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La collezione come forma d'arte, riassunto Grazioli, Dispense di Arte

Riassunto: " collezione come forma d'arte", parole dell'autore.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 08/05/2022

MariaBianchi.
MariaBianchi. 🇮🇹

4.5

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Scarica La collezione come forma d'arte, riassunto Grazioli e più Dispense in PDF di Arte solo su Docsity! La collezione come forma d’arte, Grazioli Se ogni epoca ha un suo modo di collezionare, quello contemporaneo è segnato da un reciproco legame con la pratica artistica, tanto che le due attività spesso si sovrappongono fin quasi a confondersi. Claes Oldenburg, che espone come opera propria una raccolta di oggetti d’affezione; da Marcel Broodthaers, per cui il collezionare è all’origine della scelta di diventare artista, a Hans-Peter Feldmann che, sulla scia di Malraux, da anni ritaglia, classifica e incolla immagini per un insolito museo. Il collezionismo non è più solo affare di chi, non artista, raccoglie oggetti in quantità rilevante, ma diventa modalità espressiva di quegli artisti che li radunano per costruire opere d’arte secondo il principio warburghiano del montaggio. Lo stesso collezionista è un artista che accetta di esprimersi tramite immagini dotate di un forte potere simbolico, le quali diventano un’estensione della sua persona : dando vita a un insieme organico che non tollera mutilazioni  La collezione assume così lo statuto di opera d’arte. Oggetti che scegliamo e che diventano importanti nello spazio in cui viviamo, che lo qualificano, lo strutturano, persino lo riscrivono. Certo, nel loro caso la quantità ha un peso determinante e innesca un vero e proprio salto di qualità. Gli oggetti invadono gli spazi, mentre la raccolta assume un andamento che tende all’infinito. tasselli di una visione, di una costruzione che prosegue. non solo la costruzione di sé, ma quella parallela di un mondo. salvare questi particolari oggetti che sono i “pezzi”, come si suol dire, da o della collezione. Non appena entrano in una raccolta o, ancor prima, quando l’occhio del collezionista si posa su di loro e ne è catturato, cambiano il loro stesso statuto di oggetto, si caricano di una qualità supplementare, valgono in quanto parti di un mondo a sé. Non per niente sia Freud sia Breton erano notevoli collezionisti. La particolarità degli oggetti della collezione risiede anche nel singolare rapporto che hanno con la realtà. Lo dimostra non solo la scelta di cui sono motivo, ma soprattutto la cura di cui vengono circondati: conservati e protetti per la loro unicità, rarità individuale e oggettuale, ordinati per il loro valore simbolico e affettivo. si tende a sottovalutare, forse quella qualità stessa di “cosa”, nel senso di Heidegger, per cui collezionare significa aver cura non solo delle cose e del proprio mondo, ma, per così dire, del mondo e della cosa stessi. Mentre cioè aumentano musei e archivi (ora, naturalmente, anche e soprattutto elettronici), che per le più svariate ragioni – didattiche, sociali, politiche, conoscitive, tecniche, storiche – vogliono raccogliere, conservare, sistemare, offrire insiemi più vasti e rappresentativi e mappe più onnicomprensive e sistematiche, da un altro lato persistono iniziative particolari, inevitabilmente individuali, di persone che vanno dietro a una propria idea o passione per realizzare ed esprimere qualcos’altro. 1) Le prime sono raccolte di oggetti, di opere, discorsi sull’oggetto, sull’opera, sull’arte: meta-raccolte, meta-discorsi. 2) Le seconde sfiorano l’opera stessa, l’oggetto, l’arte; sono un discorso diretto, non autoreferenziale, non metalinguistico; sono come un’opera propria del collezionista, il suo modo di fare arte, per quanto attraverso oggetti od opere d’altri; sono un modo reale di agire nel mondo. in quest’era post-ready-made e postmoderna, raccolte di opere altrui, infatti il collezionista non raduna mai oggetti che si costruisce da sé. la collezione è prima di tutto un modo di raccogliere e di tenere insieme una forma e una logica diverse, in quest’era, potremmo allora dire, post- collage e post- assemblage. Forma e logica diversa soprattutto da quelle più diffuse, quelle sociali, cosiddette “vincenti”, di ricerca del successo; forma e logica della qualità, del desiderio, del piacere e della realizzazione, piuttosto che della volontà e della rappresentazione, della finzione e del consenso; forma e logica interna e individuale, apparentemente al limite dell’arbitrario e dell’espressionismo, ma che, come l’opera d’arte, dimostra un proprio statuto di legge, di funzionamento prima e di reale validità poi, che producono bellezza e salvaguardano la necessità e il valore condivisibile. La preoccupazione del collezionista per il destino postumo della sua collezione, un organismo che non tollera mutilazioni o ferite. Possiede i caratteri degli organismi complessi, non riducibili alla somma delle loro parti, fino agli equilibri instabili, alle strutture dissipative e ai sistemi di auto-organizzazione, passando per il ruolo attivo del posto vuoto, della macchia cieca, del pezzo mancante, delle dinamiche post-dialettiche. Infine, questa idea di collezionismo non è quella che corrisponde ai presenti momenti di pretesa globalizzazione del mondo dell’arte, in realtà di post-colonizzazione, di influenza dei nuovi modi d’arte non- occidentale, di libertà dall’informazione diffusa, di affermazione della diversità, di voglia di fare a modo proprio, di pluralità e molteplicità post-mediale dei linguaggi e dei contenuti? Non corrisponde all’attuale reazione all’omogeneizzazione diffusa, alla difesa dell’individualità, alla scioltezza dei sentimenti, alla dialettica risolta – post-ideologica, come si suol dire – delle negazioni legate alle opposizioni? Non è questo il tempo di un collezionismo libero, di una sua concezione positiva? Le collezioni, infatti, hanno sempre rappresentato le loro epoche, non solo nel senso che le hanno testimoniate e rispecchiate campionandole attraverso gli oggetti e le opere raccolte, né solo corrispondendo al gusto e alla cultura del loro tempo, ma anche nel senso che, proprio là dove hanno deviato dalla linea principale e più condivisa, hanno ancor meglio provato la profondità e la verità delle scelte possibili. Così, a ogni epoca si ritrovano modalità e concezioni di collezionismo corrispettivi. II. Ogni epoca ha un suo modo di collezionare a partire già dalla raccolta di stranezze ed esoticità che accompagna il collezionismo fin dai suoi inizi, che è forse il senso scatenante del collezionismo vero e proprio, la sorpresa di fronte a mondi nuovi, e insieme il suo aspetto più privato, più personale. Meno vetrina di rappresentanza e autorappresentazione, essa è più ricerca e gioco per intenditori, cioè per amici che possano, condividendoli, comprendere e apprezzare le ragioni e il significato delle scelte, delle acquisizioni, degli accostamenti, nonché delle metafore e dei racconti aneddotici che le accompagnano. Che sia il “medioevo fantastico” raccontato da Jurgis Baltrušaitis o l’“antirinascimento” di Eugenio Battisti, esiste già da allora un mondo dentro il mondo (erme), un’eterogeneità dentro una presunta omogeneità, una incongruità che apre ad altre possibilità e percorsi. Le sue modalità ci interessano, e che siano state scoperte ‒ o riscoperte e valorizzate ‒ nel xx secolo non apparirà come un caso. Il secolo della modernità e delle avanguardie ha coltivato al proprio interno l’interesse per le forme di deviazione, queste enclaves tuttavia numerose, queste follie individuali ma diffuse, che rompono l’idea riduttiva dell’unità e della categorizzazione di una cultura e di un sentire  vs musei ordinati per cronologia condivisa di movimenti, secondo una storia semplificata per uso delle scuole e dell’informazione, o delle raccolte presunte rigorose di una linea artistica o di un ambito selezionati, di un modo o di un’idea stabiliti, figlie di un modernismo calvinista o d’assalto. Collezioni, queste, basate su una concezione, un punto di vista, una visione, venuti e sovrapposti dall’esterno, prefissati e poi seguiti con scrupolo burocratico, riempiti dalle opere che le comprovano e non le mettono in discussione, “collezioni puzzle”, come vengono giustamente chiamate da Bartezzaghi, perché mirano a completare il disegno, cercano le tessere mancanti nell’incastro preordinato. In questo senso, le collezioni di oggetti hanno per molti versi varie cose da insegnare a quelle d’arte, una loro superiore libertà e insieme una loro necessità più sentita e reale, ma anche una maggiore vicinanza a un’espressione personale e a una logica in costruzione. Così gli studioli, i gabinetti di curiosità, le cosiddette Wunderkammern, stanze delle meraviglie in cui eccentrici signori, dal Rinascimento al XVII secolo, radunavano le loro stravaganti raccolte ricche di spunti e di deviazioni che non rientravano più nel disegno stabilito. Che è anche il duplice senso della parola “meraviglia”, oggetto da ammirare, perciò ricercato per essere collezionato ed esposto, ma anche sentimento che è insieme causa prima ed effetto da suscitare nel visitatore, sorprendendolo rispetto alle sue aspettative e conoscenze. Ne consegue che l’oggetto principale della raccolta di meraviglie è quello dallo statuto ambiguo, perfino dalla difficile riconoscibilità, misto di artificiale e naturale, indecidibile se opera di uomo o di natura, d’arte o di altra misteriosa energia e materia. Krzysztof Pomian ne fa il polo opposto della collezione di statue antiche o moderne, che dà «il primato al marmo e al disegno, alla purezza del progetto di produrre opere belle», mentre la Wunderkammer «tende a spingere ai suoi limiti estremi il progetto di realizzarne di straordinarie», di prodigiose, di differenziate per materiali, tecniche e forme. dopo la scoperta che i quadri della collezione, comprati su indicazione di sedicenti esperti, sono quasi tutti falsi o copie di scarso valore; la vendetta consiste nel realizzare dei falsi di falsi. Naturalmente il nipote erede, Humbert Raffke, non è altri che Heinrich Kürz, il pittore dello Studiolo , e la mise en abîme