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La Ciociara - Alberto Moravia, Versioni di Italiano

La Ciociara, libro di Alberto Moravia che ha fatto da soggetto per il capolavoro di Fellini

Tipologia: Versioni

2018/2019
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Caricato il 30/05/2019

cicero10
cicero10 🇮🇹

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Scarica La Ciociara - Alberto Moravia e più Versioni in PDF di Italiano solo su Docsity! Alberto Moravia La ciociara con un contributo moraviano inedito a cura di Tonino Tornitore. I Grandi Tascabili Opere di Moravia Copyright 1957 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas SpA Quinta edizione "I Grandi Tascabili" agosto 1995 Bompiani La ciociara è la storia delle avventure di due donne, madre e figlia, al fronte, tra il '43 e il '44. Ma è anche e soprattutto la descrizione di due atti di violenza, uno collettivo e l'altro individuale, la guerra e lo stupro. Dopo lo stupro e dopo la guerra, dopo qualsiasi guerra, un cambiamento radicale è avvenuto. La ciociara è dunque l'esplorazione di questo cambiamento, il romanzo della violenza profanatoria della guerra, quella guerra che ancora in tutto il mondo si combatte. Nota del curatore di Tonino Tornitore Il testo che segue è un contributo moraviano inedito, scritto per un numero speciale di una di quelle riviste che spuntavano come funghi appena, scoccato l'8 settembre del 1943, a Roma si tornò a respirare aria di libertà. "Mercurio" (è il nome di questa bella rivista, diretta da Alba De Cespedes, le cui pagine ospitarono in quegli anni racconti come, per esempio, Il muro di Sartre) preparò per il dicembre del 1944 un numero speciale, in cui raccolse una cinquantina di interventi di vari autori. Ognuno, spesso dietro pseudonimo, perché ancora impegnato clandestinamente nella Resistenza, raccontava a tutti, "idealmente raccolti intorno a un camino per il Capodanno" del 1944, una sua esperienza postarmistiziale. Moravia descrive appunto i suoi nove mesi di "sfollato" in una capanna di Sant'Agata (nella Ciociara la ribattezza altrove, sotto i tedeschi. Nel primo periodo, per circa un mese dovetti alzarmi ogni mattina alle cinque e correre in cima alla montagna per sfuggire alle requisizioni dei tedeschi. Queste passeggiate erano molto belle: si saliva dapprima tra la macchia, contornando certe rupi gigantesche, poi attraverso una pietraia bianca tutta sparsa di quercie, finalmente si raggiungevano i piccoli prati verdi e freschi che tappezzavano la cima del monte. Di lassù si vedevano tutt'intorno gole e forre profonde e più lontano i monti già nevosi della Ciociaria. A sud scintillava il mare che non mi parve mai così libero come allora. E quante volte guardando al profilo dell'Isola di Ponza occupata dagli alleati fantasticai di imbarcarmi e raggiungerla a qualsiasi costo. Quei luoghi erano rimasti quali li aveva conosciuti il leggendario pastore di Fondi quando vi si era rifugiato dopo il suo delitto; luoghi vergini, solitarii, maestosi, pieni di grotte, di rupi, di boscaglie, di macchie, di anfratti; luoghi proprio da briganti e da fuggiaschi. Io restava lassù molte ore senza far nulla, poiché non avevo libri; e verso l'imbrunire scendevo alla mia stalla. Poi vennero le piogge, non come sogliono in Italia, ma come in un paese tropicale. Un diluvio che cominciò alla fine di ottobre e durò fino a capodanno. Debbo ora descrivere la stalla in cui vivevo insieme con mia moglie. In piedi quasi si toccava il soffitto, i muri erano sporchi e pieni di ragnatele, in terra c'era il fango, la mobilia comprendeva un letto di assi con sopra un sacco pieno di paglia, un tavolo e, purtroppo, un telaio di tipo medievale il cui fracasso, nei giorni piovosi, ci teneva compagnia da otto a dieci ore di seguito. Di seggiole non ce n'era che una, da bambini, e questo perché i contadini che consideravano le seggiole suppellettili di lusso da adoperare soltanto in occasioni straordinarie, le tenevano appese al soffitto e a nessun patto ce le vollero dare. Mia moglie sedeva su quella bassa seggiolina e io stavo disteso sul letto. In questo modo abbiamo passato mesi interi, senza far nulla, a guardare la pioggia che scrosciava di fuori e formava una nebbia liquida che impediva la vista. La sola occupazione era cucinare, ma era un'occupazione assai ingrata perché non c'erano né fornelli né cucina e bisognava cuocere la roba sopra un tripode posato in terra, in una buia e puzzolente capanna. Ci voleva sempre una gran fatica per accendere la legna verde e bagnata e, una volta accesa, ne veniva fuori un tale fumo che in quella capanna persino i gatti avevano gli occhi perennemente lagrimosi. Eppure, nonostante il fumo, il buio, il fango e la sporcizia, nei giorni di pioggia la capanna era sempre piena di gente accoccolata alla maniera africana su ciocchi di legno, intorno il fuoco. Le donne filavano, gli uomini si rappezzavano le ciocie, i bambini urlavano e piangevano e io, inginocchiato in terra, soffiavo nel fuoco che minacciava continuamente di spegnersi. Era la prima volta che vivevo in una capanna e ricordandomi di aver letto in nostri scrittori provinciali descrizioni addirittura poetiche di una tale vita, mi meravigliavo che avessero potuto farlo. Evidentemente le capanne le avevano viste da lontano, pittoresche senza dubbio con il loro tetto di paglia che scende fin quasi a terra. Ma debbo riconoscere che quei contadini nella capanna si trovavano benissimo e si stupivano quando io ne lamentavo gli inconvenienti. In gennaio il vento di scirocco cadde, soffiò la tramontana spazzando via le nubi e in un gran freddo, sotto un cielo gelato e azzurro si seppe dello sbarco di Anzio. Grandi speranze furono formulate che svanirono ben presto appena si scoprì che lo sbarco si era fermato. Incominciarono i mesi più duri. La gente, nella speranza ingenua di un pronto arrivo degli alleati, aveva stupidamente sciupato le provviste e la poca roba che restava costava carissima. I bombardamenti, d'altra parte, cominciarono a farsi frequenti. Quasi ogni giorno vedevamo dieci, venti aeroplani apparire dietro le montagne, avventarsi sopra Fondi e poi gettarsi a picco uno dopo l'altro. La pianura rintronava di esplosioni, i campi si punteggiavano di fiocchi di fumo nero, si scorgevano distintamente nella città le case saltate in aria tra lingue di fuoco e volute di fumo. I tedeschi dal canto loro tormentavano continuamente la popolazione con requisizioni d'uomini e depredazioni. In montagna ci venivano di rado, ma quelle poche volte tutti correvano a nascondere tra le roccie o nella macchia il sacco di farina, il lardo, la treccia di cipolle. I contadini si avvertivano a vicenda dell'arrivo dei tedeschi con una parola che gridavano da un poggio all'altro: malaria. Gli austriaci erano i meglio e non nascondevano il loro desiderio che la guerra finisse al più presto. Gli altri ripetevano il solito ritornello che l'Italia aveva tradito e che gli italiani erano tutti dei traditori. Tutti questi mesi furono passati a cercare roba da mangiare e a discutere la situazione militare. C'erano lassù oltre i contadini, molta gente scappata da Fondi, quasi tutti negozianti. Debbo dire che se avessi dovuto giudicare la maturità politica del popolo italiano da quel piccolo mondo, avrei dovuto disperare. I contadini, tutti analfabeti, non sapevano neppure che cosa fossero il nazismo, il fascismo, la Germania o l'Inghilterra; gli altri ne sapevano poco di più e non pensavano che a conservarsi. In nove mesi non sentii parlare neppure una sola volta dell'Italia e della catastrofe dell'Italia. Tutto questo era scusabile date le terribili condizioni in cui vivevano quelle persone ammassate in capanne e in tugurii; ma, purtroppo, si sentiva che neanche in condizioni migliori la loro mente si sarebbe mai levata al disopra delle materialità più immediate del vivere quotidiano. Molte volte sentii dire: venga il tedesco, venga l'inglese, venga chi vuole purché si possa tornare a casa. Questo però era un discorso dettato dalla disperazione. In generale i tedeschi erano odiati e gli alleati aspettati con ansia. Ma i motivi politici e patriottici non c'entravano, si trattava sempre di preferenze ispirate dal tornaconto e da altre considerazioni strettamente locali e personali. In aprile cominciò la fame. La montagna si era fatta bella in quell'aria mite e poetica, con grandi fioriture tremolanti di mandorli, di peri e di peschi, e campi di grano di un verde tenero alternati a campi di lino celesti. Ma sotto quella bellezza fiorita si nascondeva la penuria anzi l'assenza completa di frutta, di verdura, di tuberi edibili, di cose insomma da mangiare. Tutti andavano per la montagna a raccogliere erbe commestibili e io con loro. Queste erbe si chiamavano nel linguaggio locale erba santamaria, crispigno, caccialepre, quaiozza, pisciacane, ognuno ne faceva un gran fascio che dopo la cottura si riduceva a due o tre pallottole verdi. Chi aveva grassi ci aggiungeva un po' di strutto o di olio; i più le divoravano senza condimenti. La gente si guardava con sospetto, gli sforniti invidiavano i provvisti, avvenivano furti e sparizioni, alcune famiglie avevano facce incavate, pallori verdi, pancie gonfie, membra scheletrite. Quando giunsero gli americani già si parlava di formare delle bande al fine di requisire la poca roba che restava. La liberazione ci risparmiò, dopo tante sofferenze, anche quella di assistere ad una specie di brigantaggio organizzato. Gli americani si fecero precedere da un terribile fuoco di artiglieria. I proiettili fischiavano sulle nostre teste, i tedeschi rispondevano con i mortai e non di rado le granate esplodevano nella montagna. Finalmente, il ventun maggio, i tedeschi se ne andarono e giunsero le prime pattuglie alleate. Sei tedeschi fuggiaschi, laceri e affamati, si lasciarono di buon grado disarmare da me e dai contadini. Uno di loro piangeva, gli altri parevano contenti. Discesi a valle e trovai lo spettacolo diventato poi così comune: i soldati americani con le loro armi, i loro infiniti camion, le loro scatole e le loro sigarette e, intorno, torme di italiani cenciosi, affamati, ammirati che li interpellavano, gli chiedevano roba da mangiare, li applaudivano. Andai a Fondi e trovai fame, macerie e stracci. Cominciava una nuova vita. Cronologia di Eileen Romano 1907 Alberto Pincherle nasce a Roma il 28 novembre in via Sgambati. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, era di famiglia veneziana. La madre, Gina de Marsanich, di Ancona. La famiglia aveva già due figlie, Adriana e Elena. Nel 1914 nascerà un altro figlio, Gastone, il quale morirà a Tobruk nel 1941. Alberto Pincherle "ebbe una prima infanzia normale benché solitaria". avevano avuto Gli indifferenti". E infatti il libro, oltre a non avere successo, venne ignorato dalla critica per ordine del Ministero della Cultura Popolare. Moravia passa da "La Stampa" alla "Gazzetta del Popolo". 1935-1939 Per allontanarsi da un paese che incomincia a rendergli la vita difficile, Moravia parte per gli Stati Uniti. E' invitato da Giuseppe Prezzolini alla Casa Italiana della Cultura della Columbia University di New York. Vi rimane otto mesi, tenendovi tre conferenze sul romanzo italiano, discutendo di Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro e D'Annunzio. Parentesi di un mese in Messico. Breve ritorno in Italia dove scrive in poco tempo un libro di racconti lunghi intitolato L'imbroglio. Il libro fu proposto alla Mondadori che lo rifiutò. Moravia allora incontrò Bompiani e glielo propose. L'editore si consultò con Paola Masino che fu favorevole alla pubblicazione. Iniziò così una collaborazione praticamente ininterrotta con la casa editrice milanese. Nel 1936 parte in nave per la Cina (vi rimarrà due mesi). Compra a Pechino The Waste Land di Eliot. Cerca di avere un visto per la Siberia e Mosca ma non l'ottiene. Nel 1937 vengono assassinati in Francia Nello e Carlo Rosselli, cugini di Moravia. Nel 1938 parte per la Grecia dove rimarrà sei mesi. Incontra saltuariamente Indro Montanelli. 1939-1944 Torna in Italia e vive ad Anacapri con Elsa Morante che ha incontrato a Roma nel 1936 e che sposa nel 1941. Il matrimonio venne celebrato da padre Tacchi-Venturi, testimoni Longanesi, Pannunzio, Capogrossi e Morra. Nel 1940 pubblica una raccolta di scritti satirici e surrealisti intitolata I sogni del pigro. Nel 1941 pubblica un romanzo satirico, La mascherata; "basato da una parte su un mio viaggio al Messico e dall'altra sulla mia esperienza del fascismo", il romanzo mette in scena un "dittatore coinvolto in una cospirazione provocatoria organizzata dal suo stesso capo della polizia". Il libro, che aveva ottenuto il nulla osta di Mussolini, fu sequestrato alla seconda edizione. Moravia cerca di far intervenire, a favore del libro, Galeazzo Ciano, allora ministro degli Esteri. "Questi prese il libro dicendo che lo avrebbe letto durante un viaggio che stava per intraprendere. Andava a Berlino, da Hitler. Non se ne seppe più niente." In seguito alla censura de La mascherata non poté più scrivere sui giornali se non con uno pseudonimo. Scelse quello di Pseudo e sotto questo nome collaborò frequentemente alla rivista "Prospetive" diretta da Curzio Malaparte. Nel 1942 scrive Agostino che verrà pubblicato nel 1943 a Roma presso la casa editrice Documento, da un suo amico, Federico Valli, in un'edizione di 500 copie con due illustrazioni di Renato Guttuso; l'edizione era limitata perché l'autorizzazione alla pubblicazione era stata negata. Poco dopo, "fu diramata una "velina" con l'ingiunzione di non farmi scrivere più affatto". E contemporaneamente gli si impedisce di lavorare per il cinema, sua unica fonte di guadagno: infatti due sceneggiature, entrambe scritte per Castellani, Un colpo di pistola e Zazà, non portano la sua firma. Durante i 45 giorni, collabora al "Popolo di Roma" di Corrado Alvaro. "Poi il fascismo tornò con i tedeschi e io dovetti scappare perché fui informato (da Malaparte) che ero sulle liste della gente che doveva essere arrestata." Fugge con Elsa Morante verso Napoli ma non riesce a varcare il fronte e deve passare nove mesi in una capanna, presso Fondi, tra sfollati e contadini. "Fu questa la seconda esperienza importante della mia vita, dopo quella della malattia, e fu un'esperienza che dovetti fare per forza, mio malgrado." Il 24 maggio 1944, nell'imminenza della liberazione di Roma, la casa editrice Documento stampa La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo, un saggio che testimonia un primo approccio alle tematiche marxiste. Con l'avanzata dell'esercito americano, Moravia torna a Roma dopo aver trascorso un breve periodo a Napoli. 1945 "Subito dopo la guerra, vivacchiavamo appena." Al mattino scrive romanzi, come al solito. Al pomeriggio scrive sceneggiature per guadagnare. Scrive due sceneggiature: Il cielo sulla palude, per un film di Augusto Genina su Maria Goretti; e, più tardi, lavorerà alla sceneggiatura de La romana che sarà diretta da Luigi Zampa. Esce presso L'Acquario il volumetto illustrato da Maccari intitolato Due cortigiane e Serata di Don Giovanni. Nello stesso anno Valentino Bompiani, tornato a Milano, gli propone di ripubblicare Agostino, riprendendo così i legami interrotti dalla guerra. Il romanzo vince il Corriere Lombardo, primo premio letterario del dopoguerra. Ricomincia la collaborazione con diversi giornali fra cui "Il Mondo", "Il Corriere della Sera", "L'Europeo". 1946 Iniziano le traduzioni dei suoi romanzi all'estero. Ben presto sarà praticamente tradotto in tutti i paesi del mondo. Nello stesso anno inizia la fortuna cinematografica di Moravia: da romanzi e racconti vengono tratti film. Alcuni esempi: La provinciale con la regia di Mario Soldati, La romana di Luigi Zampa, La ciociara di Vittorio de Sica, Gli indifferenti di Francesco Maselli, Il disprezzo di Jean-Luc Godard, Il conformista di Giuseppe Bertolucci e via via fino alla Vita interiore di Gianni Barcelloni. 1947 Moravia pubblica La romana. Il romanzo riscuote, vent'anni dopo, lo stesso successo de Gli indifferenti. Inizia una ininterrotta fortuna letteraria. 1948-1951 Nel 1948 esce La disubbidienza; nel 1949 L'amore coniugale e altri racconti; nel 1951 Il conformista. 1952 Tutte le opere di Moravia sono messe all'indice dal Sant'Uffizio in aprile (nello stesso anno vengono messe all'indice le opere di André Gide). In luglio Moravia riceve il Premio Strega per I racconti appena pubblicati. 1953 S'intensificano le collaborazioni per il "Corriere della Sera" sotto forma di racconti e di reportage. Nello stesso anno Moravia fonda a Roma con Alberto Carocci la rivista "Nuovi Argomenti". Vi scriveranno Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini, Italo Calvino, Eugenio Montale, Franco Fortini, Palmiro Togliatti. Nel 1966 inizierà una nuova serie diretta da Moravia, Carocci e Pasolini (che aveva già pubblicato le Ceneri di Gramsci nella rivista), a cui si aggiungeranno Attilio Bertolucci e Enzo Siciliano. Ci sarà nel 1982 una terza serie, a Milano, i cui direttori sono Moravia, Siciliano e Sciascia. 1954-1956 I racconti romani vincono il Premio Marzotto. Esce Il disprezzo. Su "Nuovi Argomenti" appare il saggio L'uomo come fine che Moravia aveva scritto fin dal 1946. Moravia scrive una serie di prefazioni: nel 1955, al volume del Belli, Cento sonetti; nel 1956, a Paolo il caldo di Vitaliano Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal. 1957 Moravia inizia a collaborare all'"Espresso" fondato da Arrigo Benedetti nel 1955: vi curerà una rubrica cinematografica. Nel 1975 raccoglierà in volume alcune di queste sue recensioni: Al cinema. Esce La ciociara. 1971 Esce Io e lui. Enzo Siciliano pubblica presso Longanesi un libro-intervista a Moravia. 1972 Moravia incomincia dei lunghi viaggi in Africa. Ne risulteranno tre libri: il primo è A quale tribù appartieni?, al quale seguiranno Lettere dal Sahara e Passeggiate africane. Enzo Siciliano suggerisce che Moravia "è affascinato dall'Africa da un duplice aspetto: la sua arcaicità, il suo primitivismo, e per il modo in cui essa fa sperimentare la degradazione della modernità, quella civile modernità nella quale siamo immersi". 1973-1975 Escono Un'altra vita e una ristampa di racconti con il titolo Cortigiana stanca. Il 2 novembre 1975 muore Pier Paolo Pasolini. Moravia pubblica sul "Corriere della Sera" un articolo nel quale Pasolini è confrontato a Arthur Rimbaud. 1976-1981 Pubblica una raccolta di racconti, Boh (1976); una raccolta di testi teatrali; un romanzo, La vita interiore (1978), a cui ha lavorato per ben sette anni, la sua maggiore fatica narrativa dopo Le ambizioni sbagliate; e, nel 1980, una raccolta di saggi, Impegno controvoglia, scritti tra il 1943 e il 1978. Dal 1979 al 1982 è membro della Commissione di Selezione alla mostra del cinema di Venezia. La commissione era stata creata da Carlo Lizzani. Dal 1975 al 1981 Moravia è "inviato speciale" del "Corriere della Sera" in Africa. Nel 1981 raccoglie in volume i suoi articoli: Lettere dal Sahara. "Finora non mi era mai accaduto di fare un viaggio fuori del tempo, cioè fuori della storia, in una dimensione come dire? astorica, religiosa. Il viaggio nel Sahara ha colmato, come si dice, questa lacuna." 1982 Escono il romanzo 1934 e la raccolta di fiabe, tutte su animali parlanti, Storie della Preistoria. Fa un viaggio in Giappone e si ferma a Hiroshima. "In quel preciso momento, il monumento eretto in memoria del giorno più infausto di tutta la storia dell'umanità, ha "agito" dentro di me. Ad un tratto, ho capito che il monumento esigeva da me che mi riconoscessi non più cittadino di una determinata nazione, appartenente ad una determinata cultura bensì, in qualche modo zoologicamente ma anche religiosamente, membro, come ho detto, della specie." Moravia farà tre inchieste sull'"Espresso" sul problema della bomba atomica. La prima in Giappone, la seconda in Germania, la terza in Urss. 1983 Vince il Premio Mondello per 1934. Esce La cosa, dedicata a Carmen Llera. Il 26 giugno rifiuta la candidatura al Senato italiano: "Ho sempre pensato che non bisogna mischiare la letteratura con la politica; lo scrittore mira all'assoluto, il politico al relativo; soltanto i dittatori mirano insieme al relativo e all'assoluto". 