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La città delle beste - Allende Isabel, Dispense di Italiano

A causa della malattia della madre, alla quale viene diagnosticato un tumore, il quindicenne Alexander Cold, soprannominato Alex, è costretto a lasciare la tranquilla cittadina della California, dove ha sempre vissuto, per andare a stare con la nonna paterna Kate, di professione reporter, che sta per partire per una spedizione nel cuore della giungla amazzonica alla ricerca di una creatura misteriosa, mostruosa e gigantesca, che, con il suo odore riesce a paralizzare chi ha la sfortuna di incontrarla. Kate tiene molto che sia lui, e non una delle due sue sorelle, ad accompagnarla in questo viaggio e quindi le due ragazzine saranno affidate alla nonna materna. Alla spedizione, composta in tutto da quattordici adulti, prende parte anche Nadia, figlia della guida Cesar, con la quale il ragazzo instaura un sincero rapporto d'amicizia. Ad un certo punto Alex e Nadia si allontano dal gruppo e da questo momento vivranno numerose avventure che li porterà ad incontrare spiriti e sciamani, anima

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 07/09/2023

cicotico2017
cicotico2017 🇮🇹

Anteprima parziale del testo

Scarica La città delle beste - Allende Isabel e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! ISABEL ALLENDE La città delle Bestie (La ciudad de las Bestias, 2002) Traduzione di Elena Liverani Ai miei nipoti Alejandro, Andrea e Nicole che mi hanno chiesto questa storia INDICE 1. L'incubo.................................................................................................2 2. Una nonna eccentrica......................................................................... 10 3. L'abominevole uomo della foresta...................................................... 20 4. Il Rio delle Amazzoni.......................................................................... 26 5. Lo sciamano........................................................................................ 39 6. Il piano................................................................................................ 47 7. Il giaguaro nero.................................................................................. 52 8. La spedizione...................................................................................... 61 9. Il Popolo della Nebbia........................................................................ 75 10. Il rapimento.......................................................................................88 11. Il villaggio invisibile.........................................................................99 12. Il rito d'iniziazione.......................................................................... 112 13. La montagna sacra.........................................................................125 14. Le Bestie..........................................................................................139 15. Le uova di cristallo......................................................................... 150 16. L'acqua della vita............................................................................157 17. L'uccello cannibale......................................................................... 169 18. Il villaggio insanguinato................................................................. 184 19. Giustizia.......................................................................................... 193 20. Le strade si separano...................................................................... 206 1 I. L'INCUBO All'alba Alexander Cold fu svegliato di soprassalto da un incubo. Aveva sognato un enorme uccello nero che si schiantava contro la finestra con un fragore di vetri infranti, penetrava in casa e si portava via la mamma. Immobile osservava il gigantesco avvoltoio ghermire la madre per i vestiti con i suoi artigli gialli, volare dalla finestra rotta e perdersi in un cielo carico di densi nuvoloni. Il rumore del vento che sferzava gli alberi, la pioggia sul tetto, lampi e tuoni gli tolsero definitivamente il sonno. Accese la luce con la sensazione di trovarsi su una barca alla deriva e si avvinghiò alla sagoma del cagnone che gli dormiva di fianco. Sapeva che a pochi isolati da casa sua l'Oceano Pacifico mugghiava, infrangendo le sue onde furiose contro la scogliera. Rimase ad ascoltare la tempesta e a pensare all'uccello nero e alla mamma, in attesa che si placassero i rulli di tamburo che sentiva nel petto. Era ancora impigliato nelle immagini di quel brutto sogno. Guardò l'orologio: le sei e mezzo, ora di alzarsi. Fuori iniziava appena a schiarire. Decise che quella sarebbe stata una giornata orribile, una di quelle giornate in cui era meglio starsene a letto, visto che tanto sarebbe andato tutto storto. A volte, da quando la mamma si era ammalata, l'atmosfera in casa era pesante, come essere in fondo al mare. Allora l'unico sollievo era fuggire, andare a correre sulla spiaggia con Poncho fino a restare senza fiato. Ma non faceva altro che piovere da una settimana, un vero diluvio, e per giunta Poncho era stato morso da un cervo e non voleva saperne di muoversi. Alex era convinto che il suo fosse il cane più tonto del mondo, l'unico labrador di quaranta chili morso da un cervo. In quattro anni di vita, lo avevano attaccato orsetti lavatori, il gatto del vicino e adesso un cervo, per non contare tutte le volte in cui era stato spruzzato dalle moffette e si era dovuto fargli il bagno nella salsa di pomodoro per attenuare la puzza. Alex si alzò dal letto senza disturbare Poncho e si vestì tremando; il riscaldamento veniva acceso alle sei, ma non era ancora riuscito a intiepidire la sua camera, l'ultima del corridoio. A colazione Alex era di cattivo umore, certo non dello spirito giusto per festeggiare gli sforzi del papà nel preparare le crêpe. John Cold non era esattamente quel che si dice un bravo cuoco: sapeva fare soltanto le crêpe, che oltretutto gli venivano male, una specie di tortilla di caucciù. Per non offenderlo, i figli se le portavano alla bocca, ma alla prima occasione 2 tirargli su il morale quando si svegliava sentendosi uno straccio. Suo padre non era tipo da coccole. Andavano insieme a scalare montagne, ma parlavano poco; e poi John era cambiato, come tutti in famiglia. Non era più l'uomo sereno di prima, perdeva spesso la pazienza, non solo con i figli, ma anche con la moglie. A volte gridava rimproverando a Lisa di non mangiare abbastanza o di non prendere le medicine, ma immediatamente si pentiva dei suoi scatti e le chiedeva scusa, angosciato. Queste scene lasciavano Alex profondamente scosso: non tollerava di vedere la mamma priva di forze e il papà con gli occhi pieni di lacrime. Arrivando a casa, quel mezzogiorno, si stupì di trovare la jeep di suo padre che in genere, a quell'ora, era a lavorare in ospedale. Entrò dalla porta della cucina, che era sempre aperta, con l'intenzione di mangiare qualcosa, prendere il flauto e uscire a razzo per tornare a scuola. Diede un'occhiata in giro e vide solo i resti fossilizzati della pizza della sera prima. Rassegnato a tenersi la fame, si diresse verso il frigorifero alla ricerca di un bicchiere di latte. In quel momento sentì piangere. In un primo momento pensò che fossero i gattini di Nicole nel garage, ma si rese subito conto che il suono proveniva dalla camera dei suoi genitori. Senza intenzione di andare a spiare, in modo quasi automatico, la raggiunse e spinse dolcemente la porta socchiusa. Quel che vide lo lasciò di sasso. In mezzo alla stanza c'era la mamma, in camicia da notte e scalza, seduta su uno sgabello, con il viso tra le mani, in lacrime. Il padre, dietro di lei, impugnava il vecchio rasoio da barba del nonno. Lunghe ciocche di capelli neri coprivano il pavimento e le fragili spalle della mamma; la sua testa rapata brillava come marmo nella pallida luce che filtrava dalla finestra. Per qualche secondo il ragazzo rimase paralizzato dallo stupore, incapace di raccapezzarsi in quella scena, senza capire cosa significavano i capelli per terra, la testa calva e quel rasoio nelle mani di suo padre che riluceva a pochi millimetri dal collo chino della mamma. Quando tornò in sé, un grido terribile gli salì dai piedi e un'ondata di follia lo scosse interamente. Si scagliò contro John e con uno spintone lo buttò a terra. Il rasoio fece un arco nell'aria, nel volo gli sfiorò la fronte e si conficcò di punta nel pavimento. La mamma iniziò allora a chiamarlo, tirandolo per i vestiti per separarlo dal padre, mentre lui sferrava colpi alla cieca, senza vedere dove andavano a parare. 5 "Basta, Alex, calmati, non è niente" supplicava Lisa trattenendolo con le sue poche forze mentre il padre si proteggeva la testa con le braccia. Alla fine la voce della madre si fece largo nella sua mente e l'ira si spense in un attimo, cedendo il passo allo sconcerto e all'orrore per quel che aveva fatto. Si alzò in piedi e iniziò a indietreggiare barcollando; poi si mise a correre e si chiuse in camera sua. Trascinò la scrivania e sbarrò la porta, tappandosi le orecchie per non sentire i genitori che lo chiamavano. Rimase a lungo appoggiato al muro, a occhi chiusi, cercando di controllare l'uragano di sentimenti che lo scuoteva. Subito dopo cominciò a distruggere in modo sistematico tutto quello che c'era nella stanza. Staccò i poster dalle pareti e li sminuzzò uno a uno; impugnò la mazza da baseball e si avventò contro i quadri e le videocassette; polverizzò la sua collezione di macchinine antiche e di aerei della Prima guerra mondiale; strappò le pagine dei libri; squarciò con il coltellino svizzero il materasso e i cuscini; tagliuzzò i vestiti e le coperte e infine calpestò la lampada fino a ridurla in pezzi. Portò a compimento l'opera di devastazione senza fretta, con metodo, in silenzio, come chi realizza un compito fondamentale; si fermò solamente quando gli vennero meno le forze e non c'era più niente da distruggere. Il pavimento era ricoperto di piume e imbottitura del materasso, vetri, carta, stracci e pezzi di giocattoli. Annientato dalle emozioni e dalla fatica, Alex si buttò in mezzo a quel disastro raggomitolandosi come una chiocciola, con la testa tra le ginocchia, e pianse finché si addormentò. Si svegliò qualche ora dopo per le grida delle sorelle e ci mise alcuni minuti a mettere a fuoco cosa era successo. Fece per accendere la luce, ma la lampada era in frantumi. A tentoni si avvicinò alla porta, inciampò e imprecò quando la sua mano poggiò su una scheggia di vetro. Non ricordava di aver spostato la scrivania e dovette spingerla con tutto il corpo per aprire la porta. La luce del corridoio illuminò quel campo di battaglia in cui si era trasformata la sua camera e le facce stupite delle sorelle sulla soglia. "Cambi l'arredamento, Alex?" lo canzonò Andrea, mentre Nicole si copriva la faccia per soffocare le risate. Alex sbatté loro la porta sul naso e si sedette a terra a pensare, comprimendosi con le dita il taglio alla mano. L'idea di morire dissanguato gli sembrò allettante, per lo meno non avrebbe dovuto affrontare i genitori dopo quel che aveva combinato, ma cambiò subito idea. Doveva lavarsi la 6 ferita prima che si infettasse. E poi cominciava già a fargli male, doveva essere un taglio profondo, poteva prendersi il tetano... Uscì con passo incerto perché ci vedeva a stento: i suoi occhiali si erano persi nella confusione e aveva gli occhi gonfi dal pianto. Si affacciò in cucina, dove era riunito il resto della famiglia, sua madre compresa, con un fazzoletto di cotone annodato sulla testa che le dava un'aria da profuga. "Mi dispiace..." balbettò Alex con lo sguardo inchiodato a terra. Lisa trattenne un'esclamazione vedendo la maglietta di Alex macchiata di sangue e a un cenno del marito prese le due figlie per mano e le portò via senza dire una parola. John si avvicinò ad Alex per occuparsi della mano ferita. "Non so cosa mi ha preso, papà..." mormorò il ragazzo, senza osare sollevare gli occhi. "Anch'io ho paura, figliolo." "La mamma morirà?" chiese Alex con un filo di voce. "Non lo so, Alexander. Metti la mano sotto il getto d'acqua fredda" gli ordinò il padre. John pulì la ferita dal sangue, esaminò il taglio e decise di fargli un'iniezione di anestetico per togliere i vetri e dare dei punti. Alex, che solitamente alla vista del sangue si sentiva mancare, questa volta sopportò la medicazione senza batter ciglio, grato della presenza di un medico in famiglia. Suo padre cosparse la ferita con una polvere disinfettante e gli bendò la mano. "Sarebbero comunque caduti i capelli alla mamma, vero?" chiese il ragazzo. "Sì, per la chemioterapia. È meglio tagliarli una volta per tutte che vederli cadere a ciocche. Ma è il meno, Alex, torneranno a crescere. Siediti, dobbiamo parlare." "Scusami, papà. Lavorerò per ricomprare tutto quello che ho rotto." "Non preoccuparti, immagino che avessi bisogno di sfogarti. Non parliamone più, ho cose più importanti da dirti. Dovrò portare la mamma in un ospedale in Texas, dove la sottoporranno a una cura lunga e complicata. È l'unico posto in cui è possibile farla." "E così guarirà?" domandò ansioso il ragazzo. "È quel che spero, Alexander. Io andrò con lei, ovviamente. Questa casa rimarrà chiusa per un po' di tempo." "E cosa faremo io e le mie sorelle?" "Andrea e Nicole andranno a stare da nonna Carla. Tu andrai da mia 7 2. UNA NONNA ECCENTRICA Alexander si ritrovò all'aeroporto di New York in mezzo a una folla di persone affannate che gli passavano di fianco trascinando pacchi e valigie, spingendosi e scontrandosi. Sembravano automi, la metà di loro con un cellulare incollato all'orecchio, lì a parlare al vento come dementi. Era da solo, con il suo zaino in spalla e una banconota arrotolata in mano. Ne aveva altre tre, piegate e nascoste negli stivali. Suo padre gli aveva consigliato di essere prudente perché in quell'enorme città non era come nel loro paesino della costa californiana dove non succedeva mai niente. I tre ragazzi Cold erano cresciuti giocando per la strada con gli altri bambini, conoscevano tutti ed entravano in casa d'altri come fosse la loro. Il ragazzo aveva viaggiato per sei ore, attraversando il continente da ovest a est, seduto a fianco di un grassone sudaticcio, la cui ciccia straripava oltre il sedile, dimezzando lo spazio a sua disposizione. Ogni due per tre il signore si chinava faticosamente, metteva mano a un sacchetto di provviste e procedeva a masticare qualche leccornia, impedendogli di dormire o di vedere il film in pace. Alex era distrutto; aveva passato il tempo a contare i minuti che mancavano alla fine di quel supplizio, quando finalmente atterrarono e poté sgranchirsi le gambe. Scese dall'aereo rincuorato e all'uscita cercò con gli occhi la nonna, ma non la vide, come sperava. Un'ora dopo Kate non era ancora arrivata e Alex iniziava ad angosciarsi sul serio. L'aveva fatta chiamare due volte con l'altoparlante senza ottenere risposta e adesso non gli restava che cambiare la banconota in spiccioli per poterle telefonare. Si congratulò con se stesso per la sua buona memoria: era in grado di ricordare senza esitazioni il suo numero, come del resto l'indirizzo, pur senza essere mai stato lì, solo grazie alle cartoline che le scriveva di tanto in tanto. Il telefono della nonna suonava a vuoto, mentre lui si concentrava nella speranza che qualcuno rispondesse. "E ora cosa faccio?" bisbigliò smarrito. Pensò di fare una telefonata in California a suo padre per chiedere istruzioni, ma poteva venirgli a costare buona parte del suo capitale. D'altro canto, non voleva comportarsi da bambinetto. Cosa avrebbe potuto fare suo padre da così lontano? No, decise, non poteva perdere la testa solo perché la nonna era un po' in ritardo; forse era rimasta imbottigliata nel traffico o era in giro per l'aeroporto a cercarlo e magari si erano incrociati senza vedersi. 