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La Ciropedia di Senofonte, Sintesi del corso di Storia Della Pedagogia

Parafrasi e Riassunto della Ciropedia di Senofonte Tradotta da Francesco Regis

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 14/01/2020

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margherita-reggian-1 🇮🇹

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Scarica La Ciropedia di Senofonte e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Pedagogia solo su Docsity! CIROPEDIA di SENOFONTE (Libro primo) tradotta da Francesco Regis Prefazione La Ciropedia vuol dire storia di Ciro, nominata così da Senofonte per intendere che la prima educazione di Ciro produsse in lui tutto ciò che il mondo ammirò dopo. Che bello vedere in essa come i Persiani di allora erano educati pubblicamente alla giustizia, alla temperanza, alla forza ed all'obbedienza e ad ogni virtù. E questo li portò alla maggiore grandezza ed al vastissimo impero dell'Asia ed ognugno dovrà essere convinto che solo una pubblica istruzione è capace di formare sudditi virtuosi e concordi con il principe, tranquillità, gloria della patria. Che bell'esempio hanno in Ciro i re per specchiarsi. Non ci fu un governo così giusto, così dolce e felice come quello che fece provare il fondatore della monarchia Persiana. Chi, come lui, fece leggi così giuste da rendere i suoi virtuosi, così osservo l'uguaglianza nel distribuire premi ed onori e così si astenne dal desiderare qualsiasi cosa che la ragione non gli concedesse? Chi, governando come un padre, esercitò tanto la mansuetudine, la benignità, la clemenza? Si legga dall'inizio alla fine la vita di un tale re, descritta dal nostro autore e non si potrà fare a meno di concludere che lui stesso è stato sembianza di tutte le virtù e gloria del mondo. capo I Quanti governi democratici furono rovesciati da uomini che preferivano regimi, quante monarchie e quante oligarchie furono abbattute dalle forze del popolo e quanti individui dopo aver tentato di instaurare un regime tirannico, alcuni furono spazzati via immediatamente, altri, per quanto breve sia stata la durata del loro potere, vengono ricordati con ammirazione per il loro talento e la loro fortuna. Tutti coloro che definiamo mandriani non senza ragione si possono considerare i capi delle bestie che accudiscono. I branchi di animali si mostrano universalmente disposti ad obbedire ai loro mandriani più di quanto gli uomini accettino di lasciarsi dirigere dai loro governanti. Gli uomini contro nessuno congiurano più facilmente che contro colui di cui si avvedano che vuole imporsi su di loro. Per natura all’uomo riesce più facile comandare su tutti gli altri esseri viventi che sui propri simili. Ma Ciro di Persia, che si conquistò l’obbedienza di moltissimi uomini e di moltissime genti e città, e dobbiamo riconoscere che il comandare agli uomini, purché se ne riconosca l’arte, non è cosa né impossibile né difficile. A Ciro obbedirono di buon grado sudditi che distavano da lui molti giorni e perfino molti mesi di marcia e alcuni che non lo avevano mai visto o che, addirittura, erano sicuri che mai lo avrebbero visto: eppure accettavano di prestargli obbedienza. Intanto egli superò tutti gli altri monarchi, delle popolazioni europee si dice che tuttora vivono ciascuna secondo le proprie leggi, ben separate le une dalle altre. Ciro invece pur avendo trovato le genti d’Asia non diversamente autonome, si mosse con un modesto esercito di Persiani e senza alcuna opposizione diventò capo dei Medi e degli Arcani e sottomise dai Siri agliAssiri fino a soggiogare anche gli Elleni d’Asia, Ciprioti ed Egiziani. Governò dunque queste genti che per lingua erano diverse sia da lui che fra loro, e tuttavia il terrore che ispirava era tanto da rendere stupefatto il mondo intero, tanto che nessuno osava attaccarlo, e seppe instillare in tutti un tale desiderio di guadagnarsi il suo favore che essi non chiedevano di meglio che essere pilotati dalla sua volontà. Noi per parte nostra, considerando quest’uomo degno di ammirazione, ci siamo messi a indagare in virtù di quale lignaggio, di quale carattere e di quale educazione riuscì a tal punto a eccellere nell’arte di governare gli uomini. E pertanto tutto ciò che su di lui abbiamo appreso o che riteniamo di aver intuito tenteremo di raccontarlo. capo II Il padre di Ciro, Cambise, re dei Persiani, della famiglia dei Perseidi, che sono così chiamati da Perseo. Quanto alla madre, si concorda nel ritenere che fosse Mandane, figlia di Astiage, il re dei Medi. Racconti e canzoni circolanti ancor oggi fra i barbari ricordano che Ciro era bellissimo nella figura e, nell’anima, straordinariamente generoso, avido di conoscenze, bramoso di gloria, disposto a sopportare qualsiasi fatica e ad affrontare qualsiasi rischio pur di meritarsi le lodi altrui. Se tali erano le sue doti fisiche e morali, la sua formazione si svolse secondo le norme dei Persiani, le quali prendono a curarsi del bene comune non, a partire dallo stesso momento in cui suole avvenire nella maggior parte delle altre comunità, le quali danno licenza ai singoli di educare i propri figli come meglio credono e ai figli stessi, quando siano un po’ cresciuti, di vivere secondo il loro gusto e solo a partire da un certo momento prescrivono quel che non devono fare e fissano la pena per chi trasgredisca alle leggi. Le norme persiane hanno invece un carattere preventivo in quanto si preoccupano che i cittadini fin dall’inizio non siano tentati di compiere azioni inique o infamanti. Ecco come vanno le cose in Persia. C’è un luogo detto Piazza della Libertà, dove sorgono il palazzo reale e gli altri edifici governativi. La piazza è vietata alle mercanzie e ai volgari schiamazzi dei dettaglianti: questi vengono trasferiti altrove onde evitare che il chiasso da essi prodotto si confonda con le buone maniere delle persone educate. Questa piazza del governo è divisa in quattro settori: uno per i fanciulli, uno per i giovani, uno per gli adulti, uno per coloro che non sono più in età di portare le armi. Ogni gruppo ha il dovere di presentarsi nel rispettivo settore: i fanciulli e gli adulti all’alba, gli anziani all’ora che preferiscono con l’eccezione di alcuni giorni determinati in cui devono anch’essi giungere all’alba. Anche i giovani devono dormire presso gli edifici governativi indossando armi leggere, tranne gli ammogliati, di cui non si controlla la presenza a meno che non siano stati preavvertiti (ma è sconveniente che siano assenti troppo spesso). I magistrati preposti a ogni singolo gruppo sono dodici, come le tribù dei Persiani. Per i