1984 L'8 maggio accetta la candidatura per le elezioni europee come indipendente nelle liste del Pci. "Non c'è contraddizione", scrive in un'autointervista, "tra il rifiuto d'allora e la tua accettazione d'adesso? Ho detto che l'artista cerca l'assoluto. Ora il motivo per il quale pongo la mia candidatura al Parlamento europeo non ha niente a che fare, almeno direttamente, con la politica e, appunto, comporta la ricerca dell'assoluto. E' stato un particolare aspetto, purtroppo, di questa ricerca a determinare la mia candidatura." Diventa deputato al Parlamento europeo con 260'000 voti. Inizia sul "Corriere della Sera", con una corrispondenza da Strasburgo, il Diario europeo. 1985 Esce L'uomo che guarda. Vengono rappresentate, tra le ultime commedie di Moravia, L'angelo dell'informazione e La cintura. 1986 Esce in volume L'angelo dell'informazione e altri scritti teatrali. Il 27 gennaio si sposa con Carmen Llera. Escono L'inverno nucleare, a cura di Renzo Paris, e il primo volume delle Opere (1927-1947), a cura di Geno Pampaloni. 1987-1990 Escono in questi anni: Passeggiate africane (1987), Il viaggio a Roma (1988), La villa del venerdì (1990) e Vita di Moravia (1990), scritto assieme a Alain Elkann. Nel 1989 esce il secondo volume delle Opere (1948-1968), a cura di Enzo Siciliano. 1990 Il giorno 26 settembre muore nella sua casa romana, alle 9 del mattino. 1991 Esce La donna Leopardo (1989-1990). 1992 Appare Diario europeo che raccoglie gli articoli apparsi sulla terza pagina del "Corriere della Sera" dal settembre 1984 al giugno 1990. 1993 Esce Romildo, a cura di Enzo Siciliano: un florilegio di testi inediti e autobiografici cui si aggiunge la riproposta di Palocco, già apparso tre anni prima come volumetto-omaggio allegato a Vita di Moravia. 1994 Esce il primo volume della nuova edizione delle opere di Moravia: Viaggi. Articoli 1930-1990 a cura di Enzo Siciliano. guai a contraddirlo. Si assentava continuamente dal negozio e io sapevo che andava a trovare qualche donna, ma ci giurerei che le donne non gli davano retta se non quando lui gli dava dei soldi. Coi soldi, si sa, si ottiene tutto, persino che una sposina alzi la gonnella. Io capivo subito quando l'amore gli andava bene, perché allora era quasi allegro e perfino gentile. Quando invece non ci aveva donne, diventava cupo, mi rispondeva male e qualche volta persino mi menava. Ma io glielo dissi una volta: "Tu va con le mignotte quanto ti pare, ma non toccarmi perché altrimenti ti lascio e torno a casa mia." Io non volevo amanti, invece, sebbene molti, come ho già detto, mi stessero dietro; tutta la mia passione la mettevo nella casa, nel negozio, e, quando mi nacque la bambina, nella mia famiglia. Dell'amore non m'importava e anzi, forse forse, per via che non avevo conosciuto se non mio marito così vecchio e brutto, mi faceva quasi schifo. Volevo soltanto star tranquilla e non mancare di nulla. Del resto una donna deve essere fedele al marito qualsiasi cosa avvenga, anche se il marito, come era il caso, non è fedele a lei. Mio marito con gli anni non trovava più donne che gli dessero retta, neppure per denaro, ed era diventato proprio insopportabile. Da un pezzo io non facevo più l'amore con lui e poi a un tratto, forse perché non aveva donne, lui si incapricciò di nuovo di me e voleva costringermi a fare l'amore di nuovo, ma non come marito e moglie, così, semplicemente, ma come lo fanno le mignotte con i loro amanti, per esempio acchiappandomi per i capelli e tentando di farmelo prendere in bocca, che è una cosa che non mi piacque mai e non avevo mai voluto fare, neppure quando venni a Roma la prima volta, sposina, ed ero così felice che quasi quasi mi illudevo di essere innamorata di lui. Glielo dissi che non volevo far più l'amore con lui né al modo delle spose né a quello delle mignotte; e lui la prima volta mi menò, facendomi persino uscire il sangue dal naso; poi, vedendo che ero proprio risoluta, cessò di starmi dietro, ma prese a odiarmi e a perseguitarmi in tutti i modi. Io pazientavo, ma in fondo lo odiavo anch'io e non potevo più vederlo. Lo dissi anche al prete, in confessione: un giorno finisce male; e il prete, da vero prete, mi consigliò di aver pazienza e di dedicare le mie sofferenze alla Madonna. Intanto avevo preso in casa una ragazza per aiutarmi, una certa Bice, che aveva quindici anni e i parenti me l'avevano affidata, perché era quasi una bambina; e lui si mise a farle la corte e quando vedeva che ero impicciata con i clienti, lasciava il negozio, saliva quattro a quattro la scala, andava in cucina e le si gettava addosso come un lupo. Questa volta m'impuntai e gli dissi di lasciar stare la Bice e poi, siccome lui insisteva a tormentarla, la licenziai. Lui per questo prese a odiarmi più che mai e fu allora che cominciò a chiamarmi burina: "E' tornata la burina?... dov'è la burina?" Insomma era una gran croce e quando si ammalò sul serio, debbo confessarlo, quasi quasi provai sollievo. Però lo curai con amore, come si deve curare il marito quando è ammalato; e tutti lo sanno che non mi occupavo più del negozio e stavo sempre accanto a lui e ci avevo perduto persino il sonno. Morì, alla fine; e allora io mi sentii di nuovo quasi felice. Avevo il negozio, avevo l'appartamento, avevo mia figlia che era un angiolo e proprio non desideravo più nulla dalla vita. Furono quelli gli anni più felici della mia vita: 1940, 1941, 1942, 1943. E' vero che c'era la guerra, ma io della guerra non sapevo nulla, siccome non avevo che quella figlia, non me ne importava nulla. S'ammazzassero pure quanto volevano, con gli aeroplani, con i carri armati, con le bombe, a me mi bastava il negozio, e l'appartamento per essere felice, come infatti ero. Del resto sapevo poco della guerra, perché sebbene sappia fare i conti e magari mettere la firma su una cartolina illustrata, a dire la verità non so leggere bene e i giornali li leggevo soltanto per i delitti della cronaca nera, anzi me li facevo leggere da Rosetta. Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me come dice il proverbio, ammazza ammazza, è tutta una razza. Ai militari che venivano a bottega e dicevano: vinceremo là, andremo qua, diventeremo, faremo, io gli rispondevo: per me tutto va bene finché il negozio va bene. E il negozio andava bene sul serio, benché ci fosse quell'inconveniente delle tessere e Rosetta e io stessimo tutto il giorno con le forbici in mano come se fossimo state sarte e non negozianti. Andava bene il negozio perché io ero brava e sul peso riuscivo sempre a guadagnarci un poco e poi anche perché, siccome c'era il tesseramento, facevamo tutte e due un po' di borsa nera. Rosetta e io ogni tanto chiudevamo il negozio e andavamo al mio paese, oppure in qualche altra località più vicina. Ci andavamo con due grandi valigie di fibra, vuote; e le riportavamo indietro piene di tutto un po': farina, prosciutti, uova, patate. Con la polizia annonaria mi ero messa d'accordo, perché avevano fame anche loro e così era più quello che vendevo sotto banco che quello che vendevo a viso aperto. Uno della polizia, però, un giorno si mise in testa di ricattarmi. Venne e disse che se io non facevo all'amore con lui, mi avrebbe denunciato: io gli dissi, calma calma: "Va bene... passa più tardi a casa mia." Lui si fece rosso, come se gli fosse venuto un colpo, e se ne andò senza dir nulla. All'ora fissata lui venne, lo feci passare in cucina, aprii un cassetto, presi il coltello e glielo puntai d'improvviso al collo dicendo: "Tu denunciami, ma io prima ti scanno." Lui si spaventò e disse in fretta che ero matta e lui aveva fatto per scherzo. Aggiunse: "Ma tu non sei fatta come le altre donne? Non ti piacciono gli uomini?" Gli risposi: "Queste sono cose che devi andare a dire alle altre... io sono vedova, ci ho il negozio, e non penso che al negozio... per me l'amore non esiste, ricordatelo per regola tua." Lui non ci credette subito e per un pezzo continuò a farmi la corte, rispettosamente, però. E invece io avevo detto proprio la verità. L'amore, dopo la nascita di Rosetta, non mi aveva più interessato e forse neppure prima. Sono fatta così che non ho mai potuto soffrire che qualcuno mi metta le mani addosso; e se i miei genitori non mi avessero a suo tempo combinato il matrimonio, credo che ancora oggi sarei come mamma mi ha fatto. Ma all'apparenza inganno, perché piaccio agli uomini e sebbene sia un po' bassina e con gli anni mi sia inquartata, ho la faccia spianata, senza una ruga, con gli occhi neri e i denti bianchi. In quel periodo che, come ho detto, fu il più felice della mia vita, non si contano gli uomini che mi chiesero di sposarmi. Ma io sapevo che tiravano al negozio e all'appartamento, anche quelli che pretendevano di amarmi sul serio. Forse non lo sapevano neppure loro che più di me gli premeva il negozio e l'appartamento e si ingannavano sopra se stessi; ma io giudicavo da me stessa e pensavo: "Io darei qualsiasi uomo per il negozio e l'appartamento... perché mai loro dovrebbero essere diversi da me?... siamo tutti fatti della stessa pasta." E almeno fossero stati non dico ricchi ma benestanti; ma no, erano certi disperati che si vedeva lontano un miglio che avevano bisogno di sistemarsi. A uno di Napoli, un agente di pubblica sicurezza che più degli altri faceva lo spasimante e cercava di prendermi con l'adulazione, coprendomi di complimenti e chiamandomi perfino, alla maniera napoletana, "donna Cesira", glielo dissi francamente: "Vediamo un po', se non avessi il negozio e l'appartamento, me le verresti a dire queste cose?" Quello almeno fu sincero. Rispose ridendo: "Ma l'appartamento e il negozio, tu ce l'hai." E' vero, però, che fu sincero perché ormai gli avevo tolto ogni speranza. Intanto la guerra continuava, ma io non me ne occupavo e quando alla radio, dopo le canzonette, leggevano il comunicato, dicevo a Rosetta: "Chiudi chiudi quella radio... li mortacci loro, 'sti figli di mignotte, si scannino tra di loro finché vogliono ma io non voglio sentirli, che ce ne importa a noi della loro guerra?... loro se le fanno tra di loro senza chiedere il parere alla povera gente che deve andarci e allora noialtri, che siamo la povera gente, siamo giustificati a non occuparcene." Però, da un'altra parte, bisogna dire che la guerra mi favoriva: sempre più facevo la borsa nera con prezzi d'affezione, sempre meno vendevo al negozio coi prezzi fissati dal governo. Quando cominciarono i bombardamenti a Napoli e nelle altre città, la gente veniva a dirmi: "Scappiamo che qui ci ammazzano corridoio e la signora aprì la porta della dispensa e allora vidi davvero ogni ben di Dio. C'era più roba là dentro che in una pizzicheria. Era un camerotto senza finestra con tanti scaffali giro giro e sugli scaffali si vedevano disposte qui una fila di scatole grosse, di quelle da un chilo, di sardine all'olio, lì altro scatolame fino, americano e inglese e poi tanti pacchi di pasta, e sacchi di farina e di fagioli e vasi di confettura e almeno una decina tra prosciutti e salami. Io dissi alla signora: "Signora, lei qui ci ha da mangiare per dieci anni." Ma lei rispose: "Non si sa mai." Misi il prosciutto accanto agli altri e il marito lì per lì mi pagò e mentre toglieva il denaro dal portafogli le mani gli tremavano dalla gioia e non faceva che ripetere: "Appena ci ha qualche cosa di buono, si ricordi di noi... siamo disposti a pagare il venti e anche il trenta per cento più degli altri." Insomma tutti volevano roba da mangiare e pagavano senza fiatare qualsiasi prezzo e così fu che io non pensai a fare le provviste, perché mi ero abituata a considerare il denaro come la cosa più preziosa mentre invece il denaro non si può mangiare e quando venne la carestia non ci avevo proprio niente. Nel negozio le scansie erano vuote, non era restato che qualche rotolo di pasta e poche scatole di sardine di cattiva qualità. Avevo sì i soldi e non li tenevo più in banca ma a casa per precauzione perché dicevano che il governo voleva chiudere le banche e prendersi i risparmi della povera gente; ma adesso i soldi non li voleva più nessuno e, d'altra parte, mi sapeva d'amaro, dopo aver fatto i soldi vendendo in borsa nera, di spenderli in borsa nera coi prezzi che andavano alle stelle. Intanto erano tornati i tedeschi e i fascisti e passando per piazza Colonna, una mattina, vidi il bandierone nero dei fascisti che pendeva dal balcone del palazzo di Mussolini e tutta la piazza era piena di uomini in camicia nera armati fino ai denti e tutti quelli che avevano fatto quel fracasso la notte del venticinque luglio, adesso scappavano rasente i muri, come tanti topi quando arriva il gatto. Io dissi a Rosetta: "Speriamo che ora vincano presto la guerra e che si possa mangiare di nuovo." Era il mese di settembre e una mattina mi dissero che c'era una distribuzione di uova dalle parti di via della Vite. Ci andai, e c'erano infatti due camion pieni di uova. Ma non distribuivano niente e c'era un tedesco in mutande e in camiciola, con il fucile mitragliatore a tracolla, che sorvegliava lo scarico delle uova. La gente intorno si era raggruppata e guardava scaricare le uova senza dir nulla, ma con gli occhi fuori della testa, da veri affamati qual erano. Il tedesco si vedeva che aveva paura che l'aggredissero perché non faceva che voltarsi intorno, la mano sul fucile mitragliatore, con certi salti di lato come una ranocchia in riva ad un pantano. Era giovane, grasso e bianco, tutto arrossato per il sole, con le scottature sulle cosce e sulle braccia come dopo una giornata passata al mare. La gente vedendo che le uova non le distribuivano, cominciò a mormorare prima piano e poi sempre più forte e il tedesco, che si vedeva lontano un miglio che aveva paura, alzò il fucile e lo puntò contro la folla dicendo: "Via, via, via." Allora io persi la testa anche perché quella mattina non avevo mangiato niente e ci avevo fame, e gli gridai: "Tu dacci le uova e noi ce ne andiamo." Lui ripeté: "Via, via," puntandomi contro il fucile e allora io feci un gesto come per dire che avevo fame, portando la mano alla bocca. Ma lui non se ne diede per inteso e tutto ad un tratto mi piantò la canna del fucile proprio sullo stomaco, spingendomela dentro, così che mi fece male e allora mi venne la rabbia e gridai: "Avete fatto male a mandarlo via, Mussolini... si stava meglio con lui... da quando ci siete voialtri, non si mangia più." Non so perché, a queste parole la gente si mise a ridere e molti mi gridarono: "burina", proprio come mio marito e uno mi disse: "A Sgurgola, i giornali non li leggete?" Risposi, inviperita: "Sono di Vallecorsa e non di Sgurgola... e poi a te non ti conosco e non ti parlo." Ma quelli continuavano a ridere e anche il tedesco quasi quasi rideva. E intanto le uova le tiravano giù nelle cassette aperte, tutte bianche e belle, e le portavano dentro il magazzino. Io allora gridai: "Ah frocio, le uova vogliamo, hai capito... vogliamo le uova." Dalla folla uscì un vigile e mi ingiunse: "Su, vattene che sarà meglio." Io allora gli risposi: "Hai mangiato tu?... io no." Lui allora mi diede uno schiaffo e con uno spintone mi ricacciò in mezzo alla folla. Io l'avrei ammazzato, parola, e mi dibattevo dicendogli tutto quello che pensavo; ma intorno mi spingevano affinché mi allontanassi e alla fine dovetti andarmene e nel parapiglia ci persi anche il fazzoletto. Io andai a casa e dissi a Rosetta: "Qui se non ce ne andiamo in tempo, finiremo per morire di fame." Allora lei scoppiò a piangere e disse: "Mamma, ho tanta paura." Io ci rimasi male perché fin allora Rosetta non aveva mai detto nulla, non si era mai lamentata e anzi con il suo contegno tranquillo più di una volta mi aveva dato coraggio. Io le dissi: "Sciocca, perché hai paura?" E lei rispose: "Dicono che verranno con gli aeroplani e ci ammazzeranno tutti... dicono che ci hanno un piano e prima distruggeranno tutte le strade ferrate e i treni e poi quando Roma sarà proprio isolata e non ci sarà più niente da mangiare e nessuno potrà più scappare in campagna ci ammazzeranno tutti con i bombardamenti... oh mamma ho tanta paura... e Gino non mi scrive più da un mese e non so più niente di lui." Io cercai di consolarla dicendogli le solite cose che anch'io ormai sapevo che non erano vere: che a Roma c'era il Papa, che i tedeschi avrebbero vinto presto la guerra, che non c'era d'aver paura. Ma lei singhiozzava forte e dovetti alla fine prenderla tra le braccia e cullarla come quando aveva due anni. Mentre l'accarezzavo e lei continuava a singhiozzare e a ripetere: "Ho tanta paura, mamma!", io pensavo che non rassomigliava davvero a me che non avevo paura di niente né di nessuno. Anche fisicamente, del resto, Rosetta non mi rassomigliava: aveva un viso come di pecorella, con gli occhi grandi, di espressione dolce e quasi struggente, il naso fine che le scendeva un poco sulla bocca e la bocca bella e carnosa che sporgeva però sul mento ripiegato, proprio come quello delle pecore. E i capelli ricordavano il pelo degli agnelli, di un biondo scuro, fitti fitti e ricci, e aveva la pelle bianca, delicata, sparsa di nei biondi, mentre io ci ho i capelli neri e la carnagione scura, come bruciata dal sole. Finalmente, per calmarla, le dissi: "Tutti dicono che l'arrivo degli inglesi è questione di giorni e poi verranno e non ci sarà più carestia... intanto sai che facciamo? Ce ne andiamo dai nonni, al paese, e lì aspettiamo la fine della guerra. Loro la roba da mangiare ce l'hanno, hanno fagioli, hanno uova, hanno maiali. E poi in campagna qualche cosa si trova sempre." Lei allora domandò: "E l'appartamento?" Io risposi: "Figlia mia, anche a questo ci ho pensato... lo affittiamo a Giovanni, per modo di dire, però... e quando torniamo, lui ce lo rende tale e quale... il negozio, invece, lo chiudo, tanto non c'è niente dentro e per un pezzo non ci sarà niente da vendere." Bisogna sapere che questo Giovanni era un commerciante di carbone e legna da ardere il quale era stato amico di mio marito. Era un omaccione grande e grosso, calvo, con la faccia rossa, i baffi ispidi e l'occhio dolce. Quando mio marito viveva ancora, lui gli era compagno la sera, all'osteria, con altri negozianti del quartiere. Era sempre vestito con certi abiti larghi e rilasciati, un mezzo sigaro spento e freddo stretto tra i denti, sotto i baffi, e l'ho sempre veduto con un taccuino e un lapis in mano, non faceva che far conti e prendere note e appunti. Aveva le maniere come l'occhio, dolci, affettuose, familiari e quando mi vedeva, ai tempi che Rosetta era piccola, mi domandava sempre: "Come sta la pupa?... che fa la pupa?" Dirò una cosa ma non ne sono tanto sicura, però, perché certe cose quando accadono poi uno dubita che siano accadute, specie se la persona che le ha fatte, come fu il caso, non ne riparla più e si comporta come se non fossero mai accadute. Giovanni, dunque, quando mio marito era ancora vivo, salì un giorno a casa, che stavo cucinando, con non ricordo più che pretesto e sedette in cucina mentre io stavo dietro ai fornelli e cominciò a parlare del più e del meno e alla fine venne a parlare di mio marito. Io credevo che fossero amici e perciò immaginatevi la mia sorpresa quando tutto ad un tratto lo udii dire: "Ma di' un po' Cesira, che te ne fai di Lui allora prese un foglio, ci scrisse una dichiarazione in cui io dicevo che gli affittavo casa e negozio per la durata di un anno e me lo fece firmare. Mise il foglio in un cassetto, andò ad aprire la porta e disse: "Siamo intesi... oggi vengo per la consegna e domani mattina verrò a prendervi tutte e due e vi accompagnerò alla stazione." Stava presso la porta e io gli passai davanti per uscire e lui allora, nel momento che passavo, mi diede con la palma aperta una manata sul sedere sorridendo, come per dire: "Siamo intesi anche per quest'altra faccenda." Pensai dentro di me che ormai non avevo più il diritto di protestare, che