10 Passò un'altra mezz'ora e a quel punto era talmente furioso con Kate che se l'avesse avuta davanti l'avrebbe insultata. Gli vennero in mente quei brutti tiri che gli aveva giocato per anni, come la scatola di cioccolatini ripieni di salsa piccante che gli aveva spedito per il suo compleanno. Nessuna nonna normale si sarebbe presa la briga di scartarli tutti, toglierne il contenuto con una siringa, di rimpiazzarlo con tabasco, di avvolgere ogni cioccolatino nella carta argentata e di riporlo nuovamente nella scatola solo per farsi beffe dei nipoti. Si ricordò anche delle storie agghiaccianti con cui li terrorizzava quando andava a trovarli e di come insisteva per raccontarle a luce spenta. Ora quei racconti non gli facevano più tanto effetto, ma durante l'infanzia l'avevano fatto quasi morire di paura. Le sue sorelle avevano ancora incubi popolati dai vampiri e dagli zombie fuggiti dalle tombe che quella nonna malvagia invocava al buio. Tuttavia, non poteva negare che loro tre fossero dei patiti di quelle storie truculente. E che non si stancassero nemmeno di ascoltarla raccontare i pericoli reali o immaginari che aveva affrontato nei suoi viaggi per il mondo. La storia preferita era quella di un pitone lungo otto metri che in Malaysia si era ingoiato la sua macchina fotografica. "Peccato che non si sia ingoiato anche te, nonna" aveva commentato Alex la prima volta che aveva sentito l'aneddoto, ma lei non si era minimamente offesa. Era stata sempre lei a insegnargli a nuotare in meno di cinque minuti, buttandolo in una piscina quando lui aveva quattro anni. A ragione Lisa si innervosiva quando la suocera arrivava a far loro visita: doveva raddoppiare la vigilanza per preservare l'incolumità dei bambini. Passata un'ora e mezzo d'attesa in aeroporto, Alex non sapeva più cosa fare. Immaginò quanto avrebbe goduto Kate nel vederlo così angosciato e decise che non le avrebbe dato questa soddisfazione: doveva comportarsi da uomo. Indossò il giaccone, si sistemò lo zaino sulle spalle e uscì in strada. Il contrasto fra il tepore, la confusione e la luce bianca all'interno dell'edificio con il freddo, il silenzio e il buio della sera per poco non lo stordì. Non sospettava minimamente che l'inverno a New York fosse così ingrato. L'aria puzzava di benzina, la neve sul marciapiede era sporca e le raffiche di vento colpivano la faccia come spilli. Si rese conto che per l'emozione del commiato dalla sua famiglia si era dimenticato i guanti e il berretto, che in California non aveva mai occasione di indossare e che teneva in un baule nel garage con il resto dell'attrezzatura da sci. Sentì pulsare la ferita alla mano sinistra, che fino a quel momento non lo aveva infastidito, e pensò che doveva sostituire la benda non appena fosse 11 arrivato dalla nonna. Non aveva la minima idea di quanto fosse distante la casa né di quanto gli sarebbe costata la corsa in taxi. Aveva bisogno di una cartina, ma non sapeva come trovarla. Con le orecchie gelate e le mani ben infilate in tasca, s'incamminò verso la fermata degli autobus. Lo avvicinò una ragazza: "Ciao, sei in giro da solo?". Aveva una borsa di stoffa, un cappello calato fino alle sopracciglia, le unghie dipinte di blu e un anello d'argento al naso. Alex rimase a guardarla con stupore, era quasi carina come il suo amore segreto, Cecilia Burns, a dispetto dei pantaloni sbrindellati, degli stivali militari e dell'aria piuttosto sporca e affamata. Per ripararsi dal freddo indossava solamente una giacca corta di finta pelliccia arancione che le arrivava a malapena alla vita. Non portava guanti. Alex farfugliò una risposta confusa. Suo padre lo aveva avvertito di non parlare con gli estranei, ma quella ragazza non poteva certo rappresentare un pericolo, doveva avere appena un paio d'anni più di lui ed era magra e minuta quasi come sua madre. Anzi, in confronto a lei, Alex si sentì forte. "Dove vai?" continuò la sconosciuta accendendosi una sigaretta. "A casa di mia nonna; vive nella Quattordicesima, all'incrocio con la Seconda Avenue. Sai come posso arrivarci?" indagò Alex. "Ma certo, vado anch'io da quelle parti. Possiamo prendere l'autobus. Mi chiamo Morgana" si presentò la ragazza. "Non avevo mai sentito questo nome" commentò Alex. "Sono stata io a sceglierlo. Quella scema di mia madre mi aveva dato un nome volgare quanto lei. E tu, come ti chiami?" chiese, sbuffando il fumo dal naso. "Alexander Cold. Ma mi chiamano Alex" rispose, un tantino scandalizzato nel sentirla parlare della sua famiglia in quei termini. Aspettarono in strada, battendo i piedi nella neve per tenerli caldi, una decina di minuti durante i quali Morgana approfittò per offrirgli un succinto resoconto della sua vita: da anni non andava a scuola – un posto da stupidi – ed era scappata di casa perché non sopportava il patrigno, un porco ripugnante. "Farò parte di un gruppo rock, questo è il mio sogno" aggiunse. "L'unica cosa di cui ho bisogno è una chitarra elettrica. Cosa c'è in quell'astuccio legato allo zaino?" "Un flauto." "Elettrico?" "No, a pile" la prese in giro Alex. 12 "Erba" mormorò. Alexander rifiutò, scuotendo la testa. Non si riteneva un puritano, ci mancava altro, aveva provato alcol e marijuana qualche volta, come quasi tutti i suoi compagni delle superiori, ma non riusciva a coglierne il fascino, salvo il fatto che erano proibiti. Non gli piaceva perdere il controllo. Scalando le montagne aveva appreso il gusto del dominio del corpo e della mente. Tornava da quelle escursioni sfinito, indolenzito e affamato, ma assolutamente felice, pieno di entusiasmo, orgoglioso di aver vinto ancora una volta le sue paure e gli ostacoli della montagna. Si sentiva elettrizzato, forte, quasi invincibile. In quelle occasioni suo padre gli dava una pacca amichevole sulla schiena, una sorta di premio per la prodezza compiuta, ma non diceva niente per non alimentare la sua vanità. John non era tipo da sviolinate, era dura guadagnarsi una sua parola d'elogio, ma al figlio non importava, gli bastava quella pacca virile. Su esempio del padre Alex aveva imparato a fare il suo dovere al meglio, senza cedere alla presunzione, ma in cuor suo si vantava di tre virtù che riteneva sue proprie: coraggio nello scalare le montagne, talento nel suonare il flauto e lucidità di pensiero. Gli costava di più riconoscere i suoi difetti, anche se si rendeva conto di averne per lo meno due, come gli aveva fatto notare la mamma in più di un'occasione, sui quali avrebbe dovuto lavorare per migliorarsi: lo scetticismo, che lo spingeva a mettere in dubbio praticamente tutto, e il brutto carattere che gli faceva perdere le staffe in modo imprevedibile. Era qualcosa di nuovo, peraltro, perché fino a qualche mese prima era sempre stato fiducioso e di ottimo umore. La mamma era certa che fossero manifestazioni legate all'età, ma lui non ne era così sicuro. A ogni modo, l'offerta di Morgana non lo attirava. Le volte in cui aveva provato le droghe non si era sentito proiettato verso il paradiso, come sostenevano alcuni dei suoi amici: gli si era solo riempita la testa di fumo e le gambe gli erano diventate molli. Per lui non c'era niente di più eccitante che stare in equilibrio appeso a una corda, nel vuoto, a cento metri di altezza, e sapere esattamente come compiere il passo successivo. No, le droghe non facevano per lui. Neanche le sigarette, perché per scalare e suonare il flauto ci volevano polmoni sani. Non poté evitare di abbozzare un sorriso al ricordo del sistema utilizzato da sua nonna Kate per falciare alla radice la tentazione del tabacco. All'epoca aveva undici anni e, nonostante suo padre gli avesse fatto la predica sul cancro ai polmoni e sulle altre conseguenze della nicotina, fumava di nascosto con i suoi amici dietro la palestra. Kate era arrivata per 15 trascorrere insieme a loro il Natale e con il suo fiuto da segugio non aveva tardato molto ad avvertire l'odore di fumo, nonostante le gomme che Alex masticava e l'acqua di colonia con cui cercava di dissimularlo. "Così giovane e già fumi, Alexander?" gli aveva chiesto con tono allegro. Lui aveva tentato di abbozzare una risposta negativa, ma la nonna non gliene aveva dato il tempo. "Vieni con me, andiamo a fare una passeggiata" aveva detto. Il ragazzo era salito in macchina, aveva allacciato per benino la cintura di sicurezza e aveva mormorato tra i denti uno scongiuro perché sua nonna era una terrorista del volante; guidava come se fosse sempre in corso un inseguimento. L'aveva condotto a scossoni e frenate fino al supermercato, dove aveva comprato quattro grandi sigari di tabacco nero; poi si era scelta una via tranquilla, aveva parcheggiato lontano da sguardi indiscreti e aveva acceso un sigaro a testa. Avevano continuato a fumare con le portiere e i finestrini chiusi fino a quando il fumo impedì di vedere fuori. Alex sentiva che la testa gli girava e che lo stomaco saliva e scendeva. Ben presto non ce l'aveva più fatta, aveva aperto lo sportello e si era lasciato cadere per strada come un sacco, in preda a un terribile malessere. Sua nonna aveva atteso sorridendo che finisse di vomitare l'anima, senza offrirsi di tenergli una mano sulla fronte e di consolarlo, come avrebbe fatto la mamma, e poi si era accesa un altro sigaro e glielo aveva passato. "Forza, Alexander, dimostrami che sei un uomo e fumane un altro" l'aveva sfidato, quanto mai divertita. Per i due giorni successivi il ragazzo era dovuto rimanere a letto, verde come una lucertola, convinto che la nausea e il mal di testa l'avrebbero ucciso. Suo padre aveva pensato che si trattasse di un virus mentre sua madre aveva subito sospettato della suocera, ma non aveva osato accusarla direttamente di aver avvelenato il nipote. Da allora il vizio del fumo, che tanto successo riscuoteva tra alcuni dei suoi amici, ad Alex faceva rivoltare le budella. "Quest'erba è eccezionale" insistette Morgana indicando il contenuto del sacchettino. "Ho anche questo, se preferisci" aggiunse mostrandogli due pasticche bianche nel palmo della mano. Alex tornò a fissare lo sguardo sul finestrino dell'autobus, senza rispondere. Per esperienza sapeva che era meglio tacere o cambiare argomento. Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe suonata stupida e la ragazza avrebbe pensato che era un bambinetto o che era un religioso fondamentalista convinto. Morgana fece spallucce e ripose il suo tesoro in 16 attesa di un'occasione migliore. Stavano arrivando alla stazione degli autobus, in pieno centro, e dovevano scendere. A quell'ora non erano ancora diminuiti né il traffico né la gente per strada e, anche se gli uffici e i negozi erano chiusi, c'erano bar, teatri e ristoranti aperti. Molte persone gli venivano incontro, ma più che visi, ne distingueva solo le sagome incurvate, avvolte in cappotti scuri, che camminavano di fretta. Vide alcune figure sdraiate a terra vicino alle grate sui marciapiedi da cui si innalzavano colonne di vapore. Capì che si trattava di vagabondi che dormivano raggomitolati vicino agli sfiati del riscaldamento delle case, l'unica fonte di calore nella sera invernale. Le impietose luci al neon e i fari delle macchine conferivano alle strade bagnate e sporche un'aria irreale. Agli angoli si ergevano montagnette di sacchi neri, alcuni rotti e con la spazzatura sparpagliata. Una mendicante avvolta in un cappotto a brandelli frugava nei sacchi con un bastone mentre recitava una litania senza fine in una lingua inventata. Alex dovette fare un balzo di lato per evitare un topo con la coda morsicata e sanguinante che si era piazzato in mezzo al marciapiede e che non si era mosso al loro passaggio. I clacson delle macchine imbottigliate, le sirene della polizia e di tanto in tanto l'ululato di un'ambulanza fendevano l'aria. Un giovane, molto alto e goffo, passò gridando che il mondo era giunto alla fine e gli mise in mano un foglio di carta stropicciata sul quale appariva una bionda, dalle labbra carnose e mezza nuda, che offriva massaggi. Un tipo in pattini, con gli auricolari, lo investì, scaraventandolo contro il muro. "Guarda dove vai, deficiente!" gli aveva gridato l'aggressore. Sentì che la ferita alla mano cominciava a pulsare di nuovo. Pensò di trovarsi sprofondato in un incubo da fantascienza, in una raccapricciante megalopoli di cemento, acciaio, vetro, inquinamento e solitudine. Fu pervaso da un'ondata di nostalgia per quel luogo tranquillo vicino al mare in cui aveva trascorso la sua vita. Quel paese quieto e un po' noioso, da dove così spesso aveva desiderato fuggire, ora gli sembrava meraviglioso. Morgana interruppe le sue lugubri riflessioni. "Sto morendo di fame... Non potremmo mangiare qualcosa?" suggerì. "È tardi, devo andare da mia nonna" si scusò lui. "Tranquillo, tranquillo, ti ci porto da tua nonna. Siamo vicini, ma non sarebbe male mettere qualcosa sotto i denti" insistette lei. Senza dargli modo di rifiutarsi, lo trascinò per un braccio all'interno di 17 3. L'ABOMINEVOLE UOMO DELLA FORESTA "Usa la bocca e arriverai fino a Roma" era uno dei motti di Kate. Il suo lavoro la obbligava a viaggiare per luoghi remoti, dove sicuramente aveva avuto modo diverse volte di mettere in pratica quella massima. Alex era piuttosto timido, gli costava avvicinare uno sconosciuto per chiedere un'informazione, ma non aveva alternative. Non appena riuscì a tranquillizzarsi e a recuperare la parola, si diresse verso un uomo che masticava un hamburger e gli domandò come raggiungere l'incrocio tra la Quattordicesima e la Seconda Avenue. Il tizio si strinse nelle spalle e non rispose. Alex rimase perplesso per qualche minuto e alla fine si avvicinò a uno dei camerieri dietro il bancone. L'uomo indicò con il coltello che teneva in mano una vaga direzione e gli diede le istruzioni urlando per coprire il baccano del ristorante, con un accento così stretto che Alex non capì una parola. Decise che era una questione di logica: doveva verificare da quale parte stava la Seconda Avenue e contare le strade, molto semplice; ma non gli sembrò più così semplice quando si rese conto che si trovava all'incrocio tra la Quarantaduesima e l'Ottava Avenue e calcolò il percorso da coprire, con quel freddo glaciale. Fu grato al suo allenamento di alpinista: se era in grado di passare sei ore ad arrampicarsi come un ragno sulle rocce, avrebbe certamente potuto camminare per qualche isolato su un terreno pianeggiante. Tirò su la cerniera del giaccone, mise la testa tra le spalle, ficcò le mani in tasca e s'incamminò. Era mezzanotte passata e cominciava a nevicare quando il ragazzo arrivò alla via della nonna. Il quartiere gli parve decrepito, sporco e brutto, non c'era un albero neanche a pagarlo e da un bel po' non si vedeva nessuno in giro. Pensò che solo un disperato come lui poteva camminare a quell'ora per le pericolose strade di New York; se l'era cavata e non era stato vittima di un'aggressione solo perché nessun bandito aveva il fegato di uscire con quel freddo. L'edificio era una torre grigia, in mezzo a molte altre torri identiche, circondata da inferriate di sicurezza. Suonò il campanello e immediatamente la voce roca e aspra di Kate domandò chi osasse disturbare a quell'ora della notte. Alex era certo che lo stesse aspettando, anche se ovviamente lei non l'avrebbe mai ammesso. Era congelato fino alle ossa e mai nella sua vita aveva sentito così forte il bisogno di buttarsi tra le braccia di qualcuno ma, quando alla fine si aprì la porta dell'ascensore all'undicesimo piano e si ritrovò davanti a sua nonna, era 20 determinato a non permetterle di notare la sua vulnerabilità. "Ciao, nonna" salutò quanto più distintamente riuscì, visto come gli battevano i denti. "Ti ho detto di non chiamarmi nonna!" lo redarguì. "Ciao, Kate." "Sei arrivato piuttosto tardi, Alexander." "Non eravamo d'accordo che saresti venuta a prendermi all'aeroporto?" replicò lui cercando di trattenere le lacrime. "Non eravamo rimasti d'accordo su un bel niente. Se non riesci ad arrivare dall'aeroporto a casa mia, non sarai certo in grado di venire con me nella foresta" disse Kate. "Togliti la giacca e gli stivali, ti preparo qualcosa di caldo e un bel bagno, ma sia ben chiaro che lo faccio solo per risparmiarti una broncopolmonite. Devi essere in forma per il viaggio. Non sperare che in futuro ti coccoli, è chiaro?" "Non ho mai sperato che mi coccolassi" replicò Alex. "Cosa ti è successo alla mano?" gli chiese quando vide la benda fradicia. "Troppo lungo da raccontare." Il piccolo appartamento di Kate era buio, zeppo di cose e caotico. Due delle finestre – dai vetri sudici – davano su un cavedio e la terza su un muro di mattoni con una scala antincendio. Vide valigie, zaini, colli e scatole dispersi in ogni angolo, e libri, quotidiani e riviste ammucchiati sui tavoli. C'erano un paio di crani umani provenienti dal Tibet, archi e frecce dei pigmei, urne funerarie del deserto di Atacama, scarabei pietrificati originari dell'Egitto e mille altri oggetti. Una lunga pelle di serpente si estendeva lungo tutta una parete. Era appartenuta al famoso pitone che in Malaysia si era ingoiato la macchina fotografica. Fino a quel momento Alex non aveva mai visto la nonna nel suo ambiente naturale e dovette ammettere che, circondata dalle sue cose, risultava molto più interessante. Kate aveva sessantaquattro anni, era magra e muscolosa, energia allo stato puro e pelle indurita dalle intemperie; i suoi occhi azzurri, che di mondo ne avevano visto, erano penetranti come pugnali. I capelli grigi, che lei stessa si tagliava a sforbiciate senza guardarsi allo specchio, sparavano in tutte le direzioni come se non avessero mai visto un pettine. Era fiera dei suoi denti, grandi e forti, capaci di rompere noci e stappare bottiglie; era anche orgogliosa di non essersi mai rotta un osso, di non aver mai dovuto far ricorso a un medico e di essere sopravvissuta ad attacchi di malaria e persino a punture di scorpione. Beveva vodka liscia e fumava tabacco nero in una pipa da 21 marinaio. D'inverno e d'estate indossava sempre gli stessi comodi pantaloni e un gilet con molte tasche in cui riponeva l'indispensabile per sopravvivere in caso di cataclisma. In alcune occasioni, quando era necessario vestirsi elegante, si toglieva il gilet e si metteva una collana di canini d'orso, regalo di un capo apache. Lisa, la madre di Alex, era terrorizzata da Kate, mentre i bambini attendevano con ansia le sue visite. Quella nonna stravagante, protagonista di incredibili avventure, portava loro notizie da luoghi talmente esotici che si faticava a immaginarli. I tre nipoti facevano la collezione dei suoi reportage di viaggio che venivano pubblicati in diverse riviste e periodici, e delle cartoline e delle foto che spediva loro da ogni angolo del mondo. Anche se a volte si vergognavano a presentarla agli amici, in fondo erano orgogliosi che un membro della famiglia fosse quasi una celebrità. Mezz'ora più tardi Alex, grazie al bagno, si era finalmente riscaldato e, avvolto in una vestaglia, con indosso calzettoni di lana, stava divorando polpettine con purè di patate, uno dei pochi piatti che mangiava volentieri, l'unico, peraltro, che Kate sapesse cucinare. "Sono gli avanzi di ieri" disse lei, ma Alex sapeva che le aveva preparate apposta per lui. Non volle raccontarle dell'avventura con Morgana, per non fare la figura dello stupido, ma dovette ammettere che gli avevano rubato tutto il bagaglio. "Immagino che adesso mi dirai di imparare a non fidarmi di nessuno" borbottò il ragazzo arrossendo. "Al contrario, stavo per dirti di imparare a fidarti di te. Come vedi, Alexander, nonostante tutto sei stato in grado di arrivare fino a casa mia senza problemi." "Senza problemi? Sono quasi morto congelato strada facendo. Avrebbero scoperto il mio cadavere al disgelo in primavera" aggiunse. "Un viaggio di oltre mille miglia comincia sempre con qualche intoppo. E il passaporto?" indagò Kate. "Si è salvato perché l'avevo messo in tasca." "Incollatelo con lo scotch al petto perché se lo perdi sei fritto." "La cosa che mi dispiace di più è aver perso il flauto" commentò Alex. "Mi toccherà darti il flauto di tuo nonno. Pensavo di conservarlo fino a quando non avessi rivelato un po' di talento, ma immagino che starà meglio nelle tue mani che non dimenticato da qualche parte" gli disse Kate. Cercò sulle mensole che ricoprivano le pareti di casa sua dal pavimento al soffitto e gli consegnò un astuccio di cuoio nero tutto impolverato. 