fanciulli si scelgono tra gli anziani quelli che sembrino in grado di sviluppare al meglio le virtù, per i giovani coloro fra gli adulti che siano capaci di ottenere migliori risultati educativi, per gli adulti gli uomini che siano i più indicati a predisporli a eseguire i compiti e gli ordini impartiti dalla suprema autorità; e per gli anziani si selezionano dirigenti con l’incarico di sorvegliare che anch’essi compiano i loro doveri. Vediamo dunque quali sono i compiti assegnati a ciascun gruppo di età, affinché meglio risulti quanto i Persiani si preoccupano che i singoli riescano quanto più è possibile cittadini egregi. I fanciulli che frequentano la scuola imparano i principi della giustizia e dichiarano essi stessi che vi si recano a questo scopo, proprio come da noi lo scolaro dice di andare a scuola per imparare a leggere e scrivere. I loro maestri passano la maggior parte del tempo a dar verdetti che li riguardano: capita infatti che anche ai fanciulli non meno che agli adulti di accusarsi reciprocamente di furti, rapine violenze, inganni, calunnie e così via; e assegnano un castigo a chi riconoscano responsabile di qualcuna di queste colpe. però puniscono anche chi sia sorpreso ad accusare ingiustamente un compagno e non mancano di giudicare in merito a quella colpa, l’ingratitudine per la quale gli uomini possano giungere ad odiarsi ferocemente ma che ben di rado diventa oggetto di un procedimento penale e, se notano che un fanciullo avrebbe potuto contraccambiare un favore e non lo ha fatto, lo puniscono severamente. Sono convinti che nessuno più di una persona ingrata tende a trascurare gli dèi, i genitori, la patria, gli amici. E in effetti all’ingratitudine si accompagna spesso l’impudenza, e l’impudenza, si sa, è la madre di tutti i vizi. Si insegna ai fanciulli anche la temperanza, e al suo apprendimento molto giova la constatazione che anche gli anziani vivono praticando quotidianamente questa virtù. E poi si insegna loro a obbedire ai superiori, e a questo contribuisce il vedere che gli anziani prestano una scrupolosa obbedienza ai magistrati. E poi si insegna l’autocontrollo nel mangiare e nel bere, che viene favorito sia dalla possibilità di riscontrare che gli anziani non vanno a cenare prima che i superiori lo consentano sia dalla circostanza che non consumano il pasto a casa, con la madre, bensì in compagnia del maestro, e solo dopo che i direttori abbiano dato il segnale. Si portano da casa come nutrimento del pane, come companatico del crescione e per spegnere la sete una tazza per attingere l’acqua del fiume. E poi imparano a tirare con l’arco e a lanciare il giavellotto. Queste sono le occupazioni dei fanciulli dalla nascita ai sedici o diciassette anni d’età, allorché entrano nella classe dei giovani. Ecco come è organizzata la vita dei giovani. Per dieci anni, a partire da quando sono usciti dalla fanciullezza, dormono, come si diceva, nei pressi degli edifici governativi, e questo sia per far la guardia alla città sia per potenziare la loro attitudine alla temperanza: sembra esser questa, in effetti, l’età che esige le maggiori attenzioni; e anche di giorno si tengono a disposizione dei magistrati se questi hanno bisogno di loro per qualche faccenda di pubblico interesse. In caso di emergenza, permangono tutti nei pressi degli edifici governativi, ma quando il re, come è solito fare una volta al mese, parte per una battuta di caccia, lascia sul posto metà della guarnigione. L’altra metà, quella che parte per la caccia, deve essere fornita di arco e faretra, una scimitarra nel fodero o un pugnale, e inoltre uno scudo di vimini e due giavellotti, uno per il lancio e l’altro per le esigenze dello scontro ravvicinato. La ragione per cui la caccia si svolge a cura dello Stato, e nel corso di essa il sovrano guida i suoi uomini come in guerra e partecipa egli stesso alla battuta e si preoccupa che tutti facciano altrettanto è che per i Persiani la caccia rappresenta il più idoneo addestramento alla guerra. E in effetti la caccia, ogni volta cioè che si incontri l’opposizione di un animale coraggioso: allora bisogna saperlo colpire se avanza, scansarlo se ci assale. Così non è facile trovare in guerra una situazione che non si verifichi anche nella caccia. Partendo per la caccia i giovani portano con sé una razione di cibo più abbondante, com’è logico, di quella riservata ai fanciulli e tuttavia, nei suoi componenti, non diversa da quella. Durante la caccia non possono rifocillarsi, e se un animale li obbliga a una lunga attesa o se per qualche altra ragione intendono prolungare la durata della battuta, consumano per cena questa colazione e il giorno dopo riprendono la caccia fino all’ora della cena calcolando le due giornate come una dato che consumano il vitto di un giorno solo. Seguono questa pratica per abituarsi a fare altrettanto in guerra in caso di necessità. Per companatico consumano la selvaggina che hanno cacciato: altrimenti, ripiegano sul crescione. E se qualcuno immagina che non gustino il cibo, quando abbiamo a disposizione solo il crescione col pane, o il bere, quando non bevano altro che acqua, si ricordi come sono saporiti la focaccia e il pane per chi ha fame e com’è dolce l’acqua per chi ha sete. Le tribù rimaste in città passano il tempo esercitandosi nelle attività che hanno appreso da fanciulli e in particolare nel tirare con l’arco e nel lanciare il giavellotto, e spesso gareggiano tra loro in queste prove. Alcuni di questi agoni hanno carattere di ufficialità e prevedano la messa in palio di vari premi , e la tribù che possieda il maggior numero di giovani che si segnalano per abilità, coraggio e lealtà attira l’elogio e la stima dei concittadini non solo su chi li diriga nel presente ma su chi li abbia educati quando erano fanciulli. Inoltre i magistrati impiegano i giovani rimasti in città per fare la guardia o per dar la caccia ai malfattori o per correre dietro ai banditi o per qualsiasi altro compito che richieda forza e rapidità. Queste dunque sono le attività proprie dei giovani. Quando hanno compiuto il decimo anno, passano nella categoria degli adulti. A partire dal momento in cui sono usciti dalla classe dei giovani costoro vivono per venticinque anni nel modo seguente. In primo luogo, non meno dei giovani si tengono a disposizione dei magistrati per ogni incarico di salute pubblica che richieda ricevere delle nerbate per non aver giudicato rettamente. Il nocciolo della questione era in questi termini. Un ragazzo robusto che aveva una piccola tunica, vedendo che un compagno mingherlino aveva una grande tunica, lo spogliò di questa e lo rivestì della