non ero più una donna onesta e pensai pure che anche questo era un effetto della guerra e della carestia, che una donna onesta, ad un certo punto, si sente dare una manata sul sedere e non può più protestare perché, appunto, ormai non è più onesta. Tornai a casa e cominciai subito a fare i preparativi per la partenza. Mi dispiaceva e mi piangeva il cuore di lasciare quella casa in cui avevo passati gli ultimi vent'anni, senza mai allontanarmene, salvo che per i viaggi della borsa nera. Ero convinta, è vero, che gli inglesi sarebbero venuti al più presto, roba di una settimana o due, e mi preparavo infatti per un'assenza di non più di un mese; ma nello stesso tempo avevo non so che presentimento non soltanto di un'assenza più lunga ma anche di qualche cosa di triste che mi aspettasse nell'avvenire. Io non mi ero mai occupata di politica e non sapevo niente dei fascisti, degli inglesi, dei russi e degli americani: tuttavia, a forza di sentirne parlare intorno a me, non dico che avessi capito qualche cosa perché a dire la verità non avevo capito niente, ma avevo capito che non c'era niente di buono per l'aria per la povera gente come noi. Era come in campagna quando il cielo si fa nero per un temporale e le foglie degli alberi si rivoltano tutte dalla stessa parte e le pecore si mettono l'una contro l'altra e con tutto che sia estate, da non so dove viene un vento freddo che soffia rasente terra: avevo paura ma non sapevo di che; e mi si stringeva il cuore al pensiero di lasciare la mia casa e il mio negozio come se avessi saputo di certo che non l'avrei mai più rivisti. Dissi però a Rosetta: "Guarda di non portare tanta roba che staremo fuori non più di due settimane e fa ancora caldo." Eravamo infatti verso il quindici di settembre e faceva molto caldo, più degli altri anni. Così riempimmo due piccole valigie di fibra, per lo più di panni leggeri e ci mettemmo soltanto un paio di maglie per il caso che facesse freddo. Per consolarmi della partenza adesso non facevo che descrivere a Rosetta le accoglienze che ci avrebbero fatto i miei genitori al paese: "Vedrai che ci faranno mangiare fino a scoppiare... ingrasseremo e ci riposeremo... in campagna tutte queste cose che rendono difficile la vita a Roma, non ci sono... staremo bene, dormiremo bene, e soprattutto mangeremo bene... vedrai: ci hanno il maiale, ci hanno la farina, ci hanno la frutta, ci hanno il vino, staremo da papi." Ma a Rosetta questa prospettiva non pareva bastare a rallegrarla, lei pensava al fidanzato che stava in Jugoslavia ed era un mese che non dava più sue notizie e io sapevo che lei tutte le mattine si alzava presto e andava in chiesa per pregare per lui, affinché non glielo ammazzassero e tornasse e potessero sposarsi. Per farle capire che la capivo le dissi allora, abbracciandola e baciandola: "Figlia d'oro, sta' tranquilla, che la Madonna ti vede e ti sente e non permetterà che ti succeda niente di male." Intanto continuavo i preparativi e adesso, passato il momento dell'apprensione, non vedevo l'ora di andarmene. Anche perché negli ultimi tempi, tra gli allarmi aerei, la mancanza di roba da mangiare, l'idea di partire e tante altre cose, la vita per me non era più una vita, perfino non avevo più voglia di pulire la casa, io che di solito mi buttavo a ginocchioni in terra per lustrare i pavimenti e mi facevo mancare il fiato a forza di lustrarli e di renderli simili a uno specchio. Mi pareva insomma che la vita si fosse sgangherata come una cassa che casca giù da un carretto e si sfascia e tutta la roba si sparge per la strada. E se pensavo a quel fatto di Giovanni e a come lui mi aveva dato quella manata sul sedere, mi sentivo anch'io sgangherata come la vita, e ormai capace di fare qualsiasi cosa, anche rubare, anche ammazzare, perché avevo perduto il rispetto di me stessa e non ero più quella di prima. Mi consolavo pensando a Rosetta che, almeno ci aveva sua madre a proteggerla. Lei almeno sarebbe stata quello che ormai io non ero più. Ah, davvero la vita è fatta di abitudini e anche l'onestà è un'abitudine; e una volta che si cambiano le abitudini, la vita diventa un inferno e noialtri tanti diavoli scatenati senza più il rispetto di noi stessi e degli altri. Rosetta, poi, era anche preoccupata per il suo gatto, un bel soriano che lei aveva trovato per strada ancora piccolino e se l'era tirato su a mollichelle e la notte dormiva con lei e di giorno la seguiva da una stanza all'altra come un cagnolino. Le dissi di affidarlo alla portiera dello stabile accanto e lei disse che l'avrebbe fatto. Adesso sedeva in camera sua, ai piedi del letto sul quale stava la valigia già chiusa, tenendo il gatto sulle ginocchia e lo accarezzava pian piano e il gatto, poveretto, che non sapeva che la padrona stava per abbandonarlo, faceva le fusa, gli occhioni chiusi. A me venne compassione perché capivo che lei soffriva e le dissi: "Figlia santa... lascia passare questo brutto momento e poi vedrai che tutto andrà bene... finirà la guerra, tornerà l'abbondanza e tu ti sposerai e starai con tuo marito e sarai felice." Proprio in quel momento, come per darmi una risposta, ecco suonare la sirena d'allarme, quel rumore maledetto che mi pareva che portasse iettatura e mi faceva ogni volta sprofondare il cuore. Allora mi venne non so che rabbia e aprii la finestra che dava sul cortile e alzai il pugno verso il cielo e gridai: "Che tu possa morì ammazzato e chi ti ci manda e chi ti ci ha fatto venire." Rosetta che non si era mossa disse: "Mamma, perché ti arrabbi tanto? Tu stessa hai detto che tutto tornerà a posto." Allora, per amore di quell'angiolo, mi calmai, sebbene con sforzo e risposi: "Sì, ma intanto noi dobbiamo andarcene da casa nostra e chissà che cosa succederà ancora." Quel giorno soffrii le pene dell'inferno. Non mi pareva più di essere me stessa: ora ripensavo a quello che era successo con Giovanni e al pensiero di avergli ceduto proprio come una zoccola di strada, tutta vestita, sulle balle di carbone, mi sarei morsa le mani dalla rabbia; ora mi guardavo intorno per la casa che era stata la mia casa per vent'anni e adesso dovevo lasciarla e mi sentivo disperata. In cucina il fuoco era spento, nella camera da letto dove dormivo nel letto matrimoniale insieme con Rosetta, le lenzuola erano rovesciate in disordine e io non mi sentivo più la forza di rimettere a posto il letto, in cui sapevo che presto non avrei più dormito né di accendere il fuoco nei fornelli che da domani non sarebbero più stati i miei fornelli e io non ci avrei più cucinato. Mangiammo senza tovaglia, sul tavolo, pane e sardine; ogni tanto guardavo a Rosetta, così triste, e allora il boccone mi si fermava in gola perché mi faceva pena e avevo paura per lei e pensavo che non era stata fortunata a crescere e vivere in tempi come questi. Verso le due ci buttammo sul letto, sopra le coperte disfatte, e dormimmo un poco; o meglio dormì Rosetta, tutta acciambellata contro di me e io invece stetti a occhi aperti pensando tutto il tempo a Giovanni, ai sacchi di carbone e alla manata che lui mi aveva dato sul sedere e alla casa e al negozio che stavo per lasciare. Finalmente suonarono alla porta e io mi sottrassi dolcemente al peso di Rosetta addormentata e andai alla porta. Era Giovanni, sorridente, il sigaro in bocca. Io non lo lasciai neppure fiatare: "Senti," gli dissi con furore, "quello che è successo è successo e io non sono più quella che ero prima, lo ammetto, e tu hai ragione a trattarmi come una mignotta... ma tu dammi un'altra manata come stamattina, e io, quanto è vero Dio, ti ammazzo... poi vado in galera ma di questi tempi può anche darsi che in galera ci si stia bene e io ci vado volentieri." Lui inarcò appena appena le sopracciglia per la sorpresa, ma non disse nulla. Passò nell'anticamera pronunziando a fior di labbra: "Allora, facciamo questa consegna?" Andai in camera da letto e presi un foglio sul quale avevo fatto scrivere a Rosetta tutta la roba che ci avevo nella casa e nel negozio. Avevo fatto scrivere anche i più piccoli oggetti non tanto arrivare a Napoli e noi dovevamo appunto andare a mezza strada tra Roma e Napoli, e io pensai che le precauzioni non erano mai troppe. La sera ci mettemmo a tavola e questa volta avevo fatto un po' di cucina per non rattristarci troppo; ma avevamo appena incominciato che suonò l'allarme e vidi che Rosetta era diventata pallida dalla paura e quasi tremava e capii che lei dopo aver resistito per molto tempo ora non ce la faceva più e aveva i nervi sottosopra e così mi rassegnai a lasciare la cena e a scendere in cantina, una precauzione che in fondo non serviva a niente perché, se fosse cascata una bomba, quella nostra casa tanto vecchia sarebbe andata in polvere e noi ci saremmo rimaste sotto. Così scendemmo nel rifugio e c'erano tutti quanti gli inquilini della casa e passammo tre quarti d'ora sedute sui banchi al buio. Tutti parlavano dell'arrivo degli inglesi come di cosa di pochi giorni: erano sbarcati a Salerno che stava vicino a Napoli e da Napoli a Roma ci avrebbero messo forse una settimana anche ad andar piano perché ormai tedeschi e fascisti scappavano come lepri e non si sarebbero fermati che alle Alpi. Ma alcuni dicevano che a Roma i tedeschi avrebbero dato battaglia perché Mussolini ci teneva a Roma e lui non gliene importava niente di ridurla una rovina purché gli inglesi non ci entrassero. Io ascoltavo queste cose e pensavo che facevamo bene ad andarcene; Rosetta si stringeva contro di me e io capivo che lei aveva paura ormai, e che non si sarebbe calmata se non quando fossimo andate via da Roma. Ad un certo punto qualcuno disse: "Sai che dicono? Che lanceranno i paracadutisti e quelli entreranno nelle case e ne faranno di tutti i colori." "Come sarebbe a dire?" "Be', la roba e poi le donne." Allora io dissi: "Voglio vedere chi avrà il coraggio di toccarmi." Dal buio una voce che era quella di un certo Proietti, fornaio, un uomo stupido da non dirsi e sempre molto greve nel linguaggio, che io non avevo mai potuto soffrire, disse con una risata: "A te magari non ti toccheranno perché sei troppo vecchia... ma tua figlia, sì." Risposi: "Guarda come parli... io ci ho trentacinque anni perché mi sono sposata a sedici e troppi ce ne sono che vorrebbero sposarmi... se non mi sono risposata, è che non ho voluto." "Sì," rispose lui, "la volpe e l'uva." Io dissi allora, proprio arrabbiata: "Tu pensa piuttosto a quella mignotta di tua moglie... lei le corna te le mette già adesso che non ci sono i paracadutisti... figuriamoci quando ci saranno." Credevo che la moglie fosse al paese, erano di Sutri e io l'avevo vista andar via qualche giorno prima; invece, guarda combinazione, stava anche lei nel rifugio e io non l'avevo veduta per via del buio. Ma la sentii subito urlare: "Mignotta sei tu, brutta zozza, vigliacca, disgraziata," e poi sentii che lei acchiappava per i capelli Rosetta credendo che fossi io e Rosetta urlava e quella la menava. Allora, sempre al buio, mi slanciai su di lei e così rotolammo a terra dandoci le botte e strappandoci i capelli mentre tutti gridavano e Rosetta piangeva e si raccomandava e mi chiamava. Insomma dovettero dividerci, sempre al buio, e credo che anche ai pacieri toccò qualche botta, perché, tutto ad un tratto, mentre ci dividevano, suonò la sirena del cessato allarme e allora uno accese la luce e ci trovammo l'una di fronte all'altra, scarmigliate e ansimanti, trattenute per le braccia e quelli che ci tenevano chi aveva la faccia sgraffiata e chi i capelli scomposti. Rosetta, in un angolo, singhiozzava. Quella notte, dopo questa scenata, ce ne andammo a letto molto presto senza neanche finire la cena che restò sul tavolo e la mattina dopo c'era ancora. Nel letto, Rosetta si rannicchiò contro di me, come faceva quando era piccola e come da molto tempo non faceva più. Le domandai: "Ma che, hai ancora paura?" Lei rispose: "No, non ho paura ma è vero mamma che i paracadutisti fanno quelle cose alle donne?" E io: "Non dargli retta a quello scemo... non sa quello che dice." "Ma è vero?" insistette lei. E io: "No, non è vero... e poi noi partiamo domani e andiamo in campagna e lì non succederà proprio niente, sta' tranquilla." Lei stette zitta ancora un momento e poi disse: "Ma affinché noi possiamo tornare a casa, chi è che deve vincere: i tedeschi o gli inglesi?" Io a questa domanda ci rimasi male perché, come ho detto, i giornali non li leggevo e per giunta non mi ero mai interessata di sapere come andasse la guerra. Dissi: "Io non lo so quello che hanno combinato... so soltanto che sono tutti figli di mignotte, inglesi e tedeschi... e che le guerre loro le fanno senza domandarci niente a noialtri poveretti... ma sai che ti dico: che per noi bisogna che qualcuno vinca sul serio, così la guerra finisce... tedeschi o inglesi non importa, purché qualcuno sia il più forte." Ma lei insistette: "Tutti dicono che i tedeschi sono cattivi... ma che hanno fatto, mamma?" Allora io risposi: "Hanno fatto che invece di stare al paese loro sono venuti qui, a scocciarci a noi... per questo la gente ce li ha sulle corna." "Ma dove andiamo noi adesso," lei domandò, "ci sono i tedeschi o gli inglesi?" Io non sapevo più che rispondere e dissi: "Lì non ci sono né tedeschi né inglesi... ci sono i campi, le vacche, i contadini e si sta bene... e ora dormi." Lei non disse più nulla e si rannicchiò tutta contro di me e mi sembrò che alla fine si addormentasse. Che brutta notte. Io mi svegliavo ad ogni momento e penso che Rosetta anche lei non chiudesse occhio tutta la notte, sebbene, per non inquietarmi, forse facesse finta di dormire. Talvolta mi pareva di svegliarmi, e invece dormivo e sognavo di svegliarmi, talaltra credevo di dormire e invece ero sveglia e la stanchezza e il nervosismo mi illudevano di dormire. Gesù nell'orto, la notte prima che Giuda venisse a pigliarlo, non ha sofferto tanto come io quella notte lì. Mi si stringeva il cuore al pensiero di lasciare la casa dove avevo vissuto per tant'anni e pensavo che durante il viaggio potessero mitragliare il treno, oppure che il treno non ci fosse più, perché dicevano che da un giorno all'altro Roma poteva restare isolata. Pensavo anche a Rosetta e pensavo che era una vera disgrazia che mio marito fosse stato l'uomo che era stato e che fosse morto perché due donne sole al mondo, senza un uomo che le guidi e che le protegga, sono in un certo senso come due cieche che camminano senza vederci e senza capire dove si trovano. Una volta, non so che ora fosse, sentii sparare nella strada, io ci ero ormai abituata, sparavano tutte le notti, pareva di essere al tirassegno, ma Rosetta si svegliò e domandò: "Cosa c'è mamma?" Io risposi: "Niente, niente... sono quei soliti figli di mignotte che si divertono a sparare... e potessero ammazzarsi gli uni con gli altri." Un'altra volta passò una colonna di camion, proprio sotto casa, e tutta la casa tremava e non finivano più di passare e quando pareva che fosse finito ecco un altro camion che rotolava con un fracasso da non dirsi. Io mi tenevo Rosetta abbracciata, con la testa contro il mio petto, e ad un tratto, forse perché ci avevo la testa contro il petto, mi ricordai di quando era piccola e io l'allattavo e avevo il petto gonfio di latte, come sempre noialtre ciociare che siamo conosciute come le meglio balie del Lazio e lei poppava tutto quel latte e diventava più bella ogni giorno ed era proprio un fiore di bellezza che la gente per la strada si fermava a guardarla e mi dissi ad un tratto che sarebbe stato molto meglio che non fosse mai nata, se doveva poi vivere in un mondo come questo, tra gli affanni, i pericoli e la paura. Ma poi mi dissi che queste sono le idee che vengono di notte e che era peccato pensare queste cose e al buio mi feci il segno della Croce e mi raccomandai a Gesù e alla Madonna. Udii un gallo cantare nell'appartamento vicino che era l'appartamento di una famiglia che teneva tutto un pollaio nel cesso e pensai allora che presto sarebbe stato giorno e credo che mi addormentassi. Fui svegliata di soprassalto dal campanello della porta che suonava e suonava come se stesse suonando da un pezzo. Mi alzai al buio e andai nell'anticamera e aprii ed era Giovanni che entrò dicendo: "Salute che sonno... sarà un'ora che suono." Ero in camicia e io ci ho il petto ancora adesso erto, che sta su senza reggiseni e allora ce l'avevo ancora più bello con le zinne pesanti e solide e i capezzoli che si rivoltavano in su come se volessero per forza farsi notare sotto la tela della camicia e subito vidi che lui mi guardava il petto e che gli occhi gli si accendevano sotto le sopracciglia come due pezzi di carbonella sotto le ceneri. Capii subito che lui stava per acchiapparmi le zinne e gli dissi subito, tirandomi balcone del palazzo di Mussolini pendeva lo stesso bandierone nero che avevo visto qualche giorno prima a piazza Colonna e due fascisti armati stavano ai due lati della porta. La piazza era deserta, sembrava più grande del solito. Io dapprima non vidi il fascio d'oro nel bandierone nero e mi parve addirittura una bandiera di lutto, tanto più che non c'era vento e pendeva giù, che sembrava davvero uno straccio di quelli che si mettono ai portoni quando c'è un morto nello stabile. Poi vidi il fascio d'oro tra le pieghe e capii che era la bandiera di Mussolini. Domandai a Giovanni: "Ma che è tornato Mussolini?" Lui fumava il mezzo sigaro, e rispose con enfasi: "E' tornato e speriamo che ci rimanga per sempre." Rimasi a bocca aperta perché sapevo che lui ce l'aveva con Mussolini; ma già lui mi sorprendeva sempre, e non potevo mai prevedere quel che gli passasse per la testa. Poi mi sentii dar del gomito nelle costole e vidi che ammiccava in direzione del vetturino, come per dire che lui quelle parole le aveva dette per paura del vetturino. Mi parve esagerato perché il vetturino era un buon vecchietto, con una parrucca di capelli bianchi che gli scappavano da ogni parte da sotto il berretto e pareva tutto mio nonno e certo non avrebbe fatto la spia; ma non dissi nulla. Prendemmo per via Nazionale e già l'aria si faceva meno grigia e in cima alla Torre di Nerone si vedeva uno spicchio rosa di sole. Ma come giungemmo alla stazione e vi entrammo, dentro era come se fosse ancora notte, con tutte le lampade accese e l'aria buia. La stazione era piena di gente, in gran parte povera gente come noi, coi loro fagotti, ma c'erano anche molti soldati tedeschi, carichi di armi e di zaini, in piedi, raggruppati gli uni addosso agli altri negli angoli più scuri. Giovanni andò a comprare i biglietti e ci lasciò con le valigie, lì, nel mezzo della stazione. Mentre aspettavamo ecco, tutto ad un tratto, con gran fracasso, proprio sotto la pensilina arrivare una decina di motociclisti, tutti vestiti di nero, come diavoli dell'inferno. Dopo il bandierone nero di piazza Venezia, questi motociclisti vestiti anche loro di nero, mi ispirarono un sentimento di insofferenza tanto che pensai: "Ma perché nero, perché tutto questo nero? Disgraziati, figli di mignotte, con il loro nero maledetto hanno finito davvero per portarci iettatura." I motociclisti fermarono le motociclette, le addossarono alle colonne dell'ingresso e si misero accanto alle porte, col viso chiuso nei caschi di cuoio nero e le mani sulle pistole che tenevano al cinturone. Tutto ad un tratto mi mancò il respiro dalla paura e prese a battermi forte il cuore perché pensai che quei motociclisti neri fossero venuti alla stazione per bloccare gli ingressi e arrestare tutti quanti, come spesso facevano e poi portavano via la gente nei loro camion e non se ne sapeva più nulla. Così mi guardai intorno quasi cercando una via d'uscita per scappare. Ma poi vidi che all'ingresso, dalla parte dei treni, arrivava un gruppo di persone mentre altri ripetevano: "largo largo" e capii che quei motociclisti erano lì per l'arrivo di qualche personaggio importante. Non lo vidi perché la folla me l'impediva, ma dopo un poco riudii il fracasso di quelle maledette motociclette e capii che se ne erano andati dietro la macchina di quel personaggio. Giovanni venne a prenderci coi