Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

LA COMPETENZA DI RICERCA NELLE PROFESSIONI EDUCATIVE ( a cura di Enricomaria Corbi, Pascal Perillo, Fabrizio Chello), Dispense di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

dispenda riassuntiva de LA COMPETENZA DI RICERCA NELLE PROFESSIONI EDUCATIVE ( a cura di Enricomaria Corbi, Pascal Perillo, Fabrizio Chello)

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 30/06/2021

francescaaaaaaa1234
francescaaaaaaa1234 🇮🇹

4.7

(12)

5 documenti

1 / 52

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica LA COMPETENZA DI RICERCA NELLE PROFESSIONI EDUCATIVE ( a cura di Enricomaria Corbi, Pascal Perillo, Fabrizio Chello) e più Dispense in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! LA COMPETENZA DI RICERCA NELLE PROFESSIONI EDUCATIVE ( a cura di Enricomaria Corbi, Pascal Perillo, Fabrizio Chello) Introduzione Ricerca pedagogica e professionalità educative: un binomio imprescindibile 1. La professionalità educativa e formativa: quali cornici paradigmatiche? Il titolo di questo volume potrebbe indurre qualche lettore a ritenere che si stia prestando a sfogliare le pagine di un ‘nuovo’ manuale di metodologia della ricerca pedagogica, lì dove a ‘nuovo’ ognuno potrebbe attribuire il significato di ‘recente’ o di ‘innovativo’ o di entrambi. In realtà, la novità di questo volume si declina - nell'idea di chi lo ha pensato e realizzato - nella volontà di non essere un manuale ossia di non porsi come una trattazione tecnicistica che potrebbe assecondare una certa tendenza - purtroppo ancora abbastanza diffusa, se non ritenuta in auge, stando a certe indagini internazionali a sottolineare il carattere strumentale della ricerca in educazione. Non è questa la cornice all'interno della quale si collocano i contributi raccolti in questo libro. Al contrario, gli autori si collocano sul piano di un argomentazione inquieta e plurale, aperta e problematica nel rispetto delle coordinate proprie del dispositivo della ricerca in educazione, soprattutto quando tale dispositivo viene (come in questo caso) intimamente collegato a quello della pratica. In questo senso virgola in linea con le più recenti formulazioni derivanti da un impianto critico che anima, e deve animare, la pedagogia e la didattica che, per loro natura, sono “pericolose, non complici di un adattamento a posizioni di lattanti e strumentalizzati”. Sebbene la ricerca pedagogica contemporanea si sia impegnata soprattutto a liberare il campo da quelle ambiguità concettuali e semantiche prodottesi nel passaggio dalla logica lineare e rigida delle società industriali e capitalisti che a quella fluida e frammentata delle società post-industriali e neo-capitalistiche, la visione del processo formativo e delle pratiche educative risulta profondamente e forse volontariamente sottoposta a slittamenti di senso che rischiano di farne perdere la cifra costitutiva. Il riconoscimento al diritto/ dovere dell'educazione può essere realmente attuato solo se si concepisce la formazione come “processo bio-antropologico (...) che si compie attraverso un intenso scambio dialogico con l'oggettività sociale e culturale” ossia come processo che implicazioni intenzionali o non intenzionali capaci di incidere sulla crescita delle persone, conducendole alla costruzione di una identità personale e sociale matura. L'azione dell'educare, dunque risponde a un “processo intenzionale collegato a problemi di carattere etico-filosofico; (è) termine che racchiude in sé il criterio che venga realizzato qualcosa che ha valore e implicazioni normative”. Ne consegue: in primo luogo, che l'educazione in quanto educazione (ossia nel suo senso onorifico) non è un processo naturale ma qualcosa che interviene e apre - attraverso un terzo - lo spazio di libertà del soggetto; in secondo luogo, che l'educazione o è emancipazione o non è educazione. La razionalità del processo formativo è la finalità emancipativa della pratica educativa tendono a svanire nel momento in cui l'esigenza di educazione viene trasformata esclusivamente in un bisogno di educazione (lì dove il termine ‘bisogno’ è da intendersi qui nel suo senso negativo.Oggi qualcuno potrebbe ragionevolmente affermare che l'esigenza di educazione resta profondamente insoddisfatta in quanto, molto spesso, le pratiche educative rispondono al bisogno di educazione. E proprio partire da questa constatazione che è necessario rilanciare la questione, incompresa, dell'esigenza di educazione che è a fondamento del processo formativo e della relativa necessità di tornare a porsi la questione di cosa significhi progettare oggi, in un periodo storico dalla temporalità (presente e futura) così liquida, quel movimento teso a realizzare il senso autentico dell'educazione, che è l’emancipazione. La ricerca pedagogica deve oggi tornare a chiedersi, ancora una volta, come si possa pensare efficacemente l'emancipazione nei nostri contesti sociali dal momento che essa non pare essere nell'agenda politica. Interlocutori privilegiati per operare questo ri-pensamento sono certamente i professionisti dell'educazione e della formazione quali agenti di emancipazione. È per questa ragione che i saggi raccolti in questo volume sono stati pensati e scritti per educatori, pedagogisti e insegnanti, e si configurano come una raccolta di riflessioni su alcune delle principali questioni affrontate nel corso di un ciclo di seminari sull'epistemologia e la metodologia della ricerca pedagogica, promosso dai curatori di questo volume nel corso degli ultimi anni dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa e animato dalle autrici e dagli autori dei seguenti saggi, a cui va il nostro più riconoscente ringraziamento. Operando nell'ambito dell'educazione formale (quindi nel sistema dell'Istruzione - la scuola - e della formazione professionale), dell'educazione non formale (quindi nel sistema internazionale formativo della realtà extrascolastica che coinvolge famiglie, associazionismo, terzo settore in generale) e dell'Educazione informale (quindi nel sistema non internazionalmente formativo delle relazioni di vita quotidiana, di educazione indiretta e di “educazione occulta” come il sistema dei media), i professionisti dell'educazione e della formazione, seppur distinti per livelli e profili professionali, appartengono alla stessa comunità scientifico-professionale , la Pedagogia , con le sue relative articolazioni interne: pedagogia generale e sociale, storia della pedagogia, didattica e pedagogia speciale, pedagogia sperimentale. Educatori, pedagogisti e insegnanti che una visione riduzionista tenderebbe ad etichettare in funzione dei contesti specifici nei quali operano, ignorando il principio scientifico della comunità educativa e formativa che necessariamente deve attraversare quei contesti e i processi che in essi si sviluppano, sono professionisti accomunati da una missione pedagogica (garantire il diritto all'educazione e alla formazione delle persone) che per essere perseguita richiede un sistema di saperi e di competenze che non possono prescindere dalle quattro matrici scientifiche sopra menzionate. Pertanto, ogni professionista dell'educazione e della formazione dovrà necessariamente dotarsi di un patrimonio variegato di sapere competenze: - dai saperi inerenti all'educazione permanente e degli adulti ai saperi a carattere applicativo e pragmatico che riguardano la didattica, le tecniche e le tecnologie educative sia in ambito scolastico sia nel più vasto comparto dell'educazione e della formazione; - dai saperi inerenti alle pedagogie e alle didattiche speciali per il trattamento pedagogico della differenza hai sapere a carattere applicativo ed empirico Con impostazione sperimentale. Ne deriva, dal punto di vista pedagogico, la necessità di trovare un accordo d'uso circa le cornici paradigmatiche attraverso le quali il processo formativo agito da questi professionisti potrebbe essere letto e interpretato, nella misura in cui educatori, pedagogisti e insegnanti, “in forme e modi diversi (,) si occupano di garantire ai cittadini il diritto all'educazione” mediante pratiche educative professionali che non sono mai disgiunte tra loro sul piano dell'azione professionale e dell'intenzionalità che la alimenta. In questo senso, il volume ha inteso sondare il tema della competenza di ricerca nelle professioni educative, assumendo quale focus di questionamento privilegiato quello relativo alla dimensione euristica delle pratiche educative professionali. 2. La dimensione euristica delle pratiche educative professionali se consideriamo alcuni dei connotati specifici di due pratiche pedagogiche professionali, l'educazione e l'insegnamento sono due momenti di un più ampio processo, la formazione, ne deduciamo in maniera evidente che si tratta di pratiche dall’imprescindibile di dimensioni euristica. L'educazione. Nel lessico quotidiano la parola “educare” è resa con il suo significato di “trarre fuori, allevare, condurre” (dal latino educere), traducendosi nella promozione dello sviluppo di facoltà intellettuali, estetiche e morali della persona attraverso l'esempio e l'insegnamento. Ma se ci riferiamo al latino educare, che significa 'far crescere', intendiamo l'atto dell'educare come il frutto di un processo intenzionale - strettamente collegato alla situazione spazio-tempo- finalizzato a produrre modificazioni comportamentali più o meno stabili. L'educare, in questo senso, si viene a configurare come un intervento progettato e condotto intenzionalmente, ma non sempre consapevolmente, e finalizzato al raggiungimento di una situazione considerata, da un punto di vista etico-valoriale, migliore della precedente. Si tratta di un processo di "strutturazione complessivo della personalità, ottenuto attraverso un'azione intenzionale da cui scaturiscono l'apprendimento, la socializzazione e l'inculturazione del soggetto che ha una dimensione individuale, collettiva e istituzionale. L'intenzionalità dell'educare risponde a un'intenzione soggettiva, individuale o collettiva (finalizzazione dell'azione educativa) ma è anche da intendersi quale processo di significazione dell'azione umana che attiene tanto alla sfera della cognizione quanto alla sfera dell'emozione dell'uomo agente intenzionalmente nella storia. L'intenzionalità come fonte generativa connota e definisce l'atto dell'educare e l'esperienza di educazione, determinandone senso e significato: il 'fatto educativo' esiste come esperienza interpretata e non come fatto in sé, rispecchiando il soggetto e il sistema di intenzioni che in (e attraverso) quel 'fatto' si strutturano. L'educare quale atto intenzionale ha, dunque, un carattere prevalentemente pratico e si realizza in uno spazio relazionale che è sempre asimmetrico. L'agire educativo dotato di senso si caratterizza come agire mediato da relazioni interpersonali (è un'azione relazionale - educatore-educando, educatore-educarore, educando-educando) ed è fortemente connotato dalle specificità delle singole situazioni in cui prende forma (è un'azione situata). È in questo senso che assume valore strategico una progettualità libera da schemi e modelli predefiniti orientata a costruire percorsi educativi possibili: il carattere intenzionale dell'educare si misura, infatti, con la concretezza. L'intenzione di educare rimanda all'azione e si legittima in una teoria dell'azione in virtù della quale l'agire come insieme di pratiche intenzionate diventa educativo nella misura in cui concorre a decantare in pratica le istanze valoriali per le quali esso è pensato e progettato. L'educazione come attività prassica è elaborata a partire da - e in funzione di una finalità trasformativa, politica e culturale. L'azione educativa è azione sociale implicata in sistemi di norme, significati e tradizioni culturali che l'azione stessa (quando è educativa) contribuisce a formare e tras-formare. Educare è, infatti, parola implicitamente connotata in senso positivo: dire di una persona che è educata significa riconoscerle una buona educazione. Quando all'educare si aggiunge un oggetto (il cuore, la mente, la volontà...) ci si riferisce allo sviluppo o all'affinamento di attitudini propriamente umane o, molto più genericamente, all'esercizio di specifiche abilità o competenze (per esempio, educare il corpo alla fatica). Per educare qualcuno a... (alla legalità, al sentimento, alla ragione, osservativo sia di tipo sperimentale , ma è a questo secondo ambito che l'Autrice approfondisce maggiormente, analizzando categorie come quelle di sistema, sperimentazione, esperimento. E a partire da tali categorie che l'Autrice presenta il quadro delle variabili della ricerca educativa sperimentale, anche attraverso l'efficace ricorso ad un esempio di esperimento effettuato sul tema della valutazione della ricaduta dell'e-learning sulla qualità della didattica universitaria. Una chiara e puntuale prospettiva, quella affidata al capitolo della Poce, che mostra come la ricerca sperimentale contribuisca ad accrescere la conoscenza e di aprirla a sempre nuove soluzioni, da un lato registrando i fenomeni per comprendere l'esistente, dall'altro lato esercitando una deontologia euristica che modifica l'esistente. L'invito, anche in questo caso, che si rivolge agli educatori è quello di porsi obiettivi di ricerca sempre più concreti e realistici per far sì che la propria azione sia efficace al punto da consentire un progressivo miglioramento del sistema. L'ottica emancipativa, anche in questo ultimo capitolo, appare evidente e irrinunciabile. Come evidente e irrinunciabile continua a esserlo nella proposta di lettura della ricerca qualitativa nell'educazione interculturale di Marco Catarci. Il tema, in questo caso, è quello dell'orientamento interculturale, ambito di intervento integrato che attraversa le pratiche professionali di educatori, pedagogisti, insegnanti e ricercatori, richiedendo a tali professionisti la capacità di lavorare in collaborazione. L'Autore, dunque, individua nell'adozione di metodi di indagine qualitativa la possibilità di far emergere occasioni di promozione della partecipazione e della cittadinanza attiva dei migranti. In questo senso, valorizzando l'uso di strumenti di indagine che consentano di raccogliere impressioni, rappresentazioni individuali o collettive di specifici fatti ed esperienze, Catarci presenta lo strumento dell'intervista qualitativa, illustrandone i criteri che concorrono a gestirlo secondo rigore metodologico, e apre il dibattito sulla Ricerca Azione, della quale mette in evidenza alcune delle funzioni principali: da quella euristica a quella trasformatrice, da quella inerente al collegamento tra teoria e prassi a quella descrittiva, dalla funzione catalizzatrice alla funzione maieutica, per finire con quella politica e di rispecchiamento. La ricerca-azione, approfondita sul piano della dimensione partecipativa, è tema posto a oggetto di riflessione nel capitolo di Giovanna Del Gobbo, che di questo approccio metodologico sonda il rapporto fra prospettiva ecologica e azione educativa. In quelle che l'Autrice definisce riflessioni introduttive in realtà è racchiusa una profonda analisi del modo di fare (e di fare ricerca in) educazione, coniugando il versante epistemologico con quello progettuale-operativo. Sullo sfondo di uno scenario che Del Gobbo descrive mediante il richiamo al macro-paradigma della complessità, si riconosce alla più recente ricerca pedagogica il merito di aver assunto una prospettiva olistica e di tenere nel giusto conto il ruolo giocato dai contesti spazio-temporali, sociali e culturali nelle pratiche educative e formative, in ragione di una (ri)considerazione del valore euristico e della validità teorica della ricerca sul campo in educazione. È il caso della ricerca- azione