propria indossando a sua volta quella dell’altro. Dovendo emettere una sentenza io dichiarai esser meglio per entrambi che ognuno tenesse la tunica che si attagliava alla sua corporatura. Ma il maestro mi batté affermando che se avessi dovuto giudicare di ciò che si adatta o non si adatta avrei dovuto sentenziare così come avevo fatto, ma poiché c’era da decidere a chi dei due appartenesse la tunica, allora occorreva stabilire chi ne detenesse la proprietà: se chi la indossava dopo essersene impadronito con la forza o chi l’aveva fabbricata o comperata. In effetti il mio maestro, poiché secondo lui ciò che viola la norma è un sopruso, voleva che il giudice desse ogni volta il suo verdetto in accordo con la legge. Ecco dunque, madre mia, che sulla giustizia mi posso ormai considerare perfettamente competente, e se ci fosse proprio bisogno di qualche supplemento il nonno non mancherebbe di ammaestrarmi". "C’è però da notare – replicò Mandane- che i fondamenti della giustizia nel paese del nonno e in Persia non sono affatto gli stessi. Lui si è imposto fra i Medi come autocrate assoluto, mentre fra i Persiani la giustizia si identifica con la giusta distribuzione delle proprietà. Tuo padre è il primo a ricevere ordini dallo Stato e a doverli mettere in pratica e ha come regola e limite non già il suo capriccio ma la legge. Attento a non trovarti a mal partito sotto i colpi di una sferza non appena rientrato in patria se intendi tornare dopo aver appreso dal nonno non i principi della regalità ma quelli del dispotismo tirannico, fra i quali rientra l’idea che uno solo debba possedere più di tutti gli altri messi insieme". "Ma codesto tuo padre – ribatté Ciro – è appunto, madre mia, tanto più idoneo a insegnare ad altri ad avere di meno, non di più. Non vedi che tutti i Medi li ha predisposti a possedere meno di lui? Dunque non ti preoccupare: né me né altri tuo padre potrà congedare dopo avergli insegnato a prevaricare sul prossimo" capo IV Alla fine, rassicurata dalle considerazioni del figlio, la madre partì mentre Ciro rimase in Media e lì fu allevato. Ben presto strinse vincoli di calda amicizia con i coetanei e ben presto legò a sé anche i loro genitori andandoli a visitare e manifestando apertamente l’affetto che nutriva per i loro figli, tanto che, se avevano bisogno di un favore dal re, essi finivano col chiedere ai figli di pregare Ciro perché intercedesse per loro, e Ciro, spinto da spontanea bontà come da voglia di successo, si prodigava per accontentarli. Né Astiage sapeva negare un favore che gli fosse stato chiesto da Ciro. Del resto, quando il nonno si ammalò, non si scostava mai da lui né mai cessava di piangere, manifestando a tutti a chiare note la sua paura che il nonno venisse a mancare. Anche di notte se Astiage aveva qualche bisogno, Ciro era il primo ad accorgersene e a balzare su con la massima premura per assecondarne i desideri. Fu così che portò a compimento la conquista di Astiage. A dire il vero Ciro era forse un po’ troppo loquace sia a causa del tipo di educazione che gli veniva impartita – il maestro lo costringeva a render conto di ciò che faceva e a chieder conto ai compagni , quando sedeva come giudice, della loro condotta – sia perché, desideroso com’era d’imparare, chiedeva spiegazioni su tutto a chiunque incontrasse e su ciò che gli fosse richiesto da altri era immediato nella risposta data la prontezza del suo ingegno: di qui, da tutte queste circostanze, quella inclinazione alla loquacità. Sennonché proprio come nel corpo dei giovani cresciuti precocemente traluce un non so che di giovanile che tradisce la loro età, così dalla loquacità di Ciro traspariva non già temerità quanto una semplicità e un bisogno d’affetto che spingevano a volerlo ascoltare ancora piuttosto che a desiderare che facesse silenzio. Ma quando il volgere del tempo lo portò, insieme con l’irrobustirsi della corporatura, alla condizione di adolescente, allora prese a esprimersi più sobriamente e con voce più pacata , e si lasciava afferrare dalla timidezza al punto che gli avveniva di arrossire ogni volta che s’imbattesse in qualcuno più anziano, né serbava più quell’indole da cucciolo pronto a saltare incontro a tutti indistintamente. Più posato nel contegno, in compagnia era però amabilissimo e nelle gare che si è soliti organizzare fra coetanei non sfidava i partecipanti in quelle prove in cui sapeva di essere superiore, ma ne proponeva di quelle in cui si sapeva inferiore dichiarando che sarebbe stato più bravo di loro, e prontamente dava il via alla prova saltando su un cavallo per tirare di lì con l’arco o per scagliare il giavellotto anche se non aveva ancora imparato a stare ben saldo in sella; poi, se perdeva, era il primo a ridere di sé. E poiché la sconfitta non lo distoglieva dagli esercizi in cui era stato battuto, anzi lo pungolava ad un maggiore impegno per migliorarsi costantemente, in breve tempo fu all’altezza dei compagni nel cavalcare e poi, altrettanto velocemente, li superò, spinto dalla passione per i cavalli. Ben presto aveva svuotato la riserva di tutte le fiere inseguendole, colpendole, uccidendole, tanto che Astiage non sapeva più come procurargliene delle altre. Allora Ciro, accortosi che il nonno con tutta la buona volontà non era in grado di fornirgli selvaggina abbondante, gli chiese:"Perché mai, nonno caro, devi darti pena per la selvaggina? Se mi lascerai andare a caccia con lo zio, farò conto che tu abbia allevato per me tutte le fiere che mi accadrà di avvistare". Tuttavia, pur desiderando ardentemente andare a caccia fuori della riserva, non sapeva più supplicarlo con l’insistenza di quando era fanciullo e si accostava al nonno con molta circospezione. E se un tempo si lamentava con Saca perché non lo lasciava entrare al cospetto del nonno, adesso era diventato per se stesso una specie di Saca: entrava solo se vedeva che era il momento opportuno e chiedeva a Saca di fargli intendere almeno con un cenno se era il caso di entrare oppure no, tanto che lo stesso Saca, non diversamente da tutti, ormai aveva preso ad amarlo di tutto cuore. Quando Astiage capì che il nipote bruciava dalla voglia di cacciare fuori della riserva, lo lasciò andare in compagnia dello zio sotto la protezione di cavalieri più esperti che lo tenessero alla larga dagli anfratti più insidiosi e dagli animali più feroci. Ciro incalzava di domande la sua scorta per sapere quali fiere fossero da evitare e quali si potessero inseguire senza tema. Gli fu risposto che molti cacciatori, per essersi avvicinati incautamente erano stati sbranati da orsi, cinghiali, leoni, pantere ma che cervi, daini, capri,asini