si chiude. Scrive Pomian: Ma, mentre sistematizza e ordina, commercializza e normalizza, il secolo galante ed erotico ha in una delle sue figure più rappresentative un vero e proprio tipo, per quanto del tutto speciale, di collezionista, non di opere d’arte o di oggetti particolari, ma appunto di amori. Ci riferiamo a don Giovanni – versione più collezionistica del visconte di Valmont delle Liaisons dangereuses, di Casanova e di De Sade – e naturalmente alla sua interpretazione mozartiana. «Madamina, il catalogo è questo / delle belle che amò il padron mio»: il don Giovanni di Mozart-Da Ponte non è infatti solo il collezionista mosso dal desiderio insaziabile, da un moderno desiderio “differente”, che ama la differenza nella sua forma della varietà e della quantità, e che differisce, rimanda il soddisfacimento finale, morte del desiderio; è anche, come ha stigmatizzato una volta per sempre Jean Starobinski, il libertino  diventa il libertario, l’amante cioè della libertà, che colleziona “conquiste” per non fissarsi in una e rimanere libero. Baudelaire ha ragione quando scrive che la Rivoluzione è stata fatta da dei voluttuosi: indica questi uomini che tutti i loro gusti legano all’universo che sta finendo e che, rivolgendosi contro quest’ultimo, diventati suoi nemici giurati, restavano i testimoni fedeli del suo disordine, delle sue libere speculazioni, dei suoi appetiti contraddittori. -----Ebbene il piacere non è qui un fine ma una sfida al disordine dell’universo e alle sue contraddizioni----- Giovanni Macchia aveva caratterizzato la differenza del don Giovanni di Mozart da quelli precedenti parlando di un’energia del tutto “naturale”: Come in certi animali, l’astuzia gli è utile soltanto per servire il senso, perché l’istinto insaziabile abbia la sua vittoria  «È l’incoscienza, la forza tutta terrena di don Giovanni, che non cede dinanzi al sovrannaturale, chiusa com’è entro il certo, la materia, il credibile, il senso». L’incoscienza – altro carattere tutto tipico del collezionismo – è di nuovo il rovesciamento di una pretesa consapevolezza che precede l’azione e il dare invece spazio all’inconscio, che ha un ruolo così importante nella formazione e nell’espressione del senso. Ma il collezionista più moderno e vicino a noi è quello dell’Ottocento. Secolo ufficiale e borghese, moderno e presto modernista, il XIX secolo crea un nuovo tipo di collezionista descritto perfettamente nei romanzi dei suoi scrittori in indimenticabili figure come quella del cugino Pons di Honoré de Balzac, o il Gardilanne di Champfleury e altre ancora. È in particolare il collezionista a caccia di “occasioni”, appassionato di un ambito specifico, che passa in perlustrazione ogni luogo dove si possa trovare un “pezzo” e si concentra sull’informazione per scoprire ciò che può sfuggire al mercante generico o battere sul tempo perfino quello più astuto. Cambia quando è in azione, mostrando lati che non trapelano nella vita quotidiana. Per Champfleury si trasforma addirittura nel suo opposto: così lo scialbo e malaticcio Gardilanne, che diceva di non avere passioni, diventava «la persona più passionale che si potesse immaginare, più ardente del cacciatore, più inquieto di un innamorato al suo primo appuntamento, più schiavo di un ambizioso, più febbrile di un giocatore. Nessuna passione! Gardilanne le possedeva tutte, fuse in una sola, la più forte, la passione per le collezioni!». La contrapposizione artista-collezionista, con la conseguente insinuazione che il collezionista sia un artista mancato, corre lungo molta letteratura sull’argomento a partire dall’Ottocento ( Balzac?). Così infatti diventa non solo protagonista di un racconto o di un romanzo, ma protagonista per identificazione dello scrittore stesso, dunque figura artistica a tutti gli effetti. Che sia il cosiddetto decadentismo a farlo con più decisione non è neppure questo un caso, ma è il segno che la questione è passata da sintomo a un’esasperata consapevolezza. Parliamo di Des Esseintes, il protagonista di A ritroso di Joris-Karl Huysmans, romanzo che è a sua volta una collezione di fatto in ogni ambito del sapere e del piacere umano. Dopo aver saggiato ogni esperienza mondana nella capitale, dopo aver provato la totalità delle esperienze, Des Esseintes si ritira in una casa di campagna, completamente isolata, torre d’avorio che sistema e arreda «per il suo piacere personale e non per stupire gli altri», come aveva invece fatto fino a quel momento. Libri, mobili, colori, pietre preziose, letture, tutto viene passato al vaglio della nuova esigenza per dichiarare una scelta consapevole e affermata; ogni cosa e argomento sono solo il pretesto per la ricostruzione di tale selezione in ogni ambito per una collezione assoluta. Il progetto generale: D’altro canto, nella seconda metà del secolo, in corrispondenza con la nascita della modernità artistica, il collezionismo si diffonde nella borghesia che ne fa un comportamento tutto suo. psicologia e psicoanalisi le studieranno in dettaglio: mania, nevrosi, ostentazione, stravaganza, orgoglio, compensazione? Comunque sia, «ogni collezione è una confessione pubblica, carte in tavola – comprese le carte truccate – di un uomo che non è, che non può essere come gli altri» stigmatizza il professor Langui. Il collezionista è un possessivo, ama il rischio e la competizione; antagonismo, rivalità, difficoltà acuiscono il suo appetito, eccitano le sue capacità combattive; non indietreggia di fronte a nessuna trappola, manovra o tribolazione: Perché, cosa sono in realtà gli oggetti ambiti dal collezionista, se non gli artifici di un eterno inseguimento di se stesso? Cure e sollecitudini si moltiplicano, e le preoccupazioni per la loro sorte: Edmond de Goncourt chiederà nel testamento che le opere che hanno fatto la sua felicità vadano vendute all’asta affinché il piacere procurato da ognuna di esse sia offerto di nuovo ad altri; per una qualsiasi ragione, fondata o immaginaria, molti negheranno la loro collezione agli eredi diretti; Albert Barnes arriverà a proibire per testamento l’accesso alla sua collezione a qualsiasi visitatore. Il collezionista diventa un personaggio delle cui vicende si racconta il “romanzo”. Se da un lato collezionare diventa in ambiente borghese segno di buon gusto, di stato sociale e di cultura, dall’altro lato che ne sarebbe di numerosi artisti dall’Impressionismo in poi senza i loro sostenitori? Il ruolo del collezionista si fa ambiguo e variegato, dall’investimento all’emulazione alla passione. Pierre Cabanne Il collezionismo non contribuisce soltanto alla fondazione o all’arricchimento delle istituzioni pubbliche, esercita un’azione profonda sulla gerarchia dei valori e influisce così sulle fluttuazioni del mercato, cioè sul posto del collezionista in questo ambito. Inoltre costituisce in una società collettivista una delle ultime individualità, la cui attrazione è proporzionale alla sua autorità; la sua singolarità, dal punto di vista sociale, lo mantiene lontano da ogni dipendenza, lo isola, lo protegge, lo ripara. Una “macchina”, che ha una grande ripercussione sull’idea di collezionismo, sul concetto stesso del collezionare, ovvero la fotografia. Susan Sontag: L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. [...] Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare . Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo. La fotografia altera la modalità dell’esperienza del reale, non solo della sua visione ma anche della sua comprensione. Da un lato pare conferire realtà al reale stesso reale solo se è fotografato, dall’altro lo svuota, lo appiattisce, livella il significato degli eventi. la fotografia, prima ancora che oggetto autonomo e artistico, porta con sé l’idea di un tempo che consuma le cose e le vite, le quali vanno per questo fermate, fissate almeno in immagine. Di fatto chiunque aspira a diventare collezionista di qualsiasi cosa, fin di se stesso, in immagine. Lo stesso duro giudizio di Charles Baudelaire che ammonisce la fotografia a non cercare di sfidare l’arte, ma ad accettare la sua condizione di strumento “al servizio di” altro (scienza o altra disciplina o utilità), può essere letto in questo senso non come una condanna alla sussidiarietà e all’artisticità mancata, ma al contrario come un richiamo alla sua specificità altra, diversa, quella che la lega intrinsecamente alla testimonianza, alla documentazione, all’archivio, nei suoi più diversi modi e risvolti. Quanti artisti oggi recuperano infatti in questa direzione una fotografia ostentatamente “oggettiva” e la legano alla serie, alla quantità, all’ordine, al programma, a ogni forma di archiviazione, una nuova archiviazione, certo, segnata dal passaggio alla postmodernità? Non è il nostro senso del collezionismo, ma ci torneremo. Ci sono anche altri aspetti, per certi versi ancora più radicali, che la fotografia introduce all’interno delle problematiche collezionistiche. Così: che artisticità hanno, e ancor più di che estetica sono portatrici fotografie e archivi fotografici che non sono stati fatti con intenzioni artistiche? Sono “artisti” Timothy O’Sullivan, Samuel Bourne, Felice Beato, Auguste Salzman, Eugène Atget? In quale contesto si inseriscono? A quale “spazio discorsivo” – come dice Rosalind Krauss – fanno riferimento? Sono “opere” le loro fotografie? In un certo senso sì, ma in quale? Oggi infatti si prendono fotografie scattate dagli autori al seguito di spedizioni geografiche, per scopi scientifici o commerciali di diverso genere, senza alcuna intenzione artistica comprovata, le si isola dal loro contesto e le si espone bene incorniciate in gallerie e musei come “opere d’arte”. A che titolo lo si fa? Che cosa significa? Per noi significa innanzitutto che tra documento, archivio, serie, collezione, opera c’è un legame che la ricerca artistica ed estetica posteriore non ha voluto sacrificare o ignorare e di cui ha anzi voluto far fruttare le possibilità collezionare è un esercizio estetico e la collezione assimilabile a un tipo di “opera”. III. Con il nuovo secolo, il collezionismo cambia, non è più rivolto al passato ma al presente , alla condivisione di una ricerca artistica in atto, mentre del passato cerca ciò che gli