22 che fossero i più selvaggi del pianeta e che mangiassero i prigionieri. Questa informazione non era tranquillizzante, ammise Kate. Avrebbe fatto da guida un brasiliano di nome César Santos che aveva trascorso la vita in quella regione e aveva buoni rapporti con gli indios. L'uomo possedeva un aereo da turismo un po' sgangherato, ma ancora funzionante, grazie al quale si sarebbero potuti addentrare fino al territorio delle tribù indigene. "A scuola abbiamo studiato l'Amazzonia durante una lezione di ecologia" commentò Alex, a cui iniziavano a chiudersi gli occhi. "Con quella lezione ne hai a sufficienza, non hai bisogno di saperne di più" concluse Kate. E aggiunse: "Immagino che tu sia stanco. Puoi dormire sul divano. Domani mattina presto inizierai a lavorare per me". "Cosa dovrò fare?" "Quello che ti ordinerò. Per ora ti ordino di dormire." "Buona notte, Kate..." mormorò Alex acciambellandosi sui cuscini del divano. "Bah!" grugnì la nonna. Attese che si fosse addormentato e lo coprì con un paio di coperte. 25 4. IL RIO DELLE AMAZZONI Kate e Alexander, in viaggio su un aereo di linea, stavano sorvolando il Nord del Brasile. Per ore e ore avevano visto dall'alto un'interminabile distesa di foreste, tutte del medesimo verde intenso, attraversata da fiumi che si snodavano come serpenti luminosi. Il più incredibile di tutti era color caffellatte. "Il Rio delle Amazzoni è il fiume più grande della Terra per l'ampiezza del bacino. Solamente gli astronauti, in volo verso la Luna, da quella distanza sono riusciti a vederlo interamente" lesse Alex sulla guida turistica che la nonna gli aveva comprato a Rio de Janeiro. Non c'era invece scritto, come aveva imparato lui a scuola, che l'avidità delle compagnie commerciali e degli avventurieri stava distruggendo in modo sistematico quell'immensa regione, l'ultimo paradiso del pianeta. Era in costruzione una strada, una ferita aperta in piena foresta, grazie alla quale arrivavano coloni in massa e uscivano legname e minerali a tonnellate. Kate informò il nipote che avrebbero risalito il Rio Negro fino all'alto Orinoco, un triangolo praticamente inesplorato in cui si concentrava la maggior parte delle tribù. Si supponeva che la Bestia vivesse in quella zona. "In questo libro si dice che quegli indios vivono come nell'età della pietra. Non hanno ancora inventato la ruota" commentò Alex. "Non ne hanno bisogno. In quelle terre non serve, non hanno nulla da trasportare e non hanno fretta di andare da nessuna parte" replicò Kate, a cui non piaceva essere interrotta mentre scriveva. Aveva trascorso la maggior parte del viaggio prendendo appunti su dei quaderni con quelle sue lettere piccole e ingarbugliate, come zampe di mosche. "Non conoscono la scrittura" aggiunse Alex. "Sicuramente hanno buona memoria" disse Kate. "Non ci sono espressioni artistiche; nella loro cultura si limitano a dipingersi il corpo e ad adornarsi con le piume" spiegò Alex. "A loro importa ben poco dei posteri e di primeggiare sugli altri. La maggior parte dei nostri cosiddetti artisti dovrebbe seguire il loro esempio" rispose la nonna. Erano diretti a Manaus, la città più popolosa della regione amazzonica, molto prospera ai tempi del commercio di caucciù a fine Ottocento. "Stai per visitare la foresta più misteriosa del mondo, Alexander. Lì ci 26 sono luoghi in cui gli spiriti appaiono in piena luce del giorno" spiegò Kate. "Certo, come l'abominevole uomo della foresta che andiamo a cercare" sorrise il nipote sarcasticamente. "Lo chiamano la Bestia. Può darsi che non sia un esemplare unico, ma che ce ne siano diversi, una famiglia o una tribù." "Sei piuttosto credulona per la tua età, Kate" commentò il ragazzo senza riuscire a evitare di punzecchiare la nonna, che evidentemente credeva a quelle storie. "Con l'età si acquista una certa umiltà, Alexander. Più invecchio e più mi sento ignorante. Solo i giovani hanno una spiegazione per ogni cosa. Alla tua età si può essere arroganti e non ha molta importanza fare brutte figure" replicò la nonna. Quando scesero dall'aereo a Manaus, la sensazione era quella di un asciugamano zuppo di acqua calda sulla pelle. Lì si riunirono con gli altri membri della spedizione dell'"International Geographic". Oltre a Kate e ad Alexander partecipavano Timothy Bruce, un fotografo inglese con una lunga faccia equina e denti ingialliti dalla nicotina, il suo assistente messicano Joel González, e il famoso antropologo Ludovic Leblanc. Alex si era immaginato Leblanc come un saggio dalla barba bianca e dalla figura imponente, ma questi si rivelò invece un ometto di una cinquantina d'anni, basso, magro, nervoso, con una perenne espressione di disprezzo o di crudeltà sulle labbra e occhi incavati da topo. Era bardato come i cacciatori di belve dei film, armi alla cintola comprese, nonché pesanti stivali e un cappello australiano decorato con piccole penne colorate. Kate commentò tra i denti che gli mancava solo una tigre morta su cui appoggiare un piede. In gioventù Leblanc aveva trascorso un breve periodo in Amazzonia e aveva scritto un voluminoso trattato sugli indigeni che aveva provocato scalpore nei circoli accademici. La guida brasiliana, César Santos, che sarebbe dovuta venirli a prendere a Manaus, non arrivò perché il suo piccolo aereo aveva dei problemi e quindi li avrebbe aspettati a Santa María de la Lluvia, dove il gruppo si sarebbe dovuto imbarcare. Alex si rese conto che Manaus, situata alla confluenza tra il Rio delle Amazzoni e il Rio Negro, era una città grande e moderna, con alti edifici e un traffico snervante, ma la nonna gli spiegò che lì la natura era ancora indomita e che nei periodi delle inondazioni caimani e serpenti facevano la loro comparsa nei giardini di casa e nelle botole degli ascensori. Era anche 27 medico di campagna che lavora da più di dieci anni da queste parti." "Mi creda, egregia dottoressa, questi indigeni sono la prova che l'uomo non è altro che una scimmia assassina" replicò Leblanc. "E la donna?" "Mi dispiace doverle dire che le donne non valgono assolutamente niente nelle società primitive. Sono solamente bottino di guerra." La dottoressa Torres e Kate si scambiarono un'occhiata e sorrisero entrambe, divertite. La parte iniziale del viaggio lungo il Rio Negro si rivelò più che altro un esercizio di pazienza. Procedevano a passo di lumaca e non appena il sole tramontava dovevano fermarsi, per evitare di essere colpiti dai tronchi trascinati dalla corrente. Il caldo era intenso, ma all'imbrunire rinfrescava e per dormire bisognava ripararsi con una coperta. A volte, nei punti in cui il fiume era calmo e pulito, si poteva approfittare per pescare o nuotare un po'. Nei primi due giorni incrociarono imbarcazioni di diverso tipo: lance a motore, case galleggianti o semplici canoe ricavate dai tronchi, ma poi rimasero soli nell'immensità di quel paesaggio. Si trovavano in un pianeta d'acqua: la vita trascorreva nella lenta navigazione, al ritmo del fiume, delle piene, delle piogge, delle inondazioni. Acqua, acqua da tutte le parti. Centinaia di famiglie nascevano e morivano sulle loro barche senza aver mai trascorso una notte sulla terraferma; altre vivevano in palafitte lungo le rive del fiume. I trasporti avvenivano via fiume e l'unico modo di mandare o ricevere un messaggio era la radio. Al ragazzo americano sembrava impossibile che si potesse vivere senza telefono. Una stazione di Manaus trasmetteva ininterrottamente messaggi personali, così la gente veniva a conoscenza delle notizie, di come andavano affari e famiglie. Nella parte alta del fiume circolava poco denaro, l'economia era di scambio, si barattava il pesce con lo zucchero, la benzina con le galline e i servizi con una cassa di birra. Su entrambe le sponde del fiume la foresta si ergeva minacciosa. Gli ordini del capitano erano stati chiari: non ci si doveva allontanare per nessun motivo perché addentrandosi nella vegetazione si perdeva il senso dell'orientamento. C'erano stati stranieri che, pur trovandosi a pochi metri dal fiume, erano morti disperati senza riuscire a ritrovarlo. All'alba i delfini rosati saltavano tra le acque e centinaia di uccelli solcavano il cielo. Videro anche dei lamantini, i grandi mammiferi acquatici le cui femmine diedero origine alla leggenda delle sirene. Di notte, tra i cespugli, apparivano dei 30 puntini colorati: erano gli occhi dei caimani che spiavano nell'oscurità. Un caboclo insegnò ad Alex a misurare la dimensione dell'animale a seconda di quanto erano distanti tra loro gli occhi. Quando si trattava di un esemplare piccolo, il caboclo lo abbagliava con una lanterna, poi saltava in acqua e lo acchiappava, tenendogli le mandibole con una mano e la coda con l'altra. Ma se la distanza tra gli occhi era notevole, lo evitava come la peste. Il tempo trascorreva lentamente, le ore sembravano interminabili, e tuttavia Alex non si annoiava. Si sedeva a prua a osservare la natura, a leggere e a suonare il flauto del nonno. La foresta sembrava prendere vita e rispondere al suono dello strumento, e persino i rumorosi membri dell'equipaggio e i passeggeri tacevano per ascoltarlo; queste erano le uniche occasioni in cui Kate gli prestava attenzione. La giornalista era di poche parole, passava la giornata a leggere o a scarabocchiare sui suoi quaderni e in genere lo ignorava o lo trattava come un membro qualsiasi della spedizione. Era inutile ricorrere a lei per sottoporle un problema di mera sopravvivenza, relativo al cibo, alla salute o alla sicurezza, per esempio. Lei lo guardava dall'alto in basso con evidente disprezzo e gli rispondeva che esistono due tipi di problemi, quelli che si risolvono da soli e quelli che non hanno soluzione, e che quindi era meglio che non la disturbasse con le sue sciocchezze. Fortunatamente la mano era guarita in fretta, altrimenti lei sarebbe stata capace di risolvere la questione suggerendo l'amputazione. Era una donna senza mezze misure. Gli aveva prestato cartine e libri sull'Amazzonia affinché lui stesso trovasse le informazioni che desiderava conoscere. Se Alex le commentava le letture sugli indios o le proponeva le sue teorie sulla Bestia, lei replicava senza sollevare lo sguardo dalla pagina che aveva davanti agli occhi: "Non perdi mai una buona occasione per tacere, Alexander". Ogni cosa in quel viaggio era talmente diversa rispetto al mondo in cui era cresciuto che il ragazzo si sentiva come un visitatore di un'altra galassia. Non aveva più a sua disposizione le comodità che prima usava senza dar loro importanza, un letto, il bagno, l'acqua corrente, l'elettricità. Si dedicò a scattare fotografie con la macchina della nonna per avere delle prove al ritorno in California. I suoi amici non avrebbero mai creduto che aveva tenuto tra le mani un caimano lungo quasi un metro! Il suo problema più grande era il cibo. Era sempre stato di gusti difficili per il mangiare e ora gli venivano servite cose di cui non sapeva neanche il nome. Gli unici viveri identificabili a bordo erano fagioli in scatola, carne salata essiccata e caffè, niente che gli facesse gola. I marinai catturarono a 31 suon di spari un paio di scimmie che la sera stessa, quando venne calata l'ancora, furono arrostite. Avevano un aspetto talmente umano che Alex si sentì male al solo vederle: sembravano due bambini abbrustoliti. La mattina successiva pescarono una pirarucú, un enorme pesce le cui carni si rivelarono deliziose per tutti, eccetto per lui che si rifiutò di assaggiarle. Aveva deciso, quando aveva tre anni, che il pesce non gli piaceva. Da allora sua madre, stanca di battagliare per obbligarlo a mangiare, si era rassegnata a preparargli solo i piatti di suo gusto. Non erano molti. Tale limitazione lo condannava in quel viaggio a essere sempre affamato; disponeva solo di banane, di un barattolo di latte condensato e di vari pacchetti di biscotti. Sua nonna non sembrò dare importanza al fatto che avesse fame, come del resto anche gli altri. Nessuno gli badò. Diverse volte al giorno cadeva una pioggia breve e torrenziale; Alex dovette abituarsi all'umidità costante e al fatto che gli abiti non erano mai del tutto asciutti. Al tramonto, nugoli di zanzare li attaccavano. Gli stranieri si difendevano inzuppandosi di insetticida, soprattutto il professor Leblanc, che non perdeva occasione per recitare la lista di malattie trasmesse dagli insetti, dal tifo alla malaria. Aveva legato un fitto velo attorno al suo cappello australiano per proteggersi la faccia e trascorreva buona parte del giorno rifugiato sotto una zanzariera che aveva fatto appendere a poppa. I caboclo, invece, sembravano immuni dalle punture. Il terzo giorno, in una mattina radiosa, la barca si fermò per un problema al motore. Mentre il capitano cercava di aggiustare il guasto, tutti i passeggeri si ripararono sotto la tettoia per riposare. Faceva troppo caldo persino per muoversi, ma Alex aveva deciso che quello era il luogo perfetto per darsi una rinfrescata. Si tuffò nell'acqua che sembrava bassa e calma come olio e sprofondò come un sasso. "Solo uno sciocco misura la profondità con i piedi" Commento la nonna quando la sua testa riapparve in superficie, buttando fuori acqua persino dalle orecchie. Il ragazzo si allontanò dall'imbarcazione a nuoto – gli avevano detto che i caimani preferiscono le rive – e rimase a lungo a fare il morto nell'acqua tiepida, con le gambe e le braccia aperte, a guardare il cielo e a pensare agli astronauti che ne conoscevano l'immensità. Si sentiva talmente al sicuro che, quando qualcosa di veloce passò sfiorandogli la mano, non ebbe una reazione immediata. Senza avere la minima idea di quale fosse il pericolo che lo minacciava – dopo tutto forse i caimani non rimanevano solo a riva – iniziò a dare energiche bracciate per tornare alla barca, ma la 32 Visto che era stato sul punto di schiantarsi, aveva deciso di ordinare un motore nuovo, che doveva arrivare a giorni e poi, aggiunse con un sorriso, non poteva lasciare orfana sua figlia Nadia. César li condusse all'albergo, una palafitta in legno sulle rive del fiume, simile alle altre sgangherate casupole del villaggio. Casse di birra erano ammonticchiate ovunque e sul bancone erano allineate bottiglie di liquore. Durante il viaggio Alex aveva notato che, nonostante il caldo, gli uomini bevevano litri e litri d'alcol a qualsiasi ora. Quel rudimentale edificio sarebbe servito da base operativa, alloggio, ristorante e bar per gli ospiti. A Kate e al professor Leblanc furono assegnati due cubicoli separati dagli altri mediante lenzuola appese a corde. Tutti gli altri avrebbero dormito su amache protette da zanzariere. Santa María de la Lluvia era un villaggio sonnolento e così sperduto che lo si individuava a stento sulle cartine. Alcuni coloni allevavano mucche dalle corna molto lunghe, altri vivevano dell'oro trovato nel letto del fiume o della vendita del legname o del caucciù, pochi intrepidi si addentravano da soli nella foresta in cerca di diamanti, ma la maggior parte vegetava in attesa che piovesse miracolosamente dal cielo qualcosa di buono. Queste erano le attività che si svolgevano alla luce del sole. Quelle segrete consistevano nel traffico di uccelli esotici, droga e armi. Gruppi di soldati, con la carabina imbracciata e le camicie intrise di sudore, giocavano a carte o fumavano seduti all'ombra. La scarsa popolazione poltriva, intontita dal caldo e dalla noia. Alex vide diverse persone, senza capelli né denti, quasi cieche, con la pelle piagata, gesticolare e parlare tra sé; erano minatori impazziti per effetto del mercurio utilizzato per separare l'oro dalla sabbia, destinati a una lenta agonia. Nuotavano sul fondo del fiume per aspirare con grossi tubi la sabbia satura d'oro in polvere; alcuni morivano annegati, altri perché la concorrenza tagliava loro le manichette dell'ossigeno. I bambini del villaggio invece giocavano felici nel fango, in compagnia di un certo numero di scimmie addomesticate e di cani scheletrici. C'erano anche degli indios, alcuni protetti da una maglietta o da pantaloni corti, altri nudi come i