selvatici sono inoffensivi, e aggiunsero che si doveva badare alle insidie del terreno non meno che alle fiere:a molti cacciatori era già successo di finire col cavallo in qualche precipizio! Ciro prestava molta attenzione a queste raccomandazioni, ma come vide saltar fuori un cervo da una macchia si dimenticò di tutto ciò che aveva ascoltato e si lanciò a inseguirlo attento unicamente alla direzione che avrebbe preso l’animale in fuga. Dopo un salto il cavallo cadde sui ginocchi e per poco non lo sbalzò in avanti. Sennonché Ciro, sia pure a fatica, si mantenne in sella e il cavallo poté rialzarsi. Così quando giunse alla piana, colpì col giavellotto il cervo, una bestia davvero grande e magnifica. Se Ciro esultava per l’impresa, i cavalieri della sua scorta, quando lo ebbero raggiunto, lo redarguirono aspramente per il pericolo corso e promisero che avrebbero raccontato ogni cosa. Ciro, sceso da cavallo, si sentì come trafitto da questi rimproveri, ma all’improvviso, udito un grido, rimontò a cavallo come un invasato e alla vista del cinghiale che gli si avventava contro diede di sprone e, presa bene la mira, lo centrò nella fronte abbattendolo. Allora sì che anche lo zio, assistendo ad una tale prodezza, prese a sgridarlo. Ma nonostante i rimproveri Ciro lo pregò di lasciargli portare il dono al nonno tutte le prede che aveva catturato. Lo zio avrebbe risposto:"Se saprà che hai inseguito queste fiere, se la prenderà non solo con te ma anche con me, per averti lasciato fare". "Mi prenda a cinghiate, se gli fa piacere – riprese Ciro - , ma non prima che io gli abbia messo davanti i miei trofei. E anche tu , zio, infliggimi la punizione che preferisci: basta che mi accordi il favore che ti ho chiesto". E Ciassare concluse: "Fa’ come credi! Adesso mi sembri tu il nostro re". Così Ciro portò a casa le fiere e ne fece dono al nonno dicendogli che le aveva cacciate per lui. I giavellotti non glieli mostrò ma li depose ancora insanguinati in un canto, là dove presumeva che il nonno li avrebbe notati. Disse dunque Astiage:" Sì,ragazzo mio, accetto di buon grado i tuoi doni anche se, a dire il vero, non ho bisogno di alcuna di queste bestie al punto che tu debba rischiare la vita per causa loro". E Ciro:"Se dunque, nonno, non ne hai bisogno, rendile a me, te ne supplico, perché io possa spartirle fra i miei compagni". "D’accordo ragazzo, prendile e distribuiscile, queste bestie e quanto altro vorrai." Ciro le prese, le distribuì fra i compagni e disse loro:"Che cosa insulsa, amici, le nostre battute nella riserva! Era, direi, come andare a caccia di animali legati. Per prima cosa il terreno era limitato, poi si trattava di bestie piccole, con la scabbia….una zoppa, un’altra mutilata….Ma quelle che spaziano per i monti e sulle praterie come mi sono sembrate grandi e pasciute! I cervi spiccavano balzi verso il cielo come fossero uccelli, i cinghiali ci venivano incontro diritti proprio come, si dice, fanno gli uomini coraggiosi ed erano così larghi che per noi sarebbe stato fatale fallire il colpo. Insomma, anche morte queste fiere mi sembrano più belle delle bestie vive ma chiuse nella riserva. E dunque i vostri padri, aggiunse, non potrebbero concedere anche a voi di venire a caccia con me?". "Basterebbe che Astiage fosse d’accordo." E Ciro: "Chi potrebbe intercedere per noi presso Astiage?". "E chi più di te – risposero – è in grado di convincerlo?" "Il fatto, in nome di Era, è che non mi riconosco più: non mi riesce di rivolgergli la parola né riguardarlo diritto in faccia. Se continuo così, ho paura che diventerò uno scimunito, un inetto. E sì che quando ero piccolo sembrava che avessi la lingua lunga". "E’ una vera disgrazia quella che ci annunci – commentarono i compagni – se non ti potrai più adoperare, ove necessario, neppure per noi e se dovremo ricorrere a qualcun altro anche per ciò che sarebbe in tuo potere". Queste parole punsero Ciro sul vivo: si allontanò in silenzio e, fattosi coraggio, entrò dal nonno dopo aver ponderato su come parlargli senza infastidirlo e ottenere per sé e i compagni ciò che desideravano. Esordì così:"Dimmi nonno: se un servo ti scappa via e tu lo riacciuffi, cosa gli fai?" "Che altro vuoi che gli faccia se non metterlo in catene condannarlo ai lavori forzati?" "Ma se lui ritorna di sua spontanea iniziativa, che trattamento gli riservi?" "Mi accontento di farlo fustigare, affinché lui impari a non farlo più e io possa valermi di nuovo dei suoi servigi." "Allora – concluse Ciro – è venuto il momento che tu ti prepari a farmi fustigare, poiché ho deciso di fuggire con i miei coetanei per andare a caccia". E Astiage:"Hai fatto bene ad avvertirmi: così io ti posso intimare di non mettere il piede fuori di casa. Sarebbe proprio bella se per due pezzetti di carne privassi, come un cattivo pastore, mia figlia del suo cucciolo". Ciro si attenne al volere del nonno e non si mosse, ma , afflitto e scuro in volto, si chiuse in un silenzio impenetrabile. Allora Astiage, a cui non sfuggiva l’amaro disappunto del nipote, organizzò per consolarlo una battuta: radunati molti battitori a piedi e a cavallo, compresi i coetanei di Ciro, sospinse le fiere verso i luoghi accessibili ai cavalli e diede il via ad una grande caccia. Essendo presente anche lui, e in tenuta regale, ordinò che nessuno facesse partire un colpo prima che il nipote avesse saettato a suo piacimento. Ma Ciro si oppose: "Se vuoi che io mi diverta permetti, nonno, che tutti i miei compagni corrano e combattano ciascuno al meglio delle loro capacità". Astiage acconsentì fermandosi ad osservarli mentre facevano a gara nell’inseguire le fiere, lottavano, correvano, lanciavano i giavellotti. Si rallegrava notando che Ciro per l’euforia non riusciva a restare in silenzio ma, come un cucciolo generoso, ogni volta che si avvicinasse a una fiera lanciava un grido e incitava per nome ognuno dei compagni. E si compiaceva al vedere che, senza ombra alcuna di gelosia, derideva o lodava e questo e quello. Da ultimo Astiage poté ritirarsi in un bellissimo bottino. Anche in seguito la gioia da lui provata nel corso di quella battuta fu tale che appena poteva andava a caccia con Ciro portandosi dietro molti uomini e, per amore del nipote anche i ragazzi del suo gruppo. Così Ciro trascorse la maggior parte del suo tempo recando gioie e vantaggi a tutti, danno a nessuno. Quando Ciro fu intorno ai quindici o ai sedici anni il figlio del re di Assiria, che era in procinto di sposarsi, fu preso dal desiderio di fare anch’egli una battuta di caccia. Sentendo dire che sui confini tra Assiria e Media si aggiravano molte fiere che la guerra in corso aveva