permette di ricostruire retrospettivamente il percorso che ha portato a quella visione del presente, e così legittimarla. È una collezione dimostrativa, storica, interpretativa: se ami l’Impressionismo devi avere anche i coloristi veneti del Rinascimento, nature morte fiamminghe e spagnole, Chardin, paesaggismo olandese e inglese, quindi Constable, Turner, la Scuola di Barbizon, Corot etc.; se ami l’Espressionismo, allora ci vogliono i primitivi medievali meno noti, Cosmé Tura, i manieristi, Rembrandt, Hals, curiosità ed eccentricità del secolo XVIII, ex voto, arte popolare, primitiva e via di seguito; se cominci ad acquistare il Cubismo, dovrai ricostruire con qualche Cézanne, qualche scultura africana, ma diversa da quella che piace agli espressionisti, e così via all’indietro nel tempo gli artisti più “geometrici”, più “costruttivi”. Valga per tutti il MOMA di New York sotto la direzione di Alfred H. Barr , ferreo sostenitore di una rigorosa visione della storia dell’arte come via che porta all’astrattismo, nelle sue diverse forme e percorsi; ciò che non ha contribuito a tali “evoluzioni” viene considerato un equivoco o tutt’al più messo in posizione di dipendenza dialettica, come deviazione antitetica che ha permesso una più consapevole sintesi. Da questa impostazione nasce anche l’arte per le collezioni, o per i musei, cioè un’arte fatta apposta per inserirsi nel percorso stabilito, deduttiva, evolutiva, formalista, nonché un’arte calcolata per “star bene” nella tal collezione o sala di museo, arte d’arredo. Il sistema si autoalimenta: il collezionista cerca qualcosa di preciso, che consolidi il suo percorso e lo sviluppi conseguentemente, l’artista segue la stessa logica, glielo realizza e giustifica il proprio lavoro come sviluppo di una linea dell’arte. In mezzo ci sono ancora collezionisti fuori dalle regole, come per molti versi la stessa Gertrude Stein, che raccoglie intorno a sé artisti diversi nel suo salotto del sabato sera in rue de Fleurus, che sceglie opera per opera, che ama la complessità di una situazione che non vuole ridurre a un’unica linea dominante. Ma intanto con le avanguardie questa stessa logica si acuisce, non senza innescare, radicalizzandosi esteticamente, ulteriori cambiamenti decisivi. Il collezionista ora non solo aderisce al presente, ma, moltiplicandosi i movimenti artistici a un ritmo sempre più serrato, partecipa con la propria scelta al successo di uno di essi, di cui condivide gli assunti e gli eventi, spesso almeno parte della stessa vita di gruppo; oppure “punta”, “scommette” su di esso come quello che lascerà un segno nella storia, che avrà un futuro  L’esasperazione avanguardistica di quest’ultimo modo diventa la ricerca costante del nuovo, del seguente, la scommessa sempre più concentrata sull’anticipazione del futuro: arrivare prima degli altri. Le collezioni così cambiano di continuo, si rinnovano come e con i movimenti artistici: a ogni nuova tendenza sulla scena, la precedente passa in cantina o in magazzino, quando non va addirittura venduta, e i collezionisti si fanno a loro volta direttamente o indirettamente mercanti. Oppure, meno radicalmente, soprattutto quando è possibile per disponibilità di spazi e di mezzi, la collezione, mentre procede in avanti nella scommessa sul futuro, seleziona all’indietro e documenta, ma in realtà, ancora una volta, dialetticamente tra i poli dell’ordine e del disordine. rapporto che Benjamin giudica «assai enigmatico», cioè «un rapporto con le cose che non esalta in esse il valore funzionale e dunque la loro utilità, studiandole piuttosto e amandole come la scena, il teatro del loro destino».I collezionisti, afferma qui Benjamin, sono i fisiognomisti delle cose: «Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti della sua vetrina. Appena li tiene in mano, pare guardare ispirato attraverso di loro, nelle loro lontananze». Caso e destino si intrecciano; quel che ne deriva è un’autentica rinascita: Non esagero: per l’autentico bibliomane l’acquisto di un vecchio libro significa la sua rinascita. E appunto in ciò sta l’aspetto infantile che, nel collezionista, si compenetra con quello del vegliardo. I bambini, infatti, dispongono della capacità di rinnovare l’esistenza come di una prassi centuplice e mai in imbarazzo. Per loro il collezionare è uno tra i tanti metodi di rinnovamento  Il possesso allora, conclude Benjamin, lungi dall’essere un vizio feticista, è il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose: «non come se le cose fossero viventi nel collezionista, piuttosto è egli stesso che abita in loro». Ma la riflessione di Benjamin sul collezionismo si fa più fitta e impegnativa nel Passagenwerk. Riprende comunque dagli stessi argomenti: «Il collezionista è il vero inquilino dell’intérieur», «Egli si assume il compito di trasfigurare le cose. È un lavoro di Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse, il loro carattere di merce.» Le libera dal valore d’uso, dalla «schiavitù di essere utili».: Ciò che nel collezionismo è decisivo è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa “completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui proviene. [...] Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diviene piedistallo, cornice, basamento, scrigno del suo possedimento. Per Benjamin determinante è il carattere storico dell’oggetto da collezione, condensato del passato. Ma al presente il tempo subisce un’altra trasformazione ben singolare, e peculiare della collezione, perché quanto accade al collezionista è che gli oggetti gli capitano. Il modo in cui li insegue e li raggiunge, la modificazione che un nuovo pezzo che si aggiunge apporta in tutti gli altri, tutto questo gli mostra le sue cose in stato di perenne fluttuazione  In fondo si potrebbe dire che il collezionista viva un pezzo di vita onirica. Anche nel sogno infatti il ritmo della percezione e dell’esperienza vissuta è così alterato che tutto – anche ciò che è in apparenza più neutrale – ci capita, ci riguarda. Il collezionista intraprende una lotta contro la dispersione. Il grande collezionista è originariamente toccato dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano le cose in questo mondo». Il collezionista allora riunisce ciò che è affine: è così che «può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro affinità o della loro successione nel tempo».Affinità e destino sono la posta in gioco delle cose liberate dall’utilità secondo Benjamin. L’unico esempio di collezionista che egli riporta risulta significativo a titolo conclusivo: «Il grande collezionista Pachinger ha messo insieme una collezione di oggetti che, per inutilità e stato di deterioramento, Non sa quasi più lui stesso come le cose si mantengano in vita, spiega ai suoi visitatori, accanto ai più vetusti apparecchi, fazzoletti, specchietti etc. Di lui si narra che, passeggiando un giorno per lo Stachus, si sia chinato a sollevare qualcosa: giaceva là un oggetto cui aveva dato la caccia per settimane: l’esemplare difettoso di un biglietto di tram, che era stato in circolazione solo per un paio d’ore». Molto vicino a Kurt Schwitters, di cui pure si racconta di come raccogliesse da terra scarti di ogni genere, in cui vedeva il pezzo mancante che da tempo cercava per concludere un suo collage, Anton Pachinger è come Breton al mercato delle pulci in L’Amour fou . Benjamin non pare aver direttamente collegato immagine dialettica e oggetto da collezione, ma il rimando a noi pare evidente e preme ribadirlo: l’oggetto che entra nella collezione è come un’immagine dialettica, compreso l’effetto di shock che esso comporta sull’insieme in cui si inserisce, che rimescola e ristruttura, creando nuovi nessi e percorsi . In tale oggetto i tempi si dialettizzano  inseriti in una cronologia che è storica ma anche personale ed ermeneutica, che rilegge il passato alla luce del presente e che anticipa un futuro già inscritto. Didi-Huberman: Benjamin intende [l’immagine dialettica] innanzi tutto nel modo visivo e temporale di una folgorazione: “L’immagine dialettica è un’immagine che folgora” scrive nel 1939 nei suoi frammenti su Baudelaire  “L’immagine dialettica è un fulmine sferico che corre sopra l’intero orizzonte del passato”. Essa delimita in ciò uno spazio proprio, un Bildraum che caratterizza la sua duplice temporalità di “attualità-integrale” (integraler... Aktualität) e di apertura “da ogni lato” (allseitiger) del tempo. Tale è la potenza dell’immagine, e tale è anche la sua essenziale fragilità. Potenza di collisione, in cui cose, tempi, sono messi in contatto, “urtati”, dice Benjamin, e disgregati nel contatto stesso. Potenza di lampo, come se la folgorazione prodotta dallo scontro fosse la sola luce possibile per rendere visibile l’autentica storicità delle cose. Infine gli stessi Passagenwerke sono di fatto una sorta di collezione, montaggio di citazioni, corrispettivo letterario dell’Atlante warburghiano. Preme ribadire anche questo, per sottolineare una volta per tutte che l’idea di collezione di cui stiamo parlando non è una concezione astratta e formalista, ma va necessariamente e storicamente insieme a una prassi che porta questa forma fin dentro il proprio modo sia di pensare sia di esporre il proprio pensiero. Warburg e Benjamin si distinguono da altri prima di tutto per questo. All’opposto, per proseguire con la nostra scorsa storica, sembra che tra il 1939 e il suo suicidio nel 1945 Hitler abbia perseguito due modalità deformi di collezionismo: l’una consisteva nel raccogliere i più grandi capolavori dell’arte europea che incontrava sul percorso delle sue imprese, tra bottini, confische e anche, pare, qualche acquisto; la seconda nell’ordinare la sistematica riproduzione fotografica di tutte le opere d’arte importanti della Germania, in caso fossero andate distrutte dalla guerra e dai bombardamenti degli Alleati. Valga questo esempio d’effetto per ricordare come dal legame tra megalomania collezionistica e pretesa archivistica possa correre in tutta la sua esasperazione totalitaria il rischio del collezionismo archivistico non creativo, se possiamo sintetizzare così. Da parte sua, mentre i musei si moltiplicano in tutto il mondo, André Malraux concepisce