzavano fino a scoprire le montagne lontane, aprendosi in squarci d'azzurro profondo, quasi blu, sopra un paesaggio infradiciato e vaporante che tornava a bearsi nel sole della primavera. Andò a casa, difilato, a cambiarsi d'abito e poi, con in mano una campanella che suonando segnalava i suoi spostamenti da un cortile all'altro, incominciò a fare il giro delle case per informare gli abitanti di Zardino dei fatti miracolosi e grandiosi che erano accaduti in quei giorni a Novara e che avrebbero trasformato la loro città in un grandissimo centro di fede e di devozione: secondo, per importanza, solamente a Roma! I Corpi Santi - raccontava don Teresio - erano arrivati a San Martino del Basto, dove c'era il traghetto sul Ticino, dalla parte di Milano, lunedì; e venivano direttamente da Roma, e dalle Catacombe. Occupavano un carro a tre assi: un carro intero, tutto pieno di Corpi e di Reliquie che monsignor Giovan Battista Cavagna da Momo aveva tirato fuori personalmente, con le sue stesse mani, dalle nuove Catacombe, per portarle a Novara e ai novaresi; anche a quelli del contado, si capisce! Anche a Zardino! («Si, cari, si, - sussurrava don Teresio ai contadini che lo guardavano stupe fatti. - È quasi certo, oramai! Anche a noi verrà dato un Corpo Santo! Un Corpo intero! $ una cosa da non crederci!») Il carro poi - proseguiva don Teresio - era rimasto due giorni fermo a San Martino, per permettere al vicario generale del vescovo Bascapè, monsignor Orazio Besozzi, d'andare a prenderlo in consegna a nome del vescovo, e ai fedeli della città e delle campagne di preparare lungo tutto il percorso i più solenni festeggiamenti che si fossero mai visti in questa parte dello Stato di Milano: il che fu fatto. Mercoledì, piovendo ancora a dirotto, il carro infine s'era mosso ed era arrivato a Novara tra due ali di popolo festante; al suo passaggio erano accaduti fatti prodigiosi, in vari luoghi: una donna così incurvata dall'artrite che camminava tenendo il viso all'altezza delle ginocchia improvvisamente s'era raddrizzata, un muto dalla nascita aveva parlato, un infedele s'era convertito prosternandosi nel fango davanti al carro delle Reliquie, ed era stato sollevato e confortato da monsignor Cavagna in persona; che ne aveva ascoltato la prima confessione e poi anche l'aveva battezzato raccogliendo un poco di pioggia nel cavo della mano, direttamente con l'acqua che scendeva dal cielo. «E se questi non sono miracoli, - diceva don Teresio sollevando l'indice, - allora io non so più riconoscere un miracolo, e ho studiato per nulla, e non sono prete!» Naturalmente bisognava aspettare la convalida della Chiesa per chiamare miracoli quei prodigi, e sarebbe passato del tempo: ma lui che vi aveva assistito, intanto già poteva raccontarli. Quando poi il carro con i Corpi Santi era arrivato in vista di Novara, e faceva buio, le mura della città erano apparse da lontano tutte illuminate, nonostante la pioggia, «come le mura di Sion». Monsignor Carlo Bascapè era uscito dal Duomo per andare incontro al carro, sotto il baldacchino portato dagli allievi del seminario e preceduto da una mirabile processione di canonici, clero, nobili e confraternite; mai, a memoria d'uomo, s'era vista a Novara una festa così splendida, con un tempo così orribile! Archi trionfali di legno verniciato, che purtroppo la pioggia aveva mandato in rovina in poche ore, erano stati eretti a tutti gli ingressi della città, e i più grandiosi fuori Porta Sant'Agabio, da dove il carro sarebbe dovuto passare; fiori e frutti - quelli che la stagione permetteva - erano stati sparsi per terra lungo tutto il tragitto, fino al Duomo; non c'era balcone che non avesse un qualche drappo, né finestra che non avesse un qualche lume! Il carro poi era stato portato dentro il Duomo, proprio di , fronte all'altare maggiore: non 67 cui lui s'era calato («A rischio della vital», sussurravano le dame, tra incredule e allibite) per assicurare a Novara e alla sua diocesi quel po po' di bottino che poi infatti era riuscito a portargli: un carro pieno di Reliquie! Questi Corpi Santi - dicevano le dame - a differenza di quelli dell'anno precedente, non erano mica stati comperati sul libero mercato dove bastava avere soldi e ti davano tutti i Corpi che volevi. Nossignore! Questi erano Corpi che nemmeno si sapeva ci fossero, e dove fossero; bisognava tirarli fuori da sottoterra come si fa con le trifole (i tartufi) e lui appunto, il canonico Cavagna, grasso e grosso e non più giovane com'era, s'era trasformato in una sorta di cane da trifola: arrancando sottoterra per certi cunicoli così stretti che bisognava camminarci ginocchioni, o addirittura sdraiati, con i gomiti, e dove tutto poteva franare; uno starnuto, e veniva giù il mondo! Senza respirare, per via dell'aria che mancava! Sorretto solo - il Cavagna - dalla fede e dal richiamo silenzioso di quei Corpi che gli gridavano nelle tenebre: «Cavagna! Da questa parte! Ci senti? Siamo qua!» A rischio di diventare lui stesso un santo Martire della fede; cosa tutt'altro che impossibile, laggiù a cinquanta braccia di profondità, ma non temuta, anzi desiderata; l'eroico monsignore - sussurravano le dame - in fondo in fondo cercava proprio quella morte, che gli avrebbe consentito di restare laggiù per sempre in compagnia dei Martiri! L'aveva detto lui stesso nel salotto di una di loro, mentre si riempiva il bicchiere d'un vino aspro e scintillante delle colline di Fara, o di Sizzano. S'era fermato con la bottiglia a mezz'aria, s'era chiesto: «Quale fine migliore può augurarsi un cristiano, che morire nelle Catacombe?» Le dame andavano in visibilio: «Monsignore, non fate complimenti: un altro poco di gratòn... Tanto, sappiamo che vi piacciono!» «Assaggiate questo vino bianco di Barengo: lo fa mio suocero!» Domandavano: «Si vedeva qualcosa, laggiù sottoterra? Era proprio buio?» «Come in fondo a un pozzo», assicurava monsignor Cavagna: introducendo con due dita i gratòn nella boccuccia che s'apriva, per riceverli, in forma di cuore. Spiegava: «Quando si è là sotto ci si illumina la strada con certe piccole lanterne, in tutto simili a quelle che si trovano nelle tombe dei Martiri, e se l'olio si rovescia, buonanotte! Si rimane al buio!» «Gradite un poco di questo nocciolato, - gli dicevano le dame. - L'abbiamo fatto ieri!, «Mangiate ancora due biscottini delle monache! Questi dàn forza! Un po' di torta! Non fatevi pregare!» Brindavano: «Alla vostra prossima impresa nelle Catacombe! Alla prossima esplorazione!» Promettevano: «Pregheremo Dio per voi! Gli chiederemo di aiutarvi!» Passò così una settimana. Un martedì - s'era orinai nel mese d'aprileentrò in Novara da Porta Sant'Agabio, cioè venendo dalla strada di Milano, un personaggio misterioso, che nessuno vide. Costui viaggiava dentro una lettiga priva di insegne, probabilmente noleggiata all'ultima stazione di posta, con le tendine tirate e i vetri chiusi; era scortato da due gentiluomini barbuti che nessuno, a Novara, aveva mai avuto modo di conoscere prima d'allora e da sei cavalieri armati d'elmo e di corazza, con le divise a bande verticali bianche e blu: chi si intendeva di eserciti e di armati disse che quelli erano svizzeri, i famosi «soldati del Papa». L'arrivo del personaggio misterioso portò scompiglio. Si fermò il traffico alla Porta Sant'Agabio, ci furono scambi concitati di messaggi tra la porta e il castello; dal castello, arrivò dopo pochi minuti un ufficiale spagnolo che accompagnò personalmente il forestiero - doveva 70 essere, stando alle voci che poi corsero in città, un vicario del procuratore fiscale cioè del ministro di Giustizia dello Stato del Papa ed il suo seguito fin dentro il palazzo del vescovo e lì, per quanto riguarda la nostra storia, dell'illustre personaggio si perdono le tracce. La voce pubblica, che ne segnalò l'arrivo, trascurò poi di registrarne la partenza: avvenuta nei giorni successivi, senza tanto strepito e probabilmente alle prime luci dell'alba. S'occupò invece degli effetti della sua visita a Novara, che furono immediati e vistosi. Il giorno successivo, senza nessuna spiegazione o ragione apparente, sparirono gli addobbi dalle strade e dalle chiese e i Corpi Santi dal Duomo; sparì perfino il canonico Cavagna, senza che si sapesse cosa gli era capitato: una disgrazia, una malattia improvvisa? Chi veniva in Curia a brigare per avere assegnato alla sua chiesa un Corpo Santo - come don Teresio che arrivava da Zardino, e altri preti che arrivavano da più lontano ancora, dalla Valsesia o dalla Val d'Ossola o dalle valli che si affacciano sulla riviera del lago Maggiore - riceveva risposte disarmanti, del tipo: «I Corpi? A quali Corpi intendete riferirvi?»; oppure anche veniva invitato a ritornare in un altro giorno, perché, gli spiegava il monsignore cui s'era rivolto, «io non so niente di tutta questa faccenda, e chi ne sa qualcosa, ora non c'è». La verità incominciò poi a filtrare e a farsi strada nei giorni e nelle settimane successive, per frammenti e per voci incontrollate che a poco a poco ricevevano conferme, si rafforzavano, diventavano certezze: ed era una storia da lasciare senza fiato, a bocca aperta... Un imbroglio! I Corpi Santi, le Reliquie del Cavagna... Ossa di