partecipativa quale metodologia della ricerca empirica che procede secondo un protocollo operativo aperto che, nel rispetto delle caratteristiche proprie dell'oggetto di indagine (l'educazione), può consolidare e sostenere su base scientifica il valore innovativo che la ricerca educativa ha dimostrato di poter esprimere. Innovazione e trasformazione sono due dei principi fondamentali che caratterizzano la ricerca educativa che è, a un tempo, anche ricerca sulle pratiche educative, invitando a ri-pensare il ruolo dei professionisti chiamati ad esercitare il dispositivo euristico nel corso dell'azione. Su questo versante di analisi, uno dei paradigmi che si offre al professionista dell'educazione e della formazione è quello trasformativo che Pascal Perillo propone quale prospettiva fondamentale per lo sviluppo delle competenze di ricerca in pedagogia. Partendo dal riconoscimento della necessità di costruire percorsi di formazione dei professionisti dell'educazione e della formazione che tengano conto della finalità di professionalizzare la pratica educativa nei termini della ricerca, si sostiene che obiettivo prioritario per lo sviluppo della professionalità educativa è dotarsi di dispositivi euristici da forgiare e coltivare nel corso della pratica professionale. Quest'ultima si offre al professionista come costante oggetto di ricerca nella misura in cui il professionista viene inteso come adulto in formazione permanente, quindi in tras-formazione. Adottando un approccio secondo il quale la pratica educativa professionale non può prescindere dal rapporto fra ricerca e riflessione sull'agire educativo, il contributo qualifica la competenza di ricerca come principale dotazione dei diversi professionisti che, a differenti livelli, lavorano nel campo dell'educazione e della formazione e propone una interessante rilettura della ricerca-azione a partire da un approccio educativo di tipo transazionale. Tale approccio fa da sfondo anche alle riflessioni, che chiudono il volume, sull'osservazione nei contesti educativi. Fabrizio Chello si interroga su quello che emerge come un paradosso dai discorsi dei professionisti dell'educazione formale e non formale: costoro, da un lato, riconoscono la centralità dell'osservazione nelle fasi di progettazione, attuazione e valutazione delle attività e dei servizi educativi così come ne sottolineano il potenziale impatto generativo-formativo relativamente alla propria professionalità ma, da un altro lato, affermano o di non praticarla o di collocarla agli ultimi posti nella lista di attività da svolgere o, ancora, di non saperla condurre in maniera adeguata e rigorosa. Secondo l'Autore, le ragioni di tale paradosso sono da ricercarsi nella dicotomia 'conoscere-fare' sottesa alle opzioni ontologiche, gnoseologiche, epistemologiche, metodologiche e tecnico-strumentali di alcuni dei principali approcci che fanno uso dell'osservazione nei contesti educativi. L'analisi di queste opzioni ha l'obiettivo di decostruirle in favore di un approccio critico, riflessivo e comprensivo, capace di concepire l'osservazione come un metodo al tempo stesso di ricerca, di formazione professionale e di lavoro educativo. La ricerca teorica in pedagogia ( Enza Colicchi) 1. Un problema di definizione Che cos'è la ricerca teorica in pedagogia? Cosa vuol dire fare ricerca teorica in pedagogia? Rispondere a queste domande dovrebbe significare chiarire e fissare , della ricerca teorica in pedagogia, l'identità e la specificità. ovverosia precisare: a) le aree di oggettualità di sua esclusiva pertinenza - dire di che cosa si occupa la ricerca teorica in pedagogia -, b) le finalità che essa si riserva e che persegue - dire a che cosa serve la ricerca teorica in pedagogia -, c) gli orientamenti epistemologici e le metodologie euristiche che essa prevalentemente adottate e utilizza - dire come si fa la ricerca teorica in pedagogia. Senonché, definire la ricerca teorica in pedagogia è tutt'altro che facile. Così come è tutt'altro che facile definire la pedagogia teorica. E questo perché manca, tra i pedagogisti, un accordo su cosa si debba intendere con questi termini. Tant'è che, nel lessico pedagogico, essi sono usati per riferire a studi anche molto eterogenei quanto ad aree di materialità, finalità conoscitive, impostazioni epistemologiche e pretese euristiche. Così c'è chi identifica la pedagogia teorica con la filosofia dell'educazione - ma è anche da dire che, della filosofia dell'educazione' e dei suoi compiti, si danno interpretazioni diverse e discordanti. C'è chi, per pedagogia teorica, in tende 'il pensare l'educazione', che distingue dal 'pensare all'educazione, cioè a dire affida alla ricerca teorica il compito di determinare i significati/fini/valori dell'educazione e riserva alla ricerca empirica il compito di definire i mezzi. Ma c'è anche chi, per 'teorico', intende il pedagogista tout court, distinguendolo dal 'pratico', cioè a dire dall'educatore chiamato a 'mettere in pratica' i risultati della ricerca pedagogica. A monte delle diverse interpretazioni della 'pedagogia teorica e della ricerca teorica in pedagogia' è, certamente, la pluralità di concezioni della pedagogia complessivamente intesa, che, da circa cinquant anni, caratterizza la comunità dei pedagogisti. Ma è, anche, il fatto che i significati del termine teorico' sono molteplici: si va da quello, più 'classico', di 'speculativo contemplativo (che tende ad assimilare 'teorico' e 'teoretico') al significato kantiano, secondo cui il teorico' concerne un complesso di regole pensate come principi generali e, in tanto, si contrappone al 'pratico'. Si va dal significato che identifica come 'teoriche' quelle sezioni delle scienze che sono indipendenti dal momento applicativo - così che si distingue la scienza teorica (o 'pura') da quella applicata - al significato secondo cui sono dette 'teoriche' quelle sezioni delle scienze che consistono nell'elaborazione logico-concettuale di dati empirici o nell'anticipazione di certi risultati da sottoporre a controllo empirico per essere confermati o falsificati - dimodoché, ad esempio, si distinguono una 'fisica teorica' e una 'fisica sperimentale'. Fino ad arrivare al significato, prevalente nel linguaggio comune, secondo cui 'teorico' equivale a 'ipotetico e' irreale'. Come arrivare, allora, a definire la ricerca teorica in pedagogia? E, soprattutto, come definirla e illustrarla tenendo conto dei modi in cui viene effettivamente condotta - e non già tracciandone un'immagine astratta o presuntamente ideale? Prenderò dapprima in considerazione la nozione di ´ricerca' e, successivamente, analizzerò 'la ricerca pedagogica nei termini in cui è sorta e si è venuta svolgendo nel corso della sua storia. Illustrerò quindi le caratteristiche e le funzioni della teoria pedagogica e ne metterò in luce la natura pratica e le difficoltà. Concluderò con una definizione 'di massima' della ricerca teorica in pedagogia. 2.La nozione di ricerca Con il termine 'ricerca' si indica l'attività 'razionale' rivolta a trovare, da una difficoltà. L'attività di ricerca costituisce una delle manifestazioni della ragione umana. Infatti, a fronte dei dubbi, delle incertezze, delle difficoltà che si presentano loro, gli esseri umani fanno abitualmente ricorso alla facoltà di cui dispongono (Aristotele definisce l'uomo 'animale razionale') -costituita dalla 'ragione' . Senonché, evidentemente, un dubbio o una difficoltà - una 'aporia', nell'espressione di Aristotele -di per sé soli non bastano ad avviare una ricerca. Perché questo avvenga occorre che quel dubbio o quella difficoltà vengano tradotti in un 'problemas. Che da quelli si passi alla 'posizione di un problema'. Ogni ricerca si origina e prende avvio da 'un determinato problema, che il ricercatore pone e si prefigge di risolvere'. In particolare, la conversione in problema (la problematizzazione') di un dubbio o di una difficoltà – 'dà forma' a quel dubbio o a quella difficoltà: li fissa, li 'stabilizza e li struttura riconducendoli ad un quadro categoriale e operativo. La formulazione di un problema consiste infatti nella traduzione del dubbio o della difficoltà in un linguaggio' che non sia vago e impreciso e apra a soluzioni possibili. È quindi 'la posizione' del problema che ne indirizza e ne guida l'affrontamento: è a séguito della problematizzazione che la ricerca acquista la propria configurazione e il proprio orientamento, cioè a dire seleziona propri modelli di riferimento, sceglie i propri procedimenti, criteri e tecniche euristiche, fissa i propri quadri categoriali e logici – in breve: effettua le proprie opzioni epistemologiche. Quindi l'identità di ciascuna ricerca si basa sull'identità dei problemi che essa pone e affronta. Significativamente ogni ricerca viene eseguita approntando e utilizzando 'una procedura razionale' di natura differente a seconda della natura dei problemi 'posti. E in questo modo che l'attività di ricerca produce 'teorie. Il ricercatore elabora, cioè, un qualche sistema categoriale e logico che serve a definire e a ordinare la particolare area di problematicità cui si rivolge la sua ricerca, ad istituire connessioni tra i dati che compongono quell'area e, per questa via, a fornire una soluzione ai problemi posti. La teoria costituisce quindi uno schema concettuale e logico che unifica e ordina un particolare settore di esperienza ed è finalizzato a risolvere i problemi a questo inerenti. La struttura in cui consiste la teoria si configura come una struttura di tipo 'linguistico': la teoria è 'un linguaggio logicamente coerente che 'parla' di un determinato 'universo di oggetti'. Dove l'espressione 'universo di oggetti' riferisce ad un complesso definito e ordinato dalla teoria stessa, nel senso che la teoria stabilisce sia le proprietà degli 'oggetti' di cui tratta sia le relazioni e i legami funzionali tra tali 'oggetti': stabilisce il vocabolario stesso mediante il quale descrive gli oggetti indagati. 3. La ricerca pedagogica Qual è il problema 'generale' da cui si origina la ricerca pedagogica? L'esame storico-filologico mostra che la ricerca pedagogica concerne l'educazione nel senso di azione (messa in atto da un soggetto-educatore) finalizzata a provocare un miglioramento – un cambiamento in meglio – del Soggetto cui è rivolta (il soggetto-educando). Possiamo inoltre dire che la ricerca pedagogica sorge in relazione a dubbi, incertezze, difficoltà in cui l'educatore incorre - che si trova a fronteggiare - riguardo all'educazione dell'educando. Si tratta di dubbi, incertezze, difficoltà che sono sintetizzabili nell'espressione: "sono in dubbio (o incerto) su come educare". È da quel genere di dubbi che si genera il problema pedagogico, che assume pertanto la forma della domanda: "come agire per educare?", "quali azioni compiere per educare?". Ora, come sempre accade di fronte a dubbi e incertezze, l'appello è alla facoltà umana costituita dalla ragione. Il problema pedagogico assume quindi la forma: "qual è il modo in cui la ragione induce ad agire per educare?". Ovverosia: "come rendere razionale l'agire educativo?". Il problema generale da cui la ricerca pedagogica trae origine e intorno a cui si struttura e si svolge nell'arco della sua storia è dunque il problema relativo alla direzione – alla guida, al governo - razionale dell'agire finalizzato a realizzare l'educazione, ossia delle azioni (delle condotte, delle pratiche) educative. Nel senso che, posto che ci sono soggetti(-educatori) impegnati in azioni e interventi educativi, il problema generale in relazione al quale si istituisce la ricerca pedagogica è quello di rendere in massimo grado razionali quelle azioni ed interventi. Cioè a dire di sottrarli ad elementi quali: l'arbitrio, la parzialità, l'unilateralità, l'inconsapevolezza, la casualità, la confusione, il disordine, l'improvvisazione, linstabilità, l'incoerenza, la contraddittorietà, l'inefficacia, la disfunzionalità; in breve, a tutto quello che abitualmente si fa rientrare entro la categoria della 'irrazionalità'. 4. La teoria pedagogica Anche la ricerca pedagogica, come tutte le altre forme di ricerca, ha prodotto e produce teorie. Ogni teoria pedagogica - la teoria pedagogica di Platone come quella di Tommaso o di Comenio, la teoria di Rousseau come quella di Pestalozzi, di Froebel, di Gentile, di Montessori, di Bertin, di Bertolini ecc.: tutte le teorie pedagogiche che entrano a costituire la storia della pedagogia vecchia e nuova – è un dispositivo finalizzato a dirigere razionalmente – a sottoporre a controllo razionale - le pratiche educative. L'esame storico- filologico mostra che le teorie pedagogiche svolgono talune medesime funzioni, che ne definiscono e ne precisano il ruolo di dispositivi per la direzione razionale dell'educazione. Funzioni che possono venire così schematizzate: a) la teoria enuncia direttive pratiche, istruzioni per l'azione. Fornisce risposte a domande relative a come agire; b) la teoria concerne l'educazione in quanto azione intenzionale finalizzata a provocare un miglioramento - un cambiamento in meglio - nel soggetto cui è rivolta. Pertanto: b1) fissa i 'criteri di valore' cioè a dire i fini, le mete - che interpretano e definiscono il concetto di educazione/ miglioramento. b2) indica le azioni utili alla realizzazione dell'educazione/miglioramento; c) la teoria è tenuta a legittimare' le direttive che enuncia; d) la teoria è tenuta a produrre direttive che risultino 'persuasive'; cioè a dire possano venire accolte e osservate dai soggetti impegnati negli in terventi educativi e, dunque, possano effettivamente guidare le pratiche di educazione. condizionamenti di quelle leggi dell'economia che regolano ogni altro piano del vivere civile, secondo Marx; riflesso di una determinata fase del processo di evoluzione dello Spirito, per la filosofia hegeliana. In alcuni casi, la riflessione sull'educativo tout court corrispondeva a fasi di ripiegamento del pensiero, per l'incapacità che alcuni pensatori esprimevano (e il caso di Kant è noto) di far corrispondere le parti più avanzate della propria teoria anche al versante della filosofia dell'educazione: bisognerà attendere la filosofia di Soeren Kierkegaard perché la "rivoluzione copernicana" diventi rivoluzione pedagogica². Senonché, man mano che le filosofie tradizionali perdevano i propri fondamenti totalizzanti, s'imponevano stili di sincretismo filosofico, che inducevano le Scuole a 'contaminarsi' le une con l'altre, uscendo da una stretta osservanza dei paradigmi di riferimento e accettando (o perlomeno tollerando) di mettere in comunicazione categorie desunte dall'idealismo con altre di derivazione marxista, esistenzialista, fenomenologica, ecc. Complice una cultura della Crisi e del Nichilismo, che assiste alla morte delle "grandi narrazioni" e rischia di portare la ragione filosofica a confrontarsi con i problemi propri di un tempo storico minore: ripiegato sul quotidiano, povero di tensioni ideali, deprivato di quella fiducia nel divenire che sosteneva il pensiero utopico su traguardi di lungo, lunghissimo periodo. Quella che Franco Cambi ha definito l'epoca del Disincanto³. In questa cornice, s'inscrive la nascita del criticismo razionalista banfiano: pensiero essenzialmente sincretico, che coniuga l'influenza kantiana con quella di Hegel, Marx, Husserl e l'esistenzialismo, inaugura una stagione del periodare filosofico che raggiunge il suo culmine con la renaissance nietzscheana e heideggeriana del Secondo Dopoguerra e stabilisce relazioni di affinità con la scuola del pensiero "debole" di cui può considerarsi, a tutti gli effetti, un esponente ante litteram. Pensiero debole, quello di Banfi e dei suoi allievi (Anceschi, Bertin, Cantoni, Formaggio, Papi... ), ma non debolissimo, che, pur nel rifiuto di ogni retaggio metafisico, conservava e conserva una tensione alla trasformazione dell'esistente, che lo spingeva a ricostituirsi sotto forma di filosofia della prassi, incorporando lo spirito rivoluzionario del marxismo, le grandi cifre utopiche e iconoclaste del pensiero nietzscheano, il ripensamento del divenire in chiave storica, piuttosto che metafisica, secondo la ben nota lezione di Heidegger. Scaturisce da qui il binomio fra antidogmatismo e teoria della progettazione esistenziale, che diverrà proprio del problematicismo pedagogico che fu di Giovanni Maria Bertin - allievo di Banfi - e di Mariagrazia Contini4. 