nel dopoguerra quello che chiama il “Museo immaginario” o senza pareti, mentale, museo del sapere, che è sempre «più vasto dei musei reali», che denuncia la staticità e le pretese oggettive della museografia, che ricorda come, ancora una volta, non tutto ciò che è esposto nei musei è nato come opera d’arte, che l’arte non aveva la stessa funzione prima della modernità – prima della benjaminiana “epoca della riproducibilità tecnica” –, che le cornici, gli stili, lo stesso sguardo non sono mai stati come ora, che sono in continuo cambiamento. «La metamorfosi non è un incidente, è la vita stessa dell’opera d’arte»  il Museo immaginario è il museo consapevole del cambiamento continuo delle forme e delle concezioni, delle funzioni e dei significati. Ma c’è di più: il museo «troverà la sua forma solo quando avrà smesso di confondere l’opera d’arte con l’oggetto d’arte , quando il Museo immaginario gli avrà insegnato che la sua azione più profonda sta nel suo rapporto con la morte ». Le opere non sono oggetti, sono “voci”; l’arte non appartiene alla conoscenza, ma alla “vita”, alla “presenza”: «il vero Museo è la presenza, nella vita, di ciò che dovrebbe appartenere alla morte». L’arte non è come la parola, ma come la musica: «È il canto della metamorfosi, e nessuno lo ha sentito prima di noi – il canto in cui le estetiche, i sogni e persino le religioni non sono più che libretti di una musica inesauribile». Questo museo è sì “immaginario”, ma è anche quello di chi ama veramente l’arte, è la forma dell’amore, invece che della conoscenza, dell’arte. In questo senso è un po’ il fondo, il sostrato su cui poggia ogni desiderio di collezionare, di dare sostanza a tale “immaginario”, di dargli forma visibile da esibire a chi non sente e non vede, o dimentica . Ogni collezionista, fosse pure inconsapevolmente, esibisce la sua passione ideale per l’arte, il suo senso di un Museo immaginario. Benjamin: “inconscio ottico”  La fotografia infatti non solo amplia le possibilità visive dell’occhio umano, ma mostra ciò che a esso spesso sfugge, o che guarda senza vedere, come le posizioni nel movimento – come ha mostrato la cronofotografia – o i dettagli negli ingrandimenti, ma anche solo la varietà dei dettagli di una scena di cui lo sguardo seleziona sempre solo una parte, fino agli aspetti propriamente inconsci sia del comportamento umano sia dello sguardo.Così la fotografia ci ha mostrato parti, dettagli e aspetti di opere d’arte che non avevamo mai visto o mai notato e che ora entrano a far parte integrante dell’opera così come la vediamo, ricordiamo, interpretiamo. Il Museo immaginario di Malraux è un museo di riproduzioni fotografiche, è il libro omonimo, un altro “atlante” da questo punto di vista, un’altra “opera”. IV. Anni 70 curioso rovesciamento, la direzione si inverte: il collezionismo non è più solo affare di chi, non artista, raccoglie le opere altrui, ma entra direttamente nell’arte, come l’arte nel collezionismo; la forma del collezionare entra cioè a far parte delle modalità del fare arte: gli artisti raccolgono ed espongono collezioni quali opere proprie  lo sviluppo dell’assemblage ad aver innescato la questione. Sviluppo tridimensionale del collage, l’assemblage è già negli anni cinquanta nelle mani di Joseph Cornell, di Robert Rauschenberg, dell’Independent Group, la forma che dispone l’artista a raccogliere e ad accostare, a cercare modalità nuove di stare insieme e di connettere. Cornell costruisce piccole scatole, raccolte di materiali di affezione, di ascendenza surrealista e schwittersiana, ma di atteggiamento del tutto diverso, più intime, con rimandi in cui si intrecciano – come fa al caso nostro – lo storico e il personale. Allora inserisce illustrazioni di opere del passato o pubblicità o ritagli di giornale o oggetti che evocano l’arte del passato e gli stili dell’arte d’avanguardia europea, sorta di «souvenir di un mondo che non ha mai conosciuto direttamente», come scrive Kirk Varnedoe, 1 anticipo di una poetica della citazione che verrà solo vent’anni dopo. Su di lui e sulle sue opere Charles Simic ha scritto un libro che è a sua volta una collezione, dal significativo titolo Il cacciatore di immagini. Cornell sapeva quello che stava facendo? Sì, ma in prevalenza no. Le idee sull’arte vennero dopo, se mai vennero chiaramente. E come avrebbero potuto? La sua è una pratica divinatoria. In Cornell collezionista e artista sono così intrecciati che Simic, per mostrarlo, ne scambia addirittura i tempi: prima collezionista che artista, che significa artista-collezionista fin dall’inizio. Ricorre qui un tema classico della ricerca artistica moderna che è al cuore anche del collezionare: il “non sapere”, che è, l’abbiamo ribadito diverse volte, un non sapere prima, cioè un non seguire un progetto prestabilito, ma che talvolta viene scambiato per un’inconsapevolezza esibita come antiformalismo e antintellettualismo. La questione è invece quella dell’intreccio e rovesciamento dei tempi: è dopo che il progetto acquista senso, si ristruttura, anche se poi appare come ordine e dunque come se fosse stato stabilito prima. Il collezionare è appunto questa idea di forma, attiva, che dà forma mentre si fa e che rende pertanto il contenuto inestricabile dalla forma stessa. È la scoperta, è il memorabile «Io non cerco, trovo» di Picasso. La centralità di un’opera come Rebus di Rauschenberg, del 1955, sta per noi nel suo mostrare il risvolto più attuale di questo argomento. Essa mostra fin dal titolo di che cosa si tratta: il disporsi dei materiali di una collezione, qui di un collage, così come il disporsi dei materiali di un pensiero visivo, va visto come un rebus, vale a dire come un percorso di accostamenti, incastri, salti, sovrapposizioni, non più lineare e sintatticoarmonico, che tuttavia dà un senso, un altro senso, non più identificabile con una frase, un “discorso”. Questo – il rebus – che, ricordiamolo, era già un’indicazione che Freud dava per l’interpretazione dei simboli dell’inconscio nel “lavoro dei sogni”, non è più una metafora, una fissazione formale, ma è ora come si presenta alla nostra percezione e conoscenza il mondo stesso, quello urbano in particolare, fatto di ritmi serrati, di stimoli diversi, interrotti e incastonati l’uno nell’altro, di diversioni e distorsioni. Ora la nostra stessa mente lavora in questo modo, raccogliendo come arrivano di mano in mano gli stimoli, le immagini, i suoni, le idee, gli odori, che ci giungono in sequenze complesse e casuali, veloci e da tutte le direzioni, e che selezioniamo e montiamo per associazioni e automatismi. È quanto ha registrato l’Independent Group londinese attraverso l’evoluzione degli argomenti delle sue mostre. Se la prima mostra del 1951, esito finale di una sessione di conferenze e gruppi di studio in cui si organizzava, è “Growth and Form” (Crescita e forma) – allestita da Richard Hamilton prima della fondazione ufficiale del gruppo –, incentrata ancora sul rapporto tra forme naturali e forme artistiche, le pensieri e nelle dichiarazioni di Broodthaers e, sicuramente, nel suo lavoro»; ovvero: «Per dirla in sintesi estrema, esiste un modo in cui egli seppe effettuare una forma di détournement su se stesso». L’osservazione è importante, perché sgancia il simbolo dall’essere puramente un tema, un soggetto iconografico, come in tante collezioni appunto “a tema”, per diventare l’indicatore stesso della logica del dispositivo. In questo senso Broodthaers ha realizzato un corrispettivo più “privato” del Museo delle Aquile in un’altra opera, questa volta esplicitamente intitolata Ma collection, che si presenta, almeno nel titolo, come la “mia” collezione personale, più intima, e come un condensato significativo, invece che un progetto aperto e ampio, suscettibile di sempre ulteriori apporti e integrazioni. In realtà il “mia” di Ma collection gioca su un significato e una forma autoreferenziali: la collezione di me : L’opera infatti è composta dalle pagine di alcuni cataloghi di esposizioni cui l’artista ha partecipato e in cui ha integrato un ritratto del poeta Mallarmé, che ricorre anche nelle altre parti dei due pannelli (fronte e retro) che la costituiscono. La “mia” collezione è la collezione di me come artista, della documentazione che mi riguarda – e comprende la mia immagine, cioè me stesso, precisa Broodthaers – un “sistema tautologico”, come lo definisce, se non fosse per quella presenza singolare, atto d’affetto e dichiarazione estetica, del ritratto di Mallarmé. Rosalind Krauss, richiamandosi a Douglas Crimp che si rifà a Walter Benjamin, conclude la sua interpretazione osservando che la presenza di Mallarmé introduce anche un’aria “fuori moda”, che, rimandando come Broodthaers fa sovente al XIX secolo, critica il consumismo odierno e lo fa – come direbbe appunto Benjamin – secondo «l’ambivalenza tra l’elemento utopico e quello cinico», poiché «proprio nel momento dell’obsolescenza di una tecnologia questa [libera] ancora una volta la dimensione utopica, come l’ultimo bagliore di una stella morente. Poiché l’obsolescenza, vera legge della produzione delle merci, libera l’oggetto fuori moda dalle restrizioni dell’utilità e rivela le false promesse di quella legge». Altra modalità, quella di Broodthaers, machiavellica ma contemporanea (cioè “decostruttivista” ante litteram), e sempre tutta collezionistica, di liberare gli oggetti e le forme dalla “schiavitù di essere utili”. Il tema della cosiddetta “obsolescenza”, rilanciato proprio da Krauss, è un altro nodo importante dell’idea di collezionismo che andiamo qui illustrando. Intesa solitamente come l’invecchiare, l’andare fuori moda – secondo i parametri dell’avvicendamento obbligatorio, del sempre nuovo della moda –, come ciò che va scomparendo, esaurendosi, perdendo di utilità o appeal, era la molla della ricerca da parte del collezionista di ciò che non si troverà più, del raro rimasto in pochi esemplari, di ciò che incarna il passato. Benjamin l’ha invece ripresa in una versione diversa. Secondo la sua ipotesi, in ciò che va scomparendo sostituito da una versione più aggiornata, utile, efficace, si anticipa talvolta qualcosa di addirittura più avanti, anzi di ciò che, scavalcando la nuova