biglietti in mano, dicendoci che erano biglietti fino a Fondi: di qui poi, per le montagne, avremmo dovuto raggiungere il paese. Uscimmo dalla stazione, andammo al treno, sotto la pensilina. Lì c'era il sole, in tanti raggi che si allungavano sopra i marciapiedi e parevano i raggi di sole che si vedono nelle corsie degli ospedali e nei cortili delle prigioni. Non si vedeva un cane, e il treno, lungo lungo, sotto la pensilina, pareva vuoto. Ma come salimmo e cominciammo a percorrere i corridoi, vidi che era pieno zeppo di soldati tedeschi, tutti armati, cogli zaini sulle spalle, il casco sugli occhi e il fucile tra le gambe. Ce n'erano non so quanti, passavamo da uno scompartimento all'altro e sempre vedevamo otto soldati tedeschi con tutta quella roba addosso, fermi e zitti che parevano aver avuto l'ordine di non muoversi e di non parlare. Finalmente in uno scompartimento di terza trovammo gli italiani. Stavano ammucchiati nei corridoi e negli scompartimenti, come bestie che vengono portate al macello e perciò non importa che stiano comode, tanto trappoco debbono morire; anche loro come i tedeschi non dicevano nulla, non si muovevano; ma si capiva che la loro immobilità e il loro silenzio erano dovuti alla stanchezza e alla disperazione mentre i tedeschi si vedeva che si tenevano pronti a saltar fuori dal treno e far subito la guerra. Dissi a Rosetta: "Vedrai che questo viaggio lo facciamo in piedi." Infatti dopo aver girato non so quanto con quel sole che entrava attraverso i vetri sporchi del treno e già arroventava le vetture, mettemmo anche noi le valigie nel corridoio davanti la latrina, e ci accoccolammo alla meglio. Giovanni che ci aveva seguite nel treno, a questo punto disse: "Be', vi lascio, vedrete che trappoco il treno parte." Ma un tizio vestito di nero, seduto anche lui su una valigia, lo rimbeccò, cupo, senza alzare gli occhi: "Trappoco, un corno... noi, siamo tre ore che aspettiamo." Insomma Giovanni ci salutò e baciò Rosetta sulle due guance e me sull'angolo della bocca, forse avrebbe voluto baciarmi sulla bocca ma io stornai in tempo il viso. Partito Giovanni, noi restammo sedute sulle valigie, io più alta e Rosetta più bassa, la testa appoggiata contro le mie ginocchia. Rosetta dopo mezz'ora che stavamo così, senza parlare, accovacciate, domandò: "Mamma quando si parte?" E io risposi: "Figlia mia, io ne so quanto te." Stetti così, ferma con Rosetta accucciata ai miei piedi non so quanto tempo. La gente nel corridoio sonnecchiava e sospirava, il sole cominciava a scottare forte e fuori dai marciapiedi non giungeva un solo rumore. Anche i tedeschi tacevano, come se non ci fossero neppure stati. Poi, tutto ad un tratto, nello scompartimento più vicino, i tedeschi cominciarono a cantare. Non si può dire che cantassero male, avevano certe voci basse e rauche, però intonate, ma io che avevo tante volte sentito cantare i soldati nostri, allegramente, come fanno quando sono in treno e viaggiano insieme, mi venne tristezza perché cantavano nella lingua loro qualche cosa che mi sembrava triste. Cantavano lentamente e pareva davvero che non ne avessero tanta voglia di andare a far la guerra perché il loro canto era veramente triste. Dissi a quell'uomo vestito di nero vicino a me: "Anche a loro la guerra non piace... sono uomini anche loro dopo tutto... senti come cantano tristemente." Ma lui, ingrugnato, mi rispose: "Non te ne intendi... è il loro inno... è come da noi la Marcia Reale." E poi, dopo un momento di silenzio: "La tristezza vera ce l'abbiamo noialtri italiani." Finalmente il treno si mosse, senza un fischio, senza uno squillo di tromba, senza un rumore, come per caso. Avrei voluto raccomandarmi un'ultima volta alla Madonna che proteggesse me e Rosetta da tutti i pericoli ai quali andavamo incontro. Ma mi era venuto un sonno così forte che non ebbi neppure la forza. Pensai soltanto: "'Sti figli di mignotta..." e non sapevo se pensavo ai tedeschi o agli inglesi o ai fascisti o agli italiani. Un po' tutti forse. Quindi mi addormentai. Capitolo secondo Mi svegliai dopo forse un'ora e il treno era fermo in un gran silenzio. Dentro il vagone, adesso, dal caldo quasi non si respirava; Rosetta si era alzata e si era affacciata al finestrino guardando non so che. Molti altri si erano affacciati anche loro in fila, per quanto era lungo il vagone. Mi alzai a fatica perché mi sentivo intontita e sudata e mi affacciai anch'io. C'era il sole, c'era il cielo azzurro, c'era la campagna verde, tutta colline ricoperte di vigneti; e su una di queste colline, proprio di fronte al treno, c'era una casetta bianca che era stata incendiata. Dalle finestre uscivano lingue rosse di fuoco e nuvole di fumo nero e quelle fiamme e quel fumo erano la sola cosa che si muovessero perché tutto nella campagna era immobile e tranquillo, una giornata veramente perfetta, e non si vedeva nessuno. Poi, nel vagone, tutti gridarono: "Eccolo, eccolo!"; e io guardai al cielo e vidi un insetto nero nell'angolo dell'orizzonte che quasi subito prese la forma di un aeroplano e scomparve. Quindi, tutto ad un tratto, me lo sentii sopra la testa che sorvolava il treno, con un fracasso terribile di ferraglia diritta a Fondi: "Figlia, che vuoi fare? Bisogna mettersi per strada." "E le valigie?" "Le porteremo noi." Lei non disse nulla ma guardò costernata le valigie: non capiva come avremmo fatto a portarle. Io ne aprii una, tolsi due tovaglioli e feci due cercini, uno per me uno per lei. Da ragazza ero abituata a portare roba sul capo, avevo portato fino a cinquanta chili. Dissi mentre facevo i cercini: "Ora mamma ti fa vedere come si fa." Rosetta, rinfrancata, sorrise. Misi il cercine sulla testa, ben calato e invitai Rosetta a fare lo stesso. Poi mi tolsi le scarpe e le calze e così feci fare anche a Rosetta. Quindi collocai sul cercine mio la valigia più grande e quella mezzana e il pacco delle provviste, per ordine di grandezza; e assestai sul cercine, a Rosetta, la valigia più piccola. Le spiegai che doveva camminare col collo eretto, reggendo con la mano, da una parte l'angolo della valigia. Vidi che lei aveva capito e già si avviava con la valigia sul capo e pensai: "E' nata a Roma ma è ciociara anche lei, dopo tutto: buon sangue non mente." Così, con le valigie sul capo, a piedi nudi, camminando sull'orlo della strada dove cresceva un po' d'erba, ci avviammo verso Fondi. Camminammo un pezzo. La strada era deserta e anche per la campagna non si vedeva anima viva. A una persona di città, che non se ne intendesse, poteva sembrare una campagna normale; ma io che ero stata contadina prima che cittadina, potevo vedere che era una campagna abbandonata. Dovunque si vedeva l'abbandono: i grappoli d'uva nelle vigne avrebbero dovuto essere già vendemmiati e invece pendevano tra le foglie ingiallite, troppo dorati, alcuni addirittura bruni e marci, mezzo mangiati dalle vespe e dalle lucertole. Il granturco era qua e là coricato, in disordine, con tante erbacce e le pannocchie erano mature, quasi rosse. Intorno i fichi, c'erano in terra fichi in quantità caduti dai rami per troppa dolcezza, sfranti e aperti, sbocconcellati dagli uccelli. Non si vedeva un contadino e pensai che fossero tutti scappati. Eppure era una giornata bella, calda e serena, proprio di campagna. Così è la guerra, pensai: tutto sembra normale e invece, sotto sotto, il tarlo della guerra ha camminato e gli uomini hanno paura e scappano, mentre la campagna, lei, continua, indifferente, a buttar fuori frutta, grano, erba e piante come se nulla fosse. Arrivammo alle porte di Fondi con la polvere che ci imbiancava le gambe fino alle ginocchia, la gola arsa, stanche e ammutolite. Dissi a Rosetta: "Ora andiamo in un'osteria e beviamo e mangiamo qualche cosa e ci riposiamo. E poi vediamo se troviamo una macchina o una carretta che ci porti dai nonni." Sì, altro che osteria, altro che automobile, altro che carretta! Come penetrammo dentro Fondi ci accorgemmo subito che la città era deserta e abbandonata. Non passava un cane, tutti i negozi avevano le saracinesche abbassate con qualche pezzo di carta bianca appiccicato qua e là che spiegava che i proprietari erano sfollati; le case avevano gli usci e i portoni sprangati, le finestre gli sportelli sbarrati, perfino le gattaiole erano accecate. Sembrava di camminare per una città in cui tutti gli abitanti fossero morti per qualche epidemia. E dire che a Fondi in quella stagione la gente sta per la strada, donne, uomini, bambini, insieme con i gatti, con i cani, con i somari, con i cavalli e magari con i polli, e tutti vanno per le loro faccende o si godono la bella giornata passeggiando o sedendo ai caffè e davanti le case. Certe straducce laterali davano l'impressione della vita perché c'era la luce forte del sole sul lastrico e sulle facciate; ma poi a guardare meglio, si scorgevano le solite finestre con gli scuri chiusi, le solite porte sprangate e quel sole che si stendeva sui sassi faceva quasi paura; come facevano paura il silenzio e dentro il silenzio il rumore dei nostri passi. Mi fermavo ogni tanto, bussavo a una porta, chiamavo, ma nessuno apriva, nessuno si affacciava a rispondermi. Alla fine, ecco l'osteria del Gallo, con l'insegna di legno in cui si vedeva dipinto un gallo tutto scolorito e sgraffignato. La porta era chiusa, una vecchia porta dipinta di verde, con una serratura all'antica, col buco grande; e io misi l'occhio al buco e guardai e vidi in fondo all'oscurità dello stanzone la finestra che dava sul giardino, sotto il pergolato, pieno di luce questo, con la vigna verde da cui pendevano tanti grappoli neri: si poteva vedere anche un tavolo illuminato dal sole, ma questo era tutto. Anche qui nessuno rispose, l'oste era scappato insieme con tutti gli altri. Così questa era la campagna: peggio di Roma. E ripensando a come mi ero illusa di trovare in campagna quello che mancava a Roma, mi voltai verso Rosetta e dissi: "Sai che ti dico? Che adesso ci riposiamo un momento e poi torniamo alla stazione e riprendiamo il treno per Roma." Così l'avessi fatto. Ma vidi che Rosetta faceva un viso impaurito, certo pensando ai bombardamenti; e soggiunsi in fretta: "Però prima di rinunciare, voglio fare un ultimo tentativo. Questo è Fondi. Proviamo la campagna. Può darsi che troviamo un contadino che per una notte o due ci fa dormire in casa sua. Poi vedremo." Così ci riposammo un momento sopra un muricciolo senza parlare perché in quel deserto le nostre voci ci facevano quasi paura, e poi rimettemmo le valigie sui cercini ed uscimmo dalla città per la parte opposta a quella per cui eravamo entrate. Camminammo forse mezz'ora per la strada maestra, sotto il sole forte, nella solita polvere bianca e farinosa e poi appena incominciarono gli aranceti ai due lati della strada, io presi il primo sentiero tra gli aranci pensando: in qualche luogo porterà, in campagna i sentieri portano sempre in qualche luogo. Erano fitti fitti gli aranci, con il fogliame pulito e senza polvere e i sottoboschi pieni d'ombra; dopo la strada maestra assolata e polverosa, ci rinfrancarono. Rosetta, ad un certo punto, mentre seguivamo quel sentiero che girava e girava tra gli aranci, domandò: "Mamma, quando le raccolgono le arance?" Risposi senza pensarci tanto: "A novembre cominciano a raccoglierle. E vedrai come sono dolci." E poi subito dopo mi morsi la lingua perché eravamo appena alla fine di settembre e io avevo sempre detto che saremmo restate fuori di Roma non più di dieci giorni sebbene sapessi dentro di me che non era vero e adesso mi ero tradita. Ma lei, per fortuna, non ci fece caso e così continuammo ad andare avanti per il sentiero. Alla fine, ecco, in fondo al sentiero, una radura e in mezzo alla radura una casetta che un tempo doveva essere stata dipinta di rosa e adesso, per l'umidità e la vecchiezza, appariva tutta annerita e scrostata. Una scala esterna saliva al secondo piano; dove c'era una terrazza con un arcone dal quale pendevano tante trecce di peperoni, di pomodori e di cipolle. Davanti alla casa, sull'aia, c'era una quantità di fichi sparpagliati a seccare al sole. Una casa di contadini, abitata. Il contadino, infatti, venne subito fuori, ancora prima che lo chiamassimo, capii che stava nascosto in qualche luogo per vedere chi arrivava. Era un vecchio magro da far paura, con una testina senza carne, dal naso lungo, a becco, dagli occhi infossati, dalla fronte bassa e calva, che pareva quella di un nibbio. Disse: "Chi siete, che volete?", e ci aveva in mano un falcetto, come per difendersi. Io però non mi smontai, soprattutto perché stavo con Rosetta e non si ha idea della forza che ci viene da una persona che è più debole di noi e ha bisogno della nostra protezione. Gli risposi che non volevamo niente, che eravamo di Lenola, il che in fondo era vero perché io ero nata in una località non tanto lontana da Lenola, che quel giorno avevamo camminato tanto che non ce la facevamo più e che se lui ci dava una stanza per la notte io l'avrei pagato bene, come all'albergo. Lui mi stava a sentire, fermo in mezzo all'aia, a gambe larghe: con i suoi pantaloni tutti stracciati, il suo giubbetto pieno di toppe e il suo falcetto sembrava davvero uno spaventapasseri; e credo che afferrasse soltanto che io l'avrei pagato bene perché, come scoprii in seguito, era mezzo scemo e, all'infuori dell'interesse, non capiva niente. Ma anche l'interesse per lui doveva essere una cosa difficile a capirsi perché ci mise non so quanto a intendere quello che gli dicevo e intanto ripeteva: "Non ci abbiamo stanze, e poi tu paghi, ma con che paghi?" Io non volevo tirare fuori il denaro che tenevo nella saccoccia, sotto la gonnella, invece, ecco, ero capitata in una casa di ladri e quel che è peggio questi ladri non avevano paura perché non c'erano più in quella zona né leggi né carabinieri e non soltanto non avevano paura ma quasi quasi si vantavano di rubare. Non dissi nulla, però; ma Concetta dovette accorgersi che qualche cosa pensavo perché soggiunse: "Intendiamoci, però, questa roba la prendiamo perché, per modo di dire, non è più roba di nessuno. Ma siamo gente onesta, Cesira, e te ne do subito la prova: bussa qui." Si era alzata e picchiava sul muro della cucina, a sinistra del fornello. Mi alzai, bussai anch'io e sentii che il colpo risuonava come se dietro il muro ci fosse stato un vuoto. Domandai: "Che c'è dietro questo muro?" E Concetta, con entusiasmo: "C'è la roba di Festa, c'è un tesoro, c'è tutto il corredo della figlia, tutta la roba di casa: lenzuola, coperte, lini, argenti, vasellame, oggetti di valore." Rimasi di stucco perché non me l'ero aspettato. Quindi Concetta, sempre con quell'entusiasmo strano che lei metteva in tutto quello che faceva e diceva, mi spiegò: Vincenzo e Filippo Festa erano, come si dice san Giovanni, ossia Festa aveva tenuto a battesimo il figlio di Vincenzo e Vincenzo la figlia di Festa; e così legati dal san Giovanni erano, per modo di dire, parenti. E Festa si fidava del san Giovanni e prima di rifugiarsi nelle montagne aveva murato tutta la sua roba nella cucina di Vincenzo e gli aveva fatto giurare che gliel'avrebbero restituita tale e quale a guerra finita e Vincenzo aveva giurato. "Questa roba di Festa per noialtri è sacra," concluse Concetta con enfasi, come se avesse parlato del Santissimo, "mi farei ammazzare piuttosto che toccarla. Sta lì da un mese e ci starà finché la guerra non sarà finita." Io rimasi dubbiosa; e non mi convinsi neppure quando Vincenzo che finora era sempre stato zitto, si levò la pipa dalla bocca e disse con voce cavernosa: "Proprio così, sacra. Tedeschi e italiani hanno da passare sul corpo mio prima che la tocchino." Concetta a queste parole del marito mi guardava con occhi luccicanti ed esaltati, come per dire: "Lo vedi, che ne dici? Siamo o non siamo gente onesta?" Ma io ero come gelata e ricordando di aver veduto i due figli indaffarati a scaricare la roba dal carretto pensavo tra me e me: "Alla larga, ladri una volta, ladri sempre." Questo della ladreria fu il motivo principale per cui cominciai a pensare di lasciare la casa di Concetta e andare altrove. Io avevo quel denaro nascosto nella saccoccia, sotto la gonnella, ed era parecchio denaro e noi due eravamo due donne sole, senza nessuno per difenderci e non c'erano più leggi né carabinieri e ci voleva poco a sopraffare due povere donne come noi e portar via loro quanto avevano. E' vero che io non avevo mai mostrato a Concetta la saccoccia; ma pagavo ogni tanto qualche piccola somma per il cibo e la stanza e avevo detto che intendevo pagare e di sicuro loro dovevano pensare che in qualche luogo dovevo averci del denaro. Erano ladri della roba abbandonata; domani avrebbero potuto anche essere ladri del mio denaro e magari anche assassini, non si poteva sapere. I due figli ci avevano due facce da briganti, il marito pareva scemo, Concetta era sempre come esaltata, veramente non si poteva sapere quel che poteva succedere. E quella casa, con tutto che fosse a poca distanza da Fondi, era sepolta tra gli aranceti, nascosta e solitaria, e ci si poteva anche scannare un cristiano senza che nessuno se ne accorgesse. Era, è vero, un buon nascondiglio; ma uno di quei nascondigli dove ci può succedere di peggio che all'aperto, sotto gli aeroplani. Quella stessa sera, nella stanza, dopo che ci fummo coricate, lo dissi a Rosetta: "Questa è una famiglia di delinquenti. Possono non farci niente di male, ma potrebbero anche ammazzarci tutte e due e sotterrarci come concime sotto gli aranci: indifferentemente." Io avevo parlato per sfogare l'inquietudine; ma feci male perché Rosetta che non si era più riavuta dagli spaventi dei bombardamenti di Roma, cominciò subito a piangere stringendosi contro di me e sussurrando: "Mamma, ho tanta paura, perché non ce ne andiamo via subito?" Allora soggiunsi che le mie erano tutte fantasie; che tutto dipendeva dalla guerra; che insomma Vincenzo e Concetta e i figli erano certamente brava gente. Lei non parve molto convinta; e disse alla fine: "Io però me ne andrei via lo stesso; anche perché si sta così male qui." E io le promisi che saremmo andate via al più presto perché, sotto quell'aspetto, non aveva davvero torto: si stava malissimo. Si stava male e adesso, ripensandoci, posso dire che, in tutto quel tempo della guerra che passammo fuori di casa, mai sono stata così male come da Concetta. Ci aveva dato la sua camera da letto, dove lei dormiva con il marito dal giorno che si erano sposati; ma debbo dire che pur essendo contadina come lei, non avevo mai veduto in vita mia una zozzeria simile. La stanza puzzava così forte, che sebbene le finestre fossero sempre spalancate, mancava l'aria e pareva di soffocare. Di che cosa puzzava la stanza? Di chiuso, di sudiciume vecchio e rancido, di bacherozzi, di urina. Cercando perché puzzasse tanto, aprii i due comodini: contenevano due pitali alti alti, stretti, senza impugnatura, simili a due tubi, di porcellana bianca e fiori rosa; questi pitali non erano mai stati lavati e dentro erano di tutti i colori e una buona parte della puzza veniva di lì. Li misi fuori della porta e Concetta quasi quasi mi menava dicendo arrabbiata che quei pitali lei li aveva avuti da sua madre ed erano di famiglia e lei non capiva perché non li volessi nella stanza. La prima notte, poi, che dormimmo in quel lettone matrimoniale, sul materasso tutto buche e bozzi, pieno di pallottole e di roba scricchiolante e pungente, con la stoffetta leggera leggera che sembrava rompersi ad ogni nostro movimento, io mi sentivo prudere tutto il tempo e così anche Rosetta che non trovava pace e non faceva che cambiare posizione e non dormiva. Alla fine accesi la candela e con il candeliere in mano esaminai il letto: alla luce della fiammella vidi non una o due ma interi gruppi di cimici fuggire in tutte le direzioni, rosse scure, grosse, gonfie del sangue nostro che ci avevano succhiato per ore. Il letto era nero di cimici, e dico la verità, non ne avevo mai vedute tante in una sola volta. A Roma mi era accaduto forse un paio di volte di scoprirne una o due, subito avevo fatto rifare il materasso