bambini. All'inizio Alex, turbato, non osava guardare il seno delle donne, ma i suoi occhi si abituarono molto in fretta e nel giro di poco smise di badarci. Quegli indios vivevano da diversi anni a contatto con la civiltà e avevano perso molte delle loro tradizioni e usanze, spiegò César. La figlia della guida, Nadia, parlava la lingua degli indios e loro la trattavano come un membro della tribù. Se questi erano i feroci indigeni descritti da Leblanc, non facevano poi 35 una grande impressione: erano piccoli, gli uomini erano alti meno di un metro e mezzo e i bambini sembravano miniature umane. Per la prima volta in vita sua Alex si sentì alto. Avevano la pelle color bronzo e gli zigomi pronunciati; gli uomini portavano i capelli tagliati a scodella all'altezza delle orecchie, pettinatura che accentuava i loro tratti asiatici. Discendevano da abitanti del Nord della Cina che erano arrivati lì, passando per l'Alaska, circa dieci o ventimila anni prima. Erano riusciti a evitare la schiavitù durante la Conquista, nel sedicesimo secolo, perché erano rimasti isolati. I soldati spagnoli e portoghesi, infatti, non avevano avuto la meglio sulle paludi, le zanzare, la vegetazione, gli immensi fiumi e le cascate della regione amazzonica. Una volta che si furono sistemati nell'albergo, César si dedicò a organizzare i bagagli della spedizione e a pianificare il resto del viaggio con la giornalista Kate Cold e i fotografi, perché il professor Leblanc aveva deciso di riposare fino a quando il clima non fosse rinfrescato un po'. Non sopportava molto il caldo. Nel frattempo Nadia aveva invitato Alex a fare un giro nei dintorni. "Dopo il tramonto non avventuratevi oltre i limiti del villaggio, è pericoloso" li avvertì César. Seguendo i consigli di Leblanc, che parlava da grande esperto dei pericoli della foresta, Alex si infilò i pantaloni dentro i calzettoni e gli stivali, per evitare il morso delle voraci sanguisughe. Nadia, che girava praticamente a piedi nudi, scoppiò a ridere. "Ti abituerai agli animaletti e al caldo" gli disse. Parlava un ottimo inglese perché sua madre era canadese. "Mia madre è andata via tre anni fa" spiegò la ragazzina. "Perché se n'è andata?" "Non riusciva ad abituarsi a stare qui, era debole di salute e peggiorò quando la Bestia iniziò a girare qui intorno. Sentiva il suo odore, voleva andarsene lontano, non poteva rimanere da sola, gridava... Alla fine la dottoressa Torres la portò via in elicottero. Adesso è in Canada" disse Nadia. "Tuo padre non è andato con lei?" "Cosa avrebbe fatto mio padre in Canada?" "E perché lei non ti ha portato via con sé?" insistette Alex, che non aveva mai sentito di una madre che abbandonasse i figli. "Perché è ricoverata in una casa di cura. E poi non voglio separarmi da 36 mio padre." "Non hai paura della Bestia?" "Tutti hanno paura. Ma se dovesse venire, Borobá mi avvertirebbe in tempo" replicò la ragazzina, accarezzando la scimmietta nera che non si separava mai da lei. Nadia condusse il suo nuovo amico a visitare il villaggio, attività che li impegnò solo per mezz'ora visto che non c'era molto da vedere. All'improvviso scoppiò un temporale: prima i lampi attraversarono il cielo in ogni direzione e poi iniziò a piovere a catinelle. Era una pioggia calda come zuppa che trasformò gli angusti vicoli in una fanghiglia fumante. Alcuni cercavano riparo sotto qualche tettoia, ma i bambini e gli indios proseguivano nelle loro attività completamente indifferenti all'acquazzone. Alex capì che la nonna aveva avuto ragione a suggerirgli di rimpiazzare i jeans con indumenti leggeri di cotone, più freschi e più veloci ad asciugarsi. Per evitare la pioggia i due ragazzi si infilarono nella chiesa dove incontrarono un uomo alto e robusto, con incredibili spalle da boscaiolo, che Nadia presentò come padre Valdomero. Era del tutto privo della solennità che ci si aspetta da un sacerdote: era in mutande, a torso nudo, arrampicato su una scala, intento a dare la calce alle pareti. A terra, campeggiava una bottiglia di rum. "Padre Valdomero vive qui da prima dell'invasione delle formiche" lo presentò Nadia. "Sono arrivato quando è stato fondato questo paesino, quasi quarant'anni fa, e c'ero quando vennero le formiche. Ci toccò abbandonare tutto e fuggire di corsa scendendo il fiume. Arrivarono come un'enorme macchia scura, avanzando implacabili e distruggendo tutto al loro passaggio" raccontò il sacerdote. "E poi cosa accadde?" chiese Alex, che non riusciva a immaginarsi un paese vittima degli insetti. "Appiccammo il fuoco alle case prima di andarcene. L'incendio fece deviare le formiche e qualche mese dopo ritornammo. Nessuna delle case che vedi ha più di quindici anni" spiegò. Il sacerdote aveva una strana mascotte, un cane anfibio che, come disse, era originario dell'Amazzonia e apparteneva a una specie praticamente estinta. Trascorreva buona parte della sua vita nel fiume e poteva resistere vari minuti con la testa dentro un secchio d'acqua. Accolse i ragazzi a prudente distanza, sospettoso. Il suo abbaiare era simile a un cinguettio e sembrava che stesse cantando. 37 sanitario nazionale. Sono qui per proteggere gli indigeni. Nessun forestiero può avere contatti con loro senza le misure preventive necessarie. Sono molto facilmente vittime delle malattie, soprattutto di quelle dei bianchi" disse la dottoressa. "Un normale raffreddore è mortale per loro. Tre anni fa, quando un gruppo di giornalisti venne a girare un documentario, un'intera tribù morì per un'infezione alle vie respiratorie. Uno di loro aveva la tosse, fece dare un tiro dalla sua sigaretta a un indigeno e così contagiò tutta la tribù" aggiunse César. In quel momento giunsero il capitano Ariosto, comandante della caserma, e Mauro Carías, il più ricco imprenditore della zona. Bisbigliando, Nadia spiegò ad Alex che Carías era molto potente e che faceva affari con i presidenti e i generali di diversi paesi sudamericani. Aggiunse che il cuore non ce l'aveva nel corpo, ma in una valigetta, e indicò la ventiquattrore di cuoio che teneva in mano. Dal canto suo il professor Leblanc era molto affascinato da Carías, perché la spedizione era stata organizzata grazie ai contatti internazionali di quell'uomo. Era stato lui a suscitare l'interesse della rivista "International Geographic" per la leggenda della Bestia. "Quella strana creatura sta terrorizzando tutta quella brava gente dell'Alto Orinoco. Nessuno osa addentrarsi nel triangolo in cui si suppone che viva" disse Carías. "Mi pare di capire che quella zona è inesplorata" disse Kate. "Esattamente." "Immagino che sia molto ricca di minerali e pietre preziose" aggiunse la giornalista. "La ricchezza dell'Amazzonia consiste soprattutto nella terra e nel legname" rispose Carías. "E nelle piante" intervenne la dottoressa Torres. "Non conosciamo nemmeno un decimo delle sostanze medicinali che ci sono qui. A mano a mano che spariscono gli sciamani e i guaritori indigeni perdiamo per sempre queste conoscenze." "Immagino che la Bestia interferisca anche con i suoi affari da queste parti, signor Carías, proprio come le tribù" proseguì Kate, che quando era interessata a qualcosa non mollava la presa. "La Bestia è un problema per tutti. Persino i soldati ne hanno paura" ammise Carías. "Se la Bestia esiste, la troverò. Non è ancora nato l'uomo, e tanto meno 40 l'animale, che possa farsi gioco di Ludovic Leblanc" replicò il professore, che era solito parlare di sé usando la terza persona. "Conti sui miei soldati, professore. Diversamente da quanto afferma il mio buon amico Carías, sono uomini coraggiosi" assicurò il capitano Ariosto. "Conti anche su tutti i miei mezzi, stimato professor Leblanc. Dispongo di lance a motore e di una buona stazione radio" si associò Carías. "E conti su di me per i problemi sanitari o gli incidenti che si potrebbero verificare" aggiunse dolcemente la dottoressa Torres, come se si fosse dimenticata del rifiuto di Leblanc a farla partecipare alla spedizione. "Come le dicevo, signorina..." "Dottoressa" lo corresse lei di nuovo. "Come le dicevo, il budget di questa spedizione è limitato, non possiamo portare dei turisti" disse Leblanc con enfasi. "Non sono una turista. La spedizione non può proseguire senza un medico autorizzato e i vaccini necessari." "La dottoressa ha ragione. Il capitano Ariosto le spiegherà la legge" intervenne César, che conosceva la dottoressa ed era evidentemente attratto da lei. "Ehm, ehm, be'..., certamente..." farfugliò il militare guardando confuso Carías. "Non ci saranno problemi nell'inserire Omayra. Sosterrò io le spese" sorrise l'imprenditore mettendo un braccio intorno alle spalle della giovane dottoressa. "Grazie Mauro, ma non ce ne sarà bisogno. Le mie spese le sostiene il governo" disse lei scostandosi garbatamente. "Bene. Allora non c'è più niente da discutere. Speriamo di trovare la Bestia, altrimenti questo viaggio sarà stato inutile" commentò Timothy Bruce, il fotografo. "Abbia fiducia in me, giovanotto. Ho esperienza con questo tipo di animali e io stesso ho progettato delle trappole infallibili. Può vedere i modelli nel mio trattato sull'abominevole uomo dell'Himalaya" specificò il professore con una smorfia di soddisfazione, mentre faceva segno a Karakawe di sventagliare con maggior energia. "E alla fine riuscì a catturarlo?" chiese Alex con simulata innocenza, visto che conosceva perfettamente la risposta. "Non esiste, ragazzo. Quell'ipotetica creatura dell'Himalaya è un'invenzione. Magari lo è anche questa famosa Bestia." 41 "C'è gente che l'ha vista" argomentò Nadia. "Senz'altro gente ignorante, bambina" stabilì il professore. "Padre Valdomero non è un ignorante" precisò lei. "E chi sarebbe?" "Un missionario cattolico che venne rapito dai selvaggi e che da quel momento è impazzito" intervenne il capitano Ariosto. Parlava un inglese dal forte accento venezuelano e, siccome aveva sempre un sigaro tra i denti, non si capiva un granché delle sue parole. "Non fu rapito e non è pazzo!" esclamò Nadia. "Calmati, tesoro" sorrise Carías accarezzando i capelli di Nadia, che immediatamente si mise fuori della sua portata. "Effettivamente padre Valdomero è un vero saggio. Parla diverse lingue indigene, conosce la flora e la fauna dell'Amazzonia meglio di chiunque altro; ricompone fratture alle ossa, estrae denti e in un paio d'occasioni ha operato di cataratta con un bisturi che lui stesso ha fabbricato" aggiunse César. "Sì, ma non ha avuto successo nella lotta ai vizi a Santa María de la Lluvia o nell'evangelizzazione degli indios che, come vedete, vanno ancora in giro nudi" lo canzonò Carías. "Non credo che gli indios abbiano bisogno di essere cristianizzati" ribatté César. Spiegò che erano molto spirituali e che erano convinti che ogni cosa avesse un'anima; gli alberi, gli animali, i fiumi, le nuvole. Per loro spirito e materia non erano separati. Non comprendevano la semplicità della religione dei forestieri, dicevano che era la ripetizione di un'unica storia, mentre loro avevano molte storie di divinità, spiriti maligni, spiriti del Cielo e della Terra. Padre Valdomero aveva rinunciato a spiegare loro che Cristo era morto in croce per salvare l'umanità dal peccato, perché l'idea di un sacrificio simile lasciava gli indigeni sbalorditi. Non conoscevano il concetto di colpa. Come non capivano la necessità di indossare dei vestiti con quel clima o di accumulare dei beni se tanto, alla morte, non ci si poteva portare dietro niente all'altro mondo. "È un peccato che siano condannati a estinguersi. Sono il sogno di qualsiasi antropologo, vero professor Leblanc?" precisò Carías in tono beffardo. "Proprio così. Fortunatamente ho potuto scrivere di loro prima che il progresso li annoveri tra le sue vittime. Grazie a Ludovic Leblanc entreranno a far parte della storia" replicò il professore, perfettamente 42 scoppiò a ridere. Ad Alex sembrò che non avesse nemmeno un dente, ma vista la poca luce non poteva esserne certo. L'indio e Nadia si immersero in una lunga conversazione fatta di gesti e suoni in una lingua dalle parole dolci come la brezza, l'acqua e il canto degli uccelli. Visto che lo indicavano, immaginò che stessero parlando di lui. A un certo punto l'uomo si alzò e agitò molto irritato la sua corta lancia, ma una lunga spiegazione della ragazzina lo tranquillizzò. Infine, il vecchio si tolse dal collo un amuleto, un frammento di osso intagliato, se lo portò alle labbra e ci soffiò dentro. Il suono era lo stesso canto di civetta udito prima. Alex lo riconobbe perché nel Nord della California, vicino a casa sua, lo aveva sentito spesso. Lo strano vecchio appese l'amuleto al collo di Nadia, le appoggiò le mani sulle spalle in segno di commiato e subito sparì, con la stessa discrezione con cui era arrivato. Il ragazzo avrebbe potuto giurare di non averlo visto allontanarsi. Era semplicemente svanito. "Era Walimai" gli sussurrò Nadia in un orecchio. "Walimai?" chiese Alex, colpito dallo strano incontro. "Sssh! Non lo dire ad alta voce! Non bisogna mai pronunciare il nome vero di un indio in sua presenza, è tabù. Nemmeno i morti devono essere chiamati per nome, è un tabù ancora più severo, un'offesa terribile" spiegò Nadia. "Ma chi è?" "È uno sciamano, uno stregone molto potente. Si esprime attraverso suoni e visioni. Può visitare il mondo degli spiriti quando vuole. È l'unico a conoscere la strada per El Dorado." "El Dorado? La città d'oro inventata dai conquistadores? Ma è una leggenda senza fondamento!" protestò Alex. "Walimai ci è stato molte volte, con sua moglie. Si sposta sempre con lei" ribatté la ragazzina. "Io non l'ho vista" ammise Alex. "Si tratta di uno spirito. Non tutti possono vederla." "Perché, tu l'hai vista?" "Sì. È giovane e bellissima." "Cosa ti ha detto lo stregone? Di che cosa avete parlato?" chiese Alex. "Mi ha regalato un talismano. Con questo sarò sempre al sicuro. Nessuno, né persone, né animali, né fantasmi potranno mai farmi del male. Serve anche per chiamarlo; basta soffiarci dentro e lui arriverà. Fino a ora non potevo chiamarlo, dovevo aspettare che fosse lui a venire. Walimai dice che ne avrò bisogno per via del grande pericolo rappresentato dal 45 Rahakanariwa, il terribile spirito dell'uccello cannibale, che se ne va in giro libero. Quando fa la sua comparsa, arrivano anche morte e distruzione, ma io sarò protetta dal talismano." "Sei davvero strana..." sospirò Alex, che non credeva nemmeno alla metà di quanto aveva ascoltato. "Walimai dice che gli stranieri non devono andare in cerca della Bestia. Dice che qualcuno morirà. Io e te invece dobbiamo andare perché siamo stati chiamati e abbiamo l'anima bianca." "Chi ci ha chiamato?" "Non lo so, ma se lo dice Walimai, è vero." "Ma davvero credi a queste cose, Nadia? Credi agli stregoni, agli uccelli cannibali, all'El Dorado, alle mogli invisibili, alla Bestia?" Senza dare risposta, Nadia si girò e si incamminò verso il villaggio e Alex la seguì da vicino per non perdersi. 