impedito di cacciare, volle spingersi in quella zona e per agire senza pericolo portò con sé molti peltasti con l’incarico di stanargli le bestie dalle macchie spingerle verso i terreni coltivati, percorribili dai cavalli. Arrivato che fu in una zona occupata da piazzeforti e guarnigioni assire organizzò la cena, intenzionato a dare il via alla caccia di buon ora il giorno seguente. Era ormai sera quando giunse dalla città la guarnigione di fanti e di cavalieri destinata a dare il cambio alla precedente. Parve dunque al principe di avere a propria disposizione un folto esercito: oltre alle due guarnigioni, i molti uomini a piedi e a cavallo che aveva condotto con sé. Così valutò che non c’era niente di meglio che tentare una razzia in territorio medo: l’impresa sarebbe stata ben più luminosa di una battuta di caccia e avrebbe fornito vittime copiose. Levatosi di buon mattino, condusse fuori l’esercito lasciando però indietro, sulla linea di frontiera, tutta la fanteria e si spinse coi cavalieri in direzione delle piazzeforti dei Medi: tenne accanto a sé, lì dov’era giunto, la parte maggiore e migliore dei suoi uomini per impedire che le guarnigioni dei Medi potessero rintuzzare le scorrerie delle truppe assire, poi spedì soldati scelti, ripartiti per minuscoli drappelli, a razziare il territorio con l’ordine di catturare e di condurre a lui ogni nemico in cui si imbattessero. E così fecero. Come fu comunicata ad Astiage la presenza dei nemici sul territorio medo, anch’egli si precipitò verso il confine con la sua guardia personale. Suo figlio fece lo stesso con i cavalieri che aveva con sé, in più, ordinò la mobilitazione generale. Ma, quando videro schierati in gran numero i nemici e percepirono che i cavalieri assiri erano immobili, si fermarono anch’essi. Ciro, alla vista di una tale sortita in massa, uscì anch’egli dalla città: era la prima volta che indossava le armi (tanto sospirava un tale momento che gli era parso che non arrivasse mai!). Erano armi di gran pregio e si adattavano perfettamente alla sua corporatura (il nonno gliele aveva fatte forgiare su misura). Così equipaggiato partì al galoppo: il nonno, sorpreso del suo arrivo, gli chiese da chi avesse ricevuto l’ordine di partire, ma intanto gli consentì di stare al suo fianco. Osservando tanti cavalieri schierati di fronte a loro Ciro domandò:"Sono dei nemici, nonno, quegli uomini fermi sui loro cavalli?" "Certo che sì". "E anche quelli che galoppano laggiù?" "Sì, anche quelli!" "Ma in nome di Zeus,nonno, non vedi come sono malridotti, in sella a ronzinanti, coloro che pur si portano via i nostri beni? Non è forse il momento di spedire contro di essi un drappello dei nostri?" "E tu non vedi, ragazzo, che massa di cavalieri è là in attesa a ranghi compatti? Se noi ci spingiamo contro i razziatori, questi ci taglieranno la ritirata, tanto più che il grosso delle nostre forze non è ancora arrivato." "Ma se tu – replicò Ciro – resti qui a raccogliere le truppe di rinforzo, i cavalieri esiteranno a muoversi, mentre i razziatori, se si vedranno attaccati dai nostri, abbandoneranno immediatamente la preda."Astiage apprezzò il senso di queste parole e, stupito dell’accortezza e insieme dell’acume del nipote,diede subito ordine al figlio di prendere con sé uno squadrone di cavalleria e di partire all’attacco dei razziatori. "Io – gli disse – se questi davanti a noi si muoveranno nella vostra direzione, mi spingerò contro di loro costringendoli a preoccuparsi di noi ". Non appena vide Ciassare muoversi a capo di un drappello con gli uomini più validi e i cavalli più robusti anche Ciro balzò innanzi e si portò rapidamente in testa, seguito da Ciassare e subito dietro da tutti gli altri. Come li videro avvicinarsi, i razziatori lasciarono all’istante il bottino e si diedero alla fuga. Ma a essi gli uomini di Ciro tagliarono la ritirata e si misero a colpire prontamente, e primo fra tutti Ciro stesso,chiunque riuscissero a raggiungere, poi si diedero a inseguire quelli che avevano fatto in tempo a sfuggire né desistettero prima di averne fatti prigionieri un certo numero. Come un cane di razza ma ancora inesperto si porta sconsideratamente contro un cinghiale, così si slanciava Ciro non ad altro mirando, non di altro preoccupato che di colpire chiunque riuscisse ad agguantare. I nemici, quando videro i compagni a mal partito, avanzarono in massa sperando che gli inseguitori, vedendosi attaccati, si fermassero. Ma non per questo Ciro rallentò la corsa, anzi continuò l’inseguimento chiamando a gran voce lo zio in un empito di esultanza e mise ancora più alle strette i fuggiaschi. Gli teneva dietro Ciassare, forse per non doversi vergognare di fronte al padre, e gli tenevano dietro tutti gli altri, e nell’inseguimento si rivelarono più animosi che in passato anche coloro che non erano soliti mostrarsi troppo coraggiosi di fronte al nemico. Astiage, come vide che i suoi inseguivano con foga e che i nemici andavano loro incontro a ranghi compatti, nel timore che Ciro e il figlio avessero la peggio incappando disordinatamente nelle mani di gente pronta a riceverli, spinse immediatamente le sue truppe in direzione dei nemici. Questi, quando si accorsero che i Medi si erano messi in movimento, si fermarono drizzando i giavellotti e tendendo gli archi, convinti che gli avversari avrebbero smesso di avanzare non appena fossero arrivati a tiro, come per solito facevano (la consuetudine era di avvicinarsi il più possibile e poi di scambiarsi lanci di proiettili, non di rado fino a sera). Ma quando notarono che i compagni fuggivano precipitosamente verso di loro, che Ciro si portava con i suoi uomini nella loro direzione e che Astiage con i suoi cavalieri era ormai giunto a portata di lancio, diedero di volta e fuggirono: i Medi li incalzarono con impeto e ne catturarono un gran numero colpendo tutto ciò che venisse loro per le mani, cavalli e uomini, e finendo coloro che stramazzavano al suolo, né si arrestarono prima di trovarsi a ridosso della fanteria assira. A quel punto desistettero, temendo di restar vittime di qualche imboscata tesa da forze più numerose. Astiage diede l’ordine di tornare indietro, giubilante per la vittoria equestre ma dubbioso su cosa pensare di Ciro: gli riconosceva il merito del successo ma considerava folle la sua temerarietà. In effetti anche ora, mentre gli altri avevano già preso la via del ritorno, lui partire con il loro favore e sotto la loro protezione. Lo stesso ti ho istruito di proposito in questo ambito perché tu non avessi bisogno dell’aiuto di interpreti per intendere la volontà dei numi ma tu la potessi decifrare da solo osservando