invenzione, la soppianterà con un’altra da essa derivata. Così nel panorama, reso obsoleto e sostituito dalla fotografia, in realtà è in nuce il cinema, che sarà uno sviluppo e superamento della fotografia stessa.17 Evidentemente è lo stesso meccanismo temporale dell’immagine dialettica, e allo stesso modo di quella ci dice come la ricerca del passato da parte del collezionista è semmai ricerca dell’obsolescenza, ovvero di ciò che possedeva un’anticipazione del presente, e magari un barlume di futuro. Lo sguardo del collezionista è quello che coglie tale spunto, tale nodo, che nella “malinconia” dell’oggetto obsoleto non si ferma alla nostalgia del passato ma vede qualcos’altro che è il presente a rivelare e che rimescola i dati del presente stesso ed è già teso verso uno sviluppo insospettato. Ora sono dunque gli artisti stessi ad accorgersi che collezionare è un modo particolare di scegliere, accostare, tenere insieme le cose, e assumono questa forma come una modalità del fare e dell’esporre. È, la loro, anche una risposta “concreta” a una società che sta diventando prima di tutto una società dell’immagine, o dello “spettacolo”, come denunciano i situazionisti. Di fronte alla riduzione di tutto a immagine, alla sostituzione della presenza materiale con la virtualità e a quella della ricerca dell’autentico con la manipolazione del già noto, all’accumulo indiscriminato, alla quantità, al consumismo del sempre nuovo, la collezione valorizza gli oggetti, ne gode le relazioni, ricerca la qualità, riannoda le dimensioni temporali. È, infine, una riflessione sulla forma stessa, e precisamente sul suo contenuto: sia personale, privato, che pubblico, esemplare. Andy Warhol che, mentre accumula per ripetizione sulle tele, contemporaneamente, privatamente, per se stesso, raccoglie quantità immense di materiali vari nella sua collezione personale nonché in quelle che chiama Time Capsules, capsule del (o di) tempo: il tempo appunto, il cambiamento, l’irreversibilità, la morte, tema centrale in Warhol, ma anche il tempo interno di ogni capsula, di ogni raccolta; il tempo come intervallo spaziale tra le parti di un momento esposto attraverso la varietà dei suoi componenti simultanei, e il tempo in sé, qualunque cosa esso sia, in quanto “cosa”, presenza. Oppure Gilbert & George, che dagli anni settanta raccolgono nei Secret Files migliaia di campioni di tutto ciò che entra poi nelle loro opere, delle immagini delle opere stesse e di tutto ciò che vi sta intorno, progetti, esposizioni, mondanità, destinazioni; ma non solo, raccolgono anche tutto ciò che li interessa ed è parte afferente alle tematiche delle loro opere, che sono il loro mondo, la loro stessa vita: è allora la collezione che rimanda all’opera o l’opera che rimanda alla collezione? Non riducibili né alla documentazione né al puro materiale preparatorio per le opere, gli archivi di Gilbert & George risentono dell’atteggiamento del collezionista. La quantità di fotografie di uno stesso soggetto supera di gran lunga i preparativi di un’opera e innesca un salto di qualità : “ Ci fanno sempre venire in mente delle carte da parati cinesi. Tutte queste sono immagini di piscio, ce ne sono letteralmente migliaia. E quelle sono di sangue e di sperma.. Perché esistono dei crocifissi nel piscio? Perché dei pugnali nel sangue? Forse l’essere è riflesso ovunque in noi e non solo nella testa, nell’anima o nel sesso, ma percorre il corpo intero”  Di contro alla praticità del sistema di archiviazione e alla concretezza dell’accumulo si staglia la libertà della visione e l’attaccamento a ognuno dei numerosissimi oggetti. Sono due vie diverse : «Seguiamo due vie allo stesso tempo: una molto organizzata, pratica, metodica; l’altra completamente folle, completamente fuori, suonata». È qui che si colloca lo snodo del rovesciamento in atto. progetto come quello della Variable Piece #70 (1971) di Douglas Huebler, che aspira inverosimilmente a «documentare fotograficamente fino alla fine dei suoi giorni l’esistenza di ogni persona vivente, con lo scopo di produrre la rappresentazione più autentica e più completa della specie umana che possa venire così riunita». Vi è in essa un compito impossibile assunto come tale fin dall’inizio, che dà al progetto, alla serialità tipici di tanta Arte Concettuale, uno slancio poetico ed esistenziale che rimanda al dopo anziché al prima, che differisce anziché eseguire, che dà vertigine – che “confonde”, mescolando gli spazi e i tempi in modo da renderli irriconoscibili secondo i criteri stabiliti – anziché asserire. I casi più clamorosi di raccolte di immagini che diventano programmaticamente opere sono di area germanica, ognuno diverso e che presenta un lato differente della questione del rapporto raccolta-opera. A partire da Gerhard Richter, con il suo Atlas (work in progress dal 1962). Atlante, appunto, e non semplice riserva o archivio di soggetti per le opere, suggerisce più direttamente come anche l’artista colleziona “prima” di dipingere, sceglie cioè i soggetti delle proprie opere un po’ come il collezionista sceglie le opere della propria collezione, e li tiene tutti a disposizione in un insieme simultaneo, creando rimandi, connessioni, sviluppi, agganci. D’altro canto la collezione come forma è anche una risposta al museo come istituzione, alla sua struttura rigida e autoreferenziale, metadiscorsiva anziché diretta, formalista anziché vitale, tutta pubblica e istituzionale piuttosto che, almeno dialetticamente, anche privata e intima. E poi è risposta alla critica stessa del museo, dell’istituzione, dell’esposizione, che entra sempre più nell’arte degli anni settanta, a sua volta, da questo punto di vista, spesso rischiosamente formalista e metadiscorsiva. Atlas : da un certo momento in poi sia stata in qualche modo intesa come opera lo dimostra la sua esposizione in diverse occasioni, a parete – vedremo più avanti il significato di questa precisazione – e incorniciata pezzo per pezzo. Che sia un’opera sui generis è questione centrale qui, conviene ribadirlo, perché questo incrocio di collezione e opera cambia lo statuto di entrambe, certo non solo di quello della collezione, anche se questo aspetto in Richter è ancora in nuce rispetto ad altri che seguiranno, perché comunque l’artista ancora dipinge a partire da alcune delle immagini collezionate e dunque resta questa ambivalenza. Sul tipo di immagini, sul sistema di scelta e di catalogazione, le discussioni sono numerose e ancora aperte. L’aspetto più interessante è come l’Atlas contenga in sé diversi modelli di raccolta, e non si attenga a uno solo, omogeneo. C’è un po’ dell’album di famiglia nelle immagini private, c’è l’album di ritagli, c’è lo studio di dettagli di proprie opere – quindi anche immagini “dopo” l’opera – e altro ancora. Anche sulle ragioni di una raccolta così complessa le ipotesi sono molte: si va da quelle estetiche, di sintonia con la Pop Art nel voler lavorare su immagini già esistenti piuttosto che inventarne di nuove, alla volontà di distinguersene scegliendone di diverse da quelle del consumo (scatolette, divi, fumetti o simili); alle ragioni di contenuto, soprattutto là dove prevalgono i rimandi storici o artistici, aggiornati all’attualità o intrecciati all’autobiografia; alle ragioni che saranno poi dette “postmoderne”. Su queste ultime il dibattito è il più acceso: Richter, come Warhol, azzera tutto mettendolo sullo stesso piano nell’indifferenza, ritraducendo tutto in grigio, quando non dissolvendo in pennellate astratte o altro modo? C’è Aby Warburg o c’è Jean Baudrillard dietro questo Atlante? In gioco è il senso dell’iconografia oggi, e il senso della documentazione. Da un lato c’è il diventare tutto immagine, per cui l’iconografia cerca la ricorrenza delle stesse immagini o di dettagli come segno indicativo al di là del suo contenuto manifesto; dall’altro c’è il viaggiare, fra un po’ si dirà “navigare”, tra le immagini alla ricerca di sintomi e metafore; dall’altro ancora c’è il lato personale dell’appropriazione, l’intrecciare il proprio dentro a ciò che è pubblico e condiviso il lavoro stesso dell’artista sta diventando molto simile a quello del collezionista. Infine, per trasposizione, se l’ Atlas di Richter è un’opera, l’opera di Richter è un Atlante, cioè l’insieme dei dipinti dell’artista va guardato come una collezione, va sfogliato come l’ Atlas . Il libro diventa spesso la destinazione o il supporto – oggi si direbbe il medium – per le operazioni artistiche che allora vengono definite genericamente concettuali. Ma qui siamo appunto al margine dell’Arte Concettuale, segno anche questo della particolarità della questione che stiamo affrontando. Ebbene, non hanno molto della collezione come la intendiamo qui i libretti o i pieghevoli di Ed Ruscha degli anni 1963- 68, diversamente da quelli di Hans-Peter Feldmann, che anzi imposta tutto il suo lavoro in termini di collezione. Dal 1968 fabbrica piccoli libretti con immagini trovate e raccolte, perlopiù a tema, spesso vere e proprie collezioni in senso tradizionale, di cartoline, poster, immagini tratte da riviste e periodici. I soggetti sono i più vari, ma sostanzialmente semplici e diretti, come ritratti, fototessere, figurine di calciatori, animali, oggetti, bambini, uova, verdure etc. Dal 1977 presenta anche direttamente le raccolte e inizia una serie di esposizioni di oggetti, sempre di collezionismo, come i giocattoli e i gadget. I libri e le raccolte non hanno particolarità evidenti e Feldmann sembra giocare al puro raccogliere e al presentare mere raccolte, lasciando all’osservatore qualsiasi tipo di deduzione. Certo, talvolta i titoli sono pungenti, come l’esplicito Voyeurisme , benché piuttosto generale. È appunto una questione di immagini e di sguardo, di immagini già esistenti e del modo di guardare. Sicuramente non si tratta di iconografia, ma il raccogliere per temi induce al confronto, al pensiero della variante, della varietà e della variazione. Il voyeurismo indica il lato individuale e personale di questa operazione. Quando, nel 2008, Feldmann ha finalmente riunito in un volume più grande e a più vasta tiratura diverse sue collezioni di immagini, l’ha intitolato Album , ribadendo il carattere