2. Procedere per connessioni: oltre il dualismo di oggetto e soggetto... Si è detto eclettismo, sincretismo: in effetti, il pensiero di Banfi e di Bertin, per il suo rinunciare a costituirsi nei domini di un'unica scuola, diviene pensiero di ricerca delle connessioni, anticipando quella che diverrà, di lì a poco, la cifra euristica più caratteristica di Gregory Bateson e, soprattutto, di Edgar Morin. Perché connessioni? Per comprenderlo, è sufficiente ripartire dal concetto banfiano d'esperienza, intesa come la relazione fra le determinazioni soggettive e oggettive del mondo storico, che prescindono da un presunto essere in sé tanto dell'oggetto quanto del soggetto. In questa prospettiva, il soggetto e l'oggetto cessano di essere pensati come poli di una relazione antinomica tout court e divengono termini di una relazione che li induce a muoversi in direzione di integrazione reciproca: connettere significa suscitare il dialogo fra ciò che era originariamente disgiunto, esigendo che ciascun polo non si limiti ad affermare la propria esistenza, ma tenga conto anche dell'esistenza dell'altro. L'obiettivo della connessione non è ovviamente quello di colmare gli scarti e negare le contraddizioni, che entrano in gioco nella relazione fra l'uno e l'altro, ma evitare esperienze di radicalizzazione delle differenze identitarie, che risultano spesso arbitrarie e ingiustificate: non dare per scontato che quelle realtà che abitualmente vengono identificate come soggettive siano depositarie di requisiti negati al mondo della realtà oggettuale. Il soggetto non è solo spirito e libertà, l'oggetto non è solo meccanicismo e causalità. Il soggetto non è sempre intenzionale, così come l'oggetto non risulta sempre destinatario passivo dell'intenzionalità altrui. Come l'oggetto non è riducibile a mera cosa, così il soggetto non è coscienza tout court. Ne consegue, contrariamente a quanto accadeva nella tradizione metafisica, che non vi sono oggetti e soggetti già dati, poiché oggettività e soggettività corrispondono a ruoli e funzioni, spesso conseguenti ai rapporti di potere che si costituiscono fra i termini della relazione: non è possibile, ad esempio, dare per scontato che l'humanitas sia sede ed emanazione di soggettività e che il pianeta Terra e il cosmo tutto siano popolati di oggetti, solo perché privi di quei requisiti di pensiero, linguaggio, coscienza che fanno dell'umano ciò che è. Come non prendere atto, di fronte a queste sollecitazioni, che l'esperienza storica è densa di fotogrammi che restituiscono immagini di una condizione umana altamente reificata ed oggettivata, mentre quel pianeta che, dice Heidegger, sempre più appare ridotto e trasformato in un immenso piano di lavoro pare oggi in grado di ribellarsi agli imperativi dell'humanitas e alle sue derive tecnologiche e preannunciare scenari tutt'altro che rassicuranti per la nostra specie? Dopo avere sterminato un mondo multiforme di specie animali e vegetali, considerate alla stregua di meri oggetti, appunto, oggi si pone a rischio l'esistenza stessa della specie umana, concepita, nel suo delirio di onnipotenza, a immagine e somiglianza di Dio, perché incapace di tenere conto dei vincoli e dei limiti che il mondo, nella sua 'soggettività', le pone, chiedendole di regredire talvolta a un ruolo di natura più modestamente oggettuale. E accettando di essere parte di un'esperienza posta anche da altri, piuttosto che decisa e voluta da sé. Osservare tali vincoli equivarrebbe a riconoscere nel mondo dinamiche di autoregolazione più vicine a quelle di un soggetto che di un oggetto e tollerare di tornare a sentirsi deboli e indifesi di fronte a una realtà esterna che, lungi dall'essere interamente manipolabile e modellabile, potrebbe risultare nuovamente in grado di resistere o dominarci. Costringendoci, come in passato, a regredire a una posizione di natura più modestamente oggettuale, come parte di un'esperienza posta da altri, piuttosto che decisa e voluta da noi medesimi. Uscire dal tradizionale dualismo di oggetto e soggetto è un esercizio necessario per aprirsi al mondo dell'intersoggettività, a un mondo nel quale i soggetti sappiano riconoscere i margini di soggettività esistenti in tutto ciò che è altro da sé e i margini di oggettività insiti nel soggetto stesso, per il suo indulgere a rischi di reificazione e manipolazione. Il dialogo intersoggettivo non è circoscritto al solo mondo umano e interumano, ma coinvolge il rapporto con l'ambiente e con la realtà tutta nella sua complessità. Sviluppare l'arte delle connessioni in direzione del pensiero olistico e coltivare disposizioni all'empatia nei confronti del mondo non solo umano sta diventando sempre più condizione imprescindibile al mantenimento di equilibri ecosistemici necessari al mantenimento della vita sul pianeta? 3. ...dentro il dualismo di fenomeno e noumeno Il dualismo fra soggetto ed oggetto tuttavia non può essere realmente superato nei suoi effetti nocivi se non si permane all'interno di un altro dualismo, questo sì positivo, per il suo suo fungere da premessa necessaria alla posizione stessa del problema gnoseologico: quello tra fenomeno e noumeno. In base a tale dualismo, osserva il filosofo di Koenisberg, la conoscenza può essere solo di natura fenomenica: non perché essa sia destinata a risultare vana ed illusoria, schiava delle apparenze veicolate dal mondo sensibile, ma perché condizionata da quelle forme e categorie della mente, che la rendono tutt'altro che neutrale. È impossibile conoscere, per Kant, senza che la mente conoscente interferisca con i contenuti della conoscenza medesima: dunque, quest'ultima non potrà mai emergere nella sua nuda oggettività. Il che non significa ovviamente che la realtà non esista, poiché ciò che viene posto dalla mente è il conoscere, non la realtà in quanto che è sempre tale, esistita e continua ad esistere nella sua radicale autonomia, a prescindere dalle operazioni che la mente dell'uomo compie su di essa. La realtà esisteva prima ancora che la specie umana comparisse sulla faccia della Terra; continuerà ad esistere anche in seguito alla sua scomparsa. Senonché, di fronte a uno sguardo fenomenico, come quello descritto da Kant, la realtà cessa di essere 'oggetto' di conoscenza e diviene parte di un processo di costruzione della conoscenza medesima che la vede interagire con la mente conoscente, senza potersi mai adeguare completamente a quest'ultima. Conoscere significa, in questa prospettiva, divenire consapevoli degli scarti che intercorrono fra mente e realtà: nell'impossibilità di cogliere il reale nella sua evidenza, di limitarsi a descriverlo e a rappresentarlo, la conoscenza è costretta a valutare, giudicare, interpretare, esprimere punti di vista parziali, confrontabili con altri e differenti punti di vista. Diviene provvisoria e relativa, potenzialmente sempre in espansione ed evoluzione. Uno scarto proficuo, quello tra fenomeno e noumeno, tra mente e realtà, che sorregge il principio di libertà e infinita ricerca del conoscere. A fronte di tanta ricchezza, stupisce che altre prospettive, come l'Idealismo Trascendentale, abbiano tentato di delegittimare la sussistenza del noumeno e negarne il fondamento; e che, ancora ai giorni nostri, qualcuno tenti di squalificare la rottura gnoseologica di Kant, bollandola come tolemaica, piuttosto che copernicana, per il suo porre la mente dell'uomo al centro di tutto, afferma Maurizio Ferraris. Stupisce, anche perché Kant non pone la mente dell'uomo al centro di tutto, ma la pone al centro della conoscenza umana, ed è una mente costretta a interrogarsi sulla relatività dei propri atti conoscitivi e sui loro rischi d'infondatezza. In questo senso, lo sguardo fenomenologico non è mai certo delle conoscenze che ha sviluppato, perché potrebbero presentare un vizio di fondatezza e perché necessitano di ulteriori verifiche e confronti: da qui, la necessità di procedere per connessioni, ampliando lo spaccato di realtà su cui è stata condotta l'analisi precedente. Ovviamente, questi principi cardine del criticismo banfiano, che valgono per tutta l'esperienza conoscitiva, valgono anche per l'analisi dell'esperienza educativa. A tal fine, Banfi distingue tra la "Filosofia dell'educazione" , intesa come fenomenologia dell'esperienza educativa vista nel momento della sua universalità, e la "Pedagogia" , intesa come fenomenologia dell'esperienza educativa circoscritta a singoli contesti della formazione. La prima rappresenta il momento in cui la conoscenza, proprio perché consapevole dei suoi limiti costitutivi e degli scarti che le impediscono di accedere a rappresentazioni piene del reale, necessita di un continuo ampliamento del campo prospettico d'indagine, onde non risolversi in analisi parziali, limitate, contingenti, funzionali a singoli contesti d'esperienza. Conoscenze, che risultano vere o comunque accettabili in un determinato contesto, perdono la propria validità non appena si tenti di generalizzarle ad altri contesti, che, per la loro differente genesi storica, sembrano orientati a produrne di natura diversa. 4. In direzione di universalità: l'ampliamento del campo d'indagine Ampliare il campo d'indagine significa, ad esempio, non dare per scontato che le rappresentazioni dell'educare valide per la cultura occidentale debbano esserlo anche per quella orientale; o che i fenomeni considerati pedagogicamente probanti nel tempo storico attuale siano meno esposti a rischi di violenza e di condizionamento, rispetto a quelli del passato: la coscienza pedagogica di ogni cultura e di ogni tempo storico, com'è prevedibile, riconosce con più facilità i limiti delle culture altre e delle fasi storiche che l'hanno preceduta e stenta invece ad essere altrettanto lucida nei confronti di se stessa. Nell'ampliamento del campo d'indagine, si scopre che gli assunti pedagogici validi per talune culture non lo sono per altre, e che dal loro reciproco raffronto diviene possibile cogliere implicazioni di senso più profonde, capaci di gettare su di essi una nuova luce. "È normale che i bambini, sin dalla più tenera età, dormano nella loro cameretta?". "Sì- risponde il senso comune di genitori e educatrici, quando non di esperti dell'educazione - è normale, opportuno e doveroso, perché il costituirsi di dinamiche di attaccamento sicuro rafforza i processi di identificazione del sé e presuppone la capacità di tollerare le esperienze di separazione dalla figura materna insieme a quelle di ricongiungimento". Eppure, tanta ovvietà si scontra con gli ostacoli che questa convinzione incontra nelle sue declinazioni quotidiane: le narrazioni di genitori in difficoltà, madri e padri di bambini che chiedono di poter prolungare le esperienze di contatto e contenimento corporeo, sono molto più frequenti di quelle serenamente 'aproblematiche' e 'aconflittuali'. Nonostante ciò, sono vissute con imbarazzo, quasi con vergogna, per il loro risultare distoniche, inadeguate, rispetto all'assunto pedagogico di fondo. Altri costumi educativi, come quelli delle popolazioni maya, in Occidente, cinesi e giappone si, in Oriente, vengono tuttavia in soccorso di questi genitori e delineano stili di cura della primissima infanzia, che sconsigliano di relegare il nascituro nell'isolamento della sua stanza10: anche grazie all'ascolto di queste culture pedagogiche altre, diviene possibile prendere consapevolezza che è troppo recente il trauma della nascita per poter imporre esperienze di separazione prolungata, come quella del riposo notturno, e che le esperienze di distanziamento sin lì vissute nel rapporto con la madre e con le altre figure di riferimento non hanno lasciato tracce mnestiche sufficienti a con sentire al bambino di prevedere le successive esperienze di ricongiungimento. Ecco che cosa significa analizzare i fenomeni dell'educazione in relazione al momento di universalità dell'esperienza: di fronte a un assunto pedagogico acclarato, ma non sempre efficace, l'apertura al momento di universalità consente di relativizzare il punto di vista iniziale, senza tuttavia rinunciarvi radicalmente, bensì inaugurando una pratica di dialogo fra gli opposti, che ne corregga i rispettivi limiti. Grazie a tale processualità dialogica, è stato possibile ripensare anche la sostanziale sfiducia che la nostra cultura ha espresso per decenni nei confronti dei servizi per la prima infanzia: inizialmente riservati ai bambini di famiglie con un tasso elevato di disagio educativo e sociale, dunque, incapaci di garantire quella serena protezione che, secondo la cultura del periodo, solo dalla famiglia poteva essere garantita adeguatamente. Ebbene, in tempi più recenti, l'efficacia pedagogica del nido e della scuola dell'infanzia è stata considerata come un fattore non più controverso, con ripercussioni ampiamente positive sul fu turo del bambino: il dato dirimente è che, alla base di tali riscontri, vi è non solo una trasformazione delle culture familiari, che riconosce alla donna la possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro, ma anche concezioni meno rigide delle tradizionali teorie dell'attaccamento che ammettono la diversificazione delle figure educative sin dalla più tenera età. Si pensi alle osservazioni condotte da Bettelheim nei kibbutz israeliani. Ancora: "Il gioco è educativo?" - si chiedeva Bertin, interrogandosi sul suo valore educativo - "Dipende" - Egli rispondeva - dipende dai contesti entro cui si gioca, dalle modalità di conduzione del gioco medesimo, dai suoi obiettivi di fondo. L'apertura dell'analisi fenomenologica al momento di universalità dell'esperienza può andare avanti potenzialmente all'infinito, perché infinito e infinitivo è il compito di raffigurazione di fenomeni, che non sono mai suggellabili con un'essenza determinata. Più circoscritto è il campo d'azione della Pedagogia: poiché, se ogni pedagogista è, per definizione, anche un filosofo dell'educazione, che deve saper pensare l'esperienza educativa al di là dei suoi immediati ambiti d'intervento, al tempo stesso, tuttavia, egli deve saper individuare le priorità che gli impongono di scegliere e di agire di conseguenza in un determinato contesto professionale. E così vi sono nidi nei quali il coinvolgimento delle famiglie nella vita del servizio è attuabile prevalentemente nella fase d'inserimento del bambino; altri in cui esso s'innerva con più forza nella quotidianità del servizio e diviene una strategia di accompagnamento verso forme di intreccio e condivisione più profonda. La pedagogia è essenzialmente progettuale e si avvale dello sguardo antidogmatico del filosofo dell'educazione, per evitare di ripiegarsi sulle forme, i modi, i tempi e i contenuti del proprio percorso progettuale: affinché il pedagogista sappia che nessun servizio, per quanto qualificato, e nessuna modellistica pedagogica, per quanto raffinata, è tale da poter rivendicare il monopolio sul l'esperienza educativa. Ovviamente, questa tensione allo spalancamento dell'analisi verso il momento di universalità dell'esperienza pone il filosofo dell'educazione (e, come abbiamo visto, lo stesso pedagogista) in una situazione di continua apertura verso saperi apparentemente estranei e lontani dall'universo dagogico: limitare l'analisi a questi ultimi equivarrebbe infatti a ridurre la filosofia dell'educazione a pedagogia, dimensionando il discorso sui suoi circoscritti campi d'azione. Ne consegue una dinamica di continuo sconfinamento - per richiamare un termine caro a Mariagrazia Contini- che ha visto il problematicismo pedagogico aprirsi, di volta in volta, alle sollecitazioni della psicologia del profondo e della comunicazione, piuttosto che dell'antropologia, Bertanlanffy prosegue evidenziando che la distinzione non è così netta e chiara come potrebbe sembrare. Un ecosistema o un sistema sociale, in fatti, sono sufficientemente 'reali' e ci accorgiamo dell'esistenza dello stesso proprio quando si manifesta un suo malfunzionamento: "in questi casi” III. La ricerca empirica in pedagogia però non siamo di fronte ad oggetti della percezione o dell'esperienza di retta: si tratta di costrutti concettuali". La stessa affermazione può essere applicata al nostro mondo quotidiano: le percezioni non sono mai semplici o 'slegate' dal contesto ma rappresentano il frutto di costruzioni che derivano dalla cosiddetta dinamica della Gestalt e dai processi di apprendimento di fattori linguistici e culturali che determinano largamente quanto effettivamente 'vediamo' o percepiamo. Pertanto, come afferma l'autore, "la distinzione tra oggetti e sistemi 'reali', in quanto dati mediante l'osservazione, e i costrutti e sistemi 'concettuali', non può essere tracciata in alcun modo che sia legato al senso comune". Tornando al termine 'empirico', nell'ambito del senso comune, rispetto al contesto scientifico, è sopravvissuto solo l'aspetto dell'intervento pratico (concreto); tutto il resto è stato cancellato. Non basta fare un intervento sul campo perché si possa parlare di ricerca empirica. L'intervento sul campo si realizza in base ad una procedura, a una metodologia che ha una sua logica molto stringente. Andare a visitare una scuola non equivale a svolgere una ricerca empirica, ma rappresenta un'esperienza che può rientrare nel disegno di una ricerca. La ricerca empirica è, infatti, un'attività strutturata, regolamentata in base a criteri rigorosi che prevede anche un intervento sul campo. L'intervento sul campo di per sé non può essere considerato ricerca empirica, perché può essere solo una parte di un programma; deve sussistere una pluralità di elementi perché si possa parlare di ricerca empirica e di questa pluralità di elementi il senso comune ha enfatizzato solo l'aspetto della pratica, del contatto diretto. 2 Ibidem. 3 'Gestalt': scuola e teoria psicologica nata in Germania all'inizio del secolo per opera di M. Wertheimer, K. Koffka, W. Koehler e K. Lewin. È detta anche 'teoria' o 'psicologia della forma o semplicemente ' Gestalt'. Contrapponendosi all'associazionismo, la Gestaltpsychologie afferma che la percezione di un oggetto non avviene sommando elementi costitutivi particolari, ma è costituita da processi dinamici di riconoscimento delle strutture generali in cui sono organizzati i singoli dati sensoriali. 4 L. von Bertanlanffy, Teoria generale dei sistemi. Galileo è il padre dello sperimentalismo nel mondo occidentale. Attraverso l'invenzione del cannocchiale vengono messi in evidenza alcuni aspetti che prima non era possibile vedere e, conseguentemente, sia attraverso constatazioni consentite grazie agli strumenti, sia attraverso calcoli di tipo matematico, si arriva alla conclusione che occorre capovolgere la posizione dell'uomo nell'universo. Galileo fu condannato, perché l'idea che la terra, e quindi l'uomo, non fosse più al centro dell'universo, avrebbe significato uno stravolgimento di una mentalità radicata e la perdita di una certa sicurezza e stabilità. Il metodo sperimentale nasce nelle scienze fisiche perché è facile riprodurre un fenomeno fisico in laboratorio, mentre quando l'oggetto di studio è l'essere umano i problemi sono molto più complessi. Come afferma Vertecchi, "nel linguaggio educativo corrente avviene di sentir usare l'aggettivo 'sperimentale' più a sproposito che a proposito". Molti sono gli equivoci frutto della contaminazione tra il senso comune e l'uso scientifico del termine. Si interpreta come sperimentale tutto ciò che non sia abitudine o che, in qualche modo, comporti l'uso di strumenta zione non consueta, ad esempio un'apparecchiatura tecnologica. Vertecchi stesso lamenta già nel 1999 che vengono chiamate 'sperimentali' le scuole che per almeno un aspetto organizzativo si discostano dall'ordinamento comune, ma 'sperimentale' è anche una normativa presentata come transitoria, come quella degli esami di maturità, introdotta nel 1969 e rimasta in vigore decenni. Si sente magnificare come sperimentale l'uso di questo o di quel sussidio didattico, o l 'impiego di test per la valutazione degli allievi, senza che sia stata posta nessuna impegnativa domanda sulla effettiva capacità di questi esperimenti di modificare il quadro dei risultati che in precedenza si ottenevano dall'attività formativa. Tanto meno è diffusa una seria pratica di controllo a posteriori di quanto è stato fatto sotto l'etichetta sperimentale: sarebbe un modo per recuperare almeno parte del significato dell'aggettivo. Continuiamo ad assistere all'uso improprio del termine sperimentale, perdendo l'altra dimensione della ricerca empirica, quella osservativa. È importante invece considerare separatamente i due modi della ricerca empirica, perché ciascuno di essi presenta vantaggi e svantaggi. Ricordiamo poi che, operando in contesti dove l'essere umano è direttamente coinvolto, è fondamentale tenere conto di aspetti deontologici che limitano l'intervento definito come essenzialmente sperimentale. Soffermiamoci allora sulle relazioni che intercorrono tra ricerca sperimentale' ed educazione. Molti sono gli studiosi che hanno approfondito tale relazione e per esempio Visalberghi sostiene che per impostare correttamente un esperimento in campo didattico è opportuno porsi alcune domande preliminari che vengono così sintetizzate: I. Per chi? (cioè su quale classe di soggetti si intende sperimentare, qual è l'Universo' di cui il nostro gruppo sperimentale rappresenterà un campione'?) II. Che cosa? (cioè quali obiettivi la ricerca intende perseguire in termini di miglioramento di processi educativi?) III. Come? (cioè quali contenuti, quali metodi, quali strumenti e quali materiali si intendono usare per conseguire gli obiettivi prescelti?) IV. Come? (cioè quale disegno sperimentale e quali strumenti e metodi di controllo appaiono impiegabili per conferire all'esperimento validità scientifica?) Vertecchi, poi, identifica quali siano gli elementi per i quali si può propriamente di parlare di esperimento: 1. una conoscenza analitica del quadro entro cui si opera; 2. una ipotesi interpretativa delle relazioni di causa-effetto che caratterizzano un fenomeno indipendentemente da interventi tesi a modificarlo; 3. una ipotesi descrittiva di una diversa conformazione finale del fenomeno che interessa studiare sperimentalmente, ivi compresa la nuova interpretazione delle relazioni causali; 4. una strumentazione procedurale e tecnica capace di indurre i mutamenti desiderati; 5. un apparato di controllo in grado di fornire tutti i dati relativi alle varie fasi di esecuzione dell'esperimento e di consentire la verifica finale. Pur trovandoci nel campo della sperimentazione è importante sottolineare che, allorché ci si appresta a porre in essere una ricerca è sempre necessario prendere in considerazione lo sfondo teorico cui si fa riferimento. Esistono delle discipline che si concentrano esclusivamente sulla speculazione teorica (es. la pedagogia generale). Quelle che si basano sull'attività sperimentale devono comunque tenere presente la dimensione teorica per utilizzarla ai fini dell'organizzazione degli esperimenti. L'attività empirica (che si basa sull'esperienza) può essere, poi, 'sperimentale' o 'osservativa". La differenza fondamentale tra ‘ricerca sperimentale' e 'ricerca osservativa consiste essenzialmente nel fatto che nella prima si introducono variabili indipendenti e se ne controlla l'effetto; nella seconda ciò non accade. In sintesi: -la ricerca osservativa si realizza quando non si verifica la manipolazione intenzionale di variabili indipendenti; - la ricerca sperimentale si realizza attraverso la manipolazione intenzionale di variabili indipendenti. 2. Le variabili nella ricerca educativa sperimentale Come descritto sopra, uno degli aspetti essenziali della ricerca sperimentale' è rappresentato dal fatto che il ricercatore controlla e manipola le condizioni che determinano gli eventi che intende studiare. Nella sua forma più semplice, un esperimento implica la variazione del valore di una delle variabili indipendenti e l'osservazione dell'effetto di quel cambiamento su un'altra variabile, cosiddetta variabile dipendente. La situazione educativa rappresenta un ambito particolarmente complesso e sensibile a qualsiasi possibile fattore di mutamento. Compito del ricercatore è, pertanto, riconoscere tutti gli aspetti che possono influenzare la situazione oggetto di studio, e quindi individuare le variabili presenti nel contesto. Tuttavia, non è sufficiente limitarsi a conoscere le variabili in gioco in una determinata situazione educativa. Le diverse possibilità di combinazione delle stesse, infatti, possono generare svariate influenze e conseguenze: è importante, quindi, poter misurare le variabili stesse, ovvero stabilire quali valori assume ogni variabile nella specifica situazione che si vuole analizzare. Nel momento in cui viene messo in atto un esperimento, è necessario, al fine di tenere sotto controllo gli effetti generati dall'intervento del ricercatore, scegliere il gruppo sul quale si agisce direttamente (gruppo speri mentale) in confronto con il gruppo di controllo che mantiene le caratteristiche iniziali per tutta la durata dell'esperimento. Alquanto efficace appare l'esempio al quale Cohen, Manion e Morrison fanno riferimento per illustrare la differenza tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo 10. Nell'esempio si immagina di dover verificare le proprietà di un nuovo fertilizzante da utilizzarsi su coltivazioni di cereali. I semi di grano sul quale verrà testato il nuovo composto chimico vengono suddivisi in due parti in modo casuale. Una prima parte verrà fatta crescere in condizioni di luce, terra, acqua, umidità, calore controllate ma considerate 'usuali'. I semi fatti crescere secondo condizioni normali rappresentano il gruppo di controllo. La seconda parte di semi verrà fatta crescere secondo le medesime condizioni in termini di luce, terra, acqua, umidità, calore ma verrà trattata con il nuovo fertilizzante. Dopo un periodo di tempo di quattro mesi, si rileva che le piante del gruppo di controllo sono cresciute di mezzo metro ma i chicchi sulle spighe sono piccoli, mentre le piante del gruppo sperimentale sono cresciute anch'esse mezzo metro ma presentano chicchi molto più grandi. Gli scienziati possono concludere che, avendo i due gruppi ricevuto il medesimo trattamento in termini di luce, terra, acqua, umidità, calore, l'unica ragione di differenza nella crescita dei due gruppi sia attribuibile all'effetto del fertilizzante che si intendeva studiare. Fattori chiave dell'esperimento sono dunque: -la suddivisione casuale dei semi di grano in due gruppi (controllo e sperimentale) dei quali si è provveduto a rilevare che la misura dei semi fosse assolutamente identica; -l'identificazione e la misura delle variabili chiave (luce, terra, acqua, umidità, calore); il controllo delle variabili chiave (stessa distribuzione delle quantità per entrambi i gruppi); - l'esclusione di qualsiasi altra variabile; -la somministrazione del trattamento speciale (il fertilizzante) per il gruppo sperimentale, tenendo sotto stretto controllo tutte le altre varia bili; -la misurazione finale dei risultati; il confronto dei due gruppi; -la generalizzazione attraverso l'affermazione che attribuisce la causa del miglioramento dei frutti del grano all'intervento del fertilizzante. L'esempio citato appare interessante per definire in modo efficace l'importanza dell'isolamento delle variabili quando ci si occupa di ricerca sperimentale. È ovvio, comunque, che, accingendosi a mettere in atto un esperimento in campo educativo, entrano in gioco fattori particolari che interessano anche la sfera etica e, pertanto, non è possibile agire come si farebbe in laboratorio, occupandosi di esperimenti relativi alle scienze fisiche. Come si evince anche dall'esempio sopra esposto, una variabile può essere definita quale "un ente non determinato, ma in grado d'identificarsi con ciascuno degli enti di 'un determinato insieme" 11. In relazione all'ambito cui si riferisce, la variabile assume un valore diverso, essendo un'entità che può variare entro una determinata gamma di valori. In un sistema di istruzione sarà necessario conoscere, e dunque controllare, variabili quali le caratteristiche di ingresso degli allievi, le caratteristiche di uscita, le risorse investite in un processo formativo, gli itinerari didattici e così via. In campo educativo le variabili sono innumerevoli e, pertanto, è conveniente suddividerle in categorie. Secondo Vertecchi, le variabili possono essere distinte in: variabili 'assegnate' (variabili socio-economiche e culturali), che si costituiscono al di fuori della situazione scolastica; variabili 'indipendenti' (variabili scolastiche), ovvero che riguardano le scelte organizzative e didattiche della scuola; variabili 'dipendenti' (variabili relative agli allievi) che definiscono i risultati dell'intervento educativo. E’ opportuno, inoltre, distinguere le variabili a seconda che si tratti di variabili che si riferiscono a una dimensione ampia, 'macrosistema', o variabili relative ad un sistema limitato, ' microsistema'. Sono variabili di macrosistema: -il mercato del lavoro; -il reddito nazionale; -la struttura produttiva. Sono variabili di microsistema: -l'organizzazione sociale di un certo territorio; - la struttura economica del territorio stesso; - i livelli culturali degli abitanti. È importante notare, poi, che le variabili assegnate (variabili socio-eco nomiche e culturali) costituiscono il curricolo implicito di ogni allievo, ovvero l'insieme delle conoscenze acquisite grazie all'esperienza ambienta richiedono di conseguenza una gran varietà di osservazioni e di valutazioni simultanee. Spesso, poi, i comportamenti sono così instabili e fluttuanti che nessuno strumento è in grado di misurarli; in questi casi, l'occhio clinico, il 'senso' della situazione globale da parte di chi osserva hanno un'importanza determinante. Ma proprio per questo, la strada del soggettivismo è di nuovo aperta. Misurando l'oggetto del suo studio, il ricercatore finisce per misurare anche se stesso Le considerazioni di De Landsheere non devono scoraggiare, esse, anzi dovrebbero stimolare gli educatori a porsi obiettivi di ricerca sempre più concreti e realistici per far sì che la propria azione sia talmente efficace da consentire un progressivo miglioramento del sistema. CAPITOLO 4 LA RICERCA QUALITATIVA NELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE 1. L’orientamento interculturale nell’educazione L'orientamento interculturale nel contesto educativo definisce un progetto intenzionale di promozione del dialogo e del confronto culturale rivolto a tutti, autoctoni e stranieri. In questo modo, le diversità (culturali di genere di classe sociale, biografiche, eccetera) divengono un punto di vista privilegiato dei processi educativi, offrendo l'opportunità a ciascuno di svilupparsi a partire da ciò che. Una prospettiva di ‘multiculturalismo’ è costruita negli anni sessanta e settanta del ‘900, dapprima in Canada e in Australia, poi negli Stati Uniti, per affrontare la questione della gestione delle differenze culturali nello stato: in particolare, nel 1971 il Canada è stato il primo paese ad adottare in multiculturalismo come politica ufficiale affermando il valore e la dignità dei cittadini di qualsiasi appartenenza culturale, linguistica o religiosa. In Europa una prospettiva interculturale si è sviluppata a seguito del momento di flussi migratori in paesi come Francia, Germania, Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi. Le prime strategie interculturali si sono concentrate su misure rivolte ai figli dei lavoratori immigrati per l'apprendimento della lingua dei paesi di accoglienza e per il mantenimento di quella di origine, al fine di consentire il loro ritorno nella madrepatria, assumendo la forma di una auslanderpadagogik (pedagogia per stranieri) in Germania o di una pedagogie d’accueil (pedagogia di accoglienza) in Francia. In Italia l'educazione interculturale è comparsa a seguito dello sviluppo del fenomeno migratorio avvenuto alla metà degli anni 70 del 900, più tardi rispetto ai paesi europei di più antica immigrazione (Francia, Germania, Regno Unito): in particolare, il 1973 è per l'Italia l'anno di svolta, nel quale si registra per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo, relativo alla differenza tra le persone in arrivo nel paese quelle in partenza da esso punto Attualmente i residenti stranieri presenti sul territorio italiano sono circa 5 milioni e mezzo con un'incidenza dell'8,2% sulla popolazione residente. I paesi di provenienza degli immigrati sono più di 190 mentre i primi paesi per provenienza, sono la Romania (1.131.839), Albania (490.483), Marocco (449.058), Cina (265.820), Ucraina (226.060), Filippine (168.238). Questo significativo flusso migratorio ha avuto forti ripercussioni sul sistema storia scolastico, in poco meno di 20 anni il numero di studenti stranieri si è più che decuplicato, passando da 59.389 unità (a.s. 1996- 97) a più di 805.800 (a.s. 2014- 15) con un'incidenza percentuale di bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana che ha raggiunto il 9,2%. 