quello che si deve osservare e ascoltando quello che si deve ascoltare senza dipendere dagli indovini (gente che potrebbe cercare di ingannarti comunicandoti cose diverse da quelle segnalate dagli dèi) e anche perché, qualora ti trovi senza un indovino al tuo fianco, tu non ti debba sentire irresoluto su come sfruttare i segni celesti ma, al contrario, tu possa assecondare i consigli divini dopo averli interpretati per mezzo dell’arte divinatoria". Gli rispose Ciro:"Io, padre mio, seguendo il tuo consiglio, mi impegno quotidianamente per quanto è in me a curarmi dei consigli che gli dèi nella loro benevolenza decidono di offrirci. Mi ricordo di aver udito un giorno date che non senza ragione è più favorito dagli dèi, come del resto dagli uomini, nel proprio agire non chi degli dèi si faccia adulatore quando si trova in difficoltà, ma chi di essi si ricordi quando è all’apice della fortuna. E non diversamente, dicevi, ci si deve comportare nei confronti degli amici". "Non è forse vero, ragazzo mio, che in virtù delle premure che hai avuto in passato ora ti puoi accingere a invocare con più fiducia gli dèi e tanto più puoi contare di essere esaudito nelle tue richieste in quanto sei consapevole di non averli mai trascurati?" "E’ proprio così, padre mio: ho la sensazione di rivolgermi agli dèi come a persone amiche." "E ricordi, figlio mio – riprese Cambise – ciò su cui un giorno convenimmo: che gli uomini consapevoli di quanto gli dèi ci possano dispensare hanno miglior sorte di quelli che ne sono ignari, e chi lavora ottiene più del pigro, e il previdente vive più sicuro dell’incauto, per cui anche i favori che impetriamo dagli dèi dobbiamo chiederli dimostrando di esserne all’altezza?" "Ma certo – annuì Ciro - , mi ricordo di averti sentito parlare così e non posso fare a meno di essere d’accordo. E so bene che eri solito aggiungere che non è lecito chiedere agli dèi il successo in uno scontro di cavalleria se prima non si è imparato a montare o la vittoria su provetti arcieri nel tiro con l’arco senza avere assimilato i rudimenti dell’arte o la salvezza della nave se ci si mette al timone senza sapere pilotare o un bel raccolto di grano senza avere seminato o la sopravvivenza in battaglia senza sapere proteggere la propria vita: sono tutte pretese che urtano contro le norme divine, ed è naturale che chiunque innalzi preghiere illegittime non sia esaudito dagli dèi, così come è naturale che ricevano il rifiuto degli uomini coloro che fanno richieste contro la legge." "E ancora, ti ricordi, figlio mio, di quei ragionamenti che un giorno facemmo insieme allorché dicevamo essere impresa degna e nobile per un uomo riuscire a diventare per davvero un essere compiutamente realizzato garantendo il benessere proprio e dei suoi familiari? Ma se questo è già un grande risultato, tanto più degna di ammirazione ci appariva la capacità di porsi a capo di altri uomini assicurandone la prosperità e promuovendo la realizzazione delle loro potenzialità." "Certo che lo ricordo, padre, e anche a me sembrava un compito enorme quello di ben comandare ad altri, né oggi la penso diversamente se mi metto a ragionare concentrandomi sull’essenza del governare. Ma quando, volgendo lo sguardo ad altri uomini, considero chi sono coloro che hanno in mano il potere e chi saranno i nostri avversari, allora mi sembra assolutamente vergognoso sentirsi in apprensione di fronte a simili antagonisti ed esitare a muovere contro di loro. Osservo che essi, a partire da questi nostri amici, credono che chi comanda si debba distinguere da chi è sottoposto per pasti più lauti, maggior copia d’oro nello scrigno, sonni più prolungati, insomma per uno stile di vita più agiato;per me, al contrario, chi detiene il comando si dovrebbe differenziare da coloro su cui lo esercita non già dalla mollezza del vivere ma nella preveggenza e nell’attitudine a sopportare la fatica."Però – lo interruppe Cambise – ci sono casi, figlio mio, in cui si deve combattere non contro gli uomini ma contro le circostanze, e di queste non è facile venire a capo. Sai bene, ad esempio, che se il tuo esercito dovesse mancare dei necessari rifornimenti la tua autorità sarebbe immediatamente minacciata." "Ma i rifornimenti – replicò Ciro – Ciassare ci ha assicurato che li garantirà a tutti coloro che partiranno di qui, per quanto numerosi possano essere." "E tu, ragazzo mio, intendi metterti in marcia confidando esclusivamente nelle ricchezze di Ciassare?" "Perché no?" "Ma tu sai a quanto ammontano?" "No, non lo so." "Dunque ti affidi all’ignoto! E non ti rendi conto che di molte cose avrai bisogno e che molto altro egli è costretto a spendere fin d’ora?" "Me ne rendo conto." " Se dunque le ricchezze gli venissero meno o intendesse ingannarti deliberatamente, quali verrebbero ad essere le condizioni del tuo esercito?" "Non buone evidentemente." "Ma se tu, padre mio, intravedi una via perché io possa rifornirmi anche in modo autonomo, allora additamela finché siamo su territorio amico." " Mi domandi, figlio mio, come potresti approvvigionarti con le tue sole forze, e io ti rispondo che nessuno meglio di chi abbia un’armata sotto di sé è in grado di fronteggiare il problema. Tu ti metti in movimento con una fanteria che non cambieresti con un’altra anche molto più numerosa, e ti sarà alleata la formidabile cavalleria dei Medi. E dunque quale delle popolazioni confinanti puoi pensare che rifiuterà di assecondare le vostre richieste o per desiderio di compiacervi o per paura di qualche danno? Perciò devi provvedere, di comune intesa con Ciassare, a che mai nulla vi manchi dello stretto necessario e più escogitare una forma di approvvigionamento costante. E soprattutto ricordati di non rimandare la cura dei rifornimenti al momento in cui tu vi sia costretto dalla situazione oggettiva, ma datti da fare proprio quando le risorse ti largheggiano: non avendo l’aria di essere ridotto alle strette otterrai più facilmente che le tue richieste vengano accolte e, oltre a ciò, non ti esporrai alle rimostranze dei tuoi soldati. In tal modo incuterai maggiore soggezione a chiunque, e sia che con il tuo esercito ti intenda giovare sia che tu intenda nuocere ad altri i tuoi soldati ti asseconderanno prontamente purché non manchino del necessario, e non c’è dubbio che potrai parlare in modo tanto più convincente quanto più sarai in condizione di dimostrare di poter fare il bello come il cattivo tempo." "Si, padre, hai ragione in tutto e per tutto, e questo vale anche quando mi fai notare che i soldati, per tutto ciò che riceveranno adesso, non si sentiranno affatto obbligati verso di me (sanno bene a