cani! Nella migliore delle ipotesi, ossa umane di chissà quali cimiteri attorno a Roma: non certo ossa di Santi! Il vescovo, le autorità, la città intera erano vittime di un imbroglio; così grande e così scellerato che anche gli scherzi dei buontemponi, e le immancabili facezie messe in giro dai soliti miscredenti non facevano ridere nessuno, o quasi. Al contrario, la gente rifletteva. Una gran truffa: ma più la cosa si chiariva, e veniva in luce, più appariva incredibile che ad architettarla e a condurla in porto fosse stato quello stesso monsignor Cavagna che - ormai lo sapevano tutti - era in prigione; incarcerato d'ordine del procuratore fiscale cioè del Papa, per aver fabbricato e spacciato Reliquie false, frodando i suoi superiori ed ogni genere di autorità religiose e civili preposte a sovraintendere a questo genere di cose, a Novara e a Roma... Come dire: mezzo mondo imbrogliato dal Cavagna! Forse a Roma la faccenda poteva apparire credibile; a Novara, no. Qui il Cavagna, l'«oca bianca più che burro» del vescovo Bascapè, era ben conosciuto pela la sua ghiottoneria, per la sua vanità ed anche per la sua dabbenaggine che Io rendeva incapace di imbrogliare chicchessia; sicché fu chiaro fin dall'inizio della storia che la prima vittima di quell'intrigo era proprio lui. Una vittima predestinata, un gran citrullo; qualcuno lo aveva fatto entrare nelle Catacombe, gli aveva riempito un carro d'immondizie raccontandogli che si trattava di Reliquie e poi lo aveva rispedito al suo paese sapendo benissimo quali feste se ne sarebbero fatte; aveva dato al vescovo, e a tutti i fedeli della diocesi, il tempo di festeggiarlo; infine, lo aveva smascherato. Per qual scopo s'era fatto tutto ciò? Non per trarne denaro, riflettevano i novaresi; di soldi, in tutta la vicenda, ne erano corsi pochi e comunque un fatto era certo: che a differenza di quelle dell'anno precedente, poche e strane e pagate un tanto l'una, queste altre Reliquie del Cavagna erano state, per così dire, acquistate in blocco, e ad una cifra molto modesta. Arrivati dunque a questo punto del ragionamento, i novaresi si chiedevano: chi aveva voluto servirsi del Cavagna per umiliare il vescovo Bascapè e per umiliare la città di Novara? E se anche gli importava poco o nulla di 71 monsignor Cavagna, e meno ancora del vescovo Bascapè, gli sembrò invece un'offesa intollerabile quell'altro fatto: che qualcuno qualcuno troppo potente perfino per essere nominato! li avesse usati senza il minimo riguardo per loro e per i loro sentimenti; come si usa un bastone, per colpire un altro. Si sentirono umiliati: e reagirono nell'unico modo che gli era consentito, scrollando il capo. Mormorando. Le Reliquie del Cavagna - dissero - non erano certo meno autentiche e credibili di tante altre allora in circolazione, in tante altre città: Schegge di Croce, Santi Lenzuoli, Santi Chiodi, Corpi di Martiri e Frammenti dei medesimi che, a voler andare al fondo della loro autenticità, avrebbero forse riservato sorprese, e fatto nascere storie esilaranti, da divertire il mondo. Quelle Reliquie invece si conservavano religiosamente nelle chiese, si esponevano ai fedeli e a nessuno mai era passato per la testa di metterle in discussione: vere o false che fossero, autentico era il culto che gli veniva dedicato. Perché allora - si chiesero molti abitanti di Novara - soltanto a loro doveva essere proibito di venerare le Reliquie del Cavagna, accolte a furor di popolo nella loro città, per quel solo motivo, che non erano autentiche? Perché la loro credulità, davanti a Dio, valeva meno di altre credulità? Perché li avevano imbrogliati? Capitolo tredicesimo Roma Quando Cavagna uscì dalla stanza del vescovo, curvo in mezzo alle guardie e barcollante, monsignor Carlo Bascapè rimase ancora qualche minuto lì in piedi, a fissare il vuoto, con le labbra che si aprivano e si muovevano senza emettere suono; poi si prese la testa tra le mani e andò a sedersi. Così, ecco, ora finalmente sapeva tutto! Ora capiva! Spostò il crocéfisso d'argento che teneva al centro del tavolo e mise al posto di quello la maschera funeraria del suo amico e maestro Carlo Borromeo, come faceva ogni volta che si sentiva angosciato, o che doveva prendere una decisione importante. Cosa avrebbe fatto, al suo posto, Carlo Borromeo? Ne sfiorò i lineamenti con le dita: l'alta fronte spaziosa, il grande naso che era stato l'elemento più caratteristico di quel viso affilato, dal profilo d'uccello... La maschera era di cera ed era stata eseguita subito dopo la morte dell'arcivescovo di Milano perché poi se ne facesse un busto in bronzo; ma ciò avrebbe significato fondere la cera e Bascapè invece aveva voluto conservarla, come ricordo dell'amico. Nel metallo - diceva - tutti i visi diventano uguali: impassibili, duri, disumani; soltanto la cera, con la sua morbidezza e il suo calo re in tutto simili alla morbidezza e al calore della carne, gli avrebbe restituito qualcosa della vita e dell'anima che si erano espresse in quel viso amato, plasmandone i lineamenti. Del resto - si chiedeva il vescovo - cos'altro è la materia di cui è fatto l'uomo, se non cera nelle mani di Dio? Dopo qualche indugio, si rispose. Qualunque cosa avesse fatto Carlo Borromeo in quelle stesse circostanze - si disse - lui ora non avrebbe potuto rifarla. I tempi erano diversi. Le persone erano diverse. Il secolo era diverso e, se possibile, peggiore, rispetto a quello, già così empio e dedito ad ogni genere di vizi, contro cui aveva combattuto il Beato Carlo. La posta in gioco continuava ad alzarsi, e si sarebbe alzata ancora di più. A quante prove ancora, e quanto terribili, Dio avrebbe sottoposto i suoi servi, prima di far trionfare la sua causa? Era una guerra - pensò il vescovo Bascapè - una vera guerra!, quella che si stava combattendo, da più di 72 interpretazioni e di false suggestioni del Concilio di Trento s'erano verificati fervori malsani che dovevano essere disciplinati e castigati, perché non producessero misticismi isterici e smanie di santità vacue e teatrali... Ceni personaggi come il defunto arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, avevano fatto danno alla Chiesa quasi quanto Lutero e Melantone; ma un giorno che questo genere di discorsi s'era tenuto alla presenza del Papa, Bascapè era insorto. «Auguro alla signoria vostra, - aveva detto al cardinale Aldobrandini: e il suo viso appariva pallido per l'ira, la voce, a tratti, tremava, - di poter progredire nella vera santità quanto vi progredì ai giorni suoi il cardinale di Santa Prassede (Carlo Borromeo); il cui nome, del tutto erroneamente, è stato da vossignoria accostato a quelli dei principi degli eresiarchj e dei nemici della Chiesa, mentre invece Carlo fu il principe dei pastori, e dei predicatori della vera fede». Il cardinale, lì per lì, non diede risposta: ma quando, dopo poco, Gregorio XIV morì e lui stesso, Ippolito Aldobrandini, venne eletto Papa, saldò il conto col Bascapè. Lo mandò a Novara, a invischiarsi nei massimi problemi d'una minima diocesi; e pazienza ancora se tutto fosse finito in quel modo! Si sarebbe contentato, Bascapè, d'esser lasciato li dov'era, ai margini del mondo, a lavorare come semplice operaio nella vigna del Signore, secondo dicono i Vangeli; dimenticato da Roma. E invece no. Anno dopo anno, stagione dopo stagione, quasi non era passato giorno, da quando Bascapè stava a Novara, senza che gli arrivasse, da Palazzo, un segno tangibile che a Roma ancora si pensava a lui. Qualche minima cattiveria, qualche sgarbo, qualche inciampo sul suo cammino... Ma questo affare delle Reliquie, e del Cavagna, era più che una cattiveria: era un'infamia! Si voleva screditarlo agli occhi dei suoi stessi fedeli, coprirlo di ridicolo... «Chissà che chiacchiere se ne stanno facendo, in questi giorni, - disse ad alta voce il vescovo Bascapè, - a Palazzo e fuori di Palazzo, in tutta Roma... E a Milano! Chissà cosa è stato riferito al cardinale Federigo Borromeo! E cosa dice la gente di Novara, cosa pensa il clero...» Sentì freddo e chiuse la finestra. Forse aveva la febbre... Si toccò la fronte. Tornò al tavolo da dove s'era mosso, apri un cassetto, ne tirò fuori una boccettina di metallo che conteneva dei sali. Aspirò a lungo, prima con una narice e poi con l'altra, ripetendo l'operazione altre due volte. Rimise la boccettina nel cassetto; si sedette. Disse: «Novara!»; e già, in quella nuda parola e nel modo come Bascapè la pronunciava, c'era tutto il tormento di una vita, la condanna e il riscatto, l'abbandono in Dio. Avesse potuto scegliere il proprio destino, Bascapè certo non sarebbe venuto a Novara nemmeno per farvisi seppellire e nemmeno per un giorno; ma, poiché Dio ce l'aveva mandato, lui ora amava la sua diocesi con assoluta dedizione di se stesso e con tutte le sue forze: soltanto, in certi particolari momenti, gli sembrava che le sue forze non fossero sufficienti per quel compito immane. Ripensò a Roma. Disse: «Roma!», e le rughe della fronte si spianarono, gli occhi si dilatarono nel ricordo e nel sogno. Rivide i ponti, il fiume, Porta Castello fuori Castel] Sant'Angelo, i Banchi presso il Tevere, la Rotonda, le piazze... Rivide la luce di Roma, l'immensità di Roma, le rovine