46 6. IL PIANO Quella notte il sonno di Alexander fu agitato. Si sentiva in balìa delle intemperie, come se le sottili pareti che lo separavano dalla foresta si fossero dissolte e lui si trovasse esposto a tutti i pericoli di quel mondo sconosciuto. L'albergo, costruito con tavolati appoggiati sui pali, aveva il tetto di zinco, finestre prive di vetri e a malapena proteggeva dalla pioggia. Il rumore di rospi e altri animali, proveniente dall'esterno, si aggiungeva al russare dei suoi compagni di stanza. La sua amaca si ribaltò un paio di volte, facendolo cadere a terra bocconi. Solo allora si ricordò come andava usata e si mise in diagonale per mantenere l'equilibrio. Non faceva caldo, ma Alex sudava. Rimase sveglio, al buio, per un bel po', protetto dalla zanzariera imbevuta di insetticida, pensando alla Bestia, alle tarantole, agli scorpioni, ai serpenti e agli altri pericoli che si annidavano nell'oscurità. Ripensò alla scena bizzarra a cui aveva assistito tra l'indio e Nadia. Lo sciamano aveva profetizzato che vari membri della spedizione sarebbero morti. Ad Alex sembrava incredibile che in pochi giorni la sua vita fosse cambiata in maniera così radicale; come gli aveva preannunciato la nonna, improvvisamente si trovava in un posto fantastico nel quale gli spiriti andavano a zonzo tra le persone in carne e ossa. La realtà si era deformata e lui non sapeva che cosa pensare. Sentì una profonda nostalgia della sua casa, della sua famiglia e anche di Poncho. Era molto solo e lontano dal suo mondo. Se almeno avesse potuto avere notizie di sua madre! Ma telefonare da quel villaggio a un ospedale del Texas era come provare a mettersi in contatto con Marte. Kate non era di grande compagnia o conforto. Come nonna lasciava molto a desiderare, non si prendeva nemmeno la briga di rispondere alle domande del nipote, sostenendo che si apprendono solo le cose verificabili di persona. Affermava che l'esperienza è ciò che si acquisisce soltanto dopo averne sentita la necessità. Si stava rigirando insonne nell'amaca, quando gli sembrò di sentire un brusio di voci. Non poteva che essere il rumore della foresta, ma decise di controllare. A piedi nudi e in mutande, si avvicinò con cautela all'amaca dove Nadia dormiva vicino a suo padre, sul lato opposto della stanza comune. Le chiuse la bocca con una mano e la chiamò bisbigliandole all'orecchio, stando attento a non svegliare gli altri. La ragazzina spalancò gli occhi, spaventata, ma quando lo riconobbe si calmò e scese dall'amaca 47 a staccarlo poco alla volta dalla gamba dell'amico e infine a tenerlo penzoloni in mano. Fece roteare il braccio preparandosi al lancio e scagliò il serpente oltre la ringhiera della terrazza, nell'oscurità. Subito dopo, con la massima tranquillità, si rimise la maglietta. "Era velenoso?" chiese impaurito il ragazzo, non appena ritrovò la voce. "Sì, credo che fosse un surucucú, ma non era molto grosso. Aveva la bocca piccola e non era in grado di aprire più di tanto le mandibole. Al massimo, avrebbe potuto morderti un dito ma non la gamba" spiegò Nadia. Poi gli tradusse la conversazione tra Carías e Ariosto. "Che piano avranno quei criminali? Cosa possiamo fare?" chiese Nadia. "Non lo so. L'unica cosa che mi viene in mente è di dirlo subito alla nonna, ma non so se mi crederà; dice che sono paranoico e che vedo nemici da tutte le parti..." rispose il ragazzo. "Per il momento possiamo solo aspettare e stare all'erta, Alex" suggerì lei. I ragazzi tornarono alle amache. Alex, stanco morto, si addormentò di botto e si svegliò all'alba per gli urli assordanti delle scimmie. Aveva una tale fame che avrebbe mangiato persino le crêpe di suo padre, ma non c'era nulla da mettere sotto i denti e dovette aspettare un paio d'ore finché tutti furono pronti per la prima colazione. Gli offrirono caffè nero, birra tiepida e gli avanzi del tapiro della sera prima. Rifiutò tutto, schifato. Non aveva mai visto un tapiro, ma se lo immaginava come una specie di topone; qualche giorno dopo sarebbe invece rimasto sorpreso nel constatare che in genere i tapiri pesano più di cento chili, sono simili ai maiali e che la loro carne è molto gustosa. Addentò una banana, ma era amara e gli lasciò un cattivo sapore in bocca. Solo dopo venne a sapere che le banane di quel tipo dovevano essere cotte. Nadia, che era uscita presto per andare a fare il bagno nel fiume con le altre ragazzine, tornò con un fiore nuovo a un orecchio, la piuma verde del giorno prima nell'altro, Borobá abbarbicata al collo e mezzo ananas in mano. Alex aveva letto che nei paesi tropicali gli unici frutti sicuri sono quelli che uno si pela da sé, ma pensò che rischiare di contrarre il tifo era meglio che morire di fame. Riconoscente, accettò l'ananas che la ragazzina gli offriva e lo divorò. César Santos, la guida, arrivò qualche istante dopo, lavato di fresco come la figlia, per invitare i membri della spedizione, accaldati e sudaticci, a fare un tuffo nel fiume. Tutti lo seguirono, tranne il professor Leblanc, che ordinò a Karakawe di andargli a prendere dei secchi d'acqua con cui 50 lavarsi sulla terrazza: l'idea di nuotare in compagnia di una manta, infatti, non lo attirava minimamente. Alcune misuravano quanto un grande tappeto e le loro potenti code non solo erano affilate come seghe, ma sprigionavano anche del veleno. Alex pensò che dopo l'esperienza della notte prima con il serpente non si sarebbe certo tirato indietro di fronte all'eventualità di imbattersi in un pesce, per quanto cattiva fosse la sua fama. Senza esitare si tuffò di testa. "Se una manta ti attacca, vuol dire che questo fiume non è per te" fu l'unico commento della nonna, che si allontanò con le altre donne per fare il bagno da un'altra parte. "Le mante sono timide e vivono sul fondo del fiume. In genere scappano quando percepiscono del movimento in acqua, ma è comunque meglio camminare trascinando i piedi per non calpestarle" gli spiegò César. Il bagno fu una vera delizia e il ragazzo ne uscì fresco e pulito. 51 7. IL GIAGUARO NERO Prima di partire, i membri della spedizione furono invitati all'accampamento di Mauro Carías. La dottoressa Torres si scusò spiegando che doveva occuparsi del rientro a Manaus in elicottero militare dei due giovani mormoni, le cui condizioni di salute erano peggiorate. L'accampamento era composto da vari rimorchi, trasportati con gli elicotteri e disposti in cerchio in una radura, a un miglio da Santa María de la Lluvia. Rispetto alle casupole dal tetto di zinco del villaggio, lì regnava il lusso: c'erano, infatti, un generatore di corrente, un'antenna radio e pannelli per l'energia solare. Carías aveva postazioni simili in molti punti strategici dell'Amazzonia per controllare i suoi numerosi affari, che andavano dallo sfruttamento del legno a quello delle miniere d'oro, ma non viveva da quelle parti. Si diceva che avesse case principesche a Caracas, Rio de Janeiro e Miami e che in ognuna lo aspettasse una moglie. Per gli spostamenti utilizzava non solo il suo jet e l'aereo da turismo, ma anche i mezzi dell'esercito, messigli a disposizione dai generali suoi amici. A Santa María de la Lluvia non c'era un aeroporto in cui far atterrare il suo jet e quindi veniva buono il bimotore, un'autentica meraviglia in confronto al piccolo aereo di César, un uccello decrepito di latta tutta arrugginita. Kate rimase colpita dal fatto che l'accampamento, sorvegliato da numerosi guardiani, fosse recintato da fili di ferro ad alta tensione. "Che diavolo nasconderà qui quest'uomo per avere una vigilanza del genere?" commentò con il nipote. Carías faceva parte dei pochi avventurieri che si erano arricchiti in Amazzonia. Migliaia di garimpeiros, cercatori d'oro e di diamanti, si spingevano a piedi o in canoa nella foresta, alla ricerca di miniere o giacimenti, aprendosi il varco a colpi di machete, per finire divorati da formiche, sanguisughe e zanzare. Molti morivano di malaria, altri di fame o di solitudine; i loro corpi marcivano in tombe anonime o venivano mangiati dagli animali. Si diceva che la fortuna di Carías fosse iniziata con le galline: le lasciava libere nella foresta e poi con un coltellaccio tagliava loro lo stomaco per estrarne le pepite che le poverette avevano ingurgitato. Ma questa, come tante altre chiacchiere che circolavano sul suo passato, era una frottola, perché in effetti l'oro non si trovava certo seminato come mais per 52 "I giaguari neri sono gli animali più pericolosi del Sudamerica. Niente li fa indietreggiare, sono creature coraggiose" disse Carías. "Se lo ammira tanto, perché non lo lascia libero? Questa povera bestia preferirebbe morire piuttosto che vivere in gabbia" affermò César. "Liberarlo? Ma nemmeno per sogno, amico! Ho un piccolo zoo nella mia casa di Rio de Janeiro. Sono in attesa di una gabbia adeguata per poterlo trasferire là." Alex, quasi in trance, si diresse verso la gabbia, attratto dalla visione del grande felino. La nonna gli urlò un avvertimento, ma il ragazzo non lo sentì e continuò ad avanzare fino a toccare con le mani il recinto che lo separava dall'animale. Il giaguaro si arrestò, emise un fortissimo ruggito e fissò Alex con i suoi occhi gialli. Era immobile, i muscoli in tensione, il pelo corvino palpitante. Il ragazzo si tolse gli occhiali, che portava da quando aveva sette anni, e li lasciò cadere a terra. Erano talmente vicini, lui e il giaguaro, che poteva distinguere ogni singola macchiolina gialla nelle pupille dell'animale, mentre i loro occhi erano impegnati in una conversazione silenziosa. Tutto il resto non esisteva più: erano soli, uno di fronte all'altro, in una pianura dorata con intorno altissime torri nere, sotto un cielo bianco nel quale nuotavano sei lune trasparenti simili a meduse. Vide il felino spalancare le fauci e mostrare i suoi enormi denti di perla e sentì una voce umana, ma che sembrava giungere dalle profondità di una caverna, pronunciare il suo nome: Alexander. E Alex gli rispose con la sua voce, che ora aveva assunto un suono cavernoso: Giaguaro. L'animale e il ragazzo ripeterono tre volte le parole, Alexander, Giaguaro, Alexander, Giaguaro, Alexander, Giaguaro e poi la sabbia della pianura diventò fosforescente, il cielo si fece scuro e le sei lune cominciarono a girare nelle loro orbite e a spostarsi come lente comete. Nel frattempo, Carías aveva impartito un ordine e uno dei suoi uomini trascinò una scimmia tirandola per una corda. Alla vista del giaguaro, la scimmia ebbe una reazione simile a quella di Borobá, iniziò a strillare e ad agitarsi all'impazzata, ma non riuscì a liberarsi. Carías la prese per il collo e, prima ancora che qualcuno potesse indovinare le sue intenzioni, aprì la gabbia con un solo movimento preciso e vi buttò dentro l'atterrito animaletto. I fotografi, colti di sorpresa, quasi dimenticarono di avere in mano la macchina fotografica. Leblanc seguiva affascinato tutti i movimenti della povera scimmia, che si arrampicava sul recinto cercando una via di fuga, e quelli del giaguaro che, acquattato, la seguiva con gli occhi preparandosi a 55 spiccare il salto. Senza pensare a quello che faceva, Alex si mise a correre, calpestando e mandando in frantumi gli occhiali rimasti per terra. Si avventò sulla porta della gabbia, deciso a salvare entrambi gli animali, la scimmia da una morte sicura e il giaguaro dalla sua prigione. Vedendo il nipote aprire la gabbia, anche Kate si precipitò, ma prima che potesse raggiungerlo due uomini di Carías lo avevano già preso per le braccia e lo trattenevano con forza. Era successo tutto tanto rapidamente che Alex non riuscì a ricordare la sequenza dei fatti. Con una zampata il giaguaro atterrò la scimmia e la fece a pezzi con un solo morso delle sue terribili mandibole. Il sangue schizzò in tutte le direzioni. Nello stesso istante, César estrasse la pistola dalla cintura e colpì la fiera in fronte con un tiro preciso. Alex sentì l'impatto, come se il proiettile fosse finito tra i suoi occhi e sarebbe caduto all'indietro se le guardie di Carías non lo avessero trattenuto per le braccia, prendendolo al volo. "Ma cosa hai fatto, maledetto?" esplose l'imprenditore, sfoderando a sua volta la pistola e girandosi verso César. Le guardie mollarono Alex, che perse l'equilibrio e cadde al suolo, per occuparsi della guida, ma non osarono toccarlo poiché impugnava ancora la pistola fumante. "Gli ho ridato la libertà" rispose César con una calma sorprendente. Carías fece uno sforzo enorme per controllarsi. Capì che non poteva ingaggiare un duello davanti alla giornalista e a Leblanc. "Calma!" ordinò alle guardie. "Lo ha ucciso! Lo ha ucciso!" ripeteva Leblanc, rosso dall'eccitazione. La morte della scimmia e poi quella del felino gli avevano messo addosso la frenesia, e si comportava come un ubriaco. "Non si preoccupi, professor Leblanc, posso avere tutti gli animali che voglio. Mi scusino, temo che lo spettacolo non fosse adatto agli animi sensibili" disse Carías. Kate aiutò il nipote ad alzarsi e poi, per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente, prese César per un braccio e lo accompagnò verso l'uscita. La guida si lasciò condurre dalla giornalista e si allontanarono, seguiti da Alex. Appena fuori, incontrarono Nadia con la scimmietta spaventata che le si era abbarbicata alla vita. Alex cercò di spiegare a Nadia quello che era successo tra lui e il giaguaro prima che Carías buttasse la scimmia nella gabbia, ma aveva la mente molto confusa. Era stata un'esperienza così reale che il ragazzo 56 avrebbe potuto giurare che per qualche minuto si era trovato in un'altra dimensione, in un mondo di sabbie splendenti e con sei lune che si muovevano nel firmamento, un mondo dove lui e il giaguaro si erano fusi in un'unica voce. Sebbene gli mancassero le parole per raccontare all'amica quello che aveva vissuto, gli sembrò che lei capisse senza bisogno di dettagli. "Il giaguaro ti ha riconosciuto, perché è il tuo animale totemico" gli disse. "Tutti abbiamo lo spirito di un animale che ci accompagna. È come la nostra anima. Non tutti incontrano il proprio animale, solo i grandi guerrieri e gli sciamani, ma tu lo hai scoperto senza andarlo a cercare. Il tuo nome è Giaguaro" disse Nadia. "Giaguaro?" "Alexander è il nome che ti hanno dato i tuoi genitori. Giaguaro è il tuo vero nome, ma per farne uso devi possedere la natura del giaguaro." "E com'è la sua natura? Crudele e sanguinaria?" domandò Alex, pensando alle fauci che avevano sbranato la scimmia nella gabbia di Carías. "Gli animali non sono crudeli come gli uomini: uccidono solo per difendersi o quando hanno fame." "Anche tu hai un animale totemico, Nadia?" "Sì, ma non mi è stato ancora rivelato. Per noi donne incontrare l'animale è meno importante perché noi prendiamo la forza dalla terra. Noi siamo la natura" disse lei. "Come fai a sapere tutte queste cose?" chiese Alex, che ormai nutriva meno dubbi sulle affermazioni della nuova amica. "Me le ha insegnate Walimai." "Lo sciamano è tuo amico?" "Sì, Giaguaro, ma nessuno sa che parlo con lui, non l'ho detto nemmeno a mio padre." "Perché?" "Perché Walimai preferisce la solitudine. L'unica compagnia che tollera è quella dello spirito di sua moglie. A volte si reca in qualche shabono, la grande capanna in cui vive tutta una tribù, per curare una malattia o per partecipare a una cerimonia in onore dei morti, ma non compare mai davanti ai nahab." "Nahab?" "I forestieri." "Ma tu sei forestiera, Nadia." 57 bagaglio. Disse che era pronta a imbarcarsi. Aveva avvertito suo padre che non aveva la minima intenzione di restare a Santa María de la Lluvia con le suore dell'ospedale, come era successo in passato, perché Carías era lì in zona e non le piaceva per niente il modo in cui lui la guardava e provava a toccarla. Aveva paura dell'uomo che "aveva il cuore in una valigetta". Il professar Leblanc montò su tutte le furie. Già prima si era lamentato della presenza del nipote di Kate ma, giacché era impensabile rispedirlo negli Stati Uniti, aveva deciso di tollerarlo; ma ora non era assolutamente disposto a permettere che si aggregasse anche la figlia della guida. "Non è un asilo, è una spedizione scientifica ad alto rischio, gli occhi del mondo sono puntati su Ludovic Leblanc" aggiunse furioso. Siccome nessuno gli fece caso, si rifiutò di salire a bordo. Senza di lui non potevano partire; solo l'immenso prestigio del suo nome costituiva una garanzia per l'"International Geographic", sostenne. César tentò di convincerlo del fatto che sua figlia era sempre andata con lui e che non sarebbe stata di alcun disturbo, anzi, poteva essere di grande aiuto visto che parlava vari dialetti degli indios. Ma il professore fu irremovibile. Dopo mezz'ora, la temperatura era insopportabile, l'umidità trasudava da tutte le superfici e gli animi erano bollenti come il clima. A quel punto intervenne Kate. "Anch'io soffro di mal di schiena, professore. Ho bisogno di un'assistente personale. Ho assunto Nadia Santos per il trasporto dei miei quaderni e perché mi sventagli con una foglia di banano" disse. Tutti scoppiarono a ridere. La ragazzina salì serissima a bordo e si sedette accanto alla giornalista. La scimmia le si sistemò in grembo e da lì cominciò a tirare fuori la lingua e a fare boccacce al professor Leblanc, che nel frattempo si era imbarcato, tutto rosso per l'indignazione. 60 8. LA SPEDIZIONE Di nuovo, il gruppo stava risalendo il fiume. Questa volta erano in tredici adulti e due ragazzi, distribuiti su due lance a motore che Carías aveva messo a disposizione del professor Leblanc. Alex attese il momento giusto per prendere da parte la nonna e raccontarle della conversazione misteriosa tra Mauro Carías e il capitano Ariosto che Nadia gli aveva tradotto. Kate ascoltò con attenzione e non mostrò alcun segno di incredulità, come aveva temuto il nipote, anzi, era interessatissima. "Carías non mi piace. Con quale piano intende sterminare gli indios?" chiese. "Non lo so." "L'unica, per adesso, è aspettare e stare con gli occhi aperti" decise la giornalista. "Nadia ha detto lo stesso." "Quella ragazzina dovrebbe essere mia nipote, Alexander." Il viaggio sul fiume era simile a quello intrapreso da Manaus a Santa María de la Lluvia, ma il paesaggio era cambiato. Ormai Alex aveva deciso di fare come Nadia: invece di ingaggiare una lotta contro le zanzare inzuppandosi di insetticida, lasciava che lo pungessero, vincendo la tentazione di grattarsi. Si tolse anche gli stivali quando constatò che erano sempre bagnati e che le sanguisughe lo attaccavano comunque. La prima volta non se n'era reso conto finché sua nonna non gli aveva indicato i piedi: aveva i calzini insanguinati. Se li era tolti e aveva visto quelle bestie schifose appiccicate alla pelle, gonfie di sangue. "Non ti fanno male perché iniettano un anestetico prima di succhiare il sangue" aveva spiegato César. Poi gli aveva insegnato a staccare le sanguisughe bruciandole con una sigaretta, per evitare che i denti restassero incastrati sotto pelle provocando un'infezione. Non era un metodo semplicissimo per Alex, visto che non fumava, ma aveva scoperto che un po' di tabacco caldo della pipa di sua nonna sortiva lo stesso effetto. Era più facile farle fuori che vivere nell'angoscia di evitarle. Fin dall'inizio, Alex ebbe l'impressione che tra gli adulti della spedizione la tensione fosse palpabile: nessuno si fidava di nessuno. E non riusciva nemmeno a liberarsi della sensazione di essere spiato, che mille occhi 61 stessero osservando tutti i movimenti delle lance. Spesso si guardava alle spalle, ma sul fiume non c'era anima viva. I cinque soldati erano caboclo, originari della regione; Matuwe, la guida assunta da César, era indigeno e avrebbe fatto da interprete con le tribù. L'altro indio era Karakawe, l'assistente di Leblanc. Stando alla dottoressa Torres, Karakawe non si comportava più come gli altri indios e con ogni probabilità non sarebbe mai più stato in grado di vivere con la sua tribù. Gli indios avevano tutto in comune, tranne qualche arma o qualche