personale e insieme ludico delle sue raccolte. L’album è quello che ciascuno realizza per sé, ma è anche quello da riempire con le figurine, uguale per tutti. È l’immagine della “società dell’immagine”, come ormai viene chiamata l’attuale, e al tempo stesso il contesto in cui ciascuno si muove inevitabilmente. In esso, collezionare è già un fare attivo, un selezionare, un cercare il proprio percorso, il proprio insieme, la propria posizione. I “libri” di Feldmann hanno un evidente intento polemico, contro il mercato, contro la feticizzazione dell’opera. Sono davvero “opere” questi libri? Chi li considera tali? Infine anche i libri diventano oggetti da collezione e il gioco si perpetua automaticamente: collezionare diventa contagioso e un altro “sistema” si crea in alternativa a quello conclamato. Sia per Richter sia per Feldmann si tratta di immagini trovate, mentre altri artisti le hanno realizzate da sé. Qui la fotografia acquista un ruolo importante e solo apparentemente scontato, perché rimette in gioco la questione del documento ma anche quella del ready-made. L’Arte Concettuale, la Body Art, la Land Art, l’happening, la performance hanno infatti recuperato la fotografia in quello che potremmo chiamare il suo “grado zero” documentario, pura registrazione dell’intervento artistico, tanto più neutra in quanto non opera ma sua rappresentazione, in varie forme e modi. Ma questa neutralità ha fatto anche pensare al procedimento fotografico come a un ready-made meccanico, prelievo non di un oggetto in sé ma di un’immagine che sta per quell’oggetto. Lo stesso Ruscha ne parla in questi termini per le immagini dei suoi libri-opera. In quest’ottica la fotografia, la serie fotografica, il libro, ogni altro supporto fotografico o qualsiasi tipo di presentazione, come andiamo a vedere, possono diventare opera a tutti gli effetti. Il Postmodernismo non è infatti solo quello descritto da Baudrillard, è anche la riapertura delle questioni, la necessità di riconsiderarle dopo il cambiamento sancito dal prefisso “post”; è anche una sorta di libertà dopo l’eccesso di analisi, una disinvoltura acquisita dalla consapevolezza che ogni soluzione fissa inciampa nell’universalismo, che ogni posizione rigida si svuota nella pretesa; è anche desiderio dai percorsi e dalle strategie non lineari, è accettazione delle peripezie dell’animo e attenzione alle meccaniche della passione. Christian Boltanski, che trova il censimento pubblico probabilmente più completo – e insieme più “esposto” – dell’umanità nella sua forma già materiale degli elenchi degli abbonati telefonici di tutto il mondo, o quella di Bertrand Lavier che raccoglie tutti gli artisti di cognome Martin del xx secolo e ne espone un’opera ciascuno, considerando l’insieme la sua propria “opera”. Così il Postmodernismo, secondo Fredric Jameson, è caratterizzato dalla riduzione della profondità a superficie, dall’indebolimento della storicità, sia pubblica che privata – «collasso schizofrenico nella catena significante», come lo chiama rifacendosi a Jacques Lacan –, dalla derealizzazione della realtà ridotta a immagine che produce una «sublime isteria», dall’abolizione infine della distanza critica e dunque dall’esplosione delle autonomie e specificità, sostituite da una perpetua distrazione e frammentazione psichica, sorta di «paranoia high-tech». Ma se l’orizzontalità, l’uscita dalla storia, isteria sublime e paranoia fluttuante, zapping e fine delle specificità fossero invece dei punti di partenza per logiche diverse e comportamenti nuovi? diversi artisti nell’ultimo decennio del secolo in particolare hanno esposto le loro collezioni, collezioni che hanno raccolto accanto al proprio lavoro d’artista e che a un tratto hanno fatto entrare nella loro opera, esponendole come opera propria: finalmente opera e collezione si identificano completamente, la collezione è l’opera, l’opera è una (la) collezione. Così, ancora un po’ autoreferenzialmente, o post-autoreferenzialmente, se così si può dire, Jac Leirner e Sylvie Fleury hanno esposto le loro collezioni di borse, il primo di plastica, la seconda più snobisticamente “di marca”. Borse che sono a loro volta strumenti per raccogliere, raccattare, fare la spesa o lo shopping di lusso. Il gesto qui è autoreferenziale perché espone una collezione per parlare del collezionare: lo shopping ne è la versione postmoderna, non più il consumo in senso pop, ma la scelta attraverso ciò che è messo a disposizione dalla società come costruzione del sé – non per niente l’opera di Sylvie Fleury era nella mostra “Posthuman”, incentrata su questo tema –, della propria individualità e singolarità, se non della propria originalità, concetto invece moderno. In questo senso tali opere sono un’anticipazione di quello che Nicolas Bourriaud chiamerà alla fine degli anni novanta la Postproduction : l’arte incentrata sull’utilizzo diverso di ciò che è già prodotto. Noi siamo ciò che usiamo – non più il pop: noi siamo usati da ciò che scegliamo – e la nostra identità non è riducibile alla somma, alla superficie dei prodotti che usiamo, così come l’immagine dell’intera superficie, vedi Leirner, non è riducibile a una superficie tatuata con i marchi pubblicitari,così come l’installazione di Leirner non è riducibile alla pittura e quella di Fleury alla scultura, per quanto l’una punti sulla bidimensionalità e l’altra sull’oggettualità. Ready-made postmoderni, essi invadono volutamente il nostro spazio per coinvolgerci nella loro performatività: cosa facciamo noi in quel senso? Che cosa e come scegliamo i nostri oggetti? Che collezionisti siamo? Collezioni che dventano opera di queste persone solo dopo essere esposte: 1) Karsten Bott ha esposto migliaia di piccoli oggetti quotidiani, anche usati, privi di valore economico, diversissimi tra loro. Il titolo del progetto è indicativo: Uno di ognuno (1988), perché della collezione viene sottolineato questo aspetto: che ce n’è uno per ogni tipo, che l’unicità è dato primario, che è di unicità che si fa collezione, l’unicità è il suo carattere e valore. Si tratta qui però di un’unicità che non è quella della rarità o del “pezzo unico”, non è quella dell’aura benjaminiana, ma quella assoluta della singolarità di ogni oggetto, anche se prodotto in serie, industrialmente: uno di ogni specie, quell’uno unico, inevitabilmente diverso, “differente”. Gli oggetti sono esposti a terra, sul pavimento, orizzontalmente sotto di noi: anche l’orizzontalità – come si sarà notato per altri casi già citati – è un carattere significativo della collezione, forma dello stare insieme degli oggetti, dei loro rapporti “orizzontali”, come si usa dire, di contiguità e giustapposizione, non gerarchici, non verticalizzati. 2) Madelon Vriesendorp coltiva ed espone due tipi di collezioni, una di cartoline e l’altra di gadget di ogni tipo, spesso radunati in base ai soggetti. Tra tutti, quello principale è a detta della stessa artista la città, noi diremmo allora più propriamente la metropoli, che molti sociologi e studiosi ormai considerano l’elemento, la condizione scatenante, il grande cambiamento in atto a tutti i livelli nel mondo: fine della città in quanto comunità organizzata, ordinata, regolata, e inizio di un’organizzazione a flussi, a zone, a nodi, a equilibri instabili e sempre cangianti, continuamente in costruzione  altra metafora in scala gigantesca e sociale della collezione. 3) Stefano Arienti, ha esposto diverse collezioni: di cartoline, di diapositive, di tessuti, da cui ha poi tratto spunti per ulteriori opere. Dalla collezione di cartoline per esempio ha tratto un multiplo ma anche le immagini che ha inciso su grandi fogli di polistirolo esposti a costruire una vera e propria parete, o accumulati come in un magazzino anziché uno a uno come quadri (1991); con quella di tessuti ha realizzato cuscini per un intervento di cosiddetta public art (2000). Oggi sposi (2003), infine, è una collezione di oggetti trovati, di quei biglietti, manifestini, striscioni che i novelli sposi disseminano per annunciare l’evento o che gli amici realizzano per festeggiarli. 1 ) la collezione ha un valore in sé, al di là di ciò su cui si esercita, al di là del suo oggetto, come “metodologia”, come “pratica”, che può per questo diventare artistica in sé; 2) il valore affettivo degli oggetti scelti per costruire una collezione, un’affettività che si trasmette negli oggetti stessi e si comunica ai suoi eventuali spettatori; 3) «ognuno, nella sua autistica paradossalità di individuo può tenere insieme degli elementi completamente disparati», come dice l’artista. Insieme ad Amedeo Martegani, Arienti ha realizzato un libretto contenente una collezione di immagini, Bugie tutti i giorni (1993), selezionate dagli album fotografici personali di amici: “scoprendo e inventando altre bugie per amor dell’arte», perché «Bugie tutti i giorni è un percorso costruito dalla dipendenza dalle immagini ma anche un’immersione nei materiali che rendono possibile la realizzazione di un’opera. È un’attenzione non solo alla concretezza o alla necessità – più o meno fondata – dell’opera, ma anche alla messa in scena dei suoi dubbi, delle sue moine, delle sue ambiguità, e che vede l’opera realizzarsi e farsi concreta dai materiali più incontrollabili e incontrollati. Questioni, queste, che attraversano anche la collezione, invece dell’archivio o del puro materiale utilizzato per realizzare opere. La collezione, infatti, testimonia, comprende, ingloba, “mette in scena” i dubbi, le moine, le ambiguità, l’incontrollabilità e incontrollatezza. 