di Roma, il paesaggio di Roma e riprovò quella strana suggestione - un amore a prima vista, quasi un'attrazione fisica - che aveva provato la prima volta che era andato a Roma, lui milanese pieno di secolari pregiudizi sull'antica capitale dell'Impero, la città dove nessuno lavora e tutti tramano, trafficano, vivono alla giornata e Roma invece lo aveva avvolto nella sua luce rarefatta, nella sua storia infinita, nei suoi spazi immensi; gli aveva comunicato un piacere di esistere e di sentirsi vivo, un'eccitazione di pensare e di fare, che lui, 75 prima d'allora, non aveva mai provato in nessun luogo; gli era entrata nel sangue e nei pensieri, gli aveva sussurrato all'orecchio: «Resta qua! Un giorno, tu sarai il vescovo di Roma!» Lui non aveva voluto ascoltare quella voce, e s'era sempre comportato come se la voce non esistesse; ma lei, invece, s'ostinava ad esistere... Alzò una mano all'altezza del viso, la mosse come per scacciare un insetto c voleva invece scacciare quel pensiero che stava là, come un tarlo in fondo al legno: anche quando lui dormiva o era occupato in altre faccende, c'era quel tarlo che rodeva, laggiù in fondo; di giorno, di notte; che non si fermava mai. A volte lui s'era appena addormentato e quel tarlo lo costringeva a risvegliarsi, lo faceva balzare sul letto, affannato come per una lunga corsa, tutto bagnato di sudore. Allora Bascapè si gettava una coperta sulle spalle, se era inverno, o s'avvolgeva nel lenzuolo, se era estate, e correva nella cappella del palazzo vescovile, si buttava sul pavimento. Singhiozzava, si batteva il petto: «Dio, perdonami! Dio mio, abbi pietà di me!» «Non fare caso ai miei pensieri: non son miei! È il Diavolo che mi sta tentando! Aiutami a scacciarlo!» Si strinse forte la testa tra le mani. Le tempie gli pulsavano e lui pensò con terrore che, forse, gli sarebbe ritornata l'emicrania, il più atroce dei suoi ma li «novaresi»: i medici ne attribuivano le cause ai vapori delle risaie, all'insalubrità del clima, al riverbero del Monte Rosa e dei suoi ghiacciai, che si diceva fossero i più grandi del mondo. Prima di venire a Novara, Bascapè non aveva mai sofferto di emicranie e il suo pensiero scivolò indietro nel tempo, ritornò a Roma. Laggiù nella Casa dei Padri Barnabiti, dove aveva abitato, c'era una grande terrazza che s'affacciava sui tetti e sulle cupole d'Oltretevere e ci si stava anche d'inverno, con il sole: a leggere, a studiare, a conversare d'argomenti teologici... In primavera poi s'usciva fuori porta, dalle mura di Campo Santo o dal Castello; si andava all'Isola e verso il Colosseo, in una nuvola di fiori di mandorlo, di pesco e di ciliegio, tra le rovine dei templi e gli orti e le casupole della città morta, simili più a rifugi per animali che a dimore umane; lì, in mezzo a quelle casupole, s'incontravano ancora quei pastori con le ciocie ai piedi e la pecora sulle spalle che assomigliavano al Buon Pastore delle prime rappresentazioni cristiane, e c'era ovunque un venticello che ti stimolava, ti eccitava, ti faceva star bene e sentir bene: il ponentino! Allungandosi la passeggiata, si finiva a desinare in una delle antiche osterie fuori porta dove ci si sedeva attorno a cene tavole lunghe lunghe, con tante altre persone che non si conoscevano tra loro: monsignori e venditori di terraglie, pellegrini e madri badesse, vescovi e barrocciai, briganti da strada e musicisti e pittori se ne stavano tutti insieme, senz'ombra di imbarazzo o di fastidio, a contatto di gomito; e ci fosse anche capitato un cardinale, o il Papa in persona, l'aiutante dell'oste gli avrebbe sciorinato, tra i nomi dei piatti pronti quel giorno, i cazzetti d'Angelo e le zinne di Sant'Orsola, i coloni der Papa Re e la pagliata dell’Agnusdei, come aveva già fatto con gli altri clienti; e poi ancora alla fine del pranzo gli avrebbe offerto in omaggio un bicchierino di vin santo, o di lagrima Christi: da bersi ala facciaccia, o a li mortatici, di chi eventualmente gli voleva male. Queste cose - pensava Bascapè - succedevano a Roma, e non avrebbero potuto succedere in nessun'altra parte del mondo. Soltanto in quel luogo consacrato dai millenni tutto ciò che c'è stato e ci sarà può convivere con tutto: l'alto e il basso, il vecchio e il nuovo, la religione e l'empietà, il fasto e la miseria, perfino Dio e il Diavolo sembravano aver trovato un equilibrio stabile e duraturo in quella città, dove tutto è già accaduto, e mica una sola volta! Mille volte. Così anche in quelle osterie sperdute nella campagna laziale, 76 lungo le antiche strade consolari infestate dai briganti, dove si poteva finir sgozzati ad ogni passo per pochi giulii... Ci si sedeva fuori sotto il pergolato e poi arrivavano gli stornellatori coni loro liuti a cantare l'amore, gli occhi di madonna, la primavera e il ponentino: e lì era Roma, come era Roma nella nebbia degli incensi e nel fragore dei canti gregoriani che facevano vibrare le colonne della nuova basilica di San Pietro, centro del mondo, anticamera di Dio... I pensieri de] vescovo Bascapè tornarono a incupirsi. Per secoli, per millenni - pensò il vescovo - la città di Roma s'era beata nella sua luce, nella sua storia, nei suoi aromi d'abbacchio e di rosmarino e nulla al mondo, o quasi nulla, sembrava potesse più scandalizzarla; ma un giorno era arrivato sulle rive del Tevere un prete di campagna, grasso e grosso come un'oca e sgraziato fino nel nome (cavagna in dialetto novarese significa cesta, recipiente di vimini): e Roma e il Papa avevano scoperto... che esistevano le Reliquie false, e che, per colmo di scandalo, il vescovo di Novara ne faceva incetta! S'alzò. Riprese a camminare avanti e indietro, tormentando il crocefisso con le dita. Non era giusto - pensava - che l'«oca bianca più che burro» patisse il carcere; per punire Cavagna delle sue colpe, e soprattutto della sua ingenuità, erano sufficienti la vergogna che lui ora provava, e il discredito da cui non si sarebbe mai più liberato, finché fosse vissuto... In quanto poi alle Reliquie false, quelle non le aveva certamente inventate lui, e nemmeno chi l'aveva imbrogliato: facevano parte della Chiesa di quell'epoca, e della vita di Roma. La città dei Papi, già negli anni in cui vi aveva abitato Bascapè, era un mercato immondo e fiorentissimo di Corpi Santi, Sante Membra, Sante Schegge, Santi Frammenti, Santi Chiodi e d'altrettali turlupinature di cui si pasceva e su cui anzi s'ingrassava una catena alimentare che andava dal tombarolo al monsignore che gli autenticava - per denaro - la Reliquia; dal sensale che procurava i clienti al notaio che stendeva l'atto di vendita, su su fino al cardinale prefetto delle Catacombe. In quel libero mercato, che nessun pontefice romano - nemmeno Papa Gregorio, o Papa Sisto - aveva mai pensato davvero di reprimere, perché dava da mangiare a mezza Roma, il cinismo e l'arguzia della plebe romana riuscivano a immettere reliquie d'eccezione, soprattutto per gli stranieri e soprattutto per i francesi; che a quell'epoca e per qualche ragione non mai sufficientemente chiarita venivano considerati più stupidi perfino dei milanesi e dei tedeschi: degli autentici babbei! Tutta Roma aveva riso d'un San Cunno, e d'una Santa Mentula (nomi latini degli organi genitali, rispettivamente femminile e maschile) che si diceva fossero stati imbarcati ad Ostia per andare in Bretagna, mentre ancora Bascapè stava a Palazzo presso Papa Gregorio; e ne era anche nata un'inchiesta del bargello, che però non aveva portato a scoprire illeciti. Forse, in quel caso, s'era davvero trattato di una facezia di dubbio gusto, che passando di bocca in bocca s'era poi arricchita di tali e tanti particolari da sembrare un episodio vero: ma il fatto stesso che fosse stata presa sul serio, e che si fosse indagato, lasciava intendere molte cose. Del resto, erano veri e anzi corposi i traffici di quegli anni, e di quella Roma: gli imbrogli, gli ammazzamenti, gli occultamenti di cadaveri antichi e nuovi, tutto ciò che allora accadeva attorno alle Catacombe e alle spoglie dei primi Martiri della fede cristiana, e poi anche gli amori, le avventure, le rapide fortune; una materia che, sé si fosse potuto scriverne liberamente, avrebbe forse prodotto un nuovo genere letterario, ed una nuova letteratura, con i suoi grandi scrittori e le sue opere immortali: mai, infatti, nella storia millenaria di Roma, e del mondo intero, i morti sotterrati erano stati più vivi che in quei primi anni del 77 Borghesini, iniziatasi prima che Biagio e Antonia nascessero: ed era appunto sulla lite di cortile che il racconto di Agostina ritornava sempre. C'era stata una causa in Tribunale a Novara perché le gemelle volevano che Bartolo gli spostasse il mucchio del letame da un'altra parte dell'aia e lui invece diceva che quel mucchio era lì fino dai tempi di suo nonno, che non avrebbe saputo dove metterlo altrove. Che spostassero loro la loro casa, visto che quando era stata fatta il mucchio era già là! Poi era arrivato Biagio e la lite s'era complicata perché la signora Francesca, ma soprattutto Antonia, pretendevano d'avere a che fare con lo scemo come se fosse appartenuto a loro: gli parlavano, gli davano perfino da mangiare! Una sera lo scemo non si