arnese rudimentale che ognuno poteva portarsi appresso. Ogni tribù aveva uno shabono, un'enorme capanna comune dalla forma circolare e dal tetto di paglia, che dava su uno spiazzo interno. Vivevano tutti insieme, condividendo ogni momento della giornata, dai pasti all'educazione dei piccoli. Il contatto con gli stranieri stava però sterminando le tribù: gli indios venivano contagiati dalle malattie del corpo, ma soprattutto da quelle dell'anima. Non appena venivano a contatto con un machete, un coltello o qualsiasi altro attrezzo metallico, la loro vita cambiava per sempre. Con un solo machete potevano moltiplicare per mille la produzione dei piccoli orti coltivati a manioca e mais. Con un coltello in mano, qualsiasi guerriero si sentiva un dio. Gli indios provavano nei confronti dell'acciaio la stessa ossessione che gli stranieri avevano per l'oro. Karakawe aveva superato la fase del machete ed era nel pieno di quella delle armi da fuoco e, infatti, non si separava mai dalla sua vecchissima pistola. Chi, come lui, pensava più a se stesso che alla comunità, non aveva posto nella tribù. L'individualismo era visto come una forma di follia, come l'essere posseduti da uno spirito maligno. Karakawe era un uomo cupo e silenzioso, rispondeva con una o due parole solo quando gli veniva posta una domanda a cui non poteva sfuggire; non era a suo agio né con gli stranieri, né con i caboclo e tanto meno con gli indios. Serviva il professor Leblanc di malavoglia e, quando doveva rivolgersi all'antropologo, nei suoi occhi si vedeva brillare odio puro. Non mangiava con gli altri, non toccava una goccia di alcol e si separava dal gruppo quando si accampavano per dormire. Nadia e Alex una volta lo sorpresero a frugare tra le cose della dottoressa Torres. "Una tarantola" fu la sua spiegazione. I ragazzi decisero di tenerlo sotto controllo. A mano a mano che il viaggio proseguiva, la navigazione si faceva più difficoltosa poiché il fiume si restringeva, formando rapide che rischiavano 62 confessarselo, poiché ciò che non si nomina è come se non esistesse, sorvegliavano la natura. Il professor Leblanc passava le giornate osservando le rive del fiume con il binocolo; la tensione lo aveva reso ancor più sgradevole. Gli unici a non esser stati contagiati dal nervosismo collettivo erano Kate e l'inglese Timothy Bruce. I due avevano già lavorato insieme in molte occasioni, avevano girato mezzo mondo per i loro reportage di viaggio, si erano ritrovati in mezzo a varie guerre e rivoluzioni, avevano scalato montagne ed erano scesi negli abissi marini: ben poche cose avrebbero potuto turbare il loro sonno. Inoltre amavano ostentare indifferenza. "Non ti sembra che siamo sorvegliati, Kate?" domandò Alex. "Sì." "Non hai paura?" "Ci sono molti modi di superare la paura, Alexander. Tutti inutili" gli rispose lei. Aveva appena pronunciato queste parole, quando uno dei soldati a bordo della lancia cadde a terra ai suoi piedi senza emettere nemmeno un grido. Kate si chinò sull'uomo, senza capire lì per lì che cosa fosse successo, finché vide una specie di lunga spina conficcata nel petto. Capì che era morto all'istante: la spina era passata esattamente tra le costole e gli aveva trafitto il cuore. Alex e Kate diedero l'allarme a tutto l'equipaggio che non si era accorto di nulla, tanto silenzioso era stato l'attacco. Un attimo dopo, mezza dozzina di pistole fecero fuoco contro la boscaglia. Quando sparirono il fragore, la polvere e il nugolo in fuga degli uccelli, che avevano coperto il cielo, videro che tutto nella foresta era rimasto immobile. Chi aveva tirato il dardo mortale era ancora nascosto, acquattato e silenzioso. Con uno strappo, César estrasse la freccia dal cadavere: era lunga circa un piede, rigida come l'acciaio. La guida diede ordine di proseguire a tutta velocità, perché in quel tratto il fiume era stretto e le imbarcazioni sarebbero state un facile bersaglio per gli aggressori. Non si fermarono che due ore dopo, quando egli ritenne cessato il pericolo. A quel punto poterono esaminare il dardo, decorato con strani segni rossi e neri, che nessuno era in grado di decifrare. Karakawe e Matuwe giurarono che non li avevano mai visti e che non appartenevano alle loro tribù o ad altre che conoscevano, ma affermarono che tutti gli indios della regione usavano la cerbottana. La dottoressa Torres spiegò che, se la freccia non avesse raggiunto il cuore dell'uomo con quella precisione stupefacente, ne avrebbe comunque provocato il decesso nel 65 giro di pochi minuti; sarebbe stata una morte più dolorosa, perché la punta era impregnata di curaro, un veleno mortale usato dagli indios per la caccia e la guerra e contro il quale non esisteva alcun antidoto. "È inammissibile! La freccia avrebbe potuto colpire me!" protestò Leblanc. "Ovvio" ammise César. "È tutta colpa sua!" aggiunse il professore. "Mia?" ripeté César, confuso dalla piega assurda che stava prendendo la faccenda. "Lei è la guida! È responsabile della nostra sicurezza, la paghiamo per questo!" "La nostra non è esattamente una gita turistica, professore" ribatté César. "Invertiamo la rotta e torniamo indietro all'istante. Si rende conto di che perdita sarebbe per il mondo delle scienze se succedesse qualche cosa a Ludovic Leblanc?" domandò il professore. Sconcertati, i membri della spedizione restarono in silenzio. Nessuno sapeva cosa dire, finché intervenne Kate. "Mi è stato commissionato un articolo sulla Bestia e intendo scriverlo, con o senza frecce avvelenate, professore. Se lei desidera tornare indietro, può farlo a piedi o a nuoto, come preferisce. Noi continueremo, come stabilito" affermò. "Vecchia insolente, come osa...?!" si mise a urlare il professore. "Non mi manchi di rispetto, omuncolo" lo interruppe la giornalista con freddezza, afferrandolo per la camicia e immobilizzandolo con lo sguardo dei suoi feroci occhi azzurri. Alex immaginò che l'antropologo avrebbe mollato uno schiaffo alla nonna e si avvicinò per difenderla, ma non fu necessario. Come per magia, lo sguardo di Kate riuscì a calmare i bollenti spiriti dell'irascibile Leblanc. "Cosa facciamo del corpo di questo poveretto?" domandò la dottoressa, indicando il cadavere. "Non possiamo portarcelo dietro, Omayra, sai che con questo clima la decomposizione è rapidissima. Credo che l'unica sia buttarlo nel fiume..." suggerì César. "Il suo spirito si arrabbierebbe e ci inseguirebbe per ucciderci" intervenne Matuwe, atterrito. "Allora faremo come gli indios, quando sono costretti a rimandare una cremazione: lo esporremo in modo che gli uccelli e gli altri animali possano approfittare dei suoi resti" decise César. 66 "Senza una cerimonia come si deve?" insistette Matuwe. "Non ne abbiamo il tempo. Un funerale adeguato durerebbe alcuni giorni. Oltretutto quest'uomo era cristiano" spiegò César. Alla fine decisero di avvolgerlo in un telo e di collocarlo su una piccola piattaforma di cortecce che appesero a un albero. Kate, che non era religiosa ma aveva buona memoria e ricordava le preghiere della sua infanzia, improvvisò un breve rito cristiano. Timothy Bruce e Joel González filmarono e fotografarono il corpo e il funerale, a testimonianza degli eventi. César intagliò delle croci sugli alberi della riva e indicò con la maggior precisione possibile il punto sulla cartina, in modo da riconoscerlo al ritorno e poter cercare le ossa da consegnare alla famiglia del defunto, a Santa María de la Lluvia. A partire da quel momento il viaggio andò di male in peggio. La vegetazione diventava sempre più folta e la luce del sole li raggiungeva solo se navigavano nel centro del fiume. Erano così pigiati e scomodi che non riuscivano a dormire sulle barche e quindi, nonostante il pericolo rappresentato dagli indios e dagli animali selvatici, era necessario accamparsi sulla riva. César distribuiva i viveri, organizzava le partite di caccia e di pesca e stabiliva i turni di guardia degli uomini durante la notte. Escluse il professor Leblanc, perché era evidente che gli saltavano i nervi a ogni minimo rumore. Kate e la dottoressa Torres vollero a tutti i costi far parte dei turni di sorveglianza, perché esserne esentate in quanto donne parve loro un insulto. Allora anche i due ragazzi pretesero di venire coinvolti, se non altro perché volevano tenere sotto controllo Karakawe: lo avevano visto mettersi in tasca manciate di proiettili e girare intorno all'impianto radio grazie al quale César riusciva con gran difficoltà a mettersi in contatto con l'operatore di Santa María de la Lluvia per comunicargli la loro posizione. La cupola vegetale della foresta infatti faceva da schermo, impedendo il passaggio delle onde radio. "Cosa sarà peggio, gli indios o la Bestia?" chiese scherzosamente Alex al professor Leblanc. "Gli indios, ragazzo. Sono cannibali, non mangiano solo i nemici, ma pure i loro stessi morti" rispose con enfasi il professore. "Davvero? Questa non l'avevo ancora sentita" ironizzò la dottoressa Torres. "Legga il mio libro, signorina." "Dottoressa" lo corresse lei per l'ennesima volta. 67 ormoni erano impazziti e non lo lasciavano in pace. L'adolescenza era una bella grana, la peggiore di tutte, concluse il ragazzo. Avrebbero dovuto inventare una macchina a raggi laser in cui uno si infilava per un minuto e paf!, all'uscita si ritrovava già adulto. Dentro lo agitava un uragano: a volte si sentiva euforico, il re del mondo, pronto ad affrontare un leone a mani nude; mentre in altre occasioni era solo un bambinetto. Da quando era cominciato questo viaggio, però, non aveva più fatto caso agli ormoni, e non aveva nemmeno avuto il tempo di domandarsi se valeva la pena continuare a vivere, dubbio che normalmente lo assaliva almeno una volta al giorno. Ora poteva mettere a confronto il corpo di sua nonna, secco e nodoso, dalla pelle rugosa, con le forme morbide e dorate della dottoressa Torres, che indossava un discreto costume da bagno nero, e la grazia ancora infantile di Nadia. Osservò come il corpo cambia nel corso della vita e giunse alla conclusione che tutte e tre le donne erano, ciascuna a suo modo, belle. Arrossì all'idea. Due settimane prima non gli sarebbe mai venuto in mente di poter considerare attraente sua nonna. Gli ormoni gli stavano forse friggendo il cervello? Un urlo spaventoso strappò Alex dalle sue speculazioni filosofiche. A gridare era Joel González, uno dei fotografi, che si stava dibattendo disperatamente vicino alla riva. All'inizio nessuno capì cosa stava succedendo, videro solo le braccia dell'uomo agitarsi nell'acqua e la testa che andava sotto e poi riemergeva in superficie. Alex, che faceva parte della squadra di nuoto della scuola, con due o tre bracciate fu il primo a raggiungerlo. Avvicinandosi, vide con orrore che un serpente grosso come una manichetta dei pompieri piena d'acqua si era arrotolato intorno al corpo del fotografo. Alex prese Joel per un braccio e cercò di trascinarlo fino a riva, ma l'uomo e il serpente erano troppo pesanti per lui. Con entrambe le mani provò a staccare la bestia, ma gli anelli del rettile stringevano sempre più forte la vittima. Rabbrividendo, pensò al surucucú che gli si era avvinghiato alla gamba qualche notte prima. Questo era mille volte peggio. Il fotografo non si dibatteva e non gridava più, era già incosciente. "Papà, papà! Un anaconda!" urlò Nadia, unendo le sue grida a quelle di Alex. A quel punto Kate, Timothy Bruce e due dei soldati erano già tutti lì a lottare con l'enorme serpente per staccarlo dal corpo del povero Joel. Nel combattimento, il fango sul fondo della laguna si era smosso e l'acqua era diventata scura e densa come cioccolata. In tutta quella confusione non si 70 capiva cosa stesse succedendo, ognuno tirava dalla sua parte e gridava istruzioni, senza risultato. Tutto sembrava inutile, quando alla fine arrivò César armato del coltello con cui stava squartando il cervo. La guida non si arrischiò a colpire alla cieca, nel timore di ferire Joel o qualcun altro; aspettò il momento in cui la testa dell'anaconda emerse brevemente dal fango per decapitarla con un taglio netto. L'acqua si riempì di sangue, diventando color della ruggine. Ci vollero cinque minuti per liberare il fotografo perché gli anelli costrittori continuavano a tenerlo avvinghiato. Trascinarono Joel, rigido come un morto, fino a riva. Il professor Leblanc si era agitato a tal punto che da un luogo sicuro continuò a sparare in aria, contribuendo allo scompiglio generale, fino a quando Kate non gli strappò la pistola e gli ordinò di piantarla. Mentre gli altri lottavano nell'acqua contro l'anaconda, la dottoressa Torres era tornata alla lancia per prendere la sua valigetta e ora era inginocchiata con una siringa in mano vicino all'uomo privo di sensi. Si muoveva in silenzio e con calma, come se l'attacco di un anaconda fosse la cosa più normale del mondo. Iniettò a Joel una dose di adrenalina e, assicuratasi che respirasse, cominciò a visitarlo. "Ha diverse costole rotte ed è in stato di choc" disse. "Speriamo che i polmoni non siano stati perforati da un osso e che non abbia il collo fratturato. Bisogna immobilizzarlo." "Come possiamo fare?" chiese César. "Gli indios usano cortecce, fango e liane" rispose Nadia, che stava ancora tremando per lo spavento. "Giusto" approvò la dottoressa. La guida diede le istruzioni necessarie e nel giro di poco tempo la dottoressa, aiutata da Kate e Nadia, aveva avvolto il busto del ferito in panni imbevuti di fango e coperti da pezzi di corteccia, poi aveva legato il tutto con delle liane. Una volta seccatosi il fango, quell'impacchettamento rudimentale avrebbe svolto la stessa funzione di un busto ortopedico. Joel, intontito e dolorante, non era ancora in grado di capire l'accaduto, ma era tornato in sé e riusciva ad articolare alcune parole. "Dobbiamo portare immediatamente Joel a Santa María de la Lluvia. Da lì potranno trasferirlo con l'aereo di Mauro Carías in un ospedale" decise la dottoressa. "Che inconveniente disastroso! Abbiamo solo due lance. Non possiamo farne tornare indietro una" si oppose il professor Leblanc. 71 "Cosa? Ieri voleva una lancia per scappare e adesso non ne vuole mettere una a disposizione del mio amico gravemente ferito?" chiese Timothy Bruce trattenendo a stento l'ira. "Senza cure adeguate, Joel rischia di morire" spiegò la dottoressa. "Non esageri, buona donna. Quest'uomo non è grave, è soltanto spaventato. Un po' di riposo lo rimetterà in sesto nel giro di qualche giorno" assicurò Leblanc. "Gentilissimo da parte sua, professore" sibilò Timothy Bruce stringendo i pugni. "Ora basta, signori! Domani prenderemo una decisione. Ormai è troppo tardi per rimetterci in viaggio, presto sarà buio. Ci accampiamo qua" decise César. La dottoressa Torres ordinò che si facesse un fuoco accanto al ferito per tenerlo al caldo e all'asciutto durante la notte, dato che la temperatura scendeva notevolmente. Per aiutarlo a sopportare il dolore, gli diede della morfina e un antibiotico per prevenire eventuali infezioni. In una bottiglia mescolò dell'acqua con un po' di sale e disse a Timothy Bruce di farla bere all'amico a cucchiaini per evitare che si disidratasse, visto che con ogni probabilità non sarebbe stato in grado di mangiare per qualche giorno. Il fotografo inglese, che difficilmente modificava la sua espressione da cavallo abulico, era davvero preoccupato e ubbidì agli ordini con una sollecitudine quasi materna. Persino l'astioso e irritabile professor Leblanc dovette ammettere tra sé e sé che la presenza della dottoressa era indispensabile in un'avventura come quella. Nel frattempo, tre dei soldati rimasti e Karakawe avevano trascinato a riva il corpo dell'anaconda. Quando lo misurarono, videro che era lungo quasi sei metri. Il professor Leblanc volle essere fotografato con l'anaconda intorno al collo, messo in modo che non si vedesse che gli mancava la testa. Poi i soldati gli levarono la pelle, che inchiodarono a un tronco per farla seccare; grazie a questo metodo sarebbero riusciti a farla allungare del venti per cento e i turisti avrebbero pagato bene per averla. Tuttavia, non ci fu bisogno di portarla fino in città perché il professor Leblanc si offrì di comprarla seduta stante, quando si fu rassegnato all'evidenza che non gliela avrebbero mai regalata. Kate sussurrò scherzosa all'orecchio del nipote che nel giro di qualche settimana l'antropologo l'avrebbe certamente esibita come trofeo durante le sue conferenze, raccontando di come aveva ucciso l'anaconda con le sue mani. Aveva guadagnato in questo modo la fama di eroe tra gli studenti di 72 9. IL POPOLO DELLA NEBBIA Quella notte appesero le amache agli alberi e César assegnò turni di due ore ciascuno per stare di guardia e tenere acceso il fuoco. Dalla morte del soldato ucciso dalla freccia e dall'incidente di Joel González, restavano, per coprire le otto ore di buio, dieci adulti e due ragazzi, dato che Leblanc non contava. Il professore si considerava capo della spedizione e in quanto tale doveva essere "sempre riposato"; se avesse saltato qualche ora di sonno, non avrebbe avuto la lucidità necessaria per prendere tutte le decisioni, spiegò. Gli altri ne furono felici, visto che davvero nessuno avrebbe voluto montare la guardia in compagnia di uno che andava in confusione davanti a uno scoiattolo. Il primo turno, certamente il più facile perché erano tutti svegli e non faceva ancora molto freddo, fu assegnato alla dottoressa Torres, a un caboclo e a Timothy Bruce, che non riusciva