2. La ricerca qualitativa in ambito interculturale Le attività di ricerca in ambito interculturale devono proporsi come il frutto di un lavoro di collaborazione tra docenti, responsabili delle associazioni e ricercatori. In particolare, l'adozione di metodologie di indagine qualitativa e partecipativa favorisce l'emergere del punto di vista di operatori formatori esperti, che offrono suggerimenti e indicazioni utili in merito alle iniziative interculturali e la promozione della partecipazione e cittadinanza attiva dei migranti, consentendo di individuare situazioni problematiche, conseguendo una notevole profondità di analisi. Senza voler ripercorrere tutte le tappe del dibattito su quantitativo e qualitativo, va in via preliminare ricordato che la riflessione dei metodologi si è concentrata per molto tempo su due fondamentali miti della ricerca: il mito dell'oggettività e quello dell'adeguatezza. Il primo è stato abbracciato dai ricercatori quantitativi nel tentativo di raggiungere progressivamente una spiegazione oggettiva dei problemi. Il secondo costituisce il punto di partenza dei ricercatori qualitativi volti a comprendere le situazioni e a formulare ipotesi interpretative riconosciute come valide dai soggetti cui si riferiscono. La ricerca sul campo in pedagogia è stata a lungo caratterizzata da tale contrapposizione tra dimensione qualitativa e quantitativa, con un conferimento di un maggiore rigore scientifico al secondo approccio. Attualmente, invece, si riconosce in genere ad entrambe le metodologie la stessa dignità scientifica, considerando le ambedue valide in base all'oggetto dell'indagine. In questo senso, Lucia Lumbelli distingue due possibili accezioni dell'approccio qualitativo nella ricerca in educazione. La prima è quella che considera il momento qualitativo della ricerca come premessa alla possibilità di effettuare la ricerca quantitativa e, perciò, come fase preliminare del metodo d'indagine. Quest'ultimo presenterebbe così, rispetto al momento qualitativo, maggiori garanzie e rigore, corretto collegamento con le teorie che forniscono le ipotesi, nonché rilevanza e precisione delle variabili che si intendono misurare. Questa accezione di significato consente di assimilare il qualitativo all' esplorativo […] si tratta in sostanza di tutto ciò che avviene in un processo di ricerca prima che essa entri nella sua fase centrale, di esperimento o di osservazione controllata o provocata su ipotesi ben precise, riferite a variabili rigorosamente determinate in termini dei fatti misurabili o comunque traducibili in dati quantitativi. Susanna Mantovani osserva, tuttavia, che esistono temi e tagli propri della ricerca educativa che non possono, per loro natura, essere affrontati con strumenti quantitativi e richiedono un approccio qualitativo, descrittivo, condotto con strumenti di tipo clinico, che non impone peraltro di rinunciare né al massimo possibile di rigore nel progettare la ricerca né al formulare le ipotesi e scegliere le procedure per la raccolta dei dati in modo congruente con le teorie di riferimento. E’ questa seconda accezione dell'approccio qualitativo che lo rende indipendente dalla prospettiva quantitativa. L'utilizzo del metodo qualitativo , e in particolare di quello biografico, permette di attribuire alla soggettività un valore di conoscenza. Si tratta però di adottare categorie metodologiche prestabilite e rigide che escludono dall’ambito della ricerca ciò che ad esse riesca estraneo anche quando risulti socialmente e politicamente di grande rilevanza. Occorre, quindi, attenersi a una metodologia come tecnica dell'ascolto, in cui fra ricercatori e gruppo umano indagato si stabilisca una comunicazione non solo metodologicamente corretta, ma altresì umanamente significativa (essendo questa significatività non un'aggiunta moraleggiante facoltativa, ma parte integrante e garanzia della correttezza metodologica). Il riferimento all' esperienza è ,dunque, fondamentale per l'attività del ricercatore il quale, mettendo in rapporto le diverse soggettività (dell' intervistato e dell' intervistatore), dà vita ad una relazione significativa affinché il vissuto esperienziale possa essere esplicitato e raccontato .Il ricercatore, infatti, entra nella vita quotidiana della persona coinvolta nel processo di ricerca e propone una interazione che si configura- la maggior parte delle volte- come evento eccezionale, senza il quale la riflessione stessa probabilmente non sarebbe avvenuta. Al soggetto viene chiesto di mettersi in gioco, svelarsi, sollecitare l'attivazione della memoria per ripercorrere esperienze e vissuti. Da questa relazione nascono ulteriori stimoli per il ricercatore che può così affinare le ipotesi, gli strumenti di indagine, eccetera. La metodologia qualitativa si avvale di strumenti diversi, ma un ruolo peculiare viene attribuito al colloquio di tipo clinico, che consente di raccogliere informazioni di carattere storico individuale, relative alle esperienze e al vissuto del soggetto. Questa prospettiva metodologica raccoglie l'invito di Piero Bertolini, che mette in guardia contro un approccio empirico sperimentale che faccia dimenticare la struttura di senso della dimensione educativa e a quello di Duccio Demetrio, che suggerisce di impostare la ricerca educativa da un punto di vista rigorosamente qualitativo: “la cultura euristica del formatore non può esimersi dal confrontarsi con indirizzi di ricerca empirica riconducibili alla fenomenologia, alla psicologia clinica e costruttivista e all' approccio sistemico”. In questa prospettiva, la dimensione qualitativa impone al ricercatore di adottare metodi che non implicano l'uso di strumenti i cui dati rilevanti siano trasferibili in ordini matematici, ma che, al contrario, consentano di raccogliere impressioni, rappresentazioni individuali o collettive di specifici fatti ed esperienze. A tale proposito, Demetrio individua i seguenti comportamenti fondamentali del ricercatore qualitativo: -ottenere informazioni che rilevino l’essenziale (ovvero le sintesi esplicativo-interpretative) delle situazioni micro-relazionali assunte a campo d’indagine; -stabilire contatti diretti e interlocutori con i soggetti che fanno parte di quelle situazioni; -accettare che il processo di ricerca sia aperto a variazioni del percorso e ad aggiustamenti successivi; -avviare il programma di ricerca più da un’idea guida che da un’ipotesi o gamma di enunciati da verificare; -fare in modo che l’idea inziale si articoli e ramifichi a seconda dei passaggi incontrati o delle nuove esigenze euristiche; -assumere l’eventuale variazione del percorso di ricerca originariamente programmato, come una risposta problematica e non come un insuccesso; -delineare il disegno teoretico di quanto si va scoprendo nel corso della ricerca, senza rinunciare a porsi pregiudizialmente comunque dei problemi teoretici. Le informazioni che giungono al ricercatore arricchiscono, nel corso dell’indagine, la sua strategia teorica e gli impongono di modificare in itinere la strumentazione di cui, all’inizio, si era dotato, così come anche la tipologia dei rilevatori. La metodologia qualitativa configura, in questo modo, uno spazio micropedagogico che è uno spazio-tempo determinato entro il quale si realizza un intervento che include, da parte dell’attore-ricercatore, un’attenzione per la progressiva scoperta delle componenti in gioco, delle loro connessioni, delle regole che la sottendono e dei punti di vista dei soggetti che ad essa partecipano. La ricerca qualitativa enfatizza, quindi, il momento concettuale e problematicistico, assumendolo come un facilitatore cognitivo, rispettando, così, l’irriducibilità dei fenomeni complessi che si indagano. 3. L’intervista qualitativa L’intervista è uno scambio verbale tra due persone, una delle quali -l’intervistatore - pone delle domande più o meno rigidamente prefissate, al fine di raccogliere informazioni o opinioni dall’altra -l’intervistato - su di un particolare tema. E’ doveroso osservare che durante l’interazione i ruoli e i fini dei due interlocutori sono differenti: per questo motivo, l’intervista non si configura come una situazione simmetrica, ma come una condizione asimmetrica, in cui la persona che intervista deve essere capace sia di mettere l’intervistato a proprio agio, sia di ascoltarlo adeguatamente e aiutarlo a esprimere ciò che pesa e sente. E’ possibile descrivere diversi tipi di intervista: -L’intervista libera o in profondità o non direttiva, in cui si può spaziare e scegliere quale percorso seguire nel discorso, sulla base di un tema proposto dall’intervistatore. Questi cerca, inoltre, solo di stimolare l’intervistato a parlare il più liberamente possibile, mentre quest’ultimo può dire tutto ciò che desidera o che ritiene importante sul tema dell’intervista. -L’intervista semi strutturata, del tutto simile all’intervista libera per modalità e per approfondimento dei temi, in cui però vi sono alcune domande che l’intervistatore deve obbligatoriamente porre nel corso del colloquio. Queste domande devono essere rivolte a tutti gli intervistati, anche se il momento in cui vengono poste e la stessa formulazione all’intervistato possono essere diversi da soggetto a soggetto; -L’intervista strutturata, in cui le domande sono assai precise e decise in anticipo, poste secondo un ordine prefissato che il ricercatore ritiene ottimale; -L’intervista rigidamente strutturata che si realizza nella forma del questionario: in essa sono rigidamente prefissate non solo la formulazione e la scansione delle domande, ma anche le risposte. Quando si parla di intervista, nel campo della ricerca qualitativa, si intende per lo più riferirsi a un’intervista libera o semi strutturata, che mette al centro dell’interazione la soggettività dell’intervistato, verso il quale l’intervistatore deve esprimere un atteggiamento che Rogers definisce “accettazione positiva incondizionata”. L’intervistato è, dunque, al centro della relazione, può esprimere il suo personale punto di vista sui temi oggetto di ricerca e scegliere le parole, le frasi e gli argomenti con i quali sostenere le sue tesi: per questo motivo, l’intervista viene costruita sul suo modo unico e originale di considerare il tema oggetto di indagine. Le interviste rappresentano, così, modalità imprescindibili nell’azione di ricerca, in quanto in grado di innescare un processo di riflessione individuale e collettiva capace di far emergere nuove consapevolezze. Affinché questo modo unico e originale di vivere l'oggetto dell'intervista da parte dell'intervistato possa pienamente esprimersi, l’intervistatore, dopo aver suggerito il tema, dovrà manifestare elementi comunicativi positivi, quale l'atteggiamento di ascolto interessato e non giudicante, lasciando all' intervistato la possibilità di affrontare l'argomento dall' angolatura a lui preferita. Dal punto di vista procedurale, il modello di ricerca azione classico formulato da Lewin si articola in una serie di spirali, ciascuna delle quali include un ciclo di pianificazione (con la redazione di un piano di ricerca azione che intenda perseguire un determinato obiettivo), azione (che consiste nella realizzazione di un cambiamento del contesto), osservazione (quella raccolta di dati ed elementi utili al monitoraggio e l'azione) e riflessione (relativa alla valutazione dell'efficacia dell'intervento), con il passaggio finale alla spirale successiva. David Tripp ha successivamente proposto una interessante procedura di ricerca azione articolata attraverso un processo ciclico in 8 fasi: - la prima fase concerne l'identificazione, la valutazione e la formulazione del problema percepito da una determinata situazione (anche educativa), in particolare, la criticità dovrebbe riferirsi alla necessità di introdurre una innovazione in qualche aspetto del contesto; -la seconda fase richiede la discussione preliminare e la negoziazione tra le differenti parti interessate che può sfociare nella relazione di un documento propositivo, comprensivo delle domande della ricerca. I ricercatori qui agiscono come consulenti per aiutare gli attori locali a formulare le domande nel modo più appropriato (ad esempio, esplicitando i legami tra i fattori in campo); - la terza fase può comportare, in alcune circostanze, un'analisi della letteratura per approfondire gli esiti di ricerche precedenti; -la quarta fase può richiedere un cambiamento o una ridefinizione della formulazione iniziale del problema (realizzata nella prima fase), attraverso la definizione di nuove ipotesi operative; - la quinta fase riguarda la selezione delle procedure di ricerca (campionamento, scelta di materiali e metodi, definizione delle risorse e dei compiti) e in base agli obiettivi finali della ricerca azione vengono presi in considerazione differenti metodi di ricerca (ad esempio uno studio sperimentale, un'indagine e longitudinale, un'osservazione partecipante, studi di caso, eccetera); - la sesta fase concerne la scelta delle procedure di valutazione che nell'ambito della ricerca azione assumono carattere di continuità; - la settima fase è relativa alla realizzazione del progetto stesso, con la raccolta di dati, il monitoraggio dei compiti assegnati, la trasmissione di feedback allo staff di ricerca, la classificazione e l'analisi dei dati; - l'ottava e ultima fase riguarda l'interpretazione dei dati, la formulazione di inferenze e la valutazione complessiva del progetto. In questo stadio si svolgono incontri di discussione sugli esiti complessivi con i diversi attori coinvolti. Va osservato, infine, che la ricerca azione può svolgere in un determinato contesto molteplici funzioni: tra