4) Martegani ha poi realizzato un altro libro: Né creature né creatore (1996), consistente in una collezione di immagini scontornate di fiori, sparse su poche pagine tra centinaia lasciate vuote – un po’ come si fa quando ve li si mette a seccare –, come incontri imprevisti tra le pagine stesse. I fiori sono scontornati in modo da mantenere un sottile profilo bianco di luce che sembra rendere visibile un’“aura”, vero soggetto di questa collezione certo non botanica. Scrive Martegani: I verbi del collezionismo sono quelli dei servizi segreti, del mondo dell’azione parallela, della simulazione o dell’azione mai avvenuta ufficialmente ma accaduta; [...] a volte invece può bastare avere avuto, aver visto, non necessariamente avere fatto prigionieri; alcune cose si arrendono in fretta e non è conveniente portarle con sé, poiché esauriscono magari in un solo dettaglio la loro necessità di cose; altre invece, inaccessibili e sempre diverse a ogni attenzione, devono essere isolate e magari riguardate, condivise, per mescolare e rimescolare quello che non viene mai a galla e resta segreto. Altre ancora prendono forma solo se raccolte tutte insieme, ordinate come aiuole, semplici ed elementari, inutili se sole. Collezionare è piegare il desiderio al di sopra delle cose chiedendo una compagnia vivente, è un esercizio di attenzione, un’assenza calibrata dalla storia. 5) Georges Adéagbo ha esposto la sua collezione di cimeli di Edith Piaf, ogni genere di oggetto al limite del feticismo, della collezione che chiama La resurrezione di Edith Piaf (2000): collezionare è, come già affermava Benjamin, far rivivere l’oggetto del proprio culto, non solo conservandone la memoria attraverso le sue testimonianze, ridandogli la vita mantenendone vivo il ricordo, ma anche rivivendo la sua vita: è rivivere e far rivivere rivivendo un’altra vita, la vita di un altro. Adéagbo espone talvolta i suoi oggetti per terra, orizzontalmente, riprendendo la modalità espositiva non tanto del collezionista quanto dei venditori ambulanti e occasionali, magari sopra tappeti o stuoie. Originario del Benin, egli allude in particolare alla condizione di extracomunitario e alla particolarità di quel tipo di “mercato”. Strategie dei collezionisti sono strategie per vivere, tout court, per riuscire ad avere un rapporto con il mondo, con le cose. «Allora lei direbbe che collezionare oggetti d’arte è idolatria?»16 chiede provocatoriamente il collezionista di porcellane Utz dell’omonimo romanzo di Bruce Chatwin al suo visitatore. 6) Tacita Dean, collezione di quadrifogli : finezza della vista e al culto dell’attenzione, ovvero di un perfetto intreccio di casualità e di concentrazione. È la dote primaria del collezionista. 7) Luca Pancrazzi ha realizzato nel 2007 un’installazione con la sua collezione di pesi per filo a piombo  Fili da me lontano da te, consiste in fili con peso all’estremità tesi in varie direzioni non perpendicolari a terra, che riempiono una stanza intralciando il passaggio e intersecando lo sguardo – un po’ alla maniera dell’allestimento di Marcel Duchamp per la mostra “First Papers of Surrealism”. Ma la questione principale qui è che ciò che dovrebbe segnare la direzione per eccellenza, quella della gravità, Pancrazzi lo fa andare in tutte le direzioni, e la pesantezza del metallo si rovescia in una sorta di libero volo. La “di-versità” del titolo contiene la varietà di significati: ognuno è diverso perché ha un verso differente, ognuno libero ma tutti direzionati... I fili sono tesi, la precisione non ne risente, l’intreccio non diventa intrico, groviglio inestricabile. I pesi svolgono di fatto la loro funzione, ma in maniera diversa. Tutti caratteri, anche questi, della collezione, ma importante è soprattutto il senso della direzione, una visione della collezione come di vettori precisi per quanto possano apparire disparati e complessi. 8) Jean-Luc Moulène con il titolo 24 objets de grève (1999). Si tratta di oggetti realizzati durante alcuni scioperi per comunicare lo sciopero stesso ed eventualmente sostenere, con la vendita, gli scioperanti. Sono giornali usciti senza immagini, pacchetti di sigarette con testo che comunica lo sciopero, gadget di diverso tipo, caricaturale, umoristico, serio, utile, inutile... A parte il loro supplementare ma intrinseco valore ideologico – o, in questo caso, postideologico? neosituazionista? neo-politico? – sono oggetti che hanno qualcosa in più o in meno del loro essere normale, una differenza che li caratterizza, significativa proprio perché li segna indelebilmente: sono infatti oggetti di produzione che comunicano la sospensione della “normale” produzione. Ebbene, l’oggetto di ogni collezione è sempre un po’ così: strano, particolare, comunque non normale, decontestualizzato e ricontestualizzato diversamente, forma una collezione di differenze. VI. Un’artista che ha fatto suo il tema della dialettica tra museo, collezione pubblica, istituzionale (che deve rispondere a funzioni didattiche, storiche o altro) e collezione privata, personale, libera, è Louise Lawler. Classificata come “decostruttivista”, in quanto usa la fotografia per svelare la struttura del reale, mostrandone il lato nascosto, rimosso, eppure sotteso alla logica stessa dell’evento preso in considerazione, Lawler ha fatto della collezione il soggetto della propria opera e insieme la forma della sua rappresentazione. Prima si è mossa nei musei, di cui ha fotografato le vetrine, le scelte e i modi espositivi, oltre che i magazzini, le opere imballate, poi è entrata nelle collezioni private. Si prendano per esempio quelle che possono sembrare semplici questioni di arredo, di gusto, di casualità dovute allo spazio: Lawler ne inquadra, propriamente, un significato latente o nascosto. Una zuppiera Settecento sopra un mobile davanti a un Pollock svela un inatteso fondo settecentesco in Pollock e al tempo stesso una modernità imprevista nelle forme e decorazioni della zuppiera. Un angolo di salotto vede raccolti come per caso un Delaunay dietro un televisore, tra una lampada disegnata da Lichtenstein, una finestra e una maschera africana, oggetti e opere che non sembrano avere niente in comune e di cui invece Lawler coglie il legame “Oggetti da vedere” se non “Questioni di visione” o simili. Il progetto giocava infatti su questa ambiguità, portando nelle sale del museo le opere che solitamente si trovano nei suoi depositi, in giacenza, come si suol dire, non esposte, e allestendole per accostamenti tra epoche, autori, stili diversi, soprattutto tra antichità e contemporaneità, trasformando, potremmo dire, il museo in collezione. Haacke lo dichiara esplicitamente nell’introduzione: Entrare nei depositi sotterranei di un museo è come entrare in una Wunderkammer. Artefatti di tutte le dimensioni e i valori, prodotte da individui (alcuni senza nome) di diversi periodi storici e reputazioni, appesi indiscriminatamente l’uno accanto all’altro e riposti intimamente vicini su scaffali o per terra. L’essere vicini è il principio che li governa. È la collezione.  Il testo in catalogo si intitola efficacemente HindSight, retrovista, a indicare una visione di quanto sta dietro di noi, alle nostre spalle, celato alla nostra vista, metafora originale della storia, che pretendiamo di vedere voltandoci come se questo fosse semplice e naturale, ma che, come illustra un famoso quadro di Magritte portato a prima illustrazione del testo – un uomo di spalle si specchia, ma il suo riflesso lo mostra ancora di spalle –, in realtà noi vediamo “di spalle”. Salvo dunque cambiare punto di vista o modo di visione. Allora esporre il deposito significa non solo mostrare le “spalle” del museo e metterlo al posto del “fronte”, ma anche “voltare” il passato e renderlo operante attraverso gli accostamenti, attraverso uno sguardo al presente. Oggetto esposto , entra in una “ conversazione” con altri artefatti e, a seconda del contesto in cui è posto, innesca modi particolari di visione diversi da altri. Sia come metafora che come agente diventa parte delle negoziazioni – e della lotta – su come comprendiamo il mondo e le nostre relazioni sociali. Nel 2007 il Museo Fortuny di Venezia inizia una trilogia di mostre, ideata da Axel Vervoordt, impostata sugli accostamenti al di là delle epoche, degli stili, delle firme – nonché con opere nuove commissionate per l’occasione –, a tema, ma che vanno al di là del tema. Ospitate da un museo che è già una collezione, perpetrano questa sua vocazione con spirito collezionistico. La prima è intitolata “Artempo” mette in discussione prima di tutto la concezione lineare del tempo, sottolineando come esso «agisca, formi e trasfiguri l’arte».. Il visitatore non deve seguire un percorso predeterminato e non ha indicazioni prescrittive sugli accostamenti, ma coglie-costruisce i rimandi, immagina la propria collezione ben più che avere di fronte una collezione già fatta e costituita. La seconda, l’anno seguente, si tiene a Parigi e si intitola “Academia: qui esttu?”; la terza, nel 2009, di nuovo a Venezia, si intitola “In-finitum”, dove il trattino indica bene l’idea di dialettica con la finitezza, più che di affermazione di totalità. La formula resta la stessa e l’impatto anche. Tanto che la trilogia conosce già un’estensione nel 2011 con “Tra. Edge of Becoming” (Tra. Le soglie del divenire), dove è il titolo a dare indicazioni nuove. Il “tra” indica il rapporto, lo spazio intermedio, l’intervallo, il salto tra dimensioni diverse, il passaggio, il divenire appunto, tutte idee alla base della collezione. Vale la pena cogliere l’occasione per sottolineare però i diversi sensi di tale “spazio intermedio”, che non è solo rapporto, o non-rapporto in senso comune, ma anche vuoto attivo, intervallo costruttivo, ciò che sta tra le due cose, ancora una volta con e senza le cose stesse. Più fashion e insieme più libero è l’ultimo esempio che chiamiamo in causa, quello di uno stilista di moda nonché collezionista d’arte per passione, ma anche per sintonia e per ricerca di ispirazione, quindi di interazione, di reciprocità. Ci riferiamo all’edizione del 2008 dei Rencontres d’Arles, la rassegna annuale di fotografia affidata quell’anno allo stilista Christian Lacroix, che allestisce una scelta di opere dalla propria collezione, nonché di proprie “creazioni”, all’interno delle sale del Musée Réattu. Il dialogo era assicurato e funzionava come un gioco di specchi tra il passato e i due livelli del presente, quello delle opere degli artisti e quello delle “opere” dello stilista, con scambio vicendevole. Il caso è interessante perché diverso dagli altri, trattandosi di una mostra realizzata direttamente dal collezionista, che è anche “artista”, seppur in altro ambito, e che mette proprio per questo in gioco la sua doppia appartenenza, la sua bifrontalità. Scrive lo stilista: Se la storia dell’arte non ha costituito per me