quali condizioni Ciassare li ha arruolati come suoi alleati); ciò che invece potranno aver in aggiunta al pattuito lo apprezzeranno come un segno di stima e, naturalmente, ne saranno riconoscenti al donatore. Se qualcuno dispone di un esercito con cui può sia giovare agli amici ed essere ricambiato che cercare di strappare qualcosa ai nemici e non si cura di accrescere le proprie risorse, lo si può forse giudicare meno biasimevole di chi, pur avendo terreni e lavoranti, lasci i suolo incolto e improduttivo? Per parte mia, concluse, sii pur certo che non trascurerò mai né in paese amico né in territorio nemico, di prodigarmi per sopperire ai bisogni delle mie truppe." "E ti ricordi, ragazzo mio, delle altre cose di cui ci sembrava indispensabile tener conto?" "Sì, ad esempio mi viene in mente di quella volta in cui venni a chiederti del denaro per ricompensare chi pretendeva di avermi insegnato l’arte di comandare ai soldati e tu, nel consegnarmelo,mi domandasti più o meno così: "Ma quest’uomo, figlio mio,a cui vuoi portare il compenso, fra i vari aspetti dell’arte militare ha fatto menzione dell’economia domestica? Perché i soldati hanno bisogno delle vettovaglie non meno dei servitori di casa". E quando io ti risposi la verità, e cioè che non aveva neppure sfiorato l’argomento, tu mi ponesti una seconda domanda: se avesse parlato della salute e del vigore delle truppe, requisiti di cui il buon generale dovrebbe mostrarsi sollecito tanto quanto della tattica da seguire. E come io ti risposi nuovamente di no, mi domandasti se mi avesse additato certe competenze che possono rivelarsi estremamente efficaci a sostegno delle attività più specificatamente militari. Di fronte al mio diniego mi chiedesti allora se mi avesse istruito sul modo di infondere coraggio nelle truppe, aggiungendo che in ogni azione enorme è la differenza tra coraggio e viltà. E poiché ancora una volta scossi la testa, volesti accertare se nelle lezioni avesse fatto parola dei modi più efficaci per assicurarsi l’obbedienza dei soldati. Quando fu chiaro che neppure di ciò mi aveva fatto parola, mi chiedesti da ultimo in virtù di quali ammaestramenti poteva presumere di avermi insegnato l’arte di guidare un esercito. "Mi ha insegnato la tattica", risposi. Allora tu sorridesti e riproponendo ciascun punto mi domandasti che utilità può mai avere per un esercito la tattica senza le vettovaglie, senza la salute e senza la conoscenza degli stratagemmi ideati per la guerra e senza l’obbedienza. Dopo avermi dimostrato che la tattica rappresenta solo una piccola parte dell’arte di comandare un esercito, alla mia richiesta se tu stesso fossi in grado di insegnarmi qualcuna di queste materie replicasti invitandomi ad andare a conversare con coloro che sono considerati specialisti di quest’arte e a istruirmi su ogni singolo aspetto. Da quel momento cominciai a frequentare coloro di cui avevo sentito dire che nel campo erano i competenti più stimati. Così, per quanto riguarda i vettovagliamenti, mi sono convinto che è sufficiente quanto Ciassare ha promesso di fornirci; sul problema della salute, imparando e constatando io stesso che le città sollecite della salute collettiva si scelgono dei medici e che i generali sono soliti arruolarne per curare i loro soldati, non appena nominato vi provvidi immediatamente e credo, padre, che avrò con me uomini affidabilissimi nell’arte medica." Al che suo padre: "D’accordo, ragazzo mio, ma questi medici di cui parli fanno come coloro che rattoppano i vestiti strappati: curano le persone quando sono malate. Però la cura che spetta a te della salute dei tuoi uomini dovrà essere più incisiva : si tratterà di evitare in assoluto che i soldati si ammalino". "Con quale metodo, padre mio, potrò riuscirci?" "In primo luogo, se ti accingi a restare nello stesso luogo per un certo periodo, non devi trascurare di porre il campo in un sito salubre, e con un po’ di impegno non potrai mancare di trovarlo: c’è sempre chi non si stanca di parlare di luoghi sani e malsani, e degli uni e degli altri offrono sicura testimonianza la robustezza e il colorito degli abitanti. In secondo luogo non ti limiterai a esaminare i siti, ma ti ricorderai delle precauzioni che prendi tu stesso per garantirti la buona salute." E Ciro disse: "Innanzi tutto, per Zeus, eviterò di rimpinzarmi di cibo (è una cosa intollerabile), poi cercherò di smaltire con la fatica fisica ciò che ho ingerito: questa, credo, è la via giusta per conservare la salute e rinvigorire i muscoli". "E così, figlio mio, devi assicurarti che facciano tutti." "Ma i soldati, padre, avranno in agio di tenere in esercizio il loro fisico?" "Altro che! E’ una necessità: un esercito, se vuol fare il suo dovere fino in fondo, non deve cessare un solo istante di perseguire il male dei nemici e il bene di se stesso: se è gravoso stipendiare anche un solo individuo lasciandolo nell’ozio, figuriamoci, figliolo, se si tratta di un’ intera armata, che comprende tante bocche che mangiano, tanti uomini che iniziano la campagna con scarsi viveri e che consumano generosamente ciò che hanno ricevuto. Ecco perché i soldati non vanno mai lasciati in ozio." "Intendi dire, o padre, se capisco bene, che non meno di un contadino che se ne stia con le mani in mano un generale in ozio non può essere di alcuna utilità?" "Io ti assicuro che, se qualche dio non gli è avverso, provvederà a un tempo che i suoi soldati siano riforniti al meglio e godano delle migliori condizioni fisiche." "Ma quanto al modo di tenerli esercitati nelle singole attività militari credo, padre, che col bandire gare collettive e mettere premi in palio si possa far sì che le pratichino efficacemente e si trovino preparati al momento del bisogno." "Perfetto, ragazzo! Così facendo potrai contemplare le tue truppe sempre intente ai loro compiti quasi fossero di danza." "E per suscitare l’ardore dei soldati – aggiunse Ciro – non c’è cosa più idonea, credo, che saper istillare nei loro animi la speranza del successo." "Certo, figlio mio, ma detto così è un po’ come se in una battuta di caccia si lanciasse ai cani sempre lo stesso grido di quando si avvicina la preda. La prima volta, senza dubbio, rispondono al comando con ardore, ma alla fine, se perseveriamo con l’ingannarli, non reagiscono neppure quando scorgiamo per davvero la selvaggina. Lo stesso vale per la speranza: a furia di frustare l’attesa di un successo che abbiamo additato non veniamo creduti neppure quando prospettiamo mete raggiungibili. Dunque, figliolo, il capo di un esercito deve astenersi dal dire ciò che non sa per certo. Può darsi che in altri campi la parola garantisca