di esse, meritano di essere menzionate una funzione euristica, relativa ad una finalità di conoscenza su un certo argomento; Una trasformatrice, concernente l'introduzione di un cambiamento nel campo d'indagine; Una di collegamento tra teoria e prassi, riguardante un processo circolare di interconnessione tra saperi teorici e pratici; Una descrittiva, relativa al monitoraggio continuo di una specifica realtà sociale; Una catalizzatrice, concernente la capacità di raccogliere stimolare le risorse sul territorio; Una maieutica, facendo emergere le conoscenze dei soggetti coinvolti; Una politica, riguardante la possibilità di essere utilizzata per fornire opzioni decisionali per le scelte politiche; Una di rispecchiamento, dal momento che il ricercatore propone l'esito del suo lavoro ai gruppi coinvolti come utile punto di vista esterno. CAPITOLO 5 La ricerca-azione partecipativa tra prospettiva ecologica e azione educativa: riflessioni introduttive 1.Fare ricerca in una prospettiva ecologica All’interno delle profonde trasformazioni che hanno coinvolto negli ultimi decenni il dibattito epistemologico nei diversi settori, da quelli scientifici a quelli umanistici, si è determinato un progressivo spostamento di paradigma da un pensiero ‘forte’, normativo, caratterizzato da modelli di conoscenza univoci e totalizzanti, verso un pensiero ‘debole’ o post-moderno, relativista e contingente, che ha sovvertito i precedenti modelli interpretativi con approcci che sono stati contraddistinti dai caratteri di provvisorietà e storicità. Si è affermata l’idea che le conoscenze scientifiche non possano essere definitive e indipendenti dalla considerazione del contesto, ma provvisorie e incomplete, legate a precise coordinate spazio-temporali, sociali e politiche. Le teorie scientifiche hanno cominciato a non poter prescindere dalla considerazione delle condizioni che le hanno rese possibili, così come dalla considerazione della serendipità e imprevedibilità che spesso ne caratterizzano gli sviluppi. Si è fatta strada l’idea di un procedere della scienza non lineare e cumulativo, ma irregolare e trasformativo. Questo spostamento “da un approccio scientifico meccanicistico e gerarchico ad un approccio di tipo probabilistico e reticolare, è stato accompagnato dalla formulazione del paradigma della complessità, ovvero del pieno riconoscimento della correlazione dei diversi elementi che compongono la realtà e della loro imprescindibile multidimensionalità. La prospettiva di ricerca ha così iniziato a spostarsi dall’analisi degli oggetti alla considerazione delle relazioni che collegano gli oggetti sottoposti ad indagine, dalla ricerca oggettiva e oggettuale all’individuazione delle configurazioni e alla costruzione di mappe, da sintesi definitive e contestuali alla considerazione della contingenza e imprevedibilità dei fattori che spesso caratterizzano i contesti. Tutto ciò ha determinato un cambiamento anche nel modo di concepire la conoscenza, sempre più intesa come trama interconnessa di concetti e modelli la cui compresenza e relazione appare indispensabile per leggere la realtà e fornire di volta in volta un’interpretazione. Il nuovo pensiero scientifico, definito ecologico, proprio per la fondamentale importanza delle interrelazioni tra elementi cui l’ecologia rimanda, si è ritrovato a dare pieno riconoscimento e valore alla pluralità e alla differenza, a pensare insieme le diversità, a cogliere la complementarietà, ma anche la divergenza dei punti di vista. Un contributo essenziale alla messa a fuoco di queste problematiche è venuto a partire dagli anni Ottanta dal pensiero di Edgar Morin , il quale ha aperto un ulteriore problematizzazione del paradigma della complessità collegandolo proprio alla intrinseca e costitutiva multidimensionalità della conoscenza. La conoscenza, afferma Morin, è tale solo in organizzazione e messa in relazione delle informazioni, tanto che la conoscenza pertinente può essere solo quella capace di collocare ogni informazione nel proprio contesto di riferimento, di collegare i saperi tra loro, evitando una sterile accumulazione. Organizzare la conoscenza implica operazioni di interconnessione (congiunzione, inclusione, implicazione) e di separazione (differenziazione, opposizione, selezione, esclusione). Il processo è circolare, passa dalla separazione al collegamento, dal collegamento alla separazione, e poi, dall’analisi alla sintesi, dalla sintesi all’analisi. In altri termini, la conoscenza comporta nello stesso tempo separazione e interconnessione, analisi e sintesi. […] è necessità cognitiva porre una conoscenza specifica nel suo contesto e situarla in un insieme. […] lo sviluppo dell’attitudine a contestualizzare tende a produrre l’emergenza di un pensiero ‘ecologizzante’ nel senso che situa ogni evento, informazione o conoscenza in una relazione di inseparabilità con il suo ambiente culturale sociale, economico , politico e , beninteso, naturale.[…]Tale pensiero diventa con ciò anche inevitabilmente pensiero del complesso, poiché non basta inscrivere ogni cosa ed evento in un quadro o orizzonte. Si tratta di ricercare sempre le relazioni e le interretrazioni tra ogni fenomeno e il suo contesto, le relazioni reciproche tutto-parti. Cambia dunque la natura dell’oggetto d’indagine, ma cambia anche la considerazione del soggetto conoscente e la sua collocazione epistemica. Morin esplicita chiaramente questo fondamentale passaggio affermando che: mentre le scienze normali, comprese le scienze cognitive, si fondano sul principio disgiuntivo che esclude il soggetto (qui il conoscente) dall’oggetto (qui la conoscenza), cioè il conoscente dalla propria conoscenza, la conoscenza della conoscenza deve affrontare il paradosso di una conoscenza che costituisce il proprio oggetto solo perché emana da un soggetto. Come dice von Forester, abbiamo bisogno ‘non soltanto di una epistemologia dei sistemi osservatori. Ora i sistemi osservatori sono i sistemi umani, che devono essere concepiti e compresi come soggetti [..]. Possiamo così introdurre il soggetto conoscente come oggetto di conoscenza e considerare oggettivamente il carattere soggettivo della conoscenza [..]. Il soggetto qui reintegrato non è l’Ego metafisico [..] è il soggetto vivente. Anche all’interno delle scienze cognitive l’attenzione al contesto e al ruolo attivo del soggetto si è rafforzata. Il costruttivismo è stato anche definito come lo sviluppo ‘ecologico’ del cognitivismo e a tale definizione ha certamente contribuito il pensiero di Gregory Bateson che sulla relazione, sulla connessione e sull’interdipendenza delle parti, ha centrato la sua idea di mente e la natura della conoscenza. Da una parte abbiamo la natura sistemica dell’essere individuale, la natura sistemica della cultura in cui egli vive e la natura sistemica del sistema biologico, ecologico che lo circonda; e, dall’altra parte, la curiosa distorsione dell’uomo individuale per effetto della quale la conoscenza è, quasi di necessità, cieca di fronte alla natura sistemica dell’uomo stesso. La coscienza finalizzata estrae, dalla mente totale, sequenze che non hanno la struttura ad anello caratteristica della struttura sistemica globale. Se si seguono i dettami ‘sensati’ della coscienza, si diviene in realtà avidi e stolti: e per ‘stolto’ intendo colui che non riconosce e non si fa guidare dalla consapevolezza che la creatura globale è sistemica. La carenza di saggezza sistemica è sempre punita. Si può dire che i sistemi biologici (l’individuo, la cultura e l’ecologia) sono in parte supporti viventi delle loro cellule od organismi, componenti. Ma i sistemi nondimeno puniscono ogni specie che sia tanto stolta da non andare d’accordo con la propria ecologia. Al di là dei risvolti, per molti aspetti profetici, della posizione di Bateson, è evidente la rilevanza del riconoscimento del ruolo attivo del soggetto e dell’imprescindibile legame tra questo e il proprio contesto di vita. La riflessione pedagogica non è certo rimasta estranea a tali sollecitazioni, anzi ne è stata coinvolta sia sul versante epistemologico che sul versante progettuale-operativo. Infatti, da una parte, sempre più forte è apparsa la necessità di un’educazione alla complessità, come implicito riconoscimento della pluralità, della diversità e della relatività dei punti di vista, e nel contempo anche garanzia di approccio globale, olistico ai problemi per il superamento di un riduzionismo separatista, a sostegno di una logica interpretativa fondata sull’integrazione e sulla relazione. Ma, da un’altra parte, il macro-paradigma della complessità ha riguardato anche la Pedagogia come scienza impegnata a individuare e definire le condizioni di educabilità degli individui e dei gruppi sociali attraverso lo studio dei processi di formazione nella loro contestualizzazione storica, culturale e sociale. In quanto scienza che indaga criticamente i processi di formazione umana per rispondere all’esigenza di conoscere le condizioni che rendono possibile l’azione educativa all’interno di una determinata società e in un particolare momento storico-culturale, la pedagogia (e in particolare la pedagogia sociale) ha rafforzato la ricerca attenta alla dimensione empirico-fattuale in cui si realizzano i processi di formazione. La ricerca pedagogica ha assunto una prospettiva olistica di ricerca e i contesti spazio- temporali, sociali e culturali hanno assunto una rilevanza fondamentale. Il quadro paradigmatico a cui sono riconducibili queste considerazioni implica l’impossibilità di affrontare la ricerca su formazione e azione educativa indipendentemente dalla considerazione degli ambienti in cui queste si determinano e si inscrivono e delle relazioni socio-culturali che ne sono costitutive. In questo quadro la pedagogia si delinea necessariamente come scienza che opera su oggetti complessi: la correlazione tra processi formativi, agire educativo, trasformazioni sociali e culturali è indagabile solo facendo riferimento ad approcci di tipo sistemico o ecologico in grado di considerare le relazioni, le interconnessioni e le retroazioni che caratterizzano tale correlazione. Questa impostazione comporta una (ri)considerazione del valore euristico e della validità teorica della ricerca sul campo in educazione, intesa come rilevazione, scoperta ed esplorazione dei contesti di formazione per individuare fattori in grado di spiegare e offrire risposte a domande esplicite (o implicite) di ricerca educativa e nel contempo “produrre sapere utile alla pratica (principio di utilità). Un procedere che ha una sua pregnanza culturale, in quanto deriva il proprio significato dai contesti di vita e di esperienza; considera la dimensione qualitativa della ricerca in pedagogia come modalità euristico-ermeneutica, per la possibile esplorazione dei fatti e per la possibile interpretazione e comprensione dell’azione educativa, in dialogo e integrazione con metodi di ricerca esperienziale e trasformativa. Un chiarimento in tal senso viene dalla riflessione di Luigina Mortari: La ricerca constativa è quella che si prefigge un compito ricognitivo sul contesto, che mira a comprendere le cose così come accadono; la ricerca esperienziale-trasformativa è quella alla prova dell’esperienza la teoria con lo scopo di trasformare la teoria e la pratica. Anche la ricerca cognitiva è importante dal momento che c’è bisogno di capire come si attuano certe intenzioni pedagogiche, come sono percepite certe esperienze dai soggetti che le vivono, quali effetti producono nel contesto certe azioni. Tuttavia l’approccio constatativo- ricognitivo non è sufficiente per fondare una teoria pedagogica; c’è bisogno innanzitutto di ricerche che mettano alla prova le idee, quelle che hanno la forma di ‘ipotesi provvisorie’ (tentative hypoteses, come le ha definite Dewey). In questo caso la ricerca empirica assume la forma di un intervento che introduce qualcosa di nuovo nel contesto e che monitorando il modo del suo accadere verifica la qualità dell’azione, ricavando così le indicazioni necessarie, anche se non sempre sufficienti, ad orientare la prassi. Il richiamo alla riflessione Deweyana riconduce anche alla considerazione della ricerca pedagogica radicata nella prassi e che per questo richiede modalità di indagine profondamente legate ai contesti operativi da cui scaturiscono le stesse problematiche indagate: una ricerca nell’educazione e per l’educazione piuttosto che una ricerca sull’educazione. Tra le metodologie o strategie di ricerca orientate non solo alla produzione di conoscenza, ma soprattutto alla definizione e produzione di azioni di cambiamento e trasformazione degli stessi contesti educativi indagati, una rilevanza particolare è assunta dalla ricerca-azione e dalla ricerca-azione partecipativa in particolare. negoziate e condivise socialmente. Scopo finale dell’adozione di tecniche ermeneutiche, attraverso l’adozione di interscambio dialettico, è quello di ottenere una costruzione di consenso. Tuttavia la validità degli esiti della ricerca richiede di partire dal superamento del semplice accordo intersoggetivo attraverso il confronto con standard di conoscenza disciplinare e razionale, che rendono i risultati stessi condivisibili e trasferibili all’interno di una comunità professionale. Questo consente anche la sua collocazione all’interno di un costruttivismo critico permettendo il riconoscimento di una base oggettiva (documentata dalle evidenze empiriche emergenti nel corso del processo) per l’assunzione dei risultati e la crescita di conoscenza valida rispetto al problema di partenza. Pur confermando che si tratta di una ricerca empirica, che interviene in situazioni reali e non si effettua sulla base di un insieme di ipotesi prestabilite, occorre sottolineare come essa sviluppi nel suo procedere l’integrazione tra i saperi dei soggetti partecipanti e i saperi scientifico-disciplinari esperti: è il riposizionamento epistemico del ricercatore e la sua responsabilità di apportare ulteriori elementi di comparazione e di analisi, che deve diventare garanzia del superamento della esclusiva base negoziale intersoggetiva. La dimensione empirica della ricerca non si colloca certamente su impostazioni di ordine nomotetico tendenti a pervenire a norme generali, ma a partire da riflessioni che scaturiscono da posizioni di ricerca idiografica, la RAP consente di recuperare da un lato l’irriducibile originalità delle singole situazioni e dall’altro di rintracciarne interpretazioni riconducibili agli ambiti di riflessione teorica considerati. L’opzione epistemologica parte da una concezione olistica della ricerca in educazione che privilegia un approccio qualitativo finalizzato ad una comprensione idiografica, tuttavia ampiamente sostenuto dall’individuazione di un impianto teorico di fondo a cui ricondurre l’analisi. Occorre inoltre considerare che anche in sede idiografica è possibile estende il valore dei risultati al di là del contesto specifico in cui sono stati ottenuti, non nel senso della loro generalizzabilità, ma in quello della loro trasferibilità, in termine di casistiche o in termini di inferenze. Certamente una funzione fondamentale è svolta dalla documentazione di processo e non solo di prodotto: non è sufficiente documentare il risultato, ma occorre sia garantita la presenza di documenti che consentano l’interpretazione della relazione tra il risultato, positivo o negativo che sia, e tutti i dati e i fattori coinvolti nel processo di ricerca-azione. La documentazione, come base per tutte le fasi della RAP, può cautelare anche dai rischi di ‘aneddotismo’ a cui la ricerca-azione partecipativa può andare incontro per la scarsità di dati su cui fondare le proprie generalizzazioni. Nella fase di valutazione, inoltre, la RAP dovrebbe poter soddisfare una duplice e contrastante esigenza, ovvero di garantire il coinvolgimento degli attori nel processo valutativo (attraverso una valutazione interna al gruppo di ricerca-azione partecipativa, quale forma di autovalutazione) e di garantire il superamento della possibile autoreferenzialità e ipotizzare anche un minimo ‘generalizzabilità’ dei risultati della ricerca grazie all’attivazione di procedure di valutazione esterna (con possibili e auspicabili ricadute e restituzione anche all’interno del processo di autovalutazione). Processi di autovalutazione e valutazione esterna possono essere complementari e trovare una loro integrazione in una sorta di processo ermeneutico ‘allargato’: dai soggetti coinvolti nella ricerca situata alla comunità scientifica. Si tratta tuttavia di questioni aperte: appare necessario sottoporre ad ulteriore analisi questa metodologia (sia in merito al suo inquadramento teorico, sia alla modelizzazione di procedure rigorose, protocolli di ricerca standardizzabili anche in termini di metodi, tecniche e strumenti) al fine di consolidare e sostenere su base scientifica il valore innovativo che ha dimostrato di poter esprimere in ambito educativo. CAPITOLO 6 IL PARADIGMA TRASFORMATIVO E LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE DI RICERCA DEI RICERCATORI PROCESSIONISTI DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE. LA RICERCA-AZIONE TRANSAZIONALE. 