e non si erano più viste. Ma qui ce n'erano migliaia, si vede che stavano appiattate non soltanto nel materasso ma anche nel legno del letto e, insomma, in tutta la stanza. La mattina dopo, Rosetta e io ci levammo e andammo a guardarci nello specchio dell'armadio: eravamo coperte per tutto il corpo di bolle rosse, le cimici ci avevano morsicato dappertutto, pareva che avessimo qualche malattia schifosa della pelle. Io chiamai Concetta, le mostrai Rosetta che stava seduta nuda sul letto, piangendo, e le dissi che era una vergogna farci dormire con le cimici e quella, al solito, esaltata, rispose: "Hai ragione, è una vergogna, è un'indecenza, lo so che ci sono le cimici, è uno schifo. Ma noi siamo poveretti di campagna e tu sei signora di città: a noialtri le cimici e a te le lenzuola di seta." Mi dava ragione con entusiasmo, ma in modo strano, come se mi minchionasse; e infatti dopo avermi dato ragione, concluse in maniera inaspettata, dicendo che anche le cimici erano animaletti di Dio e che, se Dio le aveva fatte, era segno che servivano a qualche cosa. Insomma dissi che d'ora in poi avremmo dormito nella capanna dove loro tenevano il fieno per il mulo. Il fieno pungeva e forse c'era qualche insettuccio anche lì, ma erano insetti puliti, di quelli che passeggiano sul corpo e magari fanno il solletico ma non succhiano il sangue. Però mi rendevo conto che così non si poteva andare avanti per molto tempo. In quella casa tutto era schifoso: oltre al dormire anche il mangiare. Concetta era sciattona, sporca, sempre frettolosa, sempre trascurata e la sua cucina era un luogo nero, dove le padelle e i piatti ci avevano lo sporco attaccato di anni e non c'era mai acqua e non si lavava niente e si cucinava in fretta, come veniva veniva. Concetta faceva ogni giorno sempre lo stesso mangiare, quello che in Ciociaria si chiama minestrina: tante sottili fette di pagnotta casalinga, l'una sull'altra, fino a riempire una spasetta che è una conca di terraglia; e poi, sopra il pane, un brodo di fagioli della quantità di una pignattina. Questo piatto si mangia freddo, dopo che il brodo di fagioli ha imbevuto ben bene tutto il pane riducendolo una poltiglia. La minestrina non mi era mai sembrata buona: ma da "Giovanotti, si sa, giovanotti col sangue caldo. Ma tu non devi temere Cesira per tua figlia. I miei figli non la toccherebbero neppure per un milione. Siete ospiti, l'ospite è sacro. Tua figlia qui sta sicura come in chiesa." A me, invece, tra il silenzio dei figli e l'esaltazione della madre, cresceva la paura. Intanto mi ero procurata da un contadino un coltello a serramanico e lo tenevo nella saccoccia insieme con i soldi. Non si sa mai: se avessero tentato qualche cosa, prima avrebbero dovuto affrontare me e io me la sentivo anche di scannarli. Quello però che ci convinse definitivamente ad andarcene fu un fatto che avvenne un paio di settimane dopo il nostro arrivo. Una mattina stavamo, Rosetta ed io, sedute sull'aia, intente a capare le pannocchie di granoturco, tanto per fare qualche cosa, quando, dal sentiero ecco sbucare due uomini. Capii subito chi fossero non soltanto dai fuciletti che portavano ad armacollo e dalle camicie nere che gli spuntavano sotto le giacche ma anche dal fatto che Rosario, uno dei figli di Concetta, che stava poco più in là mangiando pane e cipolla, appena li vide subito scomparve di corsa tra gli aranci. Dissi piano a Rosetta: "Sono fascisti, tu non dir niente, lascia fare a me." Io i fascisti nuovi, quelli dopo il venticinque luglio, li conoscevo bene per averli frequentati a Roma: bulli tra i peggiori, vagabondi che ci trovavano il loro interesse a indossare la camicia nera adesso che la gente onesta non la voleva più; ma sempre pezzi d'uomini come ce ne sono tanti a Trastevere e a Ponte. Questi due, invece, subito li giudicai due rifiuti fisici, due scorfani, due disgraziati che avevano più paura loro dei loro fucili che la gente che volevano spaventare, appunto, coi fucili. Uno era un mezzo storto, con la testa calva e il viso rattrappito come una castagna secca, con due spallette strette da far pietà, gli occhi infossati, il naso rincagnato e la barba lunga; l'altro era quasi un nano, con il testone da professore, però, occhialuto, serio, grasso. Concetta che era subito scesa dabbasso salutò il primo con un soprannome che era tutta una pittura: "Che cerchi Scimmiozzo da queste parti?" Scimmiozzo, quello calvo e magro, rispose da gradasso, dondolandosi sulle gambe e battendo la mano sul calcio del fucile: "Comare Concetta, comare Concetta, facciamoci a capire. Lo sapete quello che cerchiamo. Voi lo sapete benissimo." "Parola d'onore che non ti capisco. Vuoi del vino? Vuoi del pane? Di pane ne abbiamo poco, ma possiamo darti un fiasco di vino e possiamo anche darti qualche fico secco. Roba di campagna, si sa." "Comare Concetta, voi siete furba ma questa volta avete trovato il più furbo di voi." "Scimmiozzo, ma che dici? Furba io?" "Sì, furba te, furbo tuo marito e più furbi di tutti i tuoi due figli." "I miei due figli? E chi li ha mai visti i miei due figli. Da mò che non li vedo. Sono in Albania, i miei due figli. Poveri figli miei, sono in Albania a combattere per il re, e per Mussolini, che Dio ce li conservi tutti e due sempre in buona salute." "Ma che re, ma che re, siamo in repubblica, Concetta." "E allora viva la repubblica." "E i figli tuoi non sono in Albania, sono qui." "Qui? Magari fosse vero." "Sì, sono qui e non più tardi di ieri sono stati visti che facevano la borsa nera in contrada Coccuruzzo." "Ma che dici, Scimmiozzo? I figli miei qui? Te l'ho detto, magari fosse vero, li abbraccerei, li saprei fuori dei pericoli, io che mi struggo a piangere ogni notte e ci ho più dolori io che la Madonna dei sette dolori." "Basta, dicci dove sono e falla finita." "E io che ne so? Ti posso dare del vino, ti posso dare dei fichi secchi, ti posso dare anche un po' di farina gialla, sebbene ce n'abbia poca, ma i figli miei come faccio a darteli se non ci sono?" "Be', intanto vediamo questo vino." Così si misero a sedere sull'aia, su due seggiole. E Concetta, tutta entusiasta, al solito, andò a prendere un fiasco di vino e due bicchieri e portò anche un cestello pieno di fichi secchi. Scimmiozzo che si era messo a cavalcioni sulla seggiola, bevve il vino e poi disse: "I tuoi figli sono disertori. Lo sai che c'è nel decreto per i disertori? Se li prendiamo dobbiamo fucilarli. Questa è la legge." E lei tutta contenta: "Avete ragione: i disertori bisogna fucilarli... farabutti... fucilarli tutti bisogna. Ma i figli miei non sono disertori, Scimmiozzo." "E che sono, se no?" "Sono soldati. Combattono per Mussolini che Dio ce lo conservi cent'anni." "Sì, facendo la borsa nera, eh?" "Vuoi ancora del vino?" Insomma lei, quando non poteva rispondere altrimenti, offriva loro del vino, e quei due che erano venuti soprattutto per il vino, accettavano e bevevano. Noi due stavamo in disparte, sedute sui gradini della scala. Scimmiozzo, pur bevendo, non faceva che guardare Rosetta; e non la guardava da poliziotto che, magari, vuol rendersi conto se c'è qualcuno che non ha le carte in regola; la guardava alle gambe e al petto, proprio da uomo a cui una donna piacente ha acceso il sangue. Finalmente domandò a Concetta: "E quelle due chi sono?" Risposi io per Concetta, in fretta, perché non volevo che i fascisti sapessero che eravamo di Roma; "Siamo due cugine di Concetta, veniamo da Vallecorsa." E Concetta, entusiasta, ribadì: "Sicuro, sono due cugine mie, Cesira è figlia di un mio zio, sono il sangue mio, sono venute a stare con noi, eh, si sa, il sangue non è acqua." Ma Scimmiozzo non pareva persuaso. Si vede che era più intelligente di quanto non sembrasse: "Non lo sapevo che tu ci avessi dei parenti a Vallecorsa. Mi avevi sempre detto che eri di Minturno. E come si chiama quella bella ragazza?" "Si chiama Rosetta," dissi io. Lui vuotò il bicchiere, quindi si alzò e venne vicino a noi: "Rosetta, mi piaci. Abbiamo appunto bisogno di una cameriera su, alla sede, che ci faccia un po' di cucina e ci metta a posto i letti. Rosetta, vuoi venire con noi?" Così dicendo stese una mano e prese Rosetta per il mento. Subito gli diedi uno schiaffo sulla mano dicendo: "Le mani a posto." Lui mi guardò spalancando gli occhi, fingendo meraviglia: "Ahò, ma che ti piglia?" "Mi prende che tu mia figlia non la tocchi." E lui, spavaldo, togliendosi dalla spalla il fucile e puntandomelo contro: "Ma lo sai con chi parli? Mani in alto." Io allora, proprio calma, come se, invece del fucile, lui mi avesse spianato contro il mestolo per girare la polenta, stornai la canna, ma appena appena, e dissi con disprezzo: "Macché mani in alto. Che credi di spaventarmi con il tuo fucile? Lo sai a che ti serve il fucile? A scroccare il vino e i fichi secchi, ecco a che cosa ti serve. Lo vedrebbe un cieco che sei un morto di fame e basta." Lui, stranamente, si calmò ad un tratto e disse, ridendo, all'altro: "Meriterebbe almeno almeno di essere fucilata, che ne dici?" Ma l'altro scrollò le spalle e borbottò qualche cosa come: "Sono femmine, non ti confondere." E allora Scimmiozzo abbassò il fucile e disse con enfasi: "Per questa volta sei perdonata, ma sappi che hai sfiorato la morte: chi tocca la milizia avrà del piombo." Questa era una frase scritta sui muri a Roma e anche a Fondi e lui l'aveva imparata dai muri, quel disgraziato. Soggiunse dopo un momento: "Però resta inteso che tu ci mandi tua figlia alla sede, come cameriera, in località Coccuruzzo." Io risposi: "Te la puoi sognare mia figlia. Io non ti mando proprio niente." E lui voltandosi verso Concetta: "Facciamo a cambio, Concetta: noi non cerchiamo più i figli tuoi che stanno qui e tu lo sai e se li cerchiamo davvero, senza fallo li arrestiamo. Tu in cambio ci mandi la cuginetta. Siamo intesi, eh?" Quella disgraziata di Concetta, tanto più entusiasta quanto più le cose che le venivano proposte erano criminali e impossibili, rispose, manco a dirlo, con enfasi: "Ma si capisce, domani mattina stessa Rosetta sarà alla sede. Ce l'accompagno io, Rosetta, state tranquilli, Rosetta verrà a farvi da cuoca, da cameriera, da tutto quello che vorrete. Si capisce, domani mattina ve la porto io." Io, questa volta, sebbene il sangue mi bollisse, per prudenza non dissi niente. Quei due disgraziati rimasero ancora un poco, bevvero un altro paio di bicchieri di vino e poi, uno col fiasco e l'altro col cestello dei fichi secchi, se ne andarono per lo stesso sentiero dal quale erano venuti. Appena furono scomparsi, dissi subito a Concetta: "Ahò, sei matta, svegliata. Ma io, meno giovane di lei, ci avevo il sonno leggero e da quando fuggivamo, anche per le preoccupazioni e il nervosismo, dormivo poco. Così, quando i galli cominciarono a cantare che era ancora notte ma l'alba era già vicina e i galli lo sanno, prima fiochi fiochi, in fondo alla pianura, poi più vicini e finalmente proprio accanto, nel pollaio di Vincenzo, mi alzai dal fieno e cominciai a scuotere Rosetta. Dico cominciai perché lei non voleva svegliarsi, pur ripetendo, tra il sonno e la veglia, con voce piagnucolosa: "Che c'è, che c'è?", come se avesse dimenticato che eravamo a Fondi, in casa di Concetta e avesse creduto che stessimo ancora a Roma, in casa nostra, dove non ci levavamo mai prima delle sette. Finalmente si destò del tutto, lagnandosi però; e io le dissi: "Preferiresti forse dormire fino a mezzogiorno ed essere svegliata da un uomo in camicia nera?" Prima di uscire dalla capanna mi affacciai appena dalla porta e guardai verso l'aia: si intravedevano in terra i fichi sparpagliati a seccare, una seggiola su cui Concetta aveva dimenticato un cestello pieno di granoturco, la parete rosa tutta scrostata e affumata della casa, ma non c'era nessuno. Allora misi le valigie sul cercine mio e di Rosetta, come avevamo fatto al nostro arrivo alla stazione di Monte San Biagio, quindi uscimmo dalla capanna e leste leste corremmo al sentiero tra gli aranci. Io sapevo dove andavo e una volta fuori dagli aranceti, sulla strada maestra, presi la direzione delle montagne che stanno a nord della pianura di Fondi. Era appena l'alba e io mi ricordai di quell'altra alba che ero fuggita da Roma e pensai: "Chissà quante altre albe come queste vedrò ancora, prima di tornare a casa." C'era un'aria grigia e falsa su tutta la campagna; il cielo era di un bianco incerto con qualche stella gialla qua e là, come se non il giorno stesse per spuntare ma una seconda notte, meno nera della prima; e la guazza era sugli alberi, tristi e immobili, e sul brecciame della strada, freddo sotto i miei piedi nudi. C'era un silenzio intirizzito ma anche questo non più notturno, pieno di scricchiolii secchi, di svolazzi e di fruscii: pian piano la campagna si svegliava. Io camminavo avanti a Rosetta e guardavo alle montagne che si alzavano torno torno nel cielo; montagne brulle, pelate, con appena qualche chiazza bruna qua e là, che parevano deserte. Ma io sono montanara e sapevo che una volta su quelle montagne avremmo trovato campi coltivati, boschi, macchie, capanne, casette, contadini e sfollati. E pensavo che tante cose stavano per succedere su quelle montagne e mi auguravo che fossero cose buone e che avessi a trovarci buona gente e non dei delinquenti come Concetta e la sua famiglia. E soprattutto che avessimo a starci poco e gli inglesi venissero al più presto e io potessi tornare a Roma, all'appartamento e al negozio. Intanto il sole si era levato, ma appena, dietro l'orlo dei monti; e le cime e il cielo intorno cominciavano adesso a tingersi di rosa. Non c'erano più stelle nel cielo che si era fatto azzurro pallido; quindi il sole brillò ad un tratto, chiaro come l'oro, in fondo agli uliveti, tra i rami grigi; e i suoi raggi si allungarono sulla strada e benché fossero ancora incerti, subito mi parve che la ghiaia sotto i miei piedi non fosse più così fredda. Rallegrata da questo sole, dissi a Rosetta: "Chi lo direbbe che c'è la guerra, in campagna non si penserebbe mai che c'è la guerra." Rosetta non ebbe neppure il tempo di rispondermi, che un aeroplano sbucò dalla parte del mare con una velocità da non si dire: prima ne sentii il rumore sferragliante che cresceva e poi lo vidi che si avventava contro di noi, dal cielo, a testa bassa. Feci appena in tempo ad afferrare Rosetta per un braccio e a gettarmi con lei oltre il fossato, dentro un campo di granoturco dove cascammo bocconi tra le pannocchie; quindi l'aeroplano, correndo basso sulla strada e come seguendola, passò con un fracasso da intontire, rabbioso e cattivo, che mi pareva che ce l'avesse proprio con noi, giunse fino all'angolo lontano della strada, girò, si alzò ad un tratto con un'impennata al di sopra di un filare di pioppi e poi si allontanò, volando lungo i monti, a mezza costa, che pareva una mosca che si spostasse nel sole. Io stavo bocconi, tenendo stretta Rosetta, ma guardavo alla strada dove era rimasta la valigia piccola che Rosetta aveva lasciato cadere in terra quando l'avevo attirata per un braccio. Vidi, allora, nel momento in cui l'aeroplano passava sulla strada, come tante nuvolette di polvere sollevarsi dalla ghiaia, fuggendo in direzione dei monti, insieme con l'aeroplano. Quando il fracasso fu proprio svanito, uscii dal campo, andai a guardare e vidi che la valigia era bucherellata in più punti e che sulla strada c'erano tanti proiettili di ottone lunghi quanto il mio dito mignolo. Così non c'era dubbio: quell'aeroplano aveva mirato proprio a noi, perché sulla strada non c'eravamo che noi. Pensai: "Li mortacci tua!" e mi venne un odio forte contro la guerra: quell'aviatore non ci conosceva, forse era un bravo giovanotto dell'età di Rosetta e soltanto perché c'era la guerra aveva tentato di ammazzarci, così, tanto per sfizio, come un cacciatore che andando a spasso con il cane per la macchia, tira a caso dentro un albero pensando: "Qualche cosa ammazzerò, fosse pure un passero." Sì eravamo proprio due passeri, noialtre, prese di mira da un cacciatore sfaccendato che poi, se i passeri cascano giù morti, li lascia dove sono tanto non gli servono a niente. "Mamma," disse Rosetta dopo un poco mentre camminavamo, "tu dicevi che in campagna non c'era la guerra e invece quello ha tentato di ammazzarci." Risposi: "Figlia mia, mi ero sbagliata. La guerra è dappertutto, in campagna come in città." Capitolo terzo Dopo circa mezz'ora di cammino arrivammo ad un bivio: a destra c'era un ponte che scavalcava un torrente e, oltre il ponte, una casetta bianca dove, come sapevo, abitava Tommasino. Affacciandomi dal ponte vidi una donna che, inginocchiata sui sassi del greto, lavava i panni in uno slargo della corrente; le gridai: "Abita qui Tommasino?" Lei finì di torcere un panno ormai lavato e quindi rispose: "Sì, abita qui. Ma adesso non c'è. Stamattina presto è andato a Fondi." "E tornerà?" "Tornerà, sì." Non restava dunque che aspettare e così facemmo, sedendoci su un banco di pietra che stava all'imboccatura del ponte. Per un poco restammo in silenzio, al sole che, via via, diventava più caldo e luminoso. Rosetta alfine domandò: "Credi che Annina mi farà trovare Pallino sano e salvo quando tornerò a Roma?" e io che stavo sprofondata in pensieri tutti diversi per un momento quasi non capii. Poi ricordai che Annina era la portiera dello stabile accanto al nostro, a Roma, e Pallino il gatto soriano di Rosetta a cui lei era molto affezionata e che, appunto, prima di partire, aveva affidato ad Annina. La rassicurai dicendo che certamente avrebbe ritrovato Pallino più bello e più grosso, non fosse altro perché Annina era la sorella di un macellaio e, anche con la carestia, quelli non avrebbero mai mancato di carne. Lei parve consolata dalle mie parole e azzittì di nuovo, socchiudendo gli occhi nel sole. Ho riferito questa domanda di Rosetta in quel momento così critico, per dire che con tutto avesse ormai più di diciott'anni, lei era ancora una bambina per il carattere. E questo si vedeva in una simile preoccupazione, quando non sapevamo ancora dove avremmo dormito quella sera e se avremmo mangiato. Alla fine, ecco all'angolo della strada spuntare un uomo che camminava piano mangiando un'arancia. Riconobbi subito Tommasino che rassomigliava tale e quale un ebreo del ghetto, con il viso lungo, la barba di una settimana, il naso ricurvo, gli occhi a fior di pelle e il passo strascicato, coi piedi in fuori. Anche lui mi aveva riconosciuto perché ero sua cliente e in quelle due settimane gli avevo comprato parecchia roba; ma, diffidente, non rispose al mio saluto e venne avanti mangiando l'arancia e guardando in basso. Come ci fu vicino gli dissi subito: "Tommasino, noi siamo andate via dalla casa di Concetta. Tu ora ci devi aiutare perché non sappiamo dove andare." Lui allora si appoggiò alla spalletta del ponte, con un piede contro il muricciolo, diede un morso a un'altra arancia che aveva cavato di tasca, mi sputò la buccia in faccia poi disse: "E' una parola. Di questi tempi, ognuno per sé e Dio per tutti. Come vuoi che ti aiuti?" Dissi: "Tu conosci qualche contadino di montagna che possa darci ospitalità fino a quando vengono gli inglesi?" E lui: "Non conosco nessuno e tutte le casette sono occupate, a quanto mi annebbiandoci la testa, come il vino quando si beve a digiuno. Stavamo ancora dormendo quando Tommasino tornò e venne a batterci le mani sulla faccia dicendo tutto allegro: "Sveglia, si parte, sveglia." Era contento, si vedeva che pregustava il guadagno che aveva intenzione di fare con noi. Ci alzammo e lo seguimmo fuori della casa. Sullo spiazzo, davanti al ponte, c'era un somaro grigio, piccolo assai, di quelli chiamati sardegnoli, carico, povera bestia, di una quantità di pacchi in cima ai quali Tommasino aveva già legato le nostre valigie. Così partimmo, Tommasino tenendo il somarello per la briglia, un vincastro in mano, tutto vestito da cittadino, con il cappello nero, la giacca e i pantaloni neri a righe ma senza cravatta e, ai piedi, le scarpe da soldato, di vacchetta gialla, tutte infangate, e noi due dietro. Dapprima contornammo in piano il piede di una