di per sé un risultato, ma un comandante deve salvaguardare la fede delle sue truppe nei propri incitamenti riservando questi ultimi ai momenti di supremo pericolo." "Si, hai ragione, padre mio: anche a me piace di più questa linea di condotta. Sull’arte poi di assicurarsi l’obbedienza dei soldati non credo di essere senza esperienza, padre: tu stesso me l’ hai insegnata fin dall’infanzia obbligandomi ad obbedirti. Poi mi affidasti a maestri che a loro volta usavano lo stesso metodo: quando ero nella classe dei giovani era questa la prima preoccupazione della nostra guida. Le stesse leggi mi sembravano per lo più indirizzate a questi due principali obbiettivi: comandare ed essere comandati. E quando ci rifletto mi avvedo che ciò che più spinge all’obbedienza è, credo, la lode e il premio per chi obbedisce, la disistima e la punizione per chi trasgredisce." "Si, ragazzo, per farsi obbedire con la forza questa è la via giusta, ma per ottenere ciò che vale molto di più, intendo dire un’obbedienza volontaria, esiste una via più spedita gli uomini se considerano qualcuno più avveduto in ciò che tocca il loro interesse gli offrono un’obbedienza entusiastica. Ne puoi avere la dimostrazione in molti campi, ad esempio tra i malati: pensa con quanta sollecitudine mandano a chiamare chi può prescrivere loro quello che devono fare. Anche in mare, del resto, i naviganti obbediscono prontamente al nocchiero, e sulla terra ferma i viandanti si precipitano sulle tracce di chi ritengano miglior conoscitore dell’itinerario da percorrere ne si vogliono staccare da lui. Quando invece ritengono che l’obbedienza possa rivelarsi nociva non si lasciano piegare dalle punizioni né sedurre dai premi: nessun accetta volontariamente un dono a proprio danno." "Intendi dire, padre mio, che a ottenere l’obbedienza nulla giova più che avere l’aria di essere più intelligenti dei sottoposti?" "Proprio così." "E come si può fare, padre, per cercare di sé all’istante una tale stima?" "La via più spedita, figliolo, per essere reputati più avveduti nell’ambito che ti interessa è quella di diventare realmente più avveduti: esamina uno per uno i singoli settori e capirai che ho ragione. Se tu volessi aver fama di bravo coltivatore senza esserlo davvero, oppure cavallerizzo o medico o auleta o quant’altro ti pare, pensa a quanti sotterfugi dovresti escogitare per guadagnarti la stima altrui. E se anche ti riuscisse di convincere molta gente a colmarti di lodi e per ciascuna di quelle attività ti procurassi un buon equipaggiamento, potresti sul principio darla a bere, ma dopo un po’, messo alla prova, non solo saresti smascherato, ma faresti la figura del millantare." "E come si fa a diventare avveduti in ciò che può riuscire di comune utilità?" "Ma è chiaro, figlio mio! Non diversamente di come hai fatto con la tattica dovrai assimilare tutte le arti che si possono conoscere con l’apprendimento; in ciò che invece agli uomini non è dato di apprendere e che non è prevedibile con l’umana ragione dovrai diventare più competente di altri consultando gli dèi attraverso la divinazione, e poi, dovrai preoccuparti che venga effettivamente realizzato ciò che tu riconosca degno di essere portato a compimento: la nota caratteristica dell’uomo avveduto consiste appunto nel fatto che si prende cura di ciò che merita il suo impegno. Ma per farsi amare dai sottoposti, ciò a me sembra questione di vitale importanza, è evidente che occorre seguire la stessa via che pratichiamo per conquistarci l’affetto degli amici: dobbiamo, io credo, dimostrare a chiare note di esserne i benefattori. Certo non è facile essere ogni volta in grado di fare del bene a coloro a cui ci piace farlo ma congratularsi apertamente per i loro casi fortunati, condividere le loro pene, soccorrerli con sollecitudine quando si trovino in difficoltà, trepidare per i loro eventuali infortuni e provvedere a sventarli, tutto ciò è quanto si deve fare per assisterli al meglio. Nel corso delle campagne militari, poi, chi comanda deve dimostrare di sapersi esporre più di tutti al caldo in estate, al freddo in inverno, alle fatiche quando c’è da faticare: sono cose che contribuiscono ad assicurargli l’affetto dei sottoposti." "Capisco, padre mio: chi comanda deve essere in tutto più resistente dei suoi seguaci." "E’ così, ma nono perderti d’animo. Devi sapere che eguali fatiche non sono ugualmente gravi a chi comanda e al soldato semplice anche se hanno la stessa corporatura: il prestigio che viene dal grado e la stessa consapevolezza che le sue azioni non passeranno comunque inosservate alleviano in qualche misura le fatiche a chi occupa un posto di comando." "Ma quando, padre mio, i soldati siano già stati riforniti di tutto il necessario e siano in salute e in grado di faticare e abbiano completato le esercitazioni delle discipline militari e nutrano l’ambizione di dimostrare il proprio valore e infine trovino più piacevole obbedire che disobbedire, allora non è forse cosa saggia voler affrontare quanto prima il nemico?" "Naturalmente, purché ci sia da guadagnarci; altrimenti quanto più stimassi il valore mio e dei miei soldati tanto più starei in guardia, proprio come facciamo ogni sforzo per tenere al sicuro tutto ciò che ha per noi il massimo pregio." "E qual è, padre mio, il mezzo più efficace per avere il sopravvento sul nemico?" "Ah, questa non è davvero una questione che ammetta risposte facili o semplicistiche. Sappi che chi si prefigge questo obbiettivo deve saper tendere insidie, dissimulare i suoi intenti, mistificare, ingannare, rubare, rapinare e insomma superare in tutto il nemico." Sorrise Ciro e commentò:"Oh, padre mio, che razza d’uomo devo diventare!" "Un uomo tale, ragazzo mio, che sia altresì il più giusto e il più osservante delle leggi." "E allora come si spiega che quando eravamo nella classe dei fanciulli e poi dei giovani ci insegnavate esattamente il contrario?" "Ma anche adesso nei confronti degli amici e dei concittadini: però, per nuocere ai nemici, non ti sei accorto che vi venivano insegnate molte iniquità?" "No, per la verità, padre mio." "E allora a quale scopo imparavate a tirare con l’arco, a scagliare il giavellotto, a lanciar reti e a scavare fosse per ingannare i cinghiali , ad apprestare piediche e lacci per i cervi? Perché mai non vi mettevate ad affrontare alla pari leoni, orsi, leopardi, ma cercavate sempre di scendere in gara con qualche punto di vantaggio? Non vedi che tutti questi mezzi non sono altro che insidie, furberie, frodi, prevaricazioni?" "Si, certo, ma si trattava di animali: quanto agli uomini, se
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