a consolarsi per quello che era successo al collega. Timothy e Joel avevano lavorato insieme per lunghi anni e si volevano bene come fratelli. Il secondo turno sarebbe stato di un altro soldato, Alex e Kate; il terzo, di Matuwe, César e sua figlia Nadia. Gli altri due soldati e Karakawe avrebbero coperto quello dell'alba. Per tutti fu difficile prendere sonno perché i lamenti del povero Joel si aggiungevano all'odore strano e persistente che sembrava impregnare tutta la foresta. Avevano sentito parlare del fetore, come si diceva, tipico della Bestia. César spiegò che probabilmente si erano accampati non lontano da una famiglia di iraras, una specie di donnola dal musetto molto dolce, ma dall'odore simile a quello delle moffette. L'ipotesi della guida non tranquillizzò comunque nessuno. "Mi gira la testa e ho la nausea" disse Alex, pallido. "Se l'odore non ti ammazza, ti renderà più forte" affermò Kate, l'unica a restare impassibile a quel tanfo. "Ma è spaventoso!" "Diciamo che è particolare. La percezione sensoriale cambia da persona a persona, Alexander. Quello che a te fa schifo, può piacere a un altro. Chissà, magari la Bestia emette questo odore come canto d'amore per richiamare la sua compagna" sorrise la nonna. "Bleah! Sa di topo morto mischiato a pipì di elefante, cibo marcio e..." "Insomma, la stessa puzza dei tuoi calzini" tagliò corto Kate. La sensazione di essere osservati da centinaia di sguardi provenienti 75 dalla boscaglia non aveva abbandonato nessuno. Tutti si sentivano esposti, illuminati com'erano dalla luce tremolante del fuoco e dalle lampade a petrolio. La prima parte della notte trascorse senza grandi sorprese, poi venne il turno di Alex, Kate e di uno dei soldati. Il ragazzo passò la prima ora a guardare la notte e il riflesso dell'acqua, vegliando sul sonno dei compagni. Pensava a come era cambiato in così pochi giorni. Adesso poteva restare a lungo fermo e in silenzio, immerso nei suoi pensieri, senza che gli venissero in mente i videogame, la bici o la televisione. Scoprì che era capace di raggiungere il luogo intimo della quiete e del silenzio che doveva conquistare quando scalava le montagne. La prima cosa che suo padre gli aveva insegnato sull'alpinismo era che, se uno si faceva prendere dalla tensione, dall'ansia o dalla paura, sprecava la metà delle forze. Ci voleva tranquillità per vincere la montagna. Durante le scalate aveva imparato a controllarsi, ma fino a ora questa lezione gli era servita a ben poco in altri frangenti. Si rese conto che erano molte le cose su cui meditare, ma l'immagine più ricorrente era sempre quella di sua madre. Se fosse morta... E tutte le volte si fermava. Aveva deciso di non prendere in considerazione quell'ipotesi, perché sarebbe stato come evocare la disgrazia. Si concentrava invece su come trasmetterle energia positiva, questo era il suo modo di aiutarla. Un rumore improvviso interruppe i suoi pensieri. Udì nitidamente dei passi da gigante che calpestavano gli arbusti lì vicino. Sentì uno spasmo nel petto, come se stesse soffocando. Per la prima volta da quando aveva perso gli occhiali all'accampamento di Carías ne sentì la mancanza, perché la sua vista di notte era ancora più debole. Tenendo la pistola con entrambe le mani per dominare il tremito, esattamente come aveva visto fare nei film, rimase in attesa senza sapere cosa fare. Quando avvertì un movimento nelle fronde vicine, come se ci fosse un contingente di nemici acquattato, Alex lanciò un grido terribile che risuonò come la sirena in un naufragio svegliando tutti. In un istante la nonna gli era accanto, la carabina imbracciata. I due si trovarono faccia a faccia con la grossa testa di un animale che non riuscirono subito a identificare. Era un maiale selvatico, un enorme cinghiale. Restarono immobili, pietrificati dallo spavento e questo li salvò: perché l'animale, come Alex, non vedeva bene al buio. Per fortuna, la brezza soffiava nella direzione contraria e quindi il cinghiale non sentiva il loro odore. César fu il primo a scendere con cautela dall'amaca per valutare la situazione, nonostante la pessima visibilità. 76 "Nessuno si muova..." ordinò in un bisbiglio per non attirare l'animale. La sua carne saporita sarebbe bastata per diversi giorni, ma c'era troppo poca luce per usare un'arma da fuoco e d'altra parte nessuno aveva il coraggio di impugnare un machete e di scagliarsi contro il pericoloso bestione. Il maiale passeggiò tranquillo tra le amache, annusò le provviste che erano state appese per metterle al riparo da topi e formiche e infine si affacciò alla tenda del professor Leblanc, che per lo spavento quasi ebbe un infarto. L'unica alternativa era aspettare che l'ingombrante ospite si fosse stufato di girare per l'accampamento: a quel punto, infatti, si allontanò, passando così vicino ad Alex che il ragazzo avrebbe potuto allungare una mano e toccarne l'ispido mantello. Quando la tensione si allentò, cominciarono a scherzare e Alex si vergognò per aver gridato come un isterico, anche se César lo rassicurò dicendogli che si era comportato correttamente. La guida fece un ripasso delle istruzioni da seguire in caso di all'erta: innanzitutto abbassarsi e gridare, poi sparare. Non aveva ancora finito di parlare che si udì un colpo di arma da fuoco: era il professor Leblanc che sparava in aria dieci minuti dopo che il pericolo era cessato. Decisamente il professore aveva il grilletto facile, fece notare ironicamente Kate. Il terzo turno, il momento più freddo e buio di tutta la notte, toccava a César, a Nadia e a un soldato. La guida era incerta se svegliare la ragazzina, che dormiva profondamente abbracciata a Borobá, ma immaginò la reazione di lei se non lo avesse fatto. Nadia si svegliò con due sorsate di caffè ben zuccherato e si coprì come meglio poté mettendosi indosso un paio di magliette, il suo gilet e la giacca del padre. Alex era riuscito a dormire solo un paio d'ore ed era stanchissimo ma, quando alla luce tenue del fuoco scorse Nadia che si preparava al turno di guardia, si alzò per farle compagnia. "Sono al sicuro, non preoccuparti. Ho il talismano che mi protegge" sussurrò lei per tranquillizzarlo. "Torna alla tua amaca" gli ordinò César. "Tutti abbiamo bisogno di dormire, è per questo che si fanno i turni." Alex ubbidì controvoglia, deciso a restare sveglio, ma di lì a pochi minuti fu vinto dal sonno. Non seppe calcolare quanto aveva dormito, ma dovevano essere state all'incirca di due ore perché, quando si svegliò di soprassalto per il rumore che lo circondava, il turno di Nadia era appena terminato. Stava albeggiando, c'era una bruma lattiginosa e faceva molto freddo, ma tutti erano già in piedi. Nell'aria stagnava un odore così denso 77 tremito alle ginocchia, si preparò a prendere una decisione. Disse che tutti stavano correndo il rischio di morire e lui, Ludovic Leblanc, in quanto responsabile del gruppo, doveva impartire ordini. L'uccisione del primo soldato confermava la sua teoria secondo la quale gli indios sono assassini per natura, subdoli e traditori. Anche la morte del secondo, avvenuta in circostanze così particolari, poteva venire attribuita agli indios, ma, ammise, in questo caso non si poteva nemmeno scartare l'ipotesi della Bestia. L'unica era piazzare le sue trappole, sperando di catturarla prima che venisse ucciso qualcun altro e poi tornare subito a Santa María de la Lluvia, dove avrebbero trovato degli elicotteri. Tutti si resero conto che la caduta nel cumulo di escrementi doveva avergli insegnato qualcosa. "Il capitano Ariosto non oserà negare il proprio aiuto a Ludovic Leblanc" disse il professore. A mano a mano che procedevano nel territorio sconosciuto, e che la Bestia dava segni di vita, la tendenza dell'antropologo a parlare di sé in terza persona aumentava. Diversi membri del gruppo si dissero d'accordo. Nonostante tutto Kate era decisa a proseguire e pretese che Timothy Bruce rimanesse con lei, visto che non sarebbe servito a nulla trovare la strana creatura senza poterla fotografare per dimostrarlo. Il professore suggerì di separarsi e di permettere a chi lo voleva di tornare al villaggio utilizzando una delle lance. I soldati e Matuwe, la guida indigena, erano terrorizzati e volevano andarsene il prima possibile. La dottoressa Torres, invece, disse che era arrivata fino a lì per vaccinare gli indios, che probabilmente non avrebbe avuto un'altra occasione nel prossimo futuro e che pertanto non pensava di cambiare idea al primo ostacolo. "Sei una donna molto coraggiosa, Omayra" osservò César, ammirato. "Io rimarrò. Sono la guida, non vi posso abbandonare qui" aggiunse. Alex e Nadia si scambiarono un'occhiata d'intesa: avevano notato che César seguiva sempre con lo sguardo la dottoressa e non perdeva mai occasione per starle vicino. Prima che parlasse, entrambi avevano già indovinato che, se lei si fosse fermata, lui avrebbe fatto lo stesso. "E noi come torniamo senza di lei?" volle sapere Leblanc, piuttosto inquieto. "Vi può accompagnare Karakawe" disse César. "Io resto" lo smentì l'indio, laconico come sempre. "Anch'io, non lascio certo sola mia nonna" affermò Alex. "Non ho bisogno di te e non voglio mocciosi tra i piedi, Alexander" grugnì Kate, ma tutti scorsero nei suoi occhi da uccello rapace il lampo di 80 orgoglio suscitato dalla decisione del nipote. "Vado a chiamare rinforzi" disse Leblanc. "Ma lei non è il responsabile della spedizione?" domandò gelida Kate. "Sono più utile là che qua..." farfugliò l'antropologo. "Faccia pure come crede, ma guardi che se lei se ne va, mi incarico personalmente di rendere pubblica la sua defezione all''International Geographic', così il mondo intero saprà quanto è coraggioso il professor Leblanc" lo minacciò lei. Alla fine fu deciso che uno dei soldati e Matuwe avrebbero riportato Joel a Santa María de la Lluvia. Il viaggio di ritorno sarebbe stato più breve perché avevano la corrente a favore. Gli altri, compreso il professor Leblanc, che non osò sfidare Kate, sarebbero rimasti all'accampamento in attesa di rinforzi. A metà mattina era tutto pronto, i compagni si separarono e la lancia con a bordo il ferito prese la via del ritorno. Passarono il resto della giornata e buona parte di quella successiva a preparare una trappola per la Bestia secondo le istruzioni del professor Leblanc. Era di una semplicità disarmante: una grande fossa coperta da una rete mimetizzata da foglie e rami. Passandoci sopra, sarebbe caduta nel buco trascinandosi dietro la rete. In fondo alla buca piazzarono un allarme a pile che avrebbe suonato per avvisare subito i membri della spedizione. Secondo il piano, avrebbero dovuto avvicinarsi prima che la creatura intrappolata potesse liberarsi dalla rete e uscire dalla fossa, per spararle un potente anestetico in grado di stordire un rinoceronte. La cosa più faticosa fu scavare una fossa profonda quanto la presunta altezza della Bestia. A turno scavarono tutti, tranne Nadia, che era contraria all'idea di fare del male a un animale, e Leblanc, per via del mal di schiena. Il terreno era molto diverso da come se l'era immaginato il professore in fase di progettazione, comodamente seduto alla scrivania di casa sua, a migliaia di chilometri di distanza. Sotto una sottile crosta di humus, c'era un groviglio di radici, poi uno strato di argilla scivolosa come il sapone e più si scavava più la fossa si riempiva di acqua rossastra in cui nuotava ogni sorta di animaletti. Alla fine, gli ostacoli li fecero desistere. Alex suggerì di utilizzare le reti appendendole agli alberi mediante un sistema di corde e di mettere dei pezzi di carne sotto; quando la preda si fosse avvicinata all'esca per mangiare, l'allarme avrebbe suonato e le reti sarebbero cadute dall'alto. Tutti, tranne Leblanc, considerarono che in teoria poteva funzionare, ma erano troppo stanchi per mettersi al lavoro e 81 decisero di rimandare il tutto al mattino seguente. "Spero che la tua idea non funzioni, Giaguaro" disse Nadia. "La Bestia è pericolosa" rispose il ragazzo. "Cosa faranno se la prendono? La uccideranno? La taglieranno a pezzi per studiarla? La metteranno in una gabbia per il resto della sua vita?" "Tu cosa proponi, Nadia?" "Di parlare con lei e di chiederle cosa vuole." "Che idea geniale! Potremmo invitarla a bere un tè..." la prese in giro Alex. "Tutti gli animali parlano" affermò Nadia. "È quello che sostiene mia sorella Nicole, ma lei ha nove anni." "Vedo che sa più cose di te che ne hai quindici" replicò lei. Si trovavano in un luogo bellissimo. La vegetazione folta e aggrovigliata della riva aveva lasciato spazio a un bosco maestoso. I tronchi degli alberi, alti e dritti, sembravano pilastri di una magnifica cattedrale verde. Orchidee e altri fiori spiccavano in mezzo ai rami e il suolo era coperto da brillanti felci. La fauna era così varia che non regnava mai il silenzio: dalla mattina a notte inoltrata si udiva il canto dei tucani e dei pappagalli; e poi iniziava il baccano dei rospi e delle scimmie. Ma quel paradiso terrestre nascondeva mille pericoli: le distanze erano enormi, la solitudine assoluta e non era possibile orientarsi senza conoscere il terreno. Secondo il professor Leblanc, e questa volta anche César era d'accordo, in quella regione ci si poteva spostare solo con l'aiuto degli indios. Dovevano attirare la loro attenzione. La dottoressa Torres era la più interessata all'operazione, visto che doveva realizzare il suo progetto di vaccinarli e di organizzare un sistema di controllo sanitario. "Temo che gli indios non si presenteranno spontaneamente per farsi fare una puntura al braccio, Omayra. Non hanno mai visto un ago in vita loro" sorrise César. Tra i due c'era una forte simpatia e ormai avevano un rapporto confidenziale. "Diremo loro che si tratta di una potente magia dei bianchi" disse lei facendogli l'occhiolino. "Che è la pura verità" concluse César con un cenno di approvazione. Secondo la guida, nei dintorni c'erano diverse tribù che avevano già avuto qualche contatto, seppur breve, con gli stranieri. Dal suo piccolo aereo aveva intravisto qualche shabono ma, data l'assenza di un luogo in cui atterrare, si era limitato a segnarseli sulla cartina. Le capanne comuni 82 montavano la guardia. Il professor Leblanc affidava ciò che gli passava per la mente a un registratore portatile, che teneva sempre a portata di mano nell'eventualità in cui fosse stato illuminato da un pensiero trascendentale che il mondo intero non poteva permettersi di perdere, circostanza che si verificava con tale frequenza che i ragazzi, stufi, aspettavano il momento giusto per sottrargli le pile. Alex stava suonando da un quarto d'ora, quando l'attenzione di Borobá cambiò all'improvviso obiettivo e la scimmietta cominciò a zampettare tutta agitata, tirando la sua padroncina per i vestiti. Lì per lì Nadia fece finta di niente, ma la bestiola non la lasciò in pace finché non si fu alzata in piedi. Dopo aver osservato attraverso il fitto della boscaglia, chiamò Alex con un gesto, e lo condusse oltre il cerchio di luce del fuoco, stando attenta a non farsi notare dagli altri. "Sssh" disse, portandosi un dito alle labbra. Restava ancora un barlume di chiarore diurno, ma già i colori non si distinguevano più, il mondo era grigio o nero. Dal giorno della partenza da Santa María de la Lluvia, Alex si era costantemente sentito spiato, ma proprio quella sera la sgradevole sensazione lo aveva abbandonato. Si sentiva tranquillo e al sicuro, come non gli capitava da molti giorni. Era anche diminuito l'odore penetrante che aveva accompagnato l'uccisione del soldato alcune notti prima. I due ragazzi e Borobá procedettero per alcuni metri nella fitta vegetazione e si fermarono ad aspettare, più curiosi che allarmati. Senza esserselo detto, immaginavano entrambi che, se lì intorno ci fossero stati degli indios intenzionati ad aggredirli, lo avrebbero già fatto. I membri della spedizione, perfettamente illuminati dal fuoco dell'accampamento, costituivano infatti un facile bersaglio per le frecce e i dardi avvelenati. Attesero in silenzio, con l'impressione di sprofondare in una nebbia di bambagia, come se con il calar della notte le normali proporzioni della realtà sfumassero. A poco a poco, Alex cominciò allora a intravedere gli esseri che li circondavano, uno a uno. Erano nudi, decorati con righe e macchioline, le braccia ricoperte di piume e strisce di cuoio, silenziosi, leggeri, immobili. Nonostante fossero lì accanto, era difficile vederli; si mimetizzavano nella natura con una perfezione assoluta che li rendeva invisibili, fatui come fantasmi. Quando fu in grado di metterli a fuoco, Alex stimò che fossero una ventina, tutti uomini e con le loro primitive armi in mano. "Aía" sussurrò Nadia con grande tranquillità. Nessuno rispose, ma un movimento quasi impercettibile tra le foglie 85 avvertì che gli indios si facevano più vicini. Nella penombra e senza occhiali, Alex non era certo di quanto vedeva, ma il cuore prese a battergli all'impazzata e sentì il sangue affluirgli alle tempie. Lo avvolse quella sensazione allucinante di vivere un sogno, già provato in presenza del giaguaro nero nell'accampamento di Carías. La tensione era la stessa, come se gli eventi si stessero svolgendo in una bolla di vetro che poteva andare in frantumi da un momento all'altro. Il pericolo era nell'aria, esattamente come era avvenuto con il giaguaro, ma il ragazzo non aveva paura. Non si sentiva minacciato da quelle creature trasparenti che fluttuavano tra gli alberi. L'idea di mettere mano al coltello o di chiamare aiuto non lo sfiorò nemmeno. In compenso gli tornò in mente, come in un lampo, la scena di un film che aveva visto anni prima: l'incontro fra un bambino e un extraterrestre. La sensazione era simile. Con stupore si rese conto che non avrebbe rinunciato a quell'esperienza per nulla mondo. "Aía" ripeté Nadia. "Aía" mormorò anche lui. Nessuna risposta. I ragazzi aspettarono, sempre tenendosi per mano, fermi come statue; anche Borobá restò immobile, in attesa, come consapevole di assistere a un evento importante. Passarono minuti interminabili e all'improvviso la notte si decise a scendere, avvolgendoli completamente. Alla fine si resero conto di essere soli; gli indios se ne erano andati con la stessa levità con la quale erano comparsi dal nulla. "Chi erano?" chiese Alex, una volta all'accampamento. "Dovevano essere il Popolo della Nebbia, gli invisibili, gli abitanti più remoti e misteriosi di tutta l'Amazzonia. Si sa che esistono, ma nessuno ha mai davvero parlato con loro." "Cosa vogliono da noi?" domandò ancora Alex. "Vedere come siamo, forse..." azzardò la ragazzina. "Anche a me piacerebbe vedere loro" disse lui. "Non diciamo a nessuno che li abbiamo incontrati, Giaguaro." "È strano che non ci abbiano attaccato e che non siano stati attratti dai regali appesi da tuo papà" considerò il ragazzo. "Credi che siano stati loro ad ammazzare il soldato sulla lancia?" chiese Nadia. "Non so, ma se sono loro, perché oggi non ci hanno attaccati?" Quella notte, Alex fece il suo turno di guardia con la nonna, senza alcun timore perché non si sentiva l'odore della Bestia e gli indios non lo 86 preoccupavano minimamente. Dopo lo strano incontro, era convinto che le pistole sarebbero servite a poco o niente in caso di attacco. Come mirare su quelle creature pressoché invisibili? Gli indios si dissolvevano nella notte come ombre, muti come fantasmi, e avrebbero potuto cogliere di sorpresa i membri della spedizione e ucciderli tutti in un istante, senza lasciare loro il tempo di accorgersene. Tuttavia, in cuor suo aveva la certezza che non fossero quelle le intenzioni del Popolo della Nebbia. 