di quelle montagne, quindi, ad una mulattiera che si staccava dalla strada maestra e andava su di sghembo, tutta sassi, polvere e buche, tra due siepi di rovi, incominciammo a salire e ben presto ci trovammo in una valle stretta e ripida, tra due monti, la quale si andava sempre più restringendo ad imbuto a misura che si alzava e alla fine, come potevamo vedere, non era più che un passo, lassù in cima, sotto il cielo, tra due vette pietrose. Ci credereste? Appena io ebbi messo piede sui primi sassi della mulattiera, tra gli escrementi seccati degli animali, la polvere e le buche, provai come un sentimento di gioia. Sono contadina di montagna, mulattiere come quella ne avevo percorse tante, su e giù, fino a sedici anni, ritrovandola sotto i miei piedi mi pareva finalmente di ritrovare qualche cosa di familiare, come se in mancanza dei miei genitori almeno avessi ritrovato i luoghi dove loro mi avevano cresciuta. Fino adesso, pensai, siamo stati in pianura, e la gente della pianura è falsa, ladra, sporca e traditrice; ma adesso, con questa cara mulattiera piena di sassi e di sterco di somaro, polverosa e scoscesa, adesso ritrovo la montagna e la gente mia. Non dissi niente di tutto questo a Tommasino perché prima di tutto non mi avrebbe capito e poi perché lui era proprio uno della pianura, con quella sua faccia di ebreo e quella sua smania di far soldi. Ma dissi sottovoce a Rosetta, come passavamo davanti una bella siepe sotto la quale crescevano tanti ciclamini: "Cogli quei ciclamini e fanne un mazzetto e mettilo nella testa, stanno bene." Gli è che mi ero ricordata ad un tratto che anch'io facevo così quando ero fanciulletta: coglievo i ciclamini che noialtri ciociari chiamiamo, non so perché, scocciapignatte, e ne facevo un mazzetto e me lo mettevo tra i capelli, sopra l'orecchio e poi mi sembrava di essere più bella il doppio. Così Rosetta seguì il mio consiglio e un momento che ci eravamo fermati per rifiatare, colse un mazzetto per lei e uno per me e ce li mettemmo nei capelli. Dissi ridendo a Tommasino che ci guardava stupito: "Ci facciamo belle per la nuova casa in cui stiamo per entrare." Ma lui neppure sorrise: stava sempre, con gli occhi sbarrati nel vuoto, a far calcoli con la mente sulla roba che voleva vendere o comprare, sul profitto e sulla perdita. Da vero borsaro nero e per giunta di pianura. La mulattiera passò dapprima presso un gruppo di case all'imboccatura della valle e poi prese a destra, lungo il fianco del monte, tra la macchia. Si levava a zig zag, lenta lenta, quasi piana, con qualche strappo di salita qua e là e io sentivo che non facevo nessuna fatica perché ci avevo le gambe avvezze a salire fin dalla nascita, per così dire, le quali, subito, come d'istinto, avevano ritrovato il passo di montagna, lento e regolare, così che non mi veniva il fiatone neppure alle pettate, mentre, invece, Rosetta che era romana e Tommasino di pianura, loro dovevano fermarsi ogni tanto a riprendere lena. Intanto, via via che la mulattiera saliva, si rivelava la natura della valle o meglio della spaccatura che valle non si poteva chiamare perché troppo angusta: un'immensa scalinata i cui gradini più larghi stavano al punto più basso e i più stretti in cima. Questi scalini erano le coltivazioni a terrazza che noialtri ciociari chiamiamo macere, le quali poi consistono in tante strisce lunghe e strette di terreno fertile, sorrette ciascuna da un mucchio di pietre a secco. Su queste striscie cresce un po' di tutto: grano, patate, granturco, ortaggi, lino; nonché alberi da frutteto che si vedono difatti qua e là sparsi tra le coltivazioni. Io le macere le conoscevo bene; da ragazza avevo lavorato come una bestia a portare sul capo canestri di pietre per tirar su i muriccioli di sostegno e poi mi ero abituata ad andare su e giù per i sentierucoli ripidi e le scalinatelle che fanno comunicare l'una macera con l'altra. Costano una fatica enorme, queste macere, perché il contadino per farle deve dissodare il pendio della montagna, estirpando la macchia, strappando uno a uno i sassi e portando su, a braccia, nonché le pietre dei muretti, perfino la terra. Una volta fatte, però, gli assicurano la vita, dandogli tutto quanto gli è necessario, di modo che, per così dire, non ha più bisogno di acquistare niente. Seguimmo la mulattiera per non so quanto tempo: vagabonda, si arrampicava per un buon tratto sulla montagna a sinistra della valle e poi passava dall'altra parte e prendeva a salire sulla montagna a destra. Adesso potevamo vedere tutta la valle, in salita, fino al cielo: là dove finiva la scalinata gigantesca delle macere cominciava la fascia scura della macchia; quindi la macchia si diradava e si scorgevano tanti alberi sparsi su un pendio brullo; alfine anche gli alberi cessavano e non si vedeva più che un brecciame bianco fino al cielo azzurro. Proprio sotto il crinale c'era come un ciuffo di verdura sporgente; e tra la verdura si intravedevano certe rupi rosse. Tommasino ci disse che tra quelle rupi c'era l'ingresso di una caverna profonda in cui tanti anni fa si era nascosto il famoso pastore di Fondi che aveva bruciato viva in una capanna la sua fidanzata e poi se ne era andato dall'altra parte della montagna e si era risposato e aveva avuto figli e nipoti e alla fine, quando l'avevano scoperto, era ormai un bel vecchio, padre, suocero e nonno, con la barba bianca, amato e rispettato da tutti. Tommasino aggiunse che al di là di quel crinale c'erano i monti della Ciociaria tra i quali il Monte delle Fate; e io ricordai allora che il nome di quel monte, quando ero bambina, mi aveva sempre fatto sognare e spesso avevo domandato alla mia mamma se su quel monte c'erano davvero le fate e lei mi aveva sempre risposto che le fate non c'erano e il monte si chiamava in quel modo senza perché; ma io non le avevo mai creduto; e ancora adesso che ero cresciuta e ci avevo una figlia grande, quasi quasi ebbi la tentazione di chiedere a Tommasino perché il monte si chiamasse in quel modo e se ci fosse stato davvero un tempo quando le fate stavano sul monte. Basta, ad una svolta della mulattiera, ecco in mezzo alla scalinata delle macere un bue bianco attaccato ad un aratro e un contadino che lo spingeva su uno di quei campicelli stretti e lunghi. Subito Tommasino portò la mano alla bocca e gridò: "Ahò, Paride!" Il contadino andò ancora avanti un poco con l'aratro, poi si fermò e senza fretta ci venne incontro. Era un uomo non tanto grande ma ben proporzionato, come sono in Ciociaria, con la testa rotonda, la fronte bassa, il naso ad uncino, piccolo e ricurvo, la mascella pesante e la bocca simile ad un taglio, che non pareva dover mai sorridere. Tommasino gli disse indicandoci: "Paride, queste sono due signore di Roma e vanno cercando una casetta su per queste montagne... finché vengono gli inglesi, naturalmente, questione di giorni." Paride si tolse il cappelluccio nero e ci guardò fisso, senza espressione, come guardano abbagliati e stolidi i contadini che sono stati ore e ore soli, a tu per tu con il bue, l'aratro e il solco; poi disse lentamente e malvolentieri che di casette non ce n'erano più, quelle poche che erano rimaste erano state tutte affittate e, insomma, lui non vedeva dove potessimo alloggiare. Rosetta fece subito un viso triste e sconsolato; ma io rimasi calma perché avevo i soldi in tasca e sapevo che coi soldi alla fine tutto si accomoda. E infatti appena Tommasino gli ebbe detto quasi rudemente: "Ahò, Paride, facciamoci a capire, le signore pagano... non vogliono niente da nessuno... pagano in contanti." Paride si grattò il capo e quindi, a testa bassa, ammise che ci aveva una specie di stalla o casupoletta addossata alla propria casa dove lui ci teneva il telaio per tessere le stoffe e dove noi, se si trattava davvero di pochi giorni, avremmo potuto, ce lo vorrei." "E perché? Quel serpente non ti avrebbe fatto niente di male finora, no?" "Sì, ma si sa, che i serpenti velenosi presto o tardi finiscono per mordere." "Be', è lo stesso, anche se non mi hanno fatto niente personalmente, io so che i tedeschi, o meglio i nazisti, un giorno o l'altro finiscono per mordere, come i serpenti." In quel momento, però, Filippo, il quale era stato a sentirci quasi con impazienza, si mise a gridare: "A tavola, a tavola... niente tedeschi, niente inglesi... a tavola, c'è la minestra." E il figlio forse pensando che ero una contadina e non valeva la pena di sprecare parole con me, si avviò anche lui, come gli altri, verso la tavola. Che tavolata! Me ne ricorderò finché campo, un po' per le stranezze del luogo e anche un po' per l'abbondanza. La stranezza: una tavola lunga e stretta, sulla macera lunga e stretta; sotto di noi la scalinata gigante delle macere giù giù fino alla valle di Fondi; intorno a noi la montagna; e sopra di noi il cielo azzurro illuminato dal sole di settembre, dolce e caldo. E, sulla tavola, l'abbondanza: piatti di salame e di prosciutto, formaggi di montagna, pagnotte fatte in casa, fresche scricchianti, sottaceti, uova sode e burro, e la minestra di pasta e fagioli in certi piattoni colmi fino all'orlo, che, via via, la figlia, la madre e la moglie di Filippo portavano in tavola uscendo l'una dopo l'altra dalla capanna dove cucinavano. C'era anche il vino, in fiaschi, e c'era perfino una bottiglia di cognac. Insomma nessuno avrebbe potuto pensare che a valle c'era la carestia e un uovo costava otto lire e a Roma la gente moriva di fame. Filippo girava intorno la tavola fregandosi le mani, la faccia luccicante di soddisfazione. Ripeteva: "Mangiamo e beviamo... tanto poi vengono gli inglesi e torna l'abbondanza." Dove, poi, lui avesse pescato quest'idea che gli inglesi avrebbero portato l'abbondanza, non saprei dire. Ma lassù tutti ci credevano e non facevano che dirselo l'un con l'altro. Credo questa convinzione venisse loro dalla radio dove, come mi dicevano, c'era un inglese che parlava l'italiano come un italiano, il quale faceva la propaganda ripetendo, appunto, ogni giorno, che una volta arrivati gli inglesi, avremmo tutti nuotato nella grascia. Basta, una volta scodellata la minestra, ci mettemmo a tavola. In quanti eravamo? C'era Filippo con la moglie, e i due figli; c'era Paride, con la moglie Luisa, una piccola bionda dai capelli crespi e dagli occhi celesti, con l'espressione sorniona, e il loro bambino Donato; c'era Tommasino con la moglie, una donna lunga e magra dalla faccia paffuta e arcigna, e la figlia che anche lei ci aveva la faccia cavallina della madre, ma dolce, con gli occhi neri e buoni: c'erano quattro o cinque uomini, malvestiti con la barba lunga che, a quanto capii, erano gente di Fondi, sfollati lassù e stavano sempre attorno a Filippo come al loro capo riconosciuto. Tutti erano stati invitati da Filippo per festeggiare l'anniversario delle sue nozze. Ma questo l'appresi più tardi; lì per lì ebbi l'impressione che Filippo ci avesse tante provviste da poterle buttare dalla finestra, invitando ogni giorno gli abitanti della località. Mangiammo senza esagerazione almeno per tre ore. Mangiammo prima la minestra con la pasta e fagioli, la pasta era leggera, tutta d'uovo, gialla come l'oro e i fagioli erano della migliore qualità, bianchi, teneri e grossi, che si disfacevano in bocca come il burro. Della minestra, ciascuno mangiò due piatti e anche tre, colmi fino all'orlo, tanto era buona. Quindi fu la volta dell'antipasto: prosciutto di montagna un po' salato ma stuzzicante, salame fatto in casa, uova sode, sottaceti. Dopo l'antipasto, le donne si precipitarono nella capanna che stava lì a pochi passi e ne tornarono portando ciascuna un vassoio pieno di grossi tocchi, tagliati alla buona, di carne arrostita, carne di vitello di prima scelta, tenera e bianca; avevano ammazzato un vitello proprio il giorno prima e Filippo ne aveva comprato parecchi chili. Dopo il vitello fu la volta dell'agnello in spezzatino, tenero e delicato, con un sugo bianco agro e dolce tanto buono; quindi mangiammo il formaggio pecorino, duro come un sasso, piccante, fatto apposta per berci sopra il vino; e dopo il formaggio la frutta, ossia arance, fichi, uva, frutta secca. Ci furono anche dei dolci, sissignore, fatti al forno, con la pasta margherita, spolverati di zucchero di vaniglia; e alla fine con il cognac ci mangiammo anche qualche biscottino da uno scatolone che la figlia di Filippo portò giù dalla loro casetta. Quanto bevemmo? Io dico almeno un litro a testa, ma ci fu chi ne bevve di più di un litro e chi men di un quarto, come per esempio Rosetta che non beveva mai. L'allegria che c'era a quella tavolata non si può descrivere: tutti mangiavano e bevevano e non facevano che parlare di roba da mangiare e da bere cioè di quello che stavano mangiando e bevendo o che avrebbero voluto mangiare e bere o che in passato avevano mangiato e bevuto. Per questa gente di Fondi, come del resto anche al paese mio, mangiare e bere era importante come a Roma avere la macchina e l'appartamento ai Parioli; tra di loro chi mangia e beve poco è un disperato, così che chi vuole essere considerato un signore cerca di mangiare e bere più che può, sapendo che questa è la sola maniera per essere ammirati e considerati. Io stavo seduta accanto alla moglie di Filippo, quella donna bianca, bianca, dal petto enorme, di cui ho detto che pareva malata. Lei non era allegra, poveretta, perché si vedeva che non stava bene; tuttavia si vantò con me della roba da mangiare che loro ci avevano di solito in casa: "Mai meno di quaranta uova di giornata e di sei prosciutti e di altrettanti salami e formaggi... mai meno di una dozzina di guanciali... Il lardo, ne mangiavamo tanto che un giorno feci un rutto e un pezzo di lardo che già mi era sceso nello stomaco risalì su e mi uscì di bocca come se fosse stato una seconda lingua, bianca questa, però." Ripeto queste parole perché lei le disse così, semplicemente, per farmi impressione. Gente insomma anche loro di campagna che non lo sapevano ancora che i veri signori, quelli di città, mangiano poco, anzi pochissimo, specie le donne, e invece la loro ricchezza la mettono nella casa, nelle gioie e nei vestiti. Questi qua invece andavano vestiti come straccioni; ma erano fieri delle loro uova e del loro lardo come le signore di Roma dei loro vestiti da sera. Filippo beveva più di tutti, un po' perché, come ci annunziò ad un tratto, era l'anniversario del suo matrimonio; un po' perché ci aveva quel vizietto e più di una volta, in seguito, lo vidi con l'occhio lustro e il naso rosso, a tutte l'ore, magari anche la mattina alle nove. Così, forse perché era ubriaco, a metà del pranzo, si lasciò andare alla confidenza: "Io vi dico questo," incominciò ad un tratto, col bicchiere in mano, "che la guerra è brutta soltanto per i fessi, ma per gli altri, no. Lo sapete che cosa vorrei scrivere nel mio negozio, sopra la cassa: "ccà nisciuno è fesso." Lo dicono a Napoli ma lo diciamo anche noialtri, qui, ed è la pura verità. Io non sono fesso e non lo sarò mai perché a questo mondo ci sono due categorie di persone: i fessi e i furbi; e nessuno che io sappia vorrà mai appartenere alla prima categoria. Tutto sta a saperle, certe cose, tutto sta a tenere gli occhi bene aperti. I fessi sono coloro che credono a quello che c'è scritto nei giornali e pagano le tasse e vanno in guerra e magari ci rimettono la pelle. I furbi, eh! eh!, i furbi sono il contrario ecco tutto. E questi sono tempi in cui chi è fesso si perde e chi è furbo si salva, e chi è fesso non può fare a meno di essere più fesso del solito e chi è furbo deve essere invece furbissimo. Eh, lo sapete il proverbio: meglio un asino vivo che un dottore morto; e anche quest'altro: meglio l'uovo oggi che la gallina domani; e ancora quest'altro: promettere e mantenere è da uomo vile. Dirò di più: d'ora in poi non ci sarà più posto a questo mondo per i fessi, nessuno si potrà mai più permettere il lusso di essere fesso, neppure un giorno solo, bisognerà d'ora in poi essere furbi, molto furbi, furbissimi, perché questi sono tempi pericolosi assai e a dar loro un dito si prendono il braccio e vedete un po' quello che è successo a quel povero Mussolini che credeva appunto di fare una guerretta di un dito in Francia e invece poi gli è toccato rimetterci il braccio contro il mondo intero e adesso non ci ha più nulla e gli tocca fare il fesso per forza, lui che aveva voluto sempre fare il furbo. Date retta, i governi vanno e vengono e fanno le guerre sulla pelle della povera gente e poi fanno la pace e poi fanno quello che gli pare, ma la sola cosa che conta e non cambia mai è il negozio. Vengano i tedeschi, vengano gli inglesi, vengano i russi, quello che il vero padrone qui sono io... prima ti ho detto di sì, ma ora ripensandoci, ho paura che quella stanzetta lì non posso dartela... ci lavora tutto il giorno Luisa sul telaio... che farete voialtre mentre lei lavorerà?... mica potrete stare per i campi." Compresi che lui non si fidava ancora, da vero contadino; e allora cavai di tasca un biglietto da cinquecento e glielo porsi dicendo: "Che, hai paura che non ti paghiamo?... ecco cinquecento lire, te le lascio in deposito; poi quando andrò via faremo i conti". Lui ammutolì e prese il denaro; ma lo prese in una maniera particolare che voglio descrivere perché ci ha la sua importanza per capire la mentalità dei contadini di montagna. Prese, dunque, il biglietto, lo portò all'altezza del ventre con le due mani e lo guardò a lungo, con una certa cupa e imbarazzata ammirazione, come se fosse stato un oggetto strano, girandolo da una parte e dall'altra. In seguito, lo vidi fare questo gesto tutte le volte che gli capitava in mano del denaro e ho compreso che loro di denaro non ne vedevano mai perché tutto quello che gli serve se lo fanno in casa, compresi i vestiti; e quei pochi soldi di cui dispongono li mettono insieme con il commercio dei fascinotti che portano giù a valle, in città, durante l'inverno; così che il denaro per loro è una cosa rara e preziosa, più che denaro, quasi quasi, un dio. E infatti questi contadini di montagna presso cui passai tanto tempo non sono affatto religiosi e non sono neppure superstiziosi e per loro la cosa più importante è proprio il denaro, un po' perché non ne hanno e non ne vedono mai, un po' perché dal denaro, per loro almeno, viene ogni cosa buona, almeno loro così pensano e io, da bottegaia, non potrei davvero dargli torto. Insomma Paride disse, dopo aver guardato bene il mio biglietto: "Be', se non ti fa niente il rumore del telaio, la stanzetta puoi anche prendertela." E così io lo seguii verso la sua casetta, che era situata a sinistra della località e addossata come tutte le altre al muro di sostegno della macera. Di fianco alla casetta, che aveva due piani, c'era una piccola costruzione appoggiata alla parete rocciosa del monte, con un tettino di tegole, una porticina e una finestrella senza vetri. Entrammo e vidi che, come lui mi aveva avvertito, metà della stanzetta era occupata dal telaio per tesserci le stoffe, proprio uno di quelli antichi, tutto di legno. Nell'altra metà c'era un letto di campagna, voglio dire due cavalletti di ferro con le tavole per lungo e, sopra, un saccone di stoffetta leggera ripieno di foglie secche di granturco. In questa stanzetta si stava a malapena in piedi sotto il soffitto inclinato, il fondo era di roccia nuda e cruda, le pareti avevano tante ragnatele e macchie di umidità. Abbassai gli occhi: non c'era ammattonato né pietre, ma il terreno, proprio come in una stalla. Paride disse, grattandosi il capo: "Questa è la stanza... vedete un po' se potete accomodarvi." Rosetta che ci aveva seguiti disse con tono un po' sgomento: "Mamma, dovremo dormire qui?" Ma io le diedi sulla voce, rispondendo: "In tempo di carestia pan di vecce." E quindi voltandomi verso Paride: "Lenzuola, però, non ne abbiamo, ce ne date?" Cominciò allora una discussione, lui non voleva dare le lenzuola dicendo che appartenevano al corredo della moglie, poi alla fine convenimmo che gli avrei pagato un tanto per l'affitto di queste lenzuola. Di coperte, però, non ne aveva; così ci promise, a