1. Premessa In questo capitolo si tratterà del paradigma trasformativo, proposto quale prospettiva fondamentale per lo sviluppo delle competenze di ricerca in pedagogia, sulla base del riconoscimento della necessità di costruire percorsi di formazione dei professionisti dell’educazione e della formazione che tengono conto del bisogno di professionalizzare la pratica educativa nei termini della ricerca. L’obiettivo di formare i formatori alla competenza di ricerca risponde ad un bisogno che nell’ottica previsionale e prognostica tipica della scienza pedagogica, possiamo considerare prioritario per lo sviluppo della professionalità educativa: il bisogno di dotarsi di dispositivi capaci di supportare lo sviluppo professionale nel campo dell’educazione e della formazione. Tali dispositivi vanno acquisiti, coltivati ed implementati nel corso della pratica professionale la quale si offre al professionista come costante oggetto di ricerca. Pensiamo, in questo senso, al professionista dell’educazione e della formazione come adulto in formazione permanente, quindi in tras- formazione e, in quanto tale, come soggetto teso al costante esercizio del “discernimento della relazione (che intercorre) tra quel che (cerca) di fare e quel che succede in conseguenza”. Solo quando le “cose” – che per quel professionista hanno un significato – gli permetteranno di prevederne le conseguenze, egli potrà agirvi in maniera intenzionale e orientarle. Si individuerà, quindi, nella competenza di ricerca la principale dotazione che qualifica nei termini della professionalità l’operato dei diversi professionisti che, a differenti livelli, lavorano nel campo dell’educazione e della formazione, adottando un approccio secondo il quale la pratica educativa professionale non può prescindere dal rapporto fra ricerca e riflessione sull’agire educativo. In questo senso, si parlerà di Ricerca-Azione Transazionale (RAT ). 2. Il paradigma trasformativo Quello trasformativo è un paradigma che si è affermato con forza in una parte significativa della comunità pedagogica internazionale. La lettura che se ne propone in questa sede tiene conto del rapporto fra la “teoria trasformativa” e “l’epistemologia della pratica professionale” per lo sviluppo professionale degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti. Questi due complessi congegni teorici, corredati da apparati metodologici, hanno contribuito a definire una corrente di ricerca e intervento all’interno della quale si sviluppano vari costrutti. In queste pagine proveremo a spiegare criticamente le implicazioni sul piano della pratica educativa e, di conseguenza, su quello della formazione degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti. La teoria dell’apprendimento trasformativo è stata introdotta nel dibattito internazionale sull’educazione degli adulti da Jack Mezirow nel 1978. Essa mira a mettere in luce condizioni e regole universali che sono implicite nel lavoro educativo e che vanno portate alla consapevolezza, rendendole disponibili per poi farle reagire con i saperi. Nel tentativo di spiegare i principi di strutturazione dell’apprendimento degli adulti e di chiarire con quali processi le cornici interpretative costruiscano i significati che guidano la vita dei soggetti adulti (l’ipotesi di Mezirow è che) solo mettendo in discussione queste cornici si può accedere a uno spazio di possibile modificazione e trasformazione della vita adulta. Come sottolineano i curatori della teoria dell’apprendimento trasformativo, che raccoglie fra i più significativi interventi di Jack Mezirow in convegni, riviste e testi collettanei – offrendosi alla comunità degli studiosi e degli studenti di educazione degli adulti come efficace letteratura di approfondimento di Apprendimento e trasformazione, del 1991 – la teoria dell’apprendimento trasformativo nasce dalla integrazione feconda di una serie di approcci: “da una rilettura del costruttivismo, della teoria critica e del costruttivismo nella teoria sociale in tutte le scienze sociali nel diritto, nella letteratura e nell’arte […] dagli effetti prodotti dalla rivoluzione cognitiva in psicologia e in psicoterapia”. Nell’ampio panorama delle prospettive con le quali Mezirow si è confrontato per l’elaborazione della sua teoria, quelle che hanno inciso in maniera forse più significativa rispetto alle altre sono le prospettive di Freire, Illich, Habermas e Dewey. Sarà soprattutto al contributo offerto da Dewey che dedicheremo qualche attenzione nel corso di questo contributo. Quella di Mezirow è stata recepita dalla comunità pedagogica come una proposta metodologica particolarmente significativa nella misura in cui pone l’attenzione su un aspetto fondamentale dell’apprendimento degli adulti: un adulto può davvero cambiare se nella propria vita e nella propria storia di formazione si imbatte in un “dilemma disorientante”, un problema per il quale le sue esperienze e conoscenze pregresse non forniscono soluzioni. A partire dagli effetti di questo dilemma si inaugura nel processo formativo una fase di riflessione, di messa in discussione di nuova consapevolezza e di cambiamento che coinvolge quelle che Mezirow chiama le “Prospettive di significato”, schemi di riferimento personali entro i quali sono assimilate e trasformate le nuove esperienze. L’assunto sul quale si fonda la teoria dell’apprendimento trasformativo è che l’adulto è un soggetto che interpreta le esperienze e che per un adulto apprendere significa appunto utilizzare un significato che ha già costruito, per orientare il suo modo di pensare, agire o sentire nei riguardi di ciò che sta vivendo nel presente. In questo senso apprendere significa trovare un significato, quindi, dare senso o coerenza alle esperienze: il significato sarebbe così una forma di interpretazione e l’apprendimento adulto si delineerebbe come processo dialettico di interpretazione condizionato da set precostruiti di aspettative. Infatti, secondo la teoria trasformativa, nei processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza l’uomo costruisce specifiche meaning perspective, vale a dire complessi raggruppamenti di meaning schemes tra loro interrelati. Mezirow ne individua tre: 1) PROSPETTIVE EPISTEMICHE, riconducibili alle immagini, alle teorie e alle rappresentazioni che il singolo soggetto costruisce sulla conoscenza e sul processo di costruzione della stessa; 2) PROSPETTIVE PSICOLOGICHE, date da schemi di significato che inducono a percepire se stessi all’interno di un contesto o in riferimento ad un compito; 3) PROSPETTIVE SOCIO-LINGUISTICHE, date dalle premesse socio linguistiche, riconducibili ai processi di socializzazione in cui il soggetto è immerso fin dalla nascita, che condizionano la possibilità di interpretare l’esperienza. Secondo la teoria trasformativa, un adulto che apprende può imbattersi in almeno quattro forme: - L’apprendimento attraverso degli schemi di significato finalizzato a differenziare ed elaborare criticamente gli schemi di significato preacquisiti e dati per scontato; - L’apprendimento di nuovi schemi di significato, che consiste nel creare nuovi significati sufficientemente coerenti e compatibili con le prospettive di significato preesistenti, in modo da integrarle efficacemente ampliandone la portata; - L’apprendimento attraverso la trasformazione degli schemi di significato, che comporta una riflessione sui presupposti ed è stimolata dalla scoperta della inadeguatezza dei vecchi approcci alla ricerca e alla comprensione dei signidficati; - L’apprendimento attraverso la trasformazione della prospettiva che consiste nel prendere consapevolezza dei presupposti specifici su cui si basa una prospettiva di significato distorta o incompleta e nel trasformarla attraverso una riorganizzazione del significato. Se pensiamo al professionista dell’educazione e della formazione come adulto che apprende dalla riflessione sulla pratica professionale, l’assunto di Mezirow ci invita a considerare che quel professionista interpreta la situazione utilizzando un significato che ha già costruito, per orientare il suo modo di pensare, agire o sentirsi nei riguardi di ciò che sta vivendo in quella situazione. Per un professionista dell’educazione e della formazione, l’apprendimento trasformativo è commisurato alla sua capacità di “conversare” con la situazione mediante l’utilizzo di un dispositivo specifico: la riflessività. E’ evidente che in questo contributo stiamo leggendo l’agire professionale di educatori, pedagogisti e insegnanti come pratica intenzionata che non si dispiega in una funzione meramente applicativa di teorie, modelli o protocolli di azione, ma si pone come critica regolativa dell’agire stesso. Pertanto ipotizzando la configurazione di una professione sostanziata da una competenza riflessiva che ha la sua radice nella “teoria dell’indagine” deweyana, assumiamo quale primo riferimento l’epistemologia della pratica professionale di Schon e la relativa prospettiva del professionista riflessivo, considerando il dispositivo della riflessività quale connotato specifico dell’habitus professionale di educatori, pedagogisti e insegnanti. Una prospettiva, quella proposta in queste pagine che va anche nella direzione di sollecitare un’attenzione costante alla dimensione deontologica della pratica educativa professionale che trova proprio nella riflessività uno dei suoi dispositivi di sviluppo. Considerare il professionista dell’educazione come professionista riflessivo implica la necessità di supportarne la formazione e lo sviluppo professionale in modo tale da renderlo “consapevole degli occhiali con cui guarda fuori e dentro di sé e disponibile a metterli in discussione e a modificarli, interrogando e lasciandosi interrogare dalle esperienze in cui è coinvolto, dai colleghi e dai contesti di lavoro, dagli stessi soggetti educativi con cui opera”. L’ancoraggio al Dewey di Logic Theory of Inquiry è operazione epistemica fondamentale per le questioni poste ad oggetto di analisi in questo capitolo. Per Dewey infatti, il sapere è una conoscenza pratica e la “tecnologia pragmatica” del procedere scientifico punta a trasformare le pratiche. Questo assunto in educazione non appare facilmente confutabile, nella misura in cui il sapere educativo emerge da, e si evolve mediante azioni riflessive tese a interpretare i problemi che emergono dall’esperienza per risolverli: l’oggetto della conoscenza educativa, quindi, è soggetto a cambiamenti conseguenti all’azione esercitata tanto dall’educatore quanto dal destinatario dell’azione educativa nello scenario delineato e continuamente turbato dal contesto specifico di riferimento. E’ per questa ragione che la competenza euristica del professionista dell’educazione si fonda sulla capacità non già e non solo di descrivere o spiegare il modello adottato per risolvere un problema quanto sulla sua capacità di impostare il problema e monitorare il processo attraverso il quale quel problema viene affrontato e, possibilmente, risolto. Tale capacità deve fare i conti con la disponibilità e cogliere e gestire i turbamenti, le contraddizioni interne, le incoerenze e tutte quelle variabili che connotano il processo educativo come processo complesso e pluriarticolato. L’insieme degli elementi di conoscenza che il practitioner utilizza nel corso dell’azione, quindi nello svolgimento della sua pratica rigore professionale) è stata, così, tradotta come precarietà del lavoro, con il relativo tramonto del servizio educativo garantito ai cittadini e con la sempre più ampia diffusione di forme contrattuali cosiddette ‘flessibili’. Se da un lato è vero che una possibile declinazione della flessibilità va nella direzione di una valorizzazione dell’apertura delle possibilità lavorative per educatori, pedagogisti e insegnanti, dall’altro la tendenza ormai consolidata a non tutelare questi professionisti mediante un adeguato sistema di regolamentazione professionale (per gli educatori e i pedagogisti) e una sistemica e organica politica del reclutamento (per gli insegnanti), ha finito per alimentare in negativo il vissuto della precarietà quale cifra propria del lavoro in ambito educativo e formativo. Infatti, se è vero che il lavoro educativo si configura come universo pluriarticolato – aspetto che lo rende interessante e avvincente ma, al tempo stesso, complesso da gestire – la tendenza alla quale si faceva poc’anzi riferimento si traduce, nei fatti (e generando un paradosso), o in un limitato accesso al lavoro o nell’impossibilità di garantire continuità educativa e formativa all’utenza. Questa situazione rischia di generare danni su almeno tre piani: - Sul piano delle risposte alle domande educative e formative dell’utenza di tali servizi (tutti i cittadini); - Sul piano delle possibilità occupazionali dei professionisti dell’educazione e della formazione; - Sul piano della relativa impossibilità di contribuire al necessario consolidamento di una cultura educativa nella nostra società che ancora restituisce un clima di scarsa attenzione e riconoscimento socio-culturale ai professionisti dell’educazione e della formazione. Quanto finora considerato trova riscontro anche in una certa lettura della formazione degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti che risente di visioni fortemente ipotecate da approcci prestazionistici e tecnici che non fanno altro che aumentare il rischio di frammentazione professionale. Tuttavia, la riforma del sistema universitario attualmente in vigore, pur nell’evidenza del suoi limiti, ha offerto alcuni strumenti legislativi e organizzativi che hanno consentito di rimettere in forma la specificità delle figure professionali che si occupano di educazione e formazione, con la relativa necessità di pensare a percorsi formativi differenziati per finalità, obiettivi, metodologie e sbocchi professionali. La differenziazione tra i percorsi formativi triennali (per gli educatori) e biennali (per i pedagogisti), ha contribuito a portare all’esplicitazione, ad una maggiore definizione e ad una istituzionalizzazione della differenza di livello di attività e, dunque, di funzione e di ruolo tra educatore e pedagogista. Infatti, volendo considerare una delle diverse proposte di lettura dei livelli di azione professionale, se l’educatore ha la responsabilità diretta dell’intervento educativo, il pedagogista è colui che progetta, programma, monitora e valuta i servizi