87 durato alcune ore e che era costretto a sopportarlo con l'unico sollievo di impacchi di acqua calda. "Spero che tu non sia allergico, altrimenti le conseguenze potrebbero essere peggiori" osservò la dottoressa. Alex non lo era, ma comunque la puntura gli rovinò buona parte della giornata. Verso sera, quando fu in grado di appoggiare il piede e fare qualche passo, Nadia gli raccontò che, mentre erano tutti intenti nelle loro faccende, lei aveva visto Karakawe aggirarsi intorno alla cassa dei vaccini. Quando l'indio si era accorto di essere stato scoperto, l'aveva afferrata con tanta violenza da lasciarle il segno delle dita sulla pelle e l'aveva avvertita che le avrebbe fatto passare guai seri se avesse detto una sola parola. Era certa che quell'uomo avrebbe messo in atto la sua minaccia, ma Alex era dell'idea che non potevano stare zitti e che dovevano riferire l'accaduto alla dottoressa. Nadia, che era affascinata dalla dottoressa quanto il padre e cominciava ad accarezzare l'idea di vederla diventare la sua matrigna, avrebbe voluto dirle anche della conversazione tra Mauro Carías e il capitano Ariosto origliata insieme ad Alex a Santa María de la Lluvia. Era convinta che Karakawe fosse la persona incaricata di portare a termine il sinistro progetto di Carías. "Di questo non diremo nulla per ora" decise Alex. Aspettarono il momento opportuno, quando Karakawe andò a pescare al fiume, e misero al corrente la dottoressa Torres. Lei li ascoltò con attenzione, e per la prima volta da quando la conoscevano diede segni di una certa inquietudine. Persino nei momenti più drammatici di quell'avventura, l'incantevole donna non aveva mai perso la calma; aveva i nervi saldi di un samurai. Nemmeno questa volta si agitò, ma volle comunque conoscere tutti i dettagli. Quando le dissero che Karakawe aveva aperto le casse, lasciando comunque intatti i tappi dei flaconcini, tirò un respiro di sollievo. "Quei vaccini sono l'unica speranza di vita per gli indios. Dobbiamo proteggerli come un tesoro" disse. "Alex e io abbiamo tenuto d'occhio Karakawe, crediamo che abbia manomesso la radio, ma mio papà dice che senza prove non possiamo accusarlo" aggiunse Nadia. "Non preoccupiamo tuo padre per niente, Nadia, ne ha già abbastanza di problemi. Noi tre insieme riusciremo a neutralizzare Karakawe. Non toglietegli gli occhi di dosso, ragazzi" li pregò la dottoressa e loro acconsentirono. 90 Il giorno passò senza altre novità. César continuava a cercare di far funzionare la radio, ma senza successo. Timothy Bruce aveva un apparecchio con il quale aveva ascoltato i notiziari di Manaus nella prima parte del viaggio, ma non era a onde lunghe. Si annoiavano perché, una volta che si erano procurati alcuni uccelli e del pesce per i pasti, non avevano più niente da fare; era inutile cacciare o pescare in abbondanza perché il cibo si riempiva di formiche o andava a male nel giro di poche ore. Alex era finalmente riuscito a capire la mentalità degli indios, che non accumulavano mai niente. Si davano il cambio per mantenere vivo il fuoco, nel caso arrivassero gli elicotteri, anche se César aveva detto che era ancora troppo presto. Timothy Bruce tirò fuori un vecchio mazzo di carte e giocarono a poker, blackjack e gin rummy finché iniziò a imbrunire. L'odore penetrante della Bestia non si era più fatto sentire. Nadia, Kate e la dottoressa andarono al fiume a lavarsi; come d'accordo, nessuno doveva avventurarsi da solo oltre l'accampamento. Per i bisogni personali, le donne stavano tutte e tre insieme, per il resto, ci si muoveva a coppie. César faceva in modo di restare sempre con la dottoressa Torres, cosa che dava parecchio fastidio a Timothy Bruce, visto che anche lui ne era attratto. Sebbene Kate gli avesse raccomandato di conservare le pellicole per la Bestia e gli indios, durante il viaggio l'inglese aveva scattato un sacco di foto a Omayra, finché lei si era rifiutata di continuare a posare. La giornalista e Karakawe sembravano gli unici immuni dal fascino della giovane donna. Kate borbottò che era troppo vecchia per imbambolarsi davanti a un bel viso, ma questo commento suonò al nipote come una dimostrazione di gelosia che non faceva onore alla sua intelligenza. Il professor Leblanc, che non poteva competere né con la prestanza fisica di César né con la giovane età di Timothy Bruce, tentava di fare colpo sulla dottoressa ostentando la sua fama e non perdeva occasione per leggerle ad alta voce paragrafi del suo libro in cui raccontava per filo e per segno i terribili pericoli corsi con gli indios. Lei riusciva a stento a immaginarsi quel fifone di Leblanc, in perizoma, combattere a mani nude con indios e fiere, cacciare con frecce e sopravvivere senza alcun aiuto in mezzo a ogni genere di catastrofi naturali, come il professore andava raccontando. La rivalità degli uomini per attirare l'attenzione della dottoressa Torres aveva comunque creato una certa tensione, che aumentava via via che passavano le ore nell'angosciosa attesa degli elicotteri. 91 Alex si guardò la caviglia: gli faceva male ed era ancora un po' gonfia, ma quella dura ciliegia rossa nel punto in cui lo aveva morso la formica si era ridotta; gli impacchi di acqua calda avevano fatto effetto. Per distrarsi, prese il flauto e cominciò a suonare il pezzo preferito di sua mamma, una melodia dolce e romantica di un compositore europeo morto da oltre un secolo, un'armonia che si intonava con l'ambiente della foresta. Suo nonno Joseph Cold aveva ragione: la musica è un linguaggio universale. Già dalle prime note, Borobá era arrivata saltellando e si era seduta ai piedi del ragazzo con un atteggiamento serio e competente e poco dopo si erano unite anche Nadia, la dottoressa e Kate. La ragazzina attese che tutti fossero intenti a preparare l'accampamento per la notte per fare cenno ad Alex di seguirla di nascosto. "Sono ancora qui, Giaguaro" gli mormorò all'orecchio. "Gli indios?" "Sì, il Popolo della Nebbia. Credo che siano stati attratti dalla musica. Non fare rumore e vienimi dietro." Si addentrarono per qualche metro nella boscaglia e, come l'altra volta, restarono in silenzio. Per quanto Alex aguzzasse la vista, non riusciva a scorgere nessuno tra gli alberi: in sua presenza, gli indios si dissolvevano. All'improvviso, sentì delle mani che lo afferravano per le braccia e voltandosi vide che erano circondati. Gli indios non erano rimasti a distanza, come la volta prima; ora Alex poteva sentire l'odore dolciastro dei loro corpi. Notò di nuovo che erano bassi e magri, ma ora constatava che erano anche molto forti e che il loro atteggiamento tradiva una certa ferocia. Che avesse ragione il professor Leblanc a ritenerli violenti e crudeli? "Aía" provò a salutare. Una mano gli tappò la bocca e, prima ancora che potesse rendersi conto di quanto stava accadendo, si sentì sollevare per le ascelle e le caviglie. Cominciò a contorcersi e a scalciare, ma le mani mantenevano salda la presa. Sentì un colpo alla testa, non capì se fosse un pugno o una pietra, ma pensò che era meglio lasciarsi trasportare piuttosto che farsi stordire o uccidere. Pensò a Nadia e si chiese se stessero trascinando via con la forza anche lei. Gli parve di sentire in lontananza la voce della nonna che lo chiamava, mentre gli indios lo portavano via, scomparendo nell'oscurità come spiriti della notte. Alexander sentiva un forte bruciore alla caviglia, là dove lo aveva morso 92 Poi gli indios si sedettero in cerchio e continuarono la loro conversazione, mentre distribuivano pezzi di una specie di pane non lievitato. Alex si rese conto di non aver mangiato da molte ore e di sentire una gran fame; divorò la sua porzione di cena senza preoccuparsi della sporcizia e senza nemmeno chiedere di cosa fosse fatta; le sue fisime sul cibo erano ormai acqua passata. Poco dopo i guerrieri fecero girare una vescica di animale contenente un succo viscoso dall'odore acre e dal sapore di aceto e intonarono un canto per tenere lontani i fantasmi che provocano gli incubi. A Nadia non offrirono il beverone, ma ebbero la gentilezza di spartirlo con Alex, il quale non era attratto né dall'odore né dall'idea di dover bere dallo stesso recipiente di tutti gli altri. Ricordava la storia di César su quella tribù contagiata dalla sigaretta di un giornalista. L'ultima cosa che voleva fare era passare i propri germi a quegli indios dal sistema immunitario senza difese, ma Nadia lo avvertì che il suo rifiuto sarebbe stato considerato un insulto. Gli disse che era masato, una bevanda fermentata fatta con manioca masticata e saliva, riservata solo agli uomini. A questa spiegazione, Alex temette di vomitare ma non osò tirarsi indietro. Tra il colpo sulla testa e il masato, il ragazzo partì subito per il pianeta delle sabbie dorate e delle sei lune nel cielo fosforescente, che aveva visto nell'accampamento di Carías. Era così confuso e intossicato che non avrebbe saputo fare nemmeno un passo e per fortuna non ce ne fu bisogno, perché anche i guerrieri, sotto l'effetto del liquore, ronfavano sdraiati per terra. Alex immaginò che non si sarebbero rimessi in marcia finché non fosse sorto il sole e si consolò con la vaga speranza che all'alba la nonna lo avrebbe trovato. Raggomitolato su se stesso, dimentico dei fantasmi, degli incubi, delle formiche rosse, delle tarantole e dei serpenti, si abbandonò al sonno. Non si scompose nemmeno quando il nauseabondo fetore della Bestia cominciò a impestare l'aria. Le uniche a essere sobrie e sveglie all'arrivo della Bestia erano Nadia e Borobá. La scimmia rimase immobile, come impietrita, e la ragazzina riuscì a intravedere una gigantesca figura alla luce della luna prima di perdere conoscenza a causa del fetore. Più tardi avrebbe raccontato all'amico le stesse cose riferite da padre Valdomero: si trattava di una creatura dai tratti umani, eretta, alta circa tre metri, con braccia enormi che terminavano con artigli ricurvi simili a scimitarre e una testa piccola, sproporzionata rispetto al corpo. A Nadia sembrò che si muovesse con grande lentezza, ma certamente la Bestia avrebbe potuto sbudellare tutti 95 quanti, se solo avesse voluto. Il puzzo che emanava, o forse il terrore che incuteva nelle vittime, paralizzava come una droga. Prima di svenire, la ragazzina aveva cercato di urlare e di scappare, ma non era riuscita a muovere nemmeno un muscolo; in uno sprazzo di lucidità, aveva rivisto il corpo del soldato sventrato come un animale e aveva potuto immaginare l'orrore dell'uomo, la sua impotenza e la terribile morte. Alex si svegliò confuso per il tentativo di ricordare quello che era successo, con una tremarella in corpo dovuta allo strano liquore della sera prima e al fetore che aleggiava nell'aria. Vide Nadia, con Borobá accucciata in grembo, seduta a gambe incrociate e lo sguardo perso nel nulla. Si trascinò gattoni fino a lei, dominando a malapena i sussulti delle viscere. "L'ho vista, Giaguaro" disse Nadia quasi in trance, con una voce che pareva venire da lontano. "Cosa hai visto?" "La Bestia. Era qui. È enorme, un gigante..." Alex andò dietro alcune felci e svuotò lo stomaco. Ora andava meglio, anche se l'odore gli faceva tornare la nausea. Al suo ritorno, i guerrieri erano già pronti per rimettersi in cammino. Per la prima volta, nella luce dell'alba, ebbe modo di osservarli bene. Il loro aspetto incuteva timore, esattamente come aveva detto il professor Leblanc: erano nudi, i corpi dipinti di rosso, nero e verde, bracciali di piume e capelli tagliati a scodella, con la parte superiore del cranio rasata, come i frati. Portavano archi e frecce legati alla schiena e una piccola zucca con un coperchio di cuoio che, stando a Nadia, conteneva il letale curaro per frecce e dardi. Molti di loro erano armati di lunghi bastoni e tutti sfoggiavano cicatrici sulla testa, ostentate come decorazioni di guerra: il coraggio e la forza si misuravano dai segni dei colpi ricevuti. Alex dovette scrollare Nadia per farla tornare in sé, dal momento che lo spavento per la Bestia l'aveva lasciata stordita. La ragazzina riuscì a riferire ciò che aveva visto e i guerrieri l'ascoltarono attentamente, senza dar segno di sorpresa e senza fare alcun commento sull'odore. Si misero in marcia subito, di buon passo e tutti in fila dietro il capo, che Nadia decise di chiamare Mokarita, dato che non poteva chiedergli il vero nome. A giudicare dalla pelle, dai denti e dai piedi deformi, Mokarita doveva essere molto più vecchio di quanto Alex avesse immaginato la notte prima, ma era agile e forte come gli altri guerrieri. Uno dei giovani si distingueva dagli altri: era più alto ed era l'unico completamente dipinto di 96 nero, eccettuata una specie di maschera rossa intorno agli occhi e sulla fronte. Camminava sempre accanto al capo, come se fosse il suo luogotenente, e parlava di sé col nome di Tahama. Nadia e Alexander capirono più tardi che quello era il titolo onorifico assegnato al miglior cacciatore della tribù. Sebbene il paesaggio fosse sempre uguale e privo di punti di riferimento, gli indios sapevano perfettamente dove si stavano dirigendo. Non si girarono mai per controllare che i due ragazzi li seguissero: sapevano che non avevano alternativa, da soli si sarebbero persi. A volte Alex e Nadia avevano l'impressione di essere soli perché il Popolo della Nebbia spariva nella vegetazione, ma la sensazione non durava a lungo: gli indios, infatti, si dileguavano e riapparivano all'improvviso, come se si stessero esercitando nell'arte di diventare invisibili. Alex concluse che questo dono non poteva essere attribuito esclusivamente ai colori con cui si mimetizzavano, doveva trattarsi innanzitutto di un atteggiamento mentale. Come facevano? Pensò a quanto potesse tornare utile nella vita il trucco dell'invisibilità e decise di impararlo. Nel corso dei giorni seguenti avrebbe capito che non si trattava di illusionismo, bensì di una capacità che si poteva apprendere mediante pratica e concentrazione, esattamente come suonare il flauto. Continuarono a procedere speditamente per alcune ore, fermandosi di tanto in tanto solo per bere. Alex aveva fame, ma almeno era contento che la caviglia morsa dalla formica non gli doleva più. César gli aveva raccontato che gli indios mangiano quando possono, non per forza tutti i giorni, e che il loro organismo è abituato a immagazzinare energia; lui, invece, aveva sempre avuto un frigorifero ben fornito, almeno quando sua madre stava bene, e le poche volte che gli era toccato saltare un pasto si era sentito debole. Non gli restò che sorridere dell'incredibile trasformazione nelle sue abitudini. Oltretutto, non si lavava i denti né si cambiava i vestiti da diversi giorni. Decise di ignorare il buco nello stomaco e di ingannare la fame con l'indifferenza. Un paio di volte diede un'occhiata alla bussola e scoprì che si stavano dirigendo a nordest. Qualcuno sarebbe venuto a salvarli? Come poteva lasciare delle tracce durante il cammino? Li avrebbero visti dall'elicottero? Non era molto ottimista: in effetti, la loro situazione era disperata. Si sorprese che Nadia non desse segni di stanchezza; anzi, la sua amica sembrava del tutto presa da questa avventura. Dopo qualche ora – impossibile misurare il tempo in quel luogo – 97
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