guisa di coperta, il suo ferraiolo nero, beninteso sempre pagando un affitto. E così fu per tutto il resto: il concone di rame per prendere l'acqua per lavarci, gli asciugamani, le stoviglie, fino una seggiola che ci avrebbe permesso di sederci a turno: tutto fu strappato con le unghie e coi denti e tutto fu ottenuto dopo che io promisi di pagare una somma per l'affitto di ciascun oggetto. Alla fine domandai dove avremmo potuto cucinare e lui rispose che potevamo cucinare nella capanna dove cucinavano anche loro. Io dissi allora: "Be', vediamo questa capanna, così mi faccio un'idea." L'idea me la feci subito andando con lui alla capanna che era situata un po' più in basso, sulla macera immediatamente sottostante. Era una capanna con la base di pietre a secco, e sopra, posato sul muretto, simile a una barca capovolta, il tetto di paglia. Io conoscevo queste capanne, al paese mio ci tengono gli attrezzi e le bestie, capanne simili si possono costruire in un giorno lavorando di lena: prima si fa il muro posando e incastrando l'una nell'altra, senza calce, grosse pietre appena sbozzate. Quindi si rizzano alle due estremità del recinto, che ha la forma ovale, due rami forcuti. Sulle forche si posa orizzontalmente un ramo lungo. Alfine, a strati sovrapposti, si aggiunge la paglia, ai due lati, in fasci legati insieme da viticci, finché non abbia raggiunto uno spessore sufficiente. Finestre non ce ne sono; la porta si fa con due pietre ritte per stipiti e una orizzontale per architrave ed è sempre una porticina bassa che costringe a piegar la schiena per entrare nella capanna. La capanna di Paride era in tutto simile a quelle del mio paese; presso la porta pendeva appeso a un chiodo un secchio pieno d'acqua con un mestolo. Prima di entrare, Paride prese il mestolo, bevve e poi me lo porse e bevvi anch'io. Entrammo nella capanna. Per un momento non vidi niente perché non c'erano finestre come ho detto, e Paride aveva chiuso quella sola porticina dietro a sé. Quindi lui accese un lumino a olio e allora pian piano cominciai a vedere. Il suolo pareva di terra pestata, nel mezzo c'era un fuoco moribondo con un treppiedi di ferro sul quale stava posato un paioletto nero. Levai gli occhi per aria: su, su, nell'oscurità penzolavano ghirlande di salsicce e di sanguinacci messi lì ad affumicarsi, nonché numerosi pendagli di fuliggine, neri e leggeri, che facevano pensare alle decorazioni dell'albero di Natale, ma un albero di Natale che fosse addobbato a lutto. Intorno il fuoco c'erano tanti ciocchi disposti in cerchio e, seduta su uno di questi ciocchi, mi meravigliai di vedere una vecchia, molto vecchia davvero, con la faccia che pareva la luna calante, tutto naso e scucchia, la quale filava con il fuso, sola sola, al buio. Era la madre di Paride e mi accolse con queste parole: "Brava, mettiti a sedere, mi hanno detto che sei una signora di Roma... eh, questo non è un salotto di Roma ma una capanna... ma tu hai da contentarti, ormai... vieni qui, mettiti a sedere." Io, a dir la verità, non ci avevo voglia di mettermi a sedere su uno di quei ciocchi così stretti e quasi quasi avrei voluto chiedere dove fossero le seggiole; ma mi trattenni a tempo. Poi scoprii che le seggiole nelle capanne non ci sono mai; le tengono nelle casette, considerandole un lusso da non adoperarsi che nelle feste e nelle ricorrenze solenni come matrimoni, funerali e simili; e per non sciuparle, le appendono al soffitto, capovolte, come se fossero prosciutti. Infatti nella casetta di Paride, un giorno ci entrai, picchiai con la fronte contro una seggiola e dentro di me pensai che ero davvero capitata in un luogo rustico assai. Basta, la capanna adesso era illuminata del tutto e io potevo vedere che era proprio un luogo da bestie: freddo e oscuro, con il suolo fangoso e le pietre del muretto e la paglia interna del tetto tutte annerite e grommose di fuliggine. L'aria era piena del fumo di quel fuocherello moribondo, forse perché la legna era verde; e questo fumo, per mancanza di finestre, ristagnava dentro, uscendo appena appena, a fatica, per il tetto, così che in breve Rosetta ed io cominciammo a tossire e a lacrimare. Nello stesso tempo scoprii, accovacciati e quasi nascosti dalla gonnella larga della vecchia, un brutto cane bastardo e un vecchio gatto spelacchiato i quali, pare impossibile, piangevano anche loro, poveretti, come se fossero stati due cristiani, per via del fumo così acre e pungente; ma piangevano senza muoversi, con gli occhi spalancati, segno che ci erano avvezzi. Non ho mai amato il sudiciume e, infatti la mia casa a Roma era modesta, ma, quanto a pulizia, uno specchio. Perciò tanto più, vedendo quella capanna, il cuore mi si strinse al pensiero che, d'ora in poi, Rosetta ed io avremmo dovuto cucinare, mangiare e anche vivere là dentro, proprio come due capre o due pecore. Dissi, come pensando ad alta voce: "Per fortuna che si tratta soltanto di pochi giorni, finché arrivano gli inglesi." E Paride: "Perché, la capanna non ti piace?" Dissi: "Al mio paese nelle capanne ci teniamo le bestie." Paride era un tipo curioso, come scoprii in seguito, insensibile e senza amor proprio, per così dire. Rispose, abbozzando un sorriso strano: "E qui invece ci stanno i cristiani." La vecchia disse, con la sua voce stridula di cicala: "Non ti piace la capanna, in basso, si sporse la testa di un bambino, era il figlio di Paride, Donato. "Papà dice se volete venire a mangiare con noi." Non avevamo molta fame perché avevamo mangiato molto alla tavola di Filippo la mattina; però accettai lo stesso l'invito perché, sentendomi stanca ed avvilita, non mi piaceva l'idea di finire la serata senza cena, sola con Rosetta in quella stanzuccia così triste. Così seguimmo Donato che ci precedeva quasi correndo, come se ci avesse visto al buio come un gatto; e raggiungemmo la capanna, una macera più in basso. Trovammo Paride attorniato da quattro donne: sua madre, sua moglie, sua sorella e sua cognata. Queste ultime due avevano ciascuna tre bambini ma i loro mariti non c'erano perché erano soldati e li avevano mandati in Russia. La sorella di Paride che si chiamava Giacinta, era bruna anche lei, con gli occhi intensi, spiritati, e la faccia larga e pesante: pareva un'ossessa e non parlava mai se non con asprezza, e sempre per rimproverare i suoi tre bambini che le stavano aggrappati alle vesti come tanti cagnolini addosso a una cagna e non facevano che frignare; qualche volta neppure gli parlava ma si limitava a picchiarli alla muta, duramente, con il pugno chiuso in testa. La cognata di Paride si chiamava Anita ed era moglie di un fratello di Paride che, in tempo di pace, abitava dalle parti di Cisterna; era una donna bruna e pallida, magra, con il naso aquilino, gli occhi sereni, l'espressione calma e riflessiva. Al contrario di Giacinta, che quasi faceva paura, Anita dava un'impressione di tranquillità e di dolcezza. Anche lei ci aveva i figli intorno ma non aggrappati alle vesti, bensì seduti con educazione sulle panche, i quali aspettavano in silenzio e senza impazienza che gli fosse dato da mangiare. Come entrammo, Paride ci disse con quel suo sorriso strano, tra imbarazzato e sornione: "Abbiamo pensato che voi foste sole e così, se volete favorire." Aggiunse dopo un momento: "Finché non verranno le vostre provviste, potrete mangiare qui con noi; poi faremo i conti." Insomma ci faceva capire che non era gratis ma io gli fui grata lo stesso perché sapevo che loro erano poveri e c'era la carestia ed era già molto che accettassero di darci da mangiare in cambio del denaro perché in tempi di carestia chi ci ha un poco di provviste se le tiene per sé e non le spartisce con gli altri neppure per denaro. Insomma, ci mettemmo a sedere e quindi Paride accese una lampada ad acetilene e una bella luce bianca ci illuminò quanti eravamo seduti sulle panche e i ciocchi di legno, torno torno il treppiedi sul quale bolliva una piccola pignatta. Eravamo tutte donne e bambini salvo Paride, solo uomo; e Anita la cognata, non senza malinconia perché, come ho detto, aveva il marito in Russia, ci scherzò sopra dicendo: "Sarai contento, Paride, tante donne tutte per te: beato tra le donne." Paride rispose con un mezzo sorriso: "Fortuna che dura poco." Ma la vecchia madre pessimista subito lo rimbeccò: "Poco? Finiremo prima noialtri che la guerra." Intanto Luisa aveva messo su un tavolino traballante una zuppiera di terracotta; afferrò una pagnotta e, tenendola stretta al petto, lesta lesta, con un coltello affilato, prese a farne cadere tante fette sottili finché la zuppiera non fu colma di pane fino all'orlo. Allora tolse dal fuoco la pignatta e ne versò il contenuto su tutte quelle fette di pane sovrapposte: era, insomma la solita minestrina che avevamo già mangiato da Concetta, ossia una poltiglia di pane e di brodo di fagioli. Mentre aspettavamo che il pane si imbevesse ben bene, Luisa mise in terra, nel mezzo della capanna, un grande catino e ci versò l'acqua di una brocca che stava a scaldarsi sulla cenere presso il treppiedi. Quindi, tutti quanti presero a togliersi le ciocie, senza fretta e con una certa gravità come se avessero fatto una cosa molto seria, che si ripeteva ogni sera e sempre allo stesso modo. Io non capivo dapprincipio ma poi, come vidi Paride per primo, allungare il piede nudo tutto nero di terra tra le dita e intorno al calcagno, nell'acqua del catino, compresi: noialtri in città, prima di mangiare, ci laviamo le mani; loro, invece, poveretti, che avevano camminato tutto giorno per il fango dei campi, si lavavano i piedi. Se li lavavano, però, tutti quanti nello stesso catino e senza cambiare acqua e così potete immaginare come diventò quest'acqua dopo che ci furono passati i piedi di tutti, bambini compresi: color cioccolata. Soltanto noi due non ci lavammo; e uno dei bambini ingenuamente domandò: "Perché voi due non vi lavate?" Al che la vecchia madre, che neppure lei si era lavata, rispose, cupa: "Sono due signore di Roma. Non lavorano la terra come noialtri." Intanto la minestrina, ormai, era pronta; Luisa portò via il catino pieno d'acqua sporca e mise in mezzo la tavolina con la zuppiera. Cominciammo a mangiare tutti insieme, ciascuno prendendo direttamente col cucchiaio dalla zuppiera. Credo che Rosetta ed io non mangiammo più di due o tre cucchiaiate a testa; ma gli altri ci diedero dentro con tanta furia, specie i bambini, che in breve la zuppiera fu vuota e, dalle facce un po' deluse e ancora avide, capii che molti erano rimasti con l'appetito. Paride distribuì ancora una manciatella di fichi secchi per ciascuno; quindi cavò da un buco del muretto della capanna un fiasco di vino e ne versò un bicchiere a tutti, anche ai bambini, sempre con lo stesso bicchiere. Tutti bevevano; e ogni volta Paride ripuliva l'orlo del bicchiere con la manica, versava, scrupoloso e porgeva dicendo sottovoce il nome della persona alla quale porgeva: sembrava di essere in chiesa. Il vino era aspro, quasi un aceto, vino di montagna, insomma, però vino d'uva, di questo si poteva essere sicuri. Finito il pasto che era stato consumato in silenzio, le donne ripigliarono il fuso e la conocchia e Paride, al lume dell'acetilene, prese a rivedere il compito di aritmetica del figlio Donato. Paride era analfabeta ma sapeva fare un po' di conti e voleva che il figlio imparasse anche lui. Mi sa, però, che il figlio, un bambino con la testa grossa e la faccia semplice e senza espressione, fosse tonto assai, perché dopo aver più volte provato e riprovato a fargli capire non so che problema, Paride si arrabbiò e gli diede un pugno forte sulla testa dicendo: "Stronzo." Il pugno risuonò come se la testa fosse stata di legno; ma il bambino non parve neppure accorgersene e prese, zitto zitto, a giocare in terra col gatto. In seguito domandai a Paride perché ci tenesse tanto a che il figlio, il quale come lui non sapeva né leggere né scrivere, imparasse l'aritmetica; e compresi che per lui i numeri, non le lettere, erano importanti perché coi primi si potevano almeno contare i quattrini, mentre, invece, le seconde non servivano, secondo lui, proprio a niente. Ho voluto descrivere questa nostra prima serata insieme coi Morrone (così si chiamava la famiglia), prima di tutto perché una volta descritta la prima ho descritto tutte quelle che vennero dopo, perché furono tutte eguali; e poi perché in quello stesso giorno io mangiai la mattina cogli sfollati e la sera coi contadini e così fui in grado di notare le differenze. Dico la verità: gli sfollati erano più ricchi, almeno alcuni di loro; da loro si mangiava meglio; sapevano leggere e scrivere; non portavano le ciocie e le loro donne erano vestite come donne di città: ciò nonostante, fin da quel primo giorno e poi in seguito sempre più, preferii i contadini agli sfollati. Questa preferenza forse derivava dal fatto che io, prima ancora che bottegaia, ero stata contadina; ma soprattutto secondo me, dalla strana sensazione che io provavo di fronte agli sfollati specie se li confrontavo con i contadini: come di gente a cui l'istruzione non era servita che a renderli peggiori. Un po' come avviene a certi ragazzini discoli i quali, appena vanno a scuola e imparano a scrivere, la prima cosa che fanno è coprire i muri con le parolacce. Insomma io dico che non dovrebbe bastare istruire la gente; ma bisognerebbe anche insegnargli come fare uso dell'istruzione. Alla fine tutti cascavano dal sonno; e alcuni dei bambini si erano assopiti; allora Paride si alzò annunziando che loro andavano a dormire. Così uscimmo tutti quanti dalla capanna e ci salutammo augurandoci la buonanotte; e poi Rosetta ed io restammo sole, sull'orlo della macera, assorte a guardare nella notte verso il punto dove sapevamo che si trovava Fondi. Non si vedeva un solo lume; tutto era buio e tranquillo; le sole cose vive erano le stelle che brillavano forte e parevano ammiccare dentro il cielo nero come se fossero stati tanti occhi d'oro che ci guardavano e sapevano tutto di noi mentre noi non sapevamo niente di loro. Rosetta mi disse piano: aveva fatto nulla nella vita fuorché vivere con me e, dopo l'educazione ricevuta dalle suore, aiutarmi nelle faccende di casa e qualche volta anche a bottega; eppure si comportava come se avesse fatto tutto e tutto avesse conosciuto. Adesso penso, però, che questa perfezione che mi pareva quasi incredibile veniva proprio dall'inesperienza e dall'educazione che le avevano dato le suore. Inesperienza e religione, fuse insieme, formavano questa perfezione che io credevo solida come una torre e, invece, era fragile come un castello di carte. Insomma, non mi rendevo conto che la vera santità è conoscenza ed esperienza, sia pure di un genere particolare, e non può essere mancanza di esperienza e ignoranza, come era invece il caso di Rosetta. Ma che colpa ne ebbi io? Io l'avevo tirata su con amore; e come tutte le madri di questo mondo avevo avuto cura che non sapesse niente delle brutte cose della vita perché pensavo che una volta andata via di casa e sposata, quelle cose lei le avrebbe conosciute anche troppo presto. Non avevo fatto i conti, invece, con la guerra che quelle cose costringe a conoscerle anche quando non vorremmo e ci forza a farne l'esperienza prima del tempo, in maniera innaturale e crudele. Tant'è: la perfezione di Rosetta era quella che ci voleva per la pace, con la bottega che andava bene, e io che pensavo ad ammassare i soldi per la sua dote e un bravo giovanotto che le avrebbe voluto bene e se la sarebbe sposata e le avrebbe fatto fare dei figli, così che lei, dopo essere stata una bambina perfetta e una ragazza perfetta, sarebbe stata anche una moglie perfetta. Ma non era la perfezione che ci vuole per la guerra, che richiede invece un altro genere di qualità, quali non so, ma non certo quelle di Rosetta. Basta, alla fine ci rialzammo e ce ne andammo lungo la macera, al buio, verso la nostra stanza. Passammo sotto la finestra di Paride e io udii che Paride e i suoi non erano ancora addormentati, ma si muovevano e parlavano sommessamente, proprio come i polli nel pollaio che si agitano un poco prima di dormire. Quindi, ecco la nostra stanzetta addossata alla casa e alla macera, con la porticina di assi, il tettino inclinato di tegole e la finestrella senza vetri. Spinsi la porta e ci trovammo al buio. Ma avevo con me i fiammiferi e così per prima cosa accesi un pezzetto di candela; poi, con una striscia di tela strappata da un fazzoletto, confezionai uno stoppino che misi nella lampada a olio. In questa luce chiara ma triste sedemmo ambedue sul letto; e io dissi a Rosetta: "Ci togliamo soltanto la gonna e il corpetto. Non abbiamo che lenzuola e questo mantello di Paride, se ci mettiamo nude, mi sa che più tardi avremo freddo." Così facemmo; e, in sottana, una dopo l'altra, entrammo nel letto. Le lenzuola erano di lino, tessuto a mano, pesante e fresco; ma questa era la sola cosa normale in quel letto che non era veramente un letto. Sentivo, appena mi muovevo, tutte le foglie di granturco scricchiolare e aprirsi in due mucchi separati e la schiena, attraverso la stoffetta sottile del saccone, toccare le dure assi del fondo. Non ci avevo mai dormito in un letto così, neppure da bambina, al paese: avevamo letti normali con la rete e il materasso. Ad un certo momento addirittura, per un mio movimento, nonché le foglie, si aprirono sotto di me anche le assi e io mi sentii cascare giù per la fenditura fino a sfiorare il suolo con il sedere. Al buio, allora, mi alzai, rimisi a posto assi e saccone e quindi risalii sul letto e mi abbracciai strettamente a Rosetta che mi voltava la schiena e stava tutta rannicchiata sopra se stessa dalla parte del muro. Ma fu lo stesso una notte molto inquieta. Non so a che ora, forse dopo mezzanotte, mi svegliai e udii come un pigolio, fino fino, ancor più leggero di quello degli uccelli. Veniva da sotto il letto e così, dopo un poco, svegliai Rosetta e le chiesi se anche lei lo udisse e lei mi rispose che lo udiva. Allora accesi la lampada e guardai sotto il letto. Il pigolio, come mi accorsi subito, veniva da una cassetta che pareva contenere nient'altro che una quantità di mazzi di camomilla e di mentuccia. Ma guardando meglio, scoprimmo tra la camomilla come un nido rotondo di paglia e di lanugine e, dentro il nido, otto o dieci topi appena nati, non più grandi del mio dito mignolo, color rosa, nudi, quasi trasparenti. Rosetta disse subito che non dovevamo toccarli, era la prima notte che passavamo lassù e ucciderli ci avrebbe portato sfortuna. Così risalimmo nel letto e, bene o male, ci riaddormentammo. Ma ecco, non più di un'ora dopo, ecco, al buio, passeggiarmi sul viso e sul petto un non so che di morbido e di pesante. Diedi un grande urlo dallo spavento; Rosetta si svegliò; accendemmo la lampada e, guarda caso, dopo i topi, il gatto. Infatti un bel gattino nero, con gli occhi verdi, magro ma giovane e lustro, se ne stava seduto in fondo al letto, guardandoci fisso, pronto a saltar via per la finestrella donde era entrato. Rosetta, però, lo chiamò a modo suo, ci aveva la passione dei gatti e sapeva trattarli; e il gatto subito, si avvicinò fiducioso; e, insomma, poco dopo, stava anche lui sotto le lenzuola, facendo le fusa. Questo gatto dormì con noi per tutto il tempo che restammo a Sant'Eufemia; e si chiamava Gigi. Ci aveva le sue abitudini cioè lui veniva ogni notte dopo la mezzanotte, si metteva sotto le lenzuola, tra noi due, e ci restava fino all'alba. Era buono ed era affezionato a Rosetta; ma guai se, mentre dormiva tra me e Rosetta, una di noi due ardiva fare un movimento; subito, al buio, si sentiva Gigi che ringhiava come per dirci: "Ahò, mo' manco dormire si potrà?" Quella stessa notte, oltre che per i topi e per il gatto, mi svegliai ancora molte altre volte e sempre stentavo a riconoscere il luogo dove mi trovavo. In uno di questi risvegli, udii un aeroplano che volava basso, lento lento, con un rumore regolare, grave e dolce, come se il motore avesse macinato acqua e non aria e questo rumore mi parve che mi parlasse e mi dicesse delle cose che mi rassicuravano. In