né un fine né una carriera, mi ha comunque “segnato” per sempre e insegnato a vivere la mia passione in un modo più quotidiano che museografico, più applicato che colto. Mi sentivo più innamorato/amatore che specialista o professore e questo cammino, che ho creduto a lungo deviato o trasversale ma che era molto semplicemente il mio destino – la moda e il costume –, rimane bordato di monumenti. È un percorso costellato di immagini senza le quali vivere mi sarebbe impossibile  catalogo è un ulteriore allestimento, questa volta dei suoi materiali di lavoro, la sua iconografia, il suo atlante, disposto proprio come un montaggio di queste immagini che lo hanno ispirato, che sono entrate nel suo lavoro, dentro le quali il suo lavoro è entrato. Principio del montaggio, inteso non tanto in senso cinematografico quanto in quello warburghiano- collezionistico  Georges Didi-Huberman afferma che Il montaggio dunque è un work in progress, un “lavoro” – nel senso freudiano del termine – con cui si costruisce un insieme, dove «si tengono insieme, fosse pure contraddicendosi, tutte le dimensioni del pensiero», un lavoro «permanente della riflessione e dell’immaginazione, della ricerca e del ritrovamento». Come un diario, come quello di Bertolt Brecht che Didi- Huberman commenta, fatto insieme di scrittura e di immagini, di idee e di oggetti, di spunti concettuali e di trovate visive, o se si vuole, viceversa, di spunti visivi e di trovate concettuali, di storia e di attualità, di autobiografia e di cronaca. Un diario personale e pubblico insieme, scritto per così dire in terza persona, in una sorta di “singolarità impersonale”, come riprende Didi-Huberman rifacendosi a Gilles Deleuze. Il montaggio mette in crisi la distinzione tra le categorie prefissate, è ed ha una forma aperta. Mostra, non dimostra: espone, procede per associazioni con materiali di ogni tipo, crea una rete di relazioni, svela articolazioni impreviste. Ha valore creativo e documentario al tempo stesso, impegna sia la memoria sia l’analisi sia l’intuizione, perfino la premonizione. Dialettizza discontinuità e racconto, muove per deviazioni (détours), meandri, salti. Decostruisce gli automatismi, innesca effetti critici; chiede allo spettatore di uscire dalle sue abitudini e saperi costituiti e di moltiplicare i suoi punti di vista. È “straniante”, «mostra smontando», rivela altri rapporti possibili  Mostra «la dis-posizione delle cose», cioè un loro ordine diverso. : “Là dove il filosofo neo-hegeliano costruisce degli argomenti in vista di porre la verità , l’artista del montaggio fabbrica invece delle eterogeneità in vista di dis-porre la verità in un ordine che non è precisamente più l’ordine delle ragioni, ma quello delle “corrispondenze” (per dirla con Baudelaire), delle “affinità elettive” (per dirla con Goethe e Benjamin), delle “lacerazioni” (per dirla con Bataille) o delle “attrazioni” (per dirla con Ejzenštejn). [...] Modo di esporre la verità disorganizzando, dunque complicando e insieme implicando – e non spiegando – le cose. “riscrivere” programmaticamente la storia dell’arte secondo tali princìpi, e naturalmente non a caso partendo dalla contemporaneità, è quello di Denis Gielen, significativamente intitolato Atlas de l’art contemporain à l’usage de tous (Atlante dell’arte contemporanea a uso di tutti). Esplicitamente ispirato a Warburg, ritornano nei suoi propositi le questioni che conosciamo: Questo atlante è nato dalla volontà [...] di produrre un’opera generale sull’arte contemporanea che non resti legata né ai movimenti artistici né alle discipline accademiche e non si limiti alle frontiere geopolitiche o ai capricci del mercato. Debordando dalle linee di demarcazione, propone una storia dell’arte in cui le distinzioni si fanno, prima di tutto, tra immagini. [...] Ispirate al curioso Bilderatlas di Aby Warburg, le tavole stabiliscono, oltre agli accostamenti tra opere attuali, delle corrispondenze tra immagini provenienti da epoche o ambiti talvolta lontani. A dire la verità, l’Atlante di Gielen non si concede tutte le libertà che potrebbe – che un collezionista si permette – e, in nome delle finalità pedagogiche, si organizza in «un’architettura gerarchizzata [...] il cui percorso va dal generale al particolare, dalle regole alle eccezioni, dalla lezione alla fantasticheria». Ma l’effetto è comunque ottimo e aperto e anche lo schema è complesso e solo indicativo. Si inizia dalla sezione dedicata alla visione, che si divide in occhio, macchina fotografica, piano, tatto, parata, a loro volta divisi in trenta voci; si passa alla sezione dell’argomento, diviso in amore, burlesco, melancolia, psicotico, morte, e infine alla sezione dello spazio, divisa in natura, architettura, viaggio, memoria, luogo, tempo. Ogni sezione comprende un ampio testo illustrato, ma sono soprattutto le numerose tavole ad “aprire” all’intervento diretto del lettore, come un visitatore tra le stanze delle mostre ricordate o un collezionista nella propria collezione. Il fine didattico interferisce spesso con il principio collezionistico, come si è visto in diverse occasioni. Ma, d’altro canto, è possibile una storia che sia una collezione? Questione complessa, come tutte le questioni “teoriche” o “di principio”, ma resta il fatto che non a caso essa si pone da più parti in questo periodo. Questione di attualità dunque, o di inattualità, se si preferisce. Blablala - Il gruppo Warburghiana si forma nel 2000 in riunioni e corrispondenze tra i suoi membri – tre artisti, Aurelio Andrighetto, Dario Bellini, Gianluca Codeghini, e il sottoscritto – che portano a una serie di esposizioni negli anni seguenti e alla pubblicazione nel 2005 del libro omonimo, in forma di corrispondenza.21 In quell’anno Warburghiana mette a punto un format che chiama “concerto sinottico”, che monta insieme immagini, video, musiche, videointerviste, performance, conferenze. In esso affronta le questioni che gli stanno a cuore, questioni “di contenuto”, come ribadisce in ogni intervento, in reazione al formalismo o all’opportunismo degli argomenti di molta arte allora in voga. Il concerto sinottico è programmaticamente basato sul principio del montaggio, infilando una serie di interventi e materiali diversi, fatti collidere l’uno con l’altro in una sequenza e in un allestimento e teatralizzazione che ne esaltano i collegamenti e stimolano il pubblico a stabilirne attivamente di propri. Nel 2007 Warburghiana apre un suo sito web e organizza anche quello in forma di montaggio, sia nella sequenza delle finestre sia nel format del desktop, ovvero i numeri di una sorta di rivista online pensata come montaggio dei materiali che espone. Ogni desktop è a tema e di esso Warburghiana ha la regia. Il termine cinematografico ritrova qui il suo senso autoriale, di colui che sceglie, produce, mette in ordine i pezzi del suo insieme, una collezione online. Ma la denominazione desktop allude anche all’idea di avere tutto a disposizione sul “tavolo”, sul piano di interfaccia ora, che invita il visitatore a percorrerlo con lo stesso spirito, non fissandolo nella versione che gli è offerta. Internet è già questo, nuova collezione impersonale, collettiva, tutta da rifare con il contributo di ognuno. VII. È dunque l’arte stessa a ribadirci che la collezione è davvero una forma attuale, che corrisponde a un sentire e un pensare rinnovato. Retrospettivamente viene da generalizzare che in fondo ogni artista ha e costruisce la propria collezione di rimandi, di maestri, di influenze; spesso ce l’ha – o quello almeno che di essa vuole mostrare – appesa in studio sotto forma di cartoline, ritagli, riproduzioni. Non solo, ogni artista ha anche una collezione immaginaria in cui vedrebbe nella miglior compagnia il proprio lavoro, ovvero alcune o ciascuna delle proprie opere; e ancora, per ogni artista la propria opera, intesa come insieme, è in un certo senso una collezione, cioè tutte collegate come in una perfetta collezione, ognuna con la sua ragione, il suo senso, la sua necessità. E i collezionisti? A sentirli si vede bene che la definizione del loro stato non li interessa direttamente, che vi sfuggono anzi, quasi timorosi di rivelare qualcosa di sbagliato o di forzare una situazione che essi vivono spontaneamente, pulsionalmente. Preferiscono raccontare, certamente, perché il racconto è la manifestazione esatta di questo stato che sfugge alla “teoria”, alla definizione, all’analisi. Raccontando, anzi, scansano insistentemente i tentativi di interpretazione, le domande che cercano di farli andare più “a fondo”, o in altre direzioni: per loro il fatto ha un valore in sé, è autoevidente, è esattamente “la cosa”, è quello che vogliono dire, non va interpretato, non ha altro significato. Alla collezione di oggetti si crea parallela una collezione di fatti, di ricordi, di racconti. Non per niente i collezionisti raccontano sempre gli stessi aneddoti, e ogni volta usano praticamente le stesse parole, aderendo perfettamente al fatto, al sentimento di allora, avendo già affinato il racconto con tale precisione che non resta che ripeterlo. È il collezionismo stesso a sfuggire alla teoria, questo tipo di collezionismo in ogni caso, attuale nel duplice senso della parola, significativo ora perché intrinsecamente legato all’atto. I tentativi di definirlo, di comprenderlo, di circoscriverlo, scoprono una struttura aperta, proiettata in avanti, alla propria stessa costruzione – non decostruzione –, all’arricchimento di oggetti e di senso, non a guardarsi indietro, né alle cause né alle ragioni, che vengono piuttosto costantemente aggiornate.Il collezionista racconta di coincidenze, di casi, di singolarità, che vanno ad aggiungersi alle precedenti e che creano o evidenziano nuovi fili rossi, rimandi, collegamenti, risvolti, possibilità. Racconta di una rete di luoghi e di persone, di una geografia più che di una storia, di occasioni, raramente di ricerche mirate. Non è uno storico, né un critico. Con l’informazione e la storia ha rapporti impuri, non distaccati, misti, segnati dalla metafora e dall’attaccamento all’oggetto, dal loro strano intreccio, appunto. A paragonare la collezione a un discorso
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