trovava da nessuna parte e, cerca e cerca, Vincenza Borghesini l'aveva infine trovato insieme ad Antonia; stavano seduti con le schiene appoggiate a un albero di noce in un prato appena fuori del paese e lei gli insegnava i nomi degli oggetti, gli diceva: «Stai bene attento. Questa è l'erba; quella è la luna; io sono Antonia; tu sei Biagio. Prova a ripetere: acqua, erba...» «Acqua, - diceva lo scemo. - Erba. Antonia». La conclusione di tutta la vicenda era venuta nella primavera del 1605: quando, per dirla con le parole stesse di Agostina, la strega aveva cercato di impadronirsi dello scemo facendogli entrare il Diavolo in corpo. Apparentemente, però, era stato Biagio a innamorarsi di Antonia, a modo suo e perdendo anche quel barlume di ragione che aveva mantenuto fin li; facendo ridere la bassa e il mondo intero coi suoi tormenti d'amore. Il poveretto aveva forse diciassette anni e Antonia ne aveva due meno di lui ma già era la più bella ragazza che si fosse mai vista su questa ripa del Sesia, per giudizio unanime di quanti la conobbero. Tutto ebbe inizio un giorno di fine aprile, o della prima settimana di maggio: le acque dei fontanili erano gelate, come sempre, ma il sole era già caldo. Le ragazze di Zardino, e tra esse Antonia, erano attorno al fosso grande della Crosa a lavare i panni, e lavando cantavano La bergera: che è, una canzone di lavandaie, una canzone antica - lei prime versioni di cui si ha memoria parlano di Crociate e di crociati - e dialogata; con un coro e una voce solista. Vi si racconta la storia di una sposa il cui marito è partito per la guerra: passano sette anni, sette lunghi anni, senza che arrivi notizia del marito; una suocera malvagia costringe la ragazza a pascolare i porci (bergera in dialetto piemontese vuol dire appunto pastora) e lei si strugge, s'intristisce; finché al termine dei sette anni il marito ritorna ed è proprio a questo punto della canzone che arrivò Biagio. La solista - una maschiotta dai capelli rossi, di nome Irene sera già drizzata sull'asse con i pugni sui fianchi e il petto rilevato per annunciare al mondo il ritorno dell'eroe: quando improvvisamente dietro di lei le ragazze si misero a strillare, spaventatissime, a scappare qua e là, e Biagio, dopo aver cercato di abbracciare l'una e l'altra, balbettando «Antonia», si buttò infine nell'acqua per attraversarla perché aveva visto la vera Antonia dall'altra parte della Crosa; ma, non appena toccò l'acqua, si calmò. (Timidezza d'innamorato? Effetto dell'acqua gelida? Purtroppo per noi, l'inquisitore Manini non ritenne opportuno soffermarsi su quel dettaglio, che a mio avviso, invece, avrebbe dovuto almeno incuriosirlo. Molti autori suoi contemporanei, e tra essi il cardinale arcivescovo di Milano, Federigo Borromeo, trattarono nei loro scritti della proprietà che ha l'acqua - specialmente fredda - di scacciare i Diavoli dal corpo dell'uomo; e ne raccomandarono l'uso, sia per immersione che per abluzione, negli esorcismi e per liberare gli ossessi). Il povero Biagio restò lì ritto in mezzo al fosso, con le braccia tese e l'acqua che gli arrivava alla cintura, come una statua di sale: e forse, anzi probabilmente, non si 80 ricordava nemmeno cosa fosse venuto a farci. Antonia allora lo aiutò a venirne fuori, così bagnato com'era; lo riportò a casa tenendolo per mano e tutte le ragazze li seguirono fin dentro l'aia dei Nidasio, ridendo e facendo finta di essere le damigelle che accompagnano la sposa mentre va all'altare, nel giorno delle nozze: finché uscì di casa una delle due gemelle Borghesini con in mano la ramazza, e le fece correre... Dopo pochi giorni, ancora non s'era spenta l'eco di quella prima prodezza dello scemo, ed ecco che lui improvvisamente tornò a dare in escandescenze, e ad esibirsi in pubblico: per lo svago degli abitanti di Zardino, grandi e bambini. Un venerdì sera, all'ora del crepuscolo; quando tutti i suoi compaesani avevano già cenato, o stavano cenando, e comunque erano in casa. Si senti un urlo dall'aia dei Nidasio, una voce sgraziata che gridava: «Antoniaaa! Antoniaaa», e di lì a poco ci fu l'inseguimento dello scemo per le stradette e per i cortili del paese. Uno spettacolo esilarante, che anticipò di tre secoli, nella bassa, le cosiddette «comiche» dei film muto, e fece ridere gli abitanti di Zardino come non ridevano da anni. Una gag con attori involontari, d'effetto irresistibile. Le due comari piccolissime, rabbiosissime, armate entrambe di bastoni grossi come clave, correvano dietro al nipote tempestandolo di colpi; lui scappava, fermandosi ogni tanto per gridare: «Antonia», ma il grido gli restava sempre a metà perché subito arrivavano le vecchie che lo battevano senza misericordia, in faccia, in testa e dove capitava. Alla fine, le Borghesini riuscirono ad avere ragione di Biagio e delle sue mattane e a riportarselo a casa, inebetito e sanguinante, che scuoteva la testa troppo grossa rispetto al resto del corpo e non capiva cosa gli fosse successo. Fu il momento del loro trionfo, e della «cura» dello scemo: che le gemelle - in questa prima fase della terapia - tentarono di liberare dal Diavolo di Antonia, col digiuno e con gli esorcismi. Lo chiusero nella stanzetta a pianoterra in cui lui dormiva - in realtà, più che una vera stanza era un ripostiglio, un sottoscala dove si entrava solamente carponi - e ce lo tennero, senza cibo, per tre giorni e tre notti consecutive; durante una di quelle notti, i giovani di Zardino sparsero pula di riso tra la casa dei Nidasio e quella delle sorelle Borghesini, in segno di derisione per l'amante respinto. L'usanza era antica di secoli e veniva detta, nei paesi della bassa, «fare la pula» (lè la balla): ma nel caso di Biagio la pula fu sprecata, perché lui certamente non ne seppe niente. La mattina del quarto giorno arrivò don Teresio, preceduto da due chierichetti che gli reggevano l'acquasanta e il libro delle Scritture, con cui avrebbe scacciato il Diavolo dal corpo dello scemo. Si piantò ritto davanti al sottoscala e borbottò, saltellò, si fece il segno della croce una dozzina di volte, schizzò l'acqua in tutte le direzioni, anche sul soffitto, gridò - leggendo dal libro - alcune parole che terminavano in us, in um, e se ne andò tutto impettito, dopo aver detto alle sorelle Borghesini che potevano stare tranquille: era finita! Il Diavolo se ne era andato dalla loro casa e non sarebbe ritornato tanto presto, con la lezione che lui gli aveva dato! S'era preso un tale spavento, che metà bastava... Biagio tornò a vedere la luce del sole e per tre o quattro settimane si comportò benissimo, fu docile e laborioso come sempre; ma la sera del giorno di San Giovanni, quando ormai le vecchie incominciavano a pensare che, forse forse, il Diavolo d'Antonia s'era dileguato, e in paese tutti invece erano delusi che la faccenda fosse finita così presto, e che lo scemo non facesse più ridere la gente con le sue mattane, lui tutt'a un tratto impazzì di nuovo. Scappò di casa, inseguito dalle vecchie: tra l'entusiasmo dei compaesani che lo incitavano apertamente e lo 81 applaudivano, e poi anche applaudivano le sue inseguitrici. S'arrampicò sul tetto della chiesa e da lì sul campanile, gridando a pieni polmoni: «Antoniaaa! Antoniaaa!« Alcuni giovani del paese, sollecitati da don Teresio, cercarono di raggiungerlo: ma lo scemo, che fino a quel momento non s'era mai ribellato a nessuno, incominciò a tempestarli di tegole e di mattoni, li costrinse a scendere; e sarebbe rimasto lassù tutta la notte a chiamare Antonia, se Banolo non avesse portato una scala lunga lunga, e se Antonia stessa non fosse salita a riprenderlo: tornando giù con lui che la seguiva come un pulcino segue la chioccia. La faccenda per il momento finì così, con le comari che si riportavano lo scemo a casa e lo chiudevano col catenaccio dentro al suo sgabuzzino, e con tutti gli abitanti del villaggio che se ne andavano a dormire contenti, perché avevano avuto quel supplemento di spettacolo che s'aspettavano; ma nessuno sapeva, o poteva prevedere, che il più e il meglio ancora dovevano succedere. A metà della notte lo scemo tornò fuori - si seppe poi che era riuscito a sfondare l'uscio del ripostiglio in cui dormiva - e corse verso la casa dei Nidasio. C'era luna piena. II gracidio delle rane s'era quietato da poco ed era forse l'ora quarta dal tramonto, cioè la una di notte„ quando il silenzio del paese addormentato fu squarciato dal grido: «Antoniaaa! Antoniaaab» Si svegliarono i cani; successe il finimondo. I famigli, gli schiavandaj, le macchine umane dell'agricoltura dell'epoca, strappati a forza dai loro sonni senza sogni, imbestialiti dal risveglio, seminudi, scesero in strada per far tacere Io scemo: con le lanterne, con i manici delle zappe, con le funi che gli servivano per legare il toro al tempo della monta; e quando infine riuscirono ad acchiapparlo lo ridussero in condizioni tali che per quella notte e per il giorno successivo non avrebbe più infastidito nessuno, e non si sarebbe nemmeno mosso: faceva fatica perfino a stare in piedi, tant'era malconcio! l vendicatori della quiete pubblica un po’ lo spinsero un po’ lo trascinarono fino davanti alla casa delle sue padrone e glielo riconsegnarono, minacciando: «Se ci sveglia un'altra di queste notti, lo facciamo netto!»; volendo dire «lo ammazziamo». Ritornate in possesso dello scemo, le sorelle Borghesini, a buon conto, lo legarono; e poi decisero, confabulando tra loro finché venne giorno, che per ridurre il nipote alla ragione, e al lavoro, bisognava conzarlo, cioè castrarlo. Come si fa coi cavalli, e coi maiali, e con gli animali da cortile. Del resto, non era anche lui un animale da cortile? Un cristiano, cioè un uomo, non lo era; anche se alla nascita l'avevano battezzato perché credevano che lo fosse, s'era trattato d'un errore: tant'è che poi il prete non gli aveva dato nessun altro sacramento, e non lo voleva in chiesa, e non lo guardava nemmeno. conzare lui o conzare un pollo era la stessa cosa: così, almeno, arrivarono a stabilire le gemelle Borghesini; soltanto, era più difficile. «Fosse un pollo lo conzeremmo noi stesse, come abbiamo sempre fatto con i galli che dovevano diventare capponi; ma come si fa a conzare un uomo? E se poi ci muore dissanguato, noialtre, povere donne, che facciamo?» Fu mandato a chiamare da Ponzana, ch'è un altro borgo della bassa novarese, un tale «Emiglio Bagliotti, castratore esperto», perché provvedesse alla bisogna dello scemo. Costui venne, armato dei ferri del mestiere; quando vide di cosa si trattava, ebbe un attimo di esitazione: «Questa, poi!» Le gemelle allora gli spiegarono che quel loro nipote, di nome Biagio, sembrava un uomo ma non lo era; che bisognava conzarlo, altrimenti lui sarebbe andato attorno, di notte, con la luna, a cercare le femmine, e gli uomini del paese l'avrebbero ammazzato. «Va bene, - disse Bagliotti. - Non mi era ancora capitato di conzare un uomo; ma posso farlo». Chiese due lire 82 certamente», gli era stato risposto a Borgo San Gaudenzio, dai sensali a cui s'era rivolto per averne consiglio; ma quando poi uno di loro, dopo avere interpellato chissà quale maestro del pennello, gli aveva riferito la richiesta di costui, Diotallevi s'era sentito gelare. Dieci scudi, per tre spanne d'affresco! (Si era chiesto: «Per chi mi ha preso? Per un matto, che non conosce nemmeno il valore del denaro?») «Con dieci scudi, - diceva il miracolato raccontando l'episodio, - uno che ha due figlie in età da sposarsi, come le ho io, ci fa il corredo d'una ragazza»; e la faccenda, per il momento, non aveva avuto seguito. Erano trascorsi alcuni mesi; finché un giorno, come per caso, era arrivata all'orecchio di massaro Barozzi la notizia che dall'altra pane del Sesia, ad Albano Vercellese, un tale pittore Bertolino d'Oltrepò stava affrescando un oratorio campestre, e tutti andavano a vederlo lavorare, tant'era bravo! Dipingeva sul muro certe figure, certi visi - dicevano i paesani - che gli mancava soltanto la parola; a guardarli genavano (cioè: mettevano a disagio). Il giorno dopo, di buon'ora, il nostro Diotallevi sellò la mula e partì - c'era il Sesia in mezzo, e bisognava approfittare della circostanza che era in secca - per andare a vedere come lavorava quel pittore, e per attaccar discorso; se poi gli fosse sembrato un buon cristiano - pensava - da trattarci un affare come si tratta tra persone ragionevoli, e non un matto furioso come quell'altro di Novara, gli avrebbe anche buttato là una parolina a proposito della sua edicola, gli avrebbe chiesto quanto voleva per dipingerla. Lo trovò. Bertolino era un omaccione di statura più che media, robusto, con i capelli più bianchi che grigi e a guardarlo mentre impastava i suoi colori o maneggiava i cartoni che gli servivano per tracciare sul muro, con un chiodo, le forme che poi si sarebbero dovute colorare - ali e mani di Angeli, vestiti di Santi e così via - sembrava proprio normale, un uomo come se ne incontrano dappertutto e in qualsiasi mestiere; in più, parlava un dialetto abbastanza simile a quelli della bassa novarese e ciò finì di tranquillizzare Diotallévi, che non avrebbe mai saputo affrontare una trattativa in lingua. Le pitture già finite erano bellissime, o comunque sembrarono tali al nostro massaro. Rappresentavano - per ciò che Diotallevi ne capì - la decapitazione di un Santo: ma, nonostante il soggetto fosse orribile, i colori erano vivaci e mettevano allegria; gli occhi delle figure si fissavano nei tuoi ed anche i visi erano proprio vivi. Quando il massaro entrò nella cappelletta, Bertolino era alle prese con un ragazzo di quindici o sedici anni, un suo apprendista; il ragazzo aveva preparato l'intonaco per l'affresco e cercava di stenderlo sul muro come gli aveva insegnato a fare il pittore, con un gesto rapido e uniforme del polso; l'operazione però non era semplice e l'intonaco ricadeva. Bertolino allora faceva finta d'arrabbiarsi: «Maledetto il giorno che ti ho preso!», gridava al ragazzo. Lo copriva d'insulti: «Sei un babbeo! Semi prendevo una scimmia, lavorava meglio!>); ma, a ben guardarlo, sembrava divertito, più che arrabbiato. Infine, allontanò il ragazzo con una spinta, e, in pochi istanti, coprì il muro, spianandolo fino negli angoli. Brontolava: «Mangiapane a tradimento! Mangiaufo! Tu non arriverai mai ad essere un pittore, sarai sempre e soltanto uno stomaco che cammina!»; ed altre ingiurie, ancora più elaborate delle precedenti. Tracciò il disegno con l'aiuto dei cartoni: i profili dei visi, le mani, i panneggi, le aureole; poi, incominciò a stendere i colori. Fu a questo punto che Diotallevi Barozzi si fece avanti per parlargli dell'edicola, avendo deciso che, di già che aveva fatto la strada per arrivare fin lì, tanto valeva venire subito in argomento. Tossicchiò due o tre volte, disse: «Maestro, permettete una parola». «Chi sei?», domandò il pittore. 85 «Sono un massaro dell'altra riva del Sesia, nello Stato di Milano, - disse Diotallevi. - Di cognome faccio Barozzi e vengo da Zardino. Vi ho cercato, perché vorrei che pitturaste per me una Madonna del Divino Soccorso: una cosuccia, in un'edicola tra i campi, per assolvere un mio voto di due anni fa. Le misure della pittura dovrebbero essere quattro spanne d'altezza per tre di larghezza e un po' di decorazione attorno. Una Madonna bianca e azzurra, fatta in fretta, senza troppe pretese... Però devo sapere in anticipo quanti soldi mi verrà a costare perché io faccio il contadino, ve l'ho già detto. Ho due figlie da sposare e il raccolto dell'anno scorso non è andato bene...» «Risparmia il fiato, - tagliò corto Bertolino. – La musica la conosco già, e anche la canzone. Quanto pensi di darmi? Fammi tu un'offerta». Diotallevi ci restò male. «Io... Io non lo so! Veramente, siete voi che dovreste dirmi un prezzo...» «Va bene, - disse il pittore. - Non fa niente! Non mi dai niente, sei contento? Poi, quando il lavoro sarà finito e se ti piacerà, mi darai quello che vorrai darmi, secondo la tua coscienza e la tua disponibilità del momento. Se non hai soldi, mi darai quello che hai: un maiale, quattro capponi, due brente del tuo vino... Però t'avverto: i lavori alla carlona, come hai detto tu, risparmiando sul tempo e sui colori, Bertolino non li sa fare e non li fa. Se ti dipinge una Madonna, tra cent'anni è ancora fresca come il primo giorno! Domanda in giro, chi è Bertolino d'Oh Crepò!» Così, all'impiedi e senz'altre formalità, si stipulò contratto per l'edicola della Madonna del Divino Soccorso di Zardino. Per Bertolino, del resto, quel modo di trattare gli affari era il modo normale. La sua minuta committenza, i contadini, gli allevatori di bigatti, i parroci di campagna e di montagna erano tutta gente che aveva una gran paura di essere imbrogliata dal pittore; e, se si voleva arrivare a chiudere la trattativa con loro, bisognava buttargli là quelle due o tre frasi che lui, ormai, conosceva a menadito: «Non fa niente, non mi dai niente! Pagherai quando vorrai e come potrai! Se non ti piace non mi paghi!» Invece - e Bertolino lo sapeva - i piccoli committenti pagavano prima e meglio degli altri; ma diffidavano per principio degli artisti e volevano essere rassicurati, garantiti, sentirsi furbi: tutt'al più, se qualcosa fosse andata storta, sarebbero stati loro a non pagare il pittore... Antonia e le sue compagne si voltarono a guardare il carro del pittore, come lui gli aveva suggerito di fare, e tutt'e tre restarono a bocca aperta come lui aveva previsto, con un «oh!» di meraviglia. Non avevano torto. Per quanto fosse impolverato ed infangato - Bertolino veniva dalla parte del Sesia, che aveva attraversato un'ora prima al guado del Devesio - il carro del pittore era un oggetto unico al mondo, sia come veicolo che come opera d'arte, e a vederselo davanti in mezzo ai campi della méliga, e del grano, doveva fare un certo effetto! Ci girarono attorno con gli occhi spalancati. Nella parte inferiore del carro, sulle sponde in legno laccato, era dipinto l'intero campionario di marmi finti e di finte pietre dure - i graniti, i porfidi, i diaspri, gli alabastri - che erano stati la vera specialità di Bertolino e la sua arte riconosciuta, quella per cui lui di tanto in tanto veniva ancora chiamato a lavorare ai Sacri Monti o nelle chiese di città, a contatto di gomito con i pittori di figure, i Maestri: che lo ignoravano. Prima di fare il pittore ambulante, e di avere il carro, Bertolino aveva lavorato