educativi e formativi, effettua interventi formativi complessi ed esercita funzioni nell’ambito della consulenza pedagogica individuale, familiare, di gruppo o comunitaria. L’istituzione della Laurea Magistrale a ciclo unico per la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, da un alto, e dall’altro lato l’interminabile riforma del sistema della formazione degli insegnanti di scuola secondaria, con la recente soppressione dei Tirocini Formativi Attivi (TFA) – che a loro volta sostituivano le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS) – e l’introduzione dei percorsi triennali di Formazione iniziale, Tirocinio e Inserimento nella funzione docente (FIT), rappresentano gli ultimi tentativi (non privi di storture evidenti) di disciplinare e riordinare il sistema della formazione iniziale e del reclutamento dei docenti, definendo requisiti e modalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo e secondo grado. Rispetto ad una situazione normativa e socio-culturale che certamente non aiuta l’università, i percorsi formativi attualmente proposti dagli atenei italiani per la formazioni di educatori, pedagogisti e insegnanti tengono adeguatamente conto della necessità di garantire il giusto equilibrio tra i saperi generali, i saperi pratici, e il piano del laboratori e dei tirocini. Siffatto impianto, seppur criticato da visioni miopi che ne denunciano l’eccessiva genericità (e che sicuramente ignorano la natura epistemologico-professionale dell’educazione e della formazione, ancora troppo ‘formattate’ da astoriche forme di razionalità tecnica), tende a garantire il possesso di competenze euristiche grazie alle quali coltivare il sapere teoretico attraverso una costante retroazione critica sui saperi pratici e sui contesti di riferimento dell’agire degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti. Perché la riflessione, “per accedere al metalivello della riflessività, deve […] nutrirsi di molti e multidisciplinari saperi. Se è vero che “educatori si diventa” attraverso un intenso lavoro di formazione continua che chiama in causa la cultura, la professionalità e la responsabilità di chi decide di dedicarsi a questa professione, i Dipartimenti e le Facoltà che ospitano i Corsi di Laurea e Laurea Magistrale per la formazione degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti si impegnano a garantire l’offerta di percorsi formativi fortemente centrati sull’esperienza e sul confronto con il mondo della professione, proprio perché si riconosce la necessità di potenziare in questi professionisti lo sviluppo della competenza di ricerca. Come è noto, questa impostazione pedagogica è tesa a valorizzare il dialogo tra i saperi accademici e i saperi espressi dal mondo della pratica, che si concretizza nella proposta di un variegato panorama di esperienza organizzate in collaborazione con le professionalità distribuite in diversi contesti educativi. Per esempio, l’immersione dello studente nel mondo della pratica, realizzata soprattutto mediante le attività di stage/tirocinio, pone in primo piano la questione del rapporto che intercorre tra formazione e identità professionale e impone la necessità di formare i professionisti dell’educazione e della formazione all’adozione di uno sguardo sistemico che consenta loro di “pensarsi educatori”, assumendo ogni descrizione e interpretazione del reale come parziale e mai definitiva, ma non per questo priva di significato ed evitando che i processi di elaborazione dell’esperienza si cristallizzino entro unità di conoscenze rigide, perché la complessità del campo di azione cui si riferisce l’agire educativo necessita di un sapere dell’esperienza e della contingenza. Questo vale certamente per gli educatori e i pedagogisti che operano in contesti non formali, ma è vero anche per gli insegnanti che, contrariamente a quanto si continua a sostenere con forza da qualche parte (in maniera non esplicita ma comunque evidente), non necessitano di una formazione esclusivamente o prioritariamente didattico-disciplinare ma richiedono l’imprescindibile e prioritaria formazione pedagogica e didattica proprio in forza della natura specifica della pratica professionale agita, i cui contenuti disciplinari sono fondamentali ma non utili, di per sé, all’esercizio della professione. Infatti, la pratica riflessiva, che si qualifica come competenza pedagogica, e solo pedagogica, sembra interpretare al meglio anche la forma di ricerca propria dell’insegnante [perché] l’attività di ricerca imperniata attorno ad un’intelligente pratica riflessiva o, in altra accezione, la pratica riflessiva integrata nella professionalità come attività di ricerca, svolge una funzione educativa dell’insegnante che la esercita come soggetto e interprete attivo. Sviluppare la competenza euristica significa vivere la professione educativa e formativa in maniera tale da progettare e gestire i processi di cambiamento educativo grazie ad una conoscenza diretta, reale e costante delle diverse organizzazioni nelle quali viene esercitata la pratica educativa professionale. Ciò a vantaggio di una gestione responsabile dei processi attivati e di un rigoroso monitoraggio delle dinamiche di apprendimento informale ed esperienziale che incidono sui processi di sviluppo e trasformazione dell’identità professionale. Di qui la proposta di adottare nella formazione dei professionisti dell’educazione e della formazione impianti epistemologici e metodologici inquadrati nel paradigma dell’”epistemologia della pratica professionale”, valorizzando il dispositivo della riflessività come strumento di supporto allo sviluppo dell’identità professionale, nella prospettiva di interpretare l’esercizio della professione educativo-formativa come forma di “apprendimento trasformativo”. In quanto possibile struttura regolativa del sapere pedagogico, l’intreccio paradigmatico che scaturisce dall’incontro di queste prospettive rimanda al principio transazionale che, fungendo da vero e proprio esperimento di “indagine”, ci invita a pensare ad una professione alla quale è possibile essere formati mediante l’impianto della ricerca-formazione, considerando la formazione degli educatori, dei pedagogisti e degli insegnanti quale oggetto e soggetto della ricerca pedagogica, nell’ottica di un dialogo costante fra ricerca educativa e pratica professionale. Professionalizzare la pratica educativa nei termini della ricerca significa consentire a educatori, pedagogisti e insegnanti in formazione di esercitare una forma mentis atta a comprendere che l’agire educativo è al tempo stesso ‘agire pensato’ e ‘pensiero in azione’. Giungere a siffatta comprensione consentirà di coniugare il momento conoscitivo, finalizzato a produrre conoscenza su una data realtà educativa, con il momento attivo dell’azione, finalizzato a realizzare un piano di intervento educativo adeguato. Non a caso, l’obiettivo del volume che accoglie questo contributo è quello di contribuire alla formazione delle competenze euristiche di educatori, pedagogisti e insegnanti i quali, nell’esercizio della professione e in base alla specificità dell’utenza e dei contesti nei quali operano, dovranno essere in grado di gestire la problematicità della pratica educativa professionale, a partire dalle scelte metodologiche. Sono molte, infatti, le forme di ricerca in educazione, come molti sono i metodi educativi e formativi. “Nell’ambito di ciascuna forma di ricerca si collocano […] differenti paradigmi metodologici, che prospettano fondamenti e procedure diverse […]. Fra i paradigmi della ricerca empirica Baldacci annovera la Ricerca Azione (RA). Si tratta di una forma di ricerca empirica di tipo qualitativo che procede attraverso diagnosi rinforzanti messe a punto da una indagine costante che conferisce al pensiero e all’azione del professionista “un’efficace capacità pratica”. Infatti, come sostiene Baldacci, la RA “manifesta in modo esemplare la natura di sapere attivo della pedagogia, e si è perciò imposta per la sua capacità di conferire una dimensione di ricerca alle pratiche educative. Il ciclo di vita di una RA inizia con l’identificazione di un problema in un contesto specifico e si sviluppa attraverso un percorso a spirale che dalla ricognizione (o indagine iniziale) porta alla pianificazione e alla esecuzione. Si assume, dunque, un’ottica dinamica che: - analizza le situazioni alla luce dell’interdipendenza dei fattori che la caratterizzano; - analizza i problemi reali situati in contesti specifici; - sposta il focus di studio del semplice oggetto ai processi di cambiamento e trasformazione; - adotta una logica circolare nell’intendere la relazione tra azione e riflessione e tra apprendimento e cambiamento; - considera il gruppo come dispositivo attivo di ricerca-intervento, ponendolo come ‘strumento’ attraverso il quale attivare il cambiamento e la trasformazione della situazione; - considera il ricercatore-professionista come parte del campo. Questo modo di intendere la ricerca come intervento educativo propone una certa visione filosofica della ricerca che fa propri i valori della democrazia e della partecipazione, traducendoli in prassi di ricerca. La RA, infatti, si delinea quale modo di conoscere la realtà attraverso la rete di relazioni che in essa prende forma e, in questo senso, come modalità di intervento che si colloca nei contesti organizzativi con intenti trasformativi e di costruzione della conoscenza. La prospettiva olistica che caratterizza la RA consente agli studiosi di pedagogia di affrontare i problemi dell’educazione e della formazione senza parcellizzarli in singole unità di analisi in quanto l’ambito di ricerca si caratterizza per la pregnante significatività che assume per tutti gli attori coinvolti. Partendo da situazioni problematiche, i ricercatori riflettono insieme sulle possibilità e sulle modalità di trasformazione della stessa: la ricerca assume, così, la forma di un intervento trasformativo, attivando nel gruppo dinamiche esperienziali di educazione e formazione centrate sulla riflessione, con l’obiettivo di definire insieme modalità di azione validabili tese a determinare miglioramenti da apportare al problema individuato. Una RA non può partire da un metodo predefinito inteso in maniera canonica come procedura tesa ad applicare una serie di leggi teoriche prestabilite. Al contrario, una RA costruisce in situazione l’indagine attraverso l’azione e interviene direttamente durante lo svolgimento della ricerca, pur riferendosi a modelli epistemiologici consolidati e legittimati che sono essi stessi sottoposti a validazione: capita spesso, infatti, che il modello dal quale si era partiti venga modificato o rielaborato. Essendo l’azione l’oggetto specifico di questo impianto metodologico, questa dovrà essere validata dall’esperienza nella quale si incardina. In questo senso la RA è empirica perché la “validità di soluzione del problema da affrontare è vagliata essenzialmente alla luce dell’esperienza”. Ciò non vuol dire stabilire che una ricerca è valida esclusivamente perché è messa alla prova dei fatti, bensì vuol dire riconoscere il giusto valore che la realtà dei fatti ha nel procedere razionale affidato a riflessioni e considerazioni di ordine teorico e logico. La RA è mossa da intenti trasformativi e si svolge in contesti naturali e culturali unici, ambigui e imprevedibili: in questi contesi valorizza forme di conoscenza pratica che si definiscono nelle azioni e nelle riflessioni . Ecco perché, in questa sede, si pensa alla RA come impianto metodologico che richiede l’esercizio, da parte di chi lo adotta, di un atteggiamento riflessivo teso a interrogare e ridefinire pensiero e azione, intenzioni e comportamenti, attraverso continui processi di riflessione critica sull’esperienza e di confronto con le istanze del reale. In questo senso, l’azione changing può coincidere con la ristrutturazione di pensieri e rappresentazioni del sapere e del saper fare dei professionisti dell’educazione e della formazione coinvolti nella RA, con il risultato di produrre riposizionamenti di ‘prospettive e schemi di significato’ funzionali allo sviluppo di nuove e diverse possibilità di azione. L’obiettivo di una RA è quello di modificare una situazione attraverso le conoscenze acquisite mediante la ricerca che consente, così, di innescare cambiamenti attraverso il sapere in quanto scende nelle situazioni di fatto per indagare ed agire al tempo stesso. In questo senso, essa è ricerca empirica idiografica. Trinchero sostiene che l’intento idiografico della ricerca non rimanda alla validità esterna, ma alla trasferibilità dei risultati che può essere di due tipi: - Verticale, quando ci riferiamo alla “trasferibilità delle conoscenze e delle procedure di azione a problemi analoghi che dovessero presentarsi in futuro nello stesso contesto”; - Orizzontale, quando ci riferiamo alla “trasferibilità delle conoscenze e della procedure a contesti diversi, ma che presentino problemi analoghi”. Per esempio, fra i vari approcci della RA, quello della Ricerca Azione Partecipativa (RAP) tende alla realizzazione di interventi che incidono direttamente sui processi di sviluppo della società e dei territori, laddove lo sviluppo viene letto nei termini della possibilità di fornire risposta alla domanda di benessere di tutti i cittadini. La base epistemiologica condivisa dagli approcci della RAP è di tipo critico e mette in questa fase di lavoro educativo e pedagogico viene quasi sempre ignorata dai professionisti dell’educazione e della formazione i quali solitamente riferiscono di considerare quale fase principale del lavoro educativo quello della definizione degli obiettivi formativi, ignorando, o comunque non riservando la giusta attenzione, ai processi epistemici sottesi a quella fase. E’, infatti, nella fase di impostazione del problema che si insinua il rischio di “scivolare in un anarchismo metodologico che può determinare una deriva relativistica della ricerca-azione e di conseguenza una perdita di ancoraggio alla realtà educativa”. In educazione la soluzione del problema è parte di un più ampio esperimento di impostazione del problema, pertanto l’azione nella situazione implementata dal professionista è parte integrante della decisione. Riconoscere la realtà educativa quale scenario nel quale si sviluppa la fase di impostazione del problema significa riconoscere il valore autenticamente conoscitivo della RA e la coerenza dell’uso della stessa nella pratica educativa professionale come strumento di azione che produce, ad un tempo, trasformazione della situazione problematica e possibilità di ripensamento del proprio agire professionale. Qualunque sia il paradigma ideologico di riferimento, un progetto di intervento educativo non può non partire dalla comprensione storica e psicosociale della situazione educativa e dalla relativa definizione dei problemi che la caratterizzano. In questo senso, la R-A richiede che la definizione del problema non possa prescindere dall’analisi intellettuale della situazione: in quanto ricerca situata, essa parte da reali situazioni educative, per cui, definito il problema, questo viene trasposizionato razionalmente e “impostato alla luce di una certa antinomia che ne permette una comprensione razionale” tesa all’elaborazione di una modellistica di riferimento. Per giungere alla formulazione di un progetto educativo, il professionista avrà prima dovuto attentamente vagliare il momento del “giudizio e della scelta della soluzione educativa” alla quale è opportuno che giunga secondo i criteri della “fedeltà alla ragione” e della “continuità della crescita”, da una parte, e dell’”aderenza alla realtà della situazione educativa”, dall’altra. Questo modo di procedere, secondo Baldacci, è funzionale alla costruzione rigorosa di un disegno