seguito mi spiegarono che questi aeroplani si chiamavano cicogne e andavano in perlustrazione e per questo volavano piano; e io alla fine ci feci l'abitudine, al punto che qualche volta stavo sveglia apposta per udirli; e se non li udivo restavo quasi delusa. Erano aeroplani inglesi, queste cicogne, e io sapevo che gli inglesi alla fine dovevano arrivare a ridarci la libertà e permetterci di tornare a casa. Capitolo quarto E così cominciò la vita a Sant'Eufemia, che questo era il nome della località. Cominciò come se dovesse durare provvisoriamente soltanto un paio di settimane; in realtà doveva prolungarsi per nove mesi. La mattina dormivamo più avanti che potevamo, tanto non c'era niente da fare; e bisogna dire che fossimo esaurite per le privazioni e le angosce di Roma perché durante la prima settimana dormivamo qualche volta fino a dodici o quattordici ore di seguito. Andavamo a letto presto, e ci svegliavamo durante la notte e poi riprendevamo a dormire e ci svegliavamo di nuovo all'alba e il sonno ci riprendeva e poi veniva il giorno e allora bastava che ci rivoltassimo verso la roccia della macera, le spalle alla luce che veniva dalla finestrella per ripiombare nel sonno e dormire fino al mattino inoltrato. Non ho mai dormito tanto in vita mia ed era un sonno buono, denso e pieno, saporito come il pane fatto in casa, senza sogni e senza inquietudini, un sonno davvero riposante, così che ogni giorno che passava ripigliavamo le forze che avevamo perdute a Roma e durante il soggiorno in casa di Concetta. Questo sonno così profondo e così sodo ci faceva veramente bene e infatti in capo ad una settimana, eravamo tutte e due trasformate, tutte e due con gli occhi freschi e senza occhiaie, le guance sostenute e piene, il viso liscio e teso, la testa limpida. In quel sonno mi pareva che la terra in cui ero nata e che avevo abbandonato da tanto tempo mi avesse ripreso nel suo seno e mi comunicasse la sua forza, un po' come succede alle piante sradicate che se le ripianti presto ripigliano forza e riprendono a buttare foglie e fiori. Eh, sì, siamo piante e non uomini, o meglio più piante che uomini e dalla terra dove siamo nati viene tutta la nostra forza e se l'abbandoniamo non siamo più piante né uomini ma straccetti leggeri che la vita può sbattere di qua e di là secondo il vento delle circostanze. Dormivamo tanto e così di buona voglia che tutte le durezze della vita lassù ci sembrarono leggere e le affrontammo con allegria e ci aveva la famiglia e trattandosi di roba da mangiare lui doveva pensare prima di ogni cosa alla famiglia. Per fortuna, pochi giorni dopo il nostro arrivo, arrivò Tommasino dalla valle tirando per la briglia il suo somarello carico, è il caso di dirlo, come un somaro, di una quantità di pacchi e di valigie. Erano le nostre provviste che lui aveva racimolato qua e là per la valle di Fondi, secondo la lista che avevamo scritto insieme; e chi non si è trovato in condizioni simili, col denaro che praticamente non valeva più niente, straniero tra stranieri, in cima ad una montagna e non ha sperimentato che cosa voglia dire la mancanza di roba da mangiare in tempo di guerra, non potrà mai capire la gioia con cui accogliemmo Tommasino. Sono cose che è difficile spiegare: di solito la gente vive nelle città in cui i negozi sono pieni e non fa provviste tanto sa che per qualsiasi necessità ci sono i negozi, appunto, ben forniti di tutto. Così si illude che questo fatto dei negozi pieni sia quasi un fatto naturale come il ritorno delle stagioni e la pioggia e il sole e la notte e il giorno. Storie: la roba può mancare tutto ad un tratto, come mancò infatti quell'anno e allora tutti i milioni del mondo non bastano a comprare un cantoncello di pane e senza pane si muore. Tommasino dunque, arrivò tutto trafelato tirando per la cavezza il ciuco che quasi quasi non ce la faceva più e mi disse: "Comare, qui ci avete da mangiare per lo meno sei mesi," e quindi mi fece la consegna, controllando ogni cosa su un pezzo di carta gialla sul quale io avevo scritto la lista. Lo ricordo l'elenco e lo riporto qui per dare un'idea di cosa fosse la vita della gente nell'autunno del 1943. La nostra vita, di me e di Rosetta, era dunque affidata ad un sacco di cinquanta chili di farina di fiore, per fare il pane e la pasta, ad un altro sacco più piccolo di farina gialla di granturco per fare la polenta, ad un sacchetto di una ventina di chili di fagioli della peggiore qualità, quelli con l'occhio, ad alcuni chili di ceci, di cicerchi e di lenticchie, a cinquanta chili di arance, ad un vaso di strutto del peso di due chili e a un paio di chili di salsiccie. Tommasino, inoltre, aveva anche portato su un sacchetto di frutta secca come dir fichi, noci e mandorle, e una buona quantità di carrube che di solito si danno ai cavalli ma ormai, come ho accennato, erano troppo buone anche per noi. Mettemmo tutta questa roba nella stanzetta, per la maggior parte sotto il letto e poi io feci i conti con Tommasino e scoprii che i prezzi in una sola settimana erano già saliti quasi del trenta per cento. Qualcuno penserà che a farli salire fosse stato Tommasino che per i soldi, come si dice, avrebbe fatto persino carte false; ma io sono negoziante e quando lui mi disse che i prezzi erano saliti, io gli credetti subito perché sapevo per esperienza che non poteva non essere vero e che se le cose continuavano ad andare come andavamo, cioè con gli inglesi fermi sul Garigliano e i tedeschi che si portavano via la roba e spaventavano la gente e gli impedivano di lavorare, i prezzi sarebbero ancora saliti e magari sarebbero andati alle stelle. E così succede in tempo di carestia: ogni giorno qualche prodotto diventa raro, ogni giorno sul mercato si restringe il numero delle persone che hanno abbastanza soldi per comprare e alla fine può anche succedere che nessuno più venda e nessuno più comperi e tutti quanti, soldi o non soldi, muoiano di fame. Io dunque credetti a Tommasino quando mi disse che i prezzi erano saliti e pagai senza fiatare, anche perché pensavo che un uomo come quello, abbastanza avido per affrontare i pericoli della guerra pur di guadagnare in tempi come quelli era un tesoro e bisognava tenerselo caro. Pagai e anzi, pagando, gli feci vedere il malloppo dei biglietti da mille che tenevo nella saccoccia sotto la gonnella: lui, come vide il denaro, ci appuntò gli occhi come un nibbio sopra un pollo e disse subito che noi due eravamo fatti per intenderci e, quando volevo, lui mi avrebbe trovato la roba, sempre però al prezzo corrente, non un soldo di meno non un soldo di più. In quell'occasione vidi pure, una volta di più, quanta considerazione può attirare il denaro ossia, nel caso, le provviste. I Festa, negli ultimi giorni, vedendo che le nostre provviste non arrivavano e che noi per mangiare ci raccomandavamo a Paride il quale, sia pure a denti stretti, ci permetteva di mangiare con la famiglia, beninteso pagando, evitavano di stare insieme con noi e, quando veniva l'ora dei pasti, se ne andavano a mangiare alla chetichella, quasi vergognandosi. Ma appena arrivò Tommasino col suo somarello bisognava vedere come cambiò l'atteggiamento, dal giorno alla notte. Sorrisi, saluti, carezze, conversazioni e, persino, ora che non avevamo più bisogno, inviti a pranzo. Vennero addirittura a contemplare le nostre provviste e, in quell'occasione, Filippo mi disse, sinceramente compiaciuto perché ci aveva simpatia per me, non tanta forse da darmi la roba da mangiare ma abbastanza per essere contento che ce ne avessi: "Tu ed io, Cesira, quassù siamo i soli che possiamo guardare con tranquillità all'avvenire, perché siamo i soli che abbiamo i quattrini." Il figlio Michele a queste parole diventò più scuro del solito e poi disse a denti stretti: "Ne sei proprio sicuro?" Il padre scoppiò a ridere e gli batté una mano sulla spalla: "Sicuro? E' la sola cosa di cui io sia sicuro... non lo sai che i soldi sono gli amici migliori, più fedeli e più costanti che possa avere un uomo." Io li stavo a sentire e non dissi nulla. Ma pensavo dentro di me che non era poi tanto vero: quel giorno stesso quegli amici così fidati mi avevano fatto lo scherzo di diminuire del trenta per cento il loro valore d'acquisto. E oggi che cento lire bastano appena a comprare un po' di pane mentre prima della guerra ci si poteva vivere mezzo mese, posso dire che non ci sono amici fidati in tempo di guerra, né uomini né soldi né nulla. La guerra sconvolge tutto e, insieme con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono. Dal giorno che arrivarono le provviste, cominciò la nostra vita normale a Sant'Eufemia. Dormivamo, ci vestivamo, raccoglievamo gli sterpi e la legna per il fuoco, l'accendevamo nella capanna, poi si passeggiava un poco chiacchierando del più e del meno con gli altri sfollati, si mangiava, si passeggiava di nuovo, si cucinava e si mangiava per la seconda volta e alla fine, per risparmiare l'olio della lampada si andava a letto con le galline. Il tempo era bello, dolce e calmo, senza vento e senza nuvole, proprio un autunno magnifico, con tutti i boschi intorno per le montagne, spruzzati di rosso e di giallo e tutti dicevano che questo era il tempo ideale per gli alleati per fare un'avanzata rapida e travolgente e arrivare per lo meno fino a Roma e nessuno si capacitava che non lo facessero e indugiassero dalle parti di Napoli o poco più su. Questo, del resto, era il discorso comune lassù a Sant'Eufemia, anzi il solo discorso. Si parlava sempre degli alleati e quando venivano e perché non venivano e come mai e in che modo. Ne parlavano soprattutto gli sfollati perché desideravano tornare al più presto a Fondi e riprendere la solita vita; i contadini, invece, ne parlavano meno, un po' perché, in fondo, la guerra era per loro un buon affare, avendo affittato le casette e facendo molti altri piccoli guadagni con gli sfollati; un po' perché loro facevano la stessa vita che avevano fatto in tempo di pace e con l'arrivo degli alleati, per loro poco o nulla sarebbe cambiato. Quanto ne parlai degli alleati, su e giù per le macere, all'aria aperta, guardando il panorama di Fondi e al mare azzurro così lontano, oppure la sera nella capanna di Paride, quasi al buio, col fumo che ci faceva lacrimare, davanti il fuoco semispento oppure ancora di notte, a letto, abbracciata a Rosetta, prima di dormire. Ne parlai tanto e tanto che pian piano questi alleati erano diventati un po' come i santi di paese che fanno le grazie e portano la pioggia e il bel tempo e uno ora li prega e ora li insulta e sempre si aspetta qualche cosa da loro. Tutti si aspettavano cose straordinarie da questi alleati, appunto come dai santi; e tutti erano sicuri che con il loro arrivo la vita non soltanto sarebbe tornata normale ma anche molto migliore del normale. Bisognava sentire soprattutto Filippo. Lui l'esercito degli alleati, penso che se lo immaginasse come una colonna senza fine di autocarri pieni di ogni grazia di Dio, con dei soldati inerpicati in cima e incaricati di distribuire gratis tutta quella roba a noialtri italiani. E dire che era un uomo maturo, un negoziante e che pretendeva di far parte della categoria dei furbi mentre secondo lui gli alleati avrebbero dovuto essere così fessi da quanto da loro, senza acquistare niente, ma facevano ogni cosa male e da pecioni. Michele, il figlio di Filippo, al quale comunicai queste mie osservazioni, mi rispose, serio, scuotendo la testa: "Chi fabbrica più ormai a mano quando ci sono le macchine? Soltanto dei miserabili come questi, soltanto i contadini di un paese arretrato e miserabile come l'Italia." Non bisogna credere, però, da queste parole che Michele disprezzasse i contadini, al contrario. Soltanto, lui si esprimeva sempre in questo modo, col massimo dell'asprezza, crudo e perentorio; ma al tempo stesso, ed era questo che mi faceva maggiore impressione, senza alcuna violenza nella voce, in tono tranquillo, come se avesse detto cose ovvie e indiscutibili per le quali lui ormai non se la prendeva più da tempo e si limitava a dirle, così, come un altro direbbe che il sole splende nel cielo, che la pioggia cade. Era un tipo curioso, Michele; e siccome, poi, diventammo amici e io dovevo affezionarmi a lui come a un figlio, voglio descriverlo se non altro per riaverlo un'ultima volta davanti agli occhi. Era non tanto alto, anzi bassino, ma largo di spalle e un po' ingobbito, con la testa grossa e la fronte molto alta. Portava gli occhiali e camminava impettito, fiero e superbo, con l'aria di chi non si lascia intimidire né sopraffare da nessuno. Era molto studioso, e, come appresi da suo padre, proprio quell'anno doveva laurearsi o si era laureato, non ricordo più. Insomma aveva intorno ai venticinque anni, benché per gli occhiali e anche per il contegno così serio ne mostrasse almeno trenta. Ma il carattere, soprattutto, era insolito, diverso da quello degli altri sfollati e anche da quello delle persone che avevo sinora conosciuto. Come ho detto, si esprimeva con una sicurezza assoluta, come chi sia convinto di essere il solo a conoscere e a dire la verità. Da questa convinzione derivava, secondo me, quel fatto curioso che ho notato: pur dicendo cose aspre o violente non si scaldava affatto, anzi le diceva con un tono calmo e ragionevole e, per così dire, quasi casuale e senza rilievo, come se si fosse trattato di roba vecchia sulla quale ormai tutti quanti erano d'accordo da molto tempo. E invece questo non era affatto vero, almeno per quanto mi riguardava; perché a sentirlo parlare, per esempio, del fascismo e dei fascisti, io provavo sempre come un senso di stupore. Per vent'anni, infatti, cioè da quando avevo cominciato a ragionare, io non avevo sentito dire che del bene del governo; e benché ogni tanto avessi trovato a ridire su questa o quest'altra cosa che riguardava soprattutto il mio negozio, anche perché non mi sono mai occupata di politica, pensavo, in fondo, che, se i giornali approvavano sempre il governo, dovevano averci le loro buone ragioni e non stava a noialtri, poveretti e ignoranti, giudicare di cose che non capivamo né conoscevamo. Ma ecco che Michele negava ogni cosa; e dove i giornali avevano sempre detto bianco, lui diceva nero; e non c'era niente che fosse stato buono per quei vent'anni; e tutto quello che era stato fatto per quei vent'anni, in Italia, era sbagliato. Secondo Michele, insomma, Mussolini e i suoi ministri e tutti i pezzi grossi e tutti coloro che contavano qualche cosa, erano dei banditi, proprio così diceva: banditi. Io rimanevo a bocca aperta di fronte a queste affermazioni, fatte con tanta sicurezza, tanta noncuranza e tanta calma. Avevo sempre sentito dire che Mussolini per lo meno, per lo meno era un genio; che i suoi ministri a dire poco erano grandi uomini; che i segretari federali, proprio a voler essere modesti, erano persone intelligenti e per bene; e che tutti gli altri più piccoli, sempre tenendosi bassi, era gente da fidarsene ad occhi chiusi; ed ecco che Michele mi rovesciava, come si dice, la frittata sotto il naso, tutta in una sola volta, e li chiamava tutti quanti, senza eccezione, banditi. Intanto, però, mi domandavo come mai lui fosse arrivato a pensare in questo modo; perché non sembrava che fossero cose che lui le avesse cominciato a pensare, come tanti in Italia, dal momento che la guerra si era messa male; come ho già accennato, si sarebbe detto che lui quelle cose lì fosse nato pensandole a quel modo, così, naturalmente, come gli altri bambini normalmente danno il loro nome alle piante, agli animali, alle persone. Semplicemente, lui ci aveva una sfiducia antica, incrollabile, incallita, in tutti e in tutto. E questo mi pareva tanto più sorprendente in quanto lui non ci aveva che venticinque anni e perciò, per così dire, non aveva mai conosciuto altro che il fascismo ed era stato tirato su ed educato dai fascisti e così, a fil di logica, se l'educazione conta qualche cosa, avrebbe dovuto essere anche lui fascista o per lo meno, come ce n'erano tanti adesso, uno di quelli che criticavano sì il fascismo, ma a mezza bocca e senza sicurezza. Invece no, Michele, con tutta la sua educazione fascista, era proprio scatenato contro il fascismo. E io non potevo fare a meno di pensare che in quell'educazione ci dovesse essere qualche cosa che non andava, altrimenti Michele non si sarebbe espresso in quel modo. Qualcuno penserà a questo punto che Michele per parlare così avesse già fatto chissà quante esperienze: si sa, se uno fa qualche brutta esperienza e questo può succedere anche coi migliori governi, poi è portato a generalizzare, a vedere tutto nero, tutto brutto, tutto sbagliato. Invece no, frequentando Michele, mi convinsi piano piano che lui di esperienze ne aveva fatte poche assai e queste poche tutte insignificanti, comuni appunto a tutti i giovanotti della sua condizione e della sua età. Era cresciuto a Fondi con la famiglia; e a Fondi aveva fatto i primi studi e come tutti gli altri ragazzi della sua età era stato via via balilla e avanguardista. Poi si era iscritto all'università di Roma e a Roma aveva studiato ed era vissuto qualche anno, stando in casa di uno zio magistrato. Questo era tutto. Non era mai stato all'estero; dell'Italia, oltre Fondi e Roma, conosceva appena le città principali. Insomma non gli era mai successo niente di straordinario, o se gli era successo, si trattava sempre di cose che gli erano successe nella testa, non nella vita. Per esempio in fatto di donne, secondo me, non aveva mai fatto l'esperienza dell'amore che a tanti, in mancanza d'altro, apre gli occhi su quello che sia la vita. Lui stesso ci disse più volte che non era mai stato innamorato, che non era mai stato fidanzato, che non aveva mai fatto la corte a una donna. Tutt'al più, a quanto mi parve di capire, aveva avvicinato qualche mignotta, come fanno tutti i giovanotti come lui, che non hanno né soldi né conoscenze. Così venni alla conclusione che lui queste convinzioni così radicate se le era fatte, per così dire, quasi senza rendersene conto, forse soltanto per spirito di contraddizione. Durante vent'anni i fascisti si erano sfogati a proclamare che Mussolini era un genio e i suoi ministri tutti grand'uomini; e lui, appena aveva cominciato a ragionare, così, naturalmente, come una pianta spinge i rami dalla parte dove c'è il sole, aveva pensato il contrario giusto di quello che proclamavano i fascisti. Sono cose misteriose, lo so, e io sono una poveretta ignorante e non pretendo di comprendere e di spiegarle; ma spesso ho osservato che i bambini fanno il contrario giusto di quello che gli dicono di fare o anche fanno i genitori, non tanto perché capiscano veramente che i genitori fanno male ma per la sola e buonissima ragione che loro sono bambini e i genitori sono genitori e loro vogliono avere anche loro la loro vita, a modo loro, dopo che i genitori hanno avuto la loro. Così penso che fosse di Michele. Lui era stato tirato su dai fascisti per diventare un fascista; ma proprio per il solo fatto che lui era vivo e che voleva avere una vita a modo suo, lui era diventato antifascista. Michele, in quei primi tempi, prese a trascorrere con noi quasi tutta la giornata. Non so che cosa l'attirasse perché eravamo due donne semplici, non tanto diverse in fondo da sua madre e da sua sorella; d'altra parte, come dirò in seguito, non provava neppure per Rosetta un'attrazione particolare. Probabilmente ci preferiva alla sua famiglia e agli altri sfollati perché eravamo di Roma e non parlavamo in dialetto e non discorrevamo, come gli altri, delle cose di Fondi che a lui, come disse più volte non interessavano anzi davano fastidio. Insomma, lui veniva la mattina presto che eravamo appena alzate e non ci lasciava che all'ora dei pasti, stando così con noi, praticamente, tutta la giornata. Mi pare ancora di vederlo che si affacciava alla stanzetta dove noi stavamo senza far niente, io sul letto e Rosetta sulla seggiola e annunziava con voce gioiosa: "Allora che ne dite di andare a fare una bella passeggiata?" Noi
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