per molti anni a dipingere ornati e finti marmi nei cantieri dove i Maestri arrivavano quando tutti gli altri avevano già finito il loro lavoro, e non volevano avere attorno occhi indiscreti a guardarli mentre tracciavano il disegno e poi mentre stendevano i colori; erano più vanitosi e capricciosi delle 86 dame dell'alta società, più maligni e velenosi delle bigotte di paese, più bizzosi dei bambini viziati; lui però aveva avuto modo e agio di osservarne all'opera due tra i migliori di quell'epoca, lo Stella e il Lanino, e gli era venuto il desiderio di fare il loro stesso mestiere, e l'aveva fatto: anche se non era mai stato a scuola da un Maestro ed era un semplice decoratore, un pitùr (parola ambigua, che nei dialetti della bassa significa sia «imbianchino» che «pittore»). S'era messo in proprio: con quel carro su cui viaggiava e in cui abitava e che gli serviva da magazzino, da vetrina, da campionario e da richiamo. (Non erano pochi, nelle valli alpine e nella bassa, quelli che conoscevano Bertolino d'Oltrepò, il pitùr, soltanto perché un giorno, andando per strada, avevano avuto occasione di imbattersi in quella sua cattedrale viaggiante ed erano rimasti a bocca aperta come ora Antonia; o perché ne avevano sentito parlare da qualcuno che l'aveva vista). In più - diceva Bertolino - per un girovago com'era lui quel carro così dipinto aveva anche un altro pregio, di scoraggiare i briganti: che lo riconoscevano da lontano e si risparmiavano la fatica di assalirlo. Tanto lo sapevano senza bisogno di guardarci, cosa c'era là dentro! Tornando dunque ad Antonia, e alle sue amiche: ciò che le fece restar ferme e a bocca aperta, davanti al carro del pittore come davanti a un'apparizione soprannaturale, non furono però i finti marmi delle fiancate ma il telone che copriva la parte superiore del carro e che era dipinto in ogni sua parte come la navata di una chiesa, a colori vivaci e a piccoli riquadri. Lì sopra, c'era tutto il repertorio di Bertolino d'Oltrepò, pittore di edicole e di immagini votive: c'erano le Madonne bianche e nere, col Bambino in braccio e senza Bambino, con la mammella fuori e con i] cuore in mano, con l'aureola e con il manto di stelle e con il piede nudo che schiaccia il serpente. C'erano i Santi: quelli dei raccolti, quelli che salvano o difendono la gente da qualcosa, quelli che l'aiutano a nascere o a morire e infine quelli a cui si chiedono i miracoli dei soldi e della salute, le cosiddette «grazie». C'erano il Dio Creatore e il Dio Giudice con la mano alzata, che si vedono nelle chiese medioevali e che, nei primi anni del Seicento, nessun pittore voleva più fare: eppure venivano ancora richiesti! C'erano gli ex voto: un genere che si vendeva bene - diceva Bertolino - e che avrebbe anche potuto dargli da vivere senza bisogno di fare altro, se soltanto lui si fosse adattato a tornare tutti gli anni negli stessi posti, e a sopportare un tipo di concorrenza, che con l'arte non aveva niente a che fare: attorno ai grandi santuari, per il mercato degli ex voto, si poteva arrivare ad accoltellarsi; meglio lasciar perdere! Le immagini dipinte sulla copertura del carro erano il campionario un po' ridotto delle pitture che Bertolino faceva coi cartoni, cioè con le sue forme già ritagliate e preparate per servire da stampi. Non c'era, lì, la pittura «all'improvviso», quella dei pittori di figure; nessuno gliela chiedeva, forse anche nessuno pensava che lui ne fosse capace e a volte invece era lui che, non richiesto, la regalava al committente; quasi volesse dimostrargli - o volesse dimostrare a se stesso - che il madonnaro Bertolino d'Oltrepò non era artista peggiore né minore di quei Maestri che parlavano con la erre nel naso, vestivano di velluto e camminavano per strada in un certo qual modo, che poi la gente si chiedeva: «Chi è passato?» Capitava a volte che un contadino riconoscesse il proprio viso nel viso d'un Santo; o che un ex voto riproducesse alla perfezione il luogo dov'era avvenuto il miracolo e la persona che l'aveva ricevuto; o che, infine, un Dio Giudice assomigliasse al suo pittore in modo così evidente da suscitare le proteste di chi doveva pagarlo. Allora sì che Bertolino s'arrabbiava! «Se la pittura non ti piace, - diceva al cliente, - ci do sopra una mano di calce e non voglio un 87 eroicamente, mori. La sua lettiga-sarcofago veniva avanti pian piano in mezzo ai boschi, ai campi seminati, ai terreni piantati a vigna; tra gli applausi e gli «evviva» dei bambini che erano corsi a incontrare il loro vescovo fino al mulino dei Tre Re e più oltre ancora; sulla strada decorata con ghirlande di fiori e cosparsa tutta di petali di rose. Un solo grido risuonava nella bassa: «Evviva la Beata Panacea! Evviva il vescovo Bascapè!» La lettiga del vescovo, portata da due mule, era preceduta da una carrozza su cui viaggiavano cinque uomini: due ecclesiastici, nelle persone d'un canonico Clemente Gera e d'un canonico Angelo Mazzola, cui spettava il compito di coadiuvare il vescovo nella cura delle anime; e tre laici, di cui purtroppo non si conoscono i nomi ma che erano il cancelliere fiscale della Curia con i suoi due aiutanti: un procuratore legale e uno scrivano. Costoro, e soprattutto il cancelliere, rappresentavano una pane importante, e, per così dire, autonoma, della visita pastorale del vescovo: in tutti i posti dove lui si fermava, loro s'insediavano con una specie d'ufficio, all'aperto o al chiuso; e non solo riscuotevano le prediali, cioè le tasse ecclesiastiche sui fondi rustici, ma badavano anche alla risoluzione delle controversie con i privati e con le comunità ed al ripristino dei diritti caduti in disuso; che nella diocesi di Novara erano molti, e di grande entità. Dietro la lettiga del vescovo, impettiti per la corazza che avevano dovuto indossare nonostante il caldo (e ne avrebbero certamente fatto a meno, se avessero potuto decidere in merito loro stessi: ma così volevano le regole, e così avevano ordinato i superiori) c'erano i quattro soldati della scorta, armati d'archibugio; dietro questi, che naturalmente venivano a cavallo, caracollavano e arrancavano sopra ogni sorta di cavalcature - soprattutto muli, ma anche asini e spelacchiatissime giumente - i cappellani e i parroci d'una dozzina di villaggi della bassa che monsignor Carlo Bascapè aveva già visitato nei giorni precedenti, o che si accingeva a visitare. Infine, a chiudere il corteo, c'era un carro tirato da due buoi:su quel carro, dopo che il vescovo era passato, i contadini deponevano offerte di capponi, di lardo, di legumi, di riso, di matasse di canapa odi lino, di salami, di ortaggi, di farina, di noci e d'altri prodotti della loro terra che due giovani seminaristi badavano a dividere - da una pane le cose commestibili, dall'altra le altre - e a riporre dentro una grossa cesta di vimini, se c'era il rischio che al sole si guastassero: si trattava infatti di offerte destinate, per la maggior parte, al sostentamento dei Seminari della diocesi, e che sarebbero state recapitate ai destinatari quella sera stessa. E mentre il piccolo corteo veniva avanti, le campane suonavano a distesa, e dappertutto nella piana si sentiva gridare: «Evviva la Beata Panacea! Evviva il vescovo Bascapè!» Era una giornata di gran sole, e d'atmosfera limpida. Il Piemonte, le Alpi lontane, il mondo intero, si beavano e si crogiolavano nell'azzurro del cielo e nel verde della pianura; e poi anche e più da vicino gioivano e s'esaltavano nell'incendio dei papaveri che accompagnava ovunque la crescita del grano; nelle fioriture degli iris e delle rose selvatiche; nello scintillio delle acque; nel vento leggero che increspava le pozzanghere e faceva oscillare, lungo i fossi, i rami nuovi dei salici. La natura tutta era un'esplosione di profumi, di pollini, di ronzii, di canti, di richiami, di colori. Gli animali si cercavano tra loro, si lanciavano i loro segnali dagli alberi, dal cielo, dalla polvere, dall'erba; il cielo era solcato da mille voli, di mille specie differenti di uccelli. Le acque straripavano, e con esse la vita della bassa. L'aria stessa era satura di umori, di fluidi, di sostanze invisibili e impalpabili per propagare la vita. Chiuso all'interno della sua lettiga come già s'è detto - in una penombra che era quasi buio, 90 trasudando catarri da tutti i pori, tossendo, lacrimando, il vescovo Bascapè imprecava sottovoce contro i pòllini che si insinuavano tra le intelaiature dei vetri e le pesanti tendine di velluto leonato (rosso e spesso, come la pelle del leone): che sollecitavano, attraverso le narici, la vita in lui a fuoruscire in ripetuti starnuti, secchi e violenti come colpi d'archibugio. Teneva in mano due fazzoletti ricamati ed impregnati di essenze di cui aveva davanti a sé tutt'un campionario, in fiaschetti di rame e caralìni di vetro: belzoino, mirra, cannamele, garofano e di tanto in tanto li avvicinava alle narici, li comprimeva contro le stesse, ne aspirava gli aromi. Si lamentava e gemeva per l'emicrania che soprattutto in primavera, ma anche nelle altre stagioni, lo torturava ormai quotidianamente; ripeteva a intervalli le parole del Salmo: «Domina, ne elongaveris auxilium tuum!» («Signore, non tardare il tuo aiuto!») Invocava la Beata Panacea, di cui aveva nella lettiga una Reliquia chiusa dentro un cofanetto d'argento, e il Beato Carlo Borromeo, suo amico e patrono; invocava anche l'apostolo Paolo, di cui lui, come barnabita, era sacerdote. 11 frastuono grande che facevano le campane di tutte le chiese e di tutti i cascinali della piana del Sesia gli rimbombava dolorosamente nel capo. Invocava Nostro Signore Gesù Cristo, la cui effigie portava sempre su di sé in un piccolo crocefisso appeso al collo: «Domina, adiuva servum tuum!» («Signore, aiuta il tuo servo!») «Evviva la Beata Panacea! Evviva il vescovo Bascapè!», gridavano all'esterno i ragazzi, bianchi e rossi di salute e per essere venuti di corsa dal paese, incontro al vescovo. Si scalmanavano, s'accalcavano: «Evviva il vescovo! Evviva!» Lui scostava la tendina di velluto forse d'un decimo di palmo (due centimetri), quanto bastava per guardare cosa c'era fuori: se il villaggio ancora era lontano, se ci si stava arrivando. Non vedeva l'ora di entrare in una chiesa, dove i fumi dell'incenso e degli aromi liturgici avrebbero forse neutralizzato i maledetti pòllini, permettendogli di respirare; ma la chiesa non si vedeva da nessuna parte, e nemmeno il villaggio. Si vedevano soltanto quei ragazzi che gridavano e agitavano le braccia in segno di saluto, e dietro di loro le baragie, e le vigne, e i campi di frumento... Il rosso dei papaveri lo fece trasalire dolorosamente. Riaccostò la tendina; tornei al buio. «Evviva il vescovo! Evviva la Beata!» Finalmente e come Dio volle, si sentì il selciato sotto gli zoccoli delle mule e si videro le prime case: basse, grigie, con certe finestre così piccole che non si capiva come facessero a dare luce agli intenti e qualche tovaglia sui davanzali, qualche drappo ricamato sui balconi, in onore del vescovo; si sentirono le campane che suonavano all'impazzata, e i fedeli in chiesa che cantavano il Te Deum. Come se quel frastuono già non fosse sufficiente, scoppiarono anche tre o quattro castagnole davanti alla carrozza su cui viaggiavano i canonici, e i cavalli sgropparono, s'imbizzirono; ma, fortunatamente per i nervi già scossi del vescovo Bascapè, non vi furono né spari, né rulli di tamburo. La lettiga del vescovo, come sempre, andò a fermarsi proprio di fronte all'ingresso della chiesa; il canonico Gara, basso e grasso, s'avvicinò allo sportello, lo aprì; ne uscì il vescovo tutto vestito di nero coi bottoni viola, giallo in viso che sembrava un morto che uscisse dal sepolcro: soltanto gli occhi, nel viola cupo delle occhiaie, erano ben vivi e poi c'era anche quel naso paonazzo che formava una chiazza di colore assolutamente stonata in un viso esangue perfino nelle labbra. Alla luce del sole, il vescovo barcollò e dovette appoggiarsi al Gera con tutt'e due le mani per non cadere; ma subito si riprese. Si drizzò, tenendo in mano il fazzoletto impregnato di essenze, alzò due dita a 91 benedire un gruppo di persone che erano rimaste fuori della chiesa per attenderlo, «in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti», nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; poi si voltò ed entrò in chiesa, seguito dal Gera e anche dall'altro canonico, il Mazzola: che nel frattempo aveva provveduto a prendere all'interno della lettiga l'astuccio con la Reliquia della Beata Panacea. Sulla soglia, dovette fermarsi per non inciampare nel cappellano don Teresio, prostrato a terra. Gli disse: «Exsurge», alzati, e gli porse l'anello da baciare. Davanti all'altare si inginocchiò come faceva sempre, poggiando a terra tutt'e due le palme delle mani e piegandosi in avanti fino a toccare con la fronte il marmo dei gradini; poi si rialzò, si voltò. Guardò la chiesa gremita di fedeli, con tutti gli uomini da una parte, come gli aveva insegnato a disporsi don Teresio, e tutte le donne dall'altra; in prima fila, però, c'erano soltanto le giovani del paese - ed Antonia fra loro - vestite di bianco per devoto omaggio alla vergine Panacea. Esordì con le parole dell'Esodo: «Qui est, misit me ad vos». «Colui che è - cioè: Dio - mi ha mandato a voi». («Signore Iddio, che emicrania!») («Maledetti pòllini!») Starnutò fragorosamente: due volte, quattro volte, sei volte, comprimendosi con il fazzoletto ricamato il naso paonazzo. Molte tra le ragazze che erano in prima fila si portarono le mani al viso e si coprirono la bocca, per non far vedere che stavano ridendo; Antonia rimase seria. Lo scandalo che don Teresio avrebbe poi riferito al suo processo, di lei che ride sconciamente («turpiter») al cospetto del vescovo, se pure avvenne davvero, avvenne dopo: al termine della predica e forse addirittura della messa, quando si trattò, per il vescovo Bascapè, di consegnare la Reliquia della Beata alla comunità di Zardino. Sia don Teresio, del resto, che l'inquisitore Manini, per motivi facilmente intuibili, esagerarono quest'episodio, dell’«offesa al vescovo»: che, forse, non ci fu nemmeno. Antonia già aveva avuto modo di conoscerlo, il vescovo Bascapè; e rivederselo davanti, lì a Zardino, le rammentò quel giorno della sua infanzia in cui lei avrebbe dovuto recitargli la poesia di suor Leonarda, e tutto ciò che le era successo: la levata all'alba, il bagno purificatore, l'uovo crudo... Quanti ricordi passarono per la mente di Antonia mentre il vescovo Bascapè, tra uno starnuto e l'altro, celebrava la messa insieme a don Teresio. Le tornarono a mente suor Livia, suor Clelia, la Pia Casa... E poi, forse, rivide anche quella mano del vescovo, lunga lunga e bianca, che le suore le avevano raccomandato di non sfiorare con le sue, e che lei invece aveva toccato... Nonostante fosse già pallido e affilato in viso, il vescovo Bascapè, all'epoca in cui aveva visitato la Pia Casa, non era ancora quella larva d'uomo che sarebbe diventato in seguito; alcune suore - Antonia se ne ricordava benissimo - credendo di non essere sentite avevano esclamato: «Che bell'uomo!»; e anche a lei, allora era sembrato bello. Mentre ora, di bello, non aveva che la voce: una voce calda e profonda, con un bell'accento lombardo; tanto più gradevole, se confrontata con il falsetto di don Teresio, con quella sua »voce della domenica» e da prete studiata apposta per dire messa. Quando il vescovo incominciò il racconto della Beata Panacea, Antonia quasi senza accorgersene si lasciò prendere e trasportare dal flusso e dalla musicalità di quella voce; e lo stesso accadde anche alla maggior parte delle persone che erano in chiesa e che della predica del vescovo capirono soltanto alcune parole e alcune frasi, o addirittura non capirono niente: e ciò, per il semplice motivo che il vescovo predicava in lingua, mentre i contadini parlavano in 92 la cosa più naturale del mondo; e poi, quando calò la notte, se ne andarono dalla parte del fiume. Un bell'enigma, soprattutto per quel genere di uomini - e di donne - che vorrebbero sempre vedere il fondo delle cose, e indagarne le cause. Un vero rompicapo, da perderci il sonno e la ragione! Si disse poi che i lanzi erano dovuti sconfinare per compiere una missione di là dal Sesia; che andavano a riprendersi alcuni loro disertori; che s'erano persi dal loro reggimento; che erano disertori essi stessi. Se ne dissero tante; finché, in mancanza di conferme odi riscontri certi, l'interesse a poco a poco si spense a la gente incominciò ad occuparsi d'altre cose. Anche il reparto a cui i lanzi appartenevano rimase misterioso; con certezza, si riuscì soltanto a stabilire che non facevano parte della guarnigione di Novara - dove del resto, e per quanto se ne sapeva, di lanzi non ce n'erano mai stati, nemmeno in passato - e che dunque venivano da fuori: da Milano, forse, o addirittura da Piacenza; era lì - si diceva - nel Ducato dei Farnese, che quel genere di truppe stava di casa! Li comandava un autentico gigante, con grandi baffi e grandi basette del colore della stoppa: così alto, che per entrare nell'Osteria della Lanterna doveva piegare la testa e anche la schiena; e poi ancora, una volta dentro, doveva continuare a camminare piegato per non dare di capo contro le travi del soffitto. Nessun uomo di Zardino, o della bassa, era tanto alto; nemmeno il camparo Maffiolo, che, secondo quanto ne dicevano le comari, era «lungo come la fame»! I ragazzi del paese, non appena lo videro, lo soprannominarono Attila: e anche noi lo chiameremo così. Questo Attila aveva mani smisurate e guance d'un colore tra livido e paonazzo che ne certificavano le attitudini di fortissimo mangiatore e bevitore, oltreché la predisposizione a morire d'infarto; parlava solo tedesco, come tutti i suoi soldati, e soltanto riusciva a pronunciare qualche parola o qualche frase in un italiano storpiato dallo spagnolo, o in spagnolo, ma anche quelle si capivano poco; infine, a giudicare da come parlava e da come si muoveva, era sempre arrabbiato: con chi non parlava la sua lingua, con i suoi soldati che invece la parlavano, con il mondo intero. Arrivò in piazza a Zardino coi suoi /anzi una mattina d'ottobre che il sole era già alto ma don Teresio aveva appena finito di dire messa, cioè verso le nove e mezza, le dieci meno un quarto; e si mise subito a urlare - così, almeno, credettero di capire gli abitanti del paese - che gli facessero venire lì i consoli, gridava alle bigotte che uscivano di chiesa e stavano ferme a guardarlo perché temevano che se avessero fatto l'atto di scappare sarebbe stato peggio per loro: «Teste di porco e di capra e mangiamerda che non siete altro, voglio i consoli qui davanti. Bestie snelle!» (Naturalmente Attila non sapeva nemmeno che i reggitori dei villaggi della bassa si chiamassero consoli, e la parola «mangiamerda» e tutte le altre della frase sopra riferita nel suo vocabolario non c'erano; ma, per una fortunata concatenazione di assonanze e di equivoci, per cui le parole tedesche venivano «tradotte» in base ai suoni con parole italiane più o meno simili, l'essenziale fu inteso. Attila, infatti, voleva proprio trattare con qualcuno che rappresentasse tutto il villaggio, e così avvenne). Dopo alcuni minuti d'urli e di trambusto, i consoli arrivarono. Erano due, secondo quanto prescrivevano gli statuti, e venivano rinnovati tutti gli anni; per quell'anno, la volontà popolare aveva chiamato a reggere le sorti di Zardino un tale Angelo Barozzi, di cui ci è noto solamente il nome, e il nostro Bartolo Nidasio; che, vedendosi circondato da quegli uomini armati fino ai denti, e con quelle facce, e 95 ascoltando quei loro urli, giurò a se stesso che non avrebbe mai più fatto il console, finché fosse vissuto! Attila e i lanzi, quando finalmente ebbero davanti gli interlocutori che volevano, cominciarono a parlargli fitto fitto di rue, di spaise, di essen, di cose insomma del tutto incomprensibili, spazientendosi perché quelli non capivano; si portarono le mani alla bocca, anzi addirittura se le misero in bocca con le dita unite, gridarono «hombre, comida!» Il povero Baroni, spaventato dalla prospettiva di dover dare da mangiare a più di trenta tedeschi affamati come lupi, avrebbe voluto ammansirli con le chiacchiere, e prendere tempo; sperava - ma quanto poi fosse illusoria quella speranza, si vedrà - che da un momento all'altro potesse succedere qualcosa di imprevisto, e che i lanzi se ne andassero nel modo stesso com'erano venuti. Tergiversava con cavilli burocratici, gli diceva: «Non siamo stati avvertiti per tempo»; «E inutile che insistiate, non è compito nostro» ed altre frasi del genere, di cui i tedeschi ripetevano singole parole, sillabandole («conpìto», «avertìtì») e poi guardandosi l'un l'altro per vedere se qualcuno di loro riusciva a capire dov'era l'imbroglio. Bartolo invece pensava soprattutto a ciò che sarebbe potuto succedere se i lanzi infine avessero perso la pazienza e faceva segno al Barozzi: lascia perdere! Diamogli quello che vogliono, purché poi se ne vadano! Non discutere! Così, mentre sul piazzale della chiesa le trattative del corner (mangiare) andavano per le lunghe, la maggior parte dei lanzi aveva finito per imbrancarsi all'osteria e da là dentro continuava a dar notizia di sé con urla incomprensibili («rotvàine», «trinche»), e grida disumane («Me ne incago!»). Alcuni lanzi più giovani, invece, se ne andavano attorno per le stradette di Zardino, sbirciando dalle finestre o nei cortili se c'erano donne: battevano con le dita sulle imposte, facevano «pss, pss», oppure anche chiamavano «tosa, bèla tosa!» (tosa, in dialetto milanese, significa ragazza); ma le donne erano tutte scomparse dal villaggio, come per un incantesimo. Non si vedeva nei cortili una sola donna, nemmeno vecchia o vecchissima; e anche di uomini, a dire il vero, ce n'erano in circolazione molto pochi. Soltanto i ragazzi erano tutti fuori per le strade, e correvano dietro ai forestieri gridando: «I lanzi! l lanzi! Viva i lanzi!»; con un entusiasmo abbastanza fuori luogo, per quell'evento e per quelle persone. S'azzuffavano per toccargli i cinturoni, le corte spade d'ordinanza, gli archibugi damascati; s'indicavano i farsetti di cuoio, le brache a righe bianche e rosse, i coltelli, i pistoiesi; si dicevano: «Ve' (guarda) quello! Ve' quell'altro!» Qualcuno dei più audaci s'arrischiò perfino ad entrare all'osteria: che secondo leggi non scritte da nessuna parte, ma ferree, era un luogo dove i ragazzi non potevano entrare, nemmeno in casi eccezionali. Vide il campano Maffiolo che s'intratteneva coni lanzi parlandogli nella loro lingua e corse fuori a dare la notizia: «Il Fuente parla coi lanzi e loro gli rispondono!» Per.farla breve: Maffiolo venne chiamato sulla piazza della chiesa, dove le trattative tra i capi del villaggio e ii capo dei lanzi sembravano essersi definitivamente arenate, e il suo intervento fu determinante per spiegare al Barozzi - Bartolo già l'aveva inteso per suo conto - che le chiacchiere erano inutili: i lanzi non le capivano, e se le avessero capite, si sarebbero arrabbiati. (Perciò Maffiolo si rifiutò di tradurgliele). Il discorso del tedesco era molto semplice: se ci date quello che vi chiediamo va tutto bene, stiamo tra amici e stiamo in pace; se non ce lo date non importa, ce lo prenderemo da soli ma per ripagarci della fatica ne prenderemo di più e prenderemo anche altre cose che ci verranno sottomano: denari, donne, quello che capiterà. Esauriti così i preliminari, Attila formulò le richieste, che furono: fieno e biada per due cavalli e cinque muli e per gli uomini due porci d'almeno cinquecento libbre l'uno, con tutto 96 ciò che serviva per macellarli, ridurli in pezzi e cucinarli alla maniera tedesca. Vino e pane secondo le richieste e comunque in grande quantità: perché - spiegò il capitano dei lanzi - i suoi uomini avevano una fame smisurata, e una sete proporzionata alla fame. Non essendovi altro da fare che ubbidire, si trovarono i porci, si squartarono; s'imbandirono due tavolate nel cortile dell'Osteria della Lanterna, sotto una tettoia che di solito serviva per riparare i carri: perché all'interno dell'osteria i lanzi non ci sarebbero entrati tutti, ma nemmeno si poteva metterli fuori sotto il pergolato, per via della stagione umida e del cielo grigio, che faceva presagire la pioggia. Sotto quella tettoia i lanzi mangiarono e bevvero a crepapelle e poi anche incominciarono a cantare certe loro canzoni allegre o malinconiche, struggenti o sguaiate, che però tutte avevano in comune almeno una cosa: d'essere tedesche e quindi incomprensibili per gli abitanti di Zardino. C'erano tra i lanzi due musici molto bravi, che suonavano uno strumento simile alla viola ma assai più piccolo, tenendolo appoggiato ad una spalla. Questi accompagnavano le parti dei solisti e le canzoni più malinconiche; per le altre, i lanzi s'accompagnavano da soli, battendo il tempo con le mani e con i piedi e con ogni sorta di strumenti improvvisati: per esempio con i coltelli contro il vetro dei bicchieri, con i piatti di metallo contro le assi del tavolo. Tra una canzone e l'altra, gridavano e ridevano e muggivano in un modo tale che agghiacciava il sangue; se dovevano liberarsi il corpo d'un peso superfluo, uscivano dall'osteria, attraversavano la piazza e andavano a deporlo sulla porta della chiesa o su quella della casa del prete, tra gli applausi e le grida d'incoraggiamento dei compagni che potevano guardarli, mentre loro si esibivano in quelle loro funzioni, senza muoversi da dov'erano seduti: attraverso le sbarre di un'inferriata che divideva il cortile dell'osteria dalla piazza vera e propria. Naturalmente anche la gente delle case lì attorno vedeva tutto ciò che succedeva nella piazza, sicché possiamo dire di quelle esibizioni dei lanzi che si svolsero alla presenza di un pubblico abbastanza vario, numeroso e partecipe; e tuttavia, per quanto la cosa possa sembrare strana a noi, uomini del ventesimo secolo, la presenza del pubblico non dava alcun imbarazzo agli attori, anzi, al contrario! Sembrava stimolarli. Quasi tutti i lanzi, in quelle ore in cui rimasero a Zardino, sostarono all'impiedi o si accucciarono, coi calzoni abbassati fin sotto le ginocchia, davanti alla porta della chiesa o a quella della casa del prete; alcuni, addirittura, le onorarono entrambe. Gli apprezzamenti e i commenti che gli spettatori rivolgevano agli attori, e le risposte dei medesimi, erano in tedesco, o, in quali che caso, in spagnolo; ma aiutandosi con un po' di fantasia, anche il pubblico di lingua italiana arrivava a capire, se non proprio le singole parole di quei discorsi, per lo meno il loro significato complessivo. E capì benissimo ciò che disse un lanzo già grigio di capelli, dopo aver partorito un escremento di notevoli proporzioni sulla soglia del prete; quando, rialzandosi le brache, gridò rivolto alle finestre di don Teresio: «Mira, cura!? Vado tu hermano!» («Guarda, prete! È venuto al mondo tuo fratello!») Altri lanzi, dalla porta della chiesa, chiamavano don Teresio «Papst fon Rom» (Papa di Roma) e lo invitavano ad affacciarsi per benedirgli il culo: che gli esibivano, già nudo e pronto per quello scopo. Uno che aveva in tasca un pezzettino di gesso se ne servì per imbrattare porte e muri d'alcune scritte fortunatamente incomprensibili, e di molti disegni che, invece, si capivano fin troppo bene. «Chissà cosa sta facendo don Teresio, - si chiedeva intanto la gente di Zardino, chiusa dentro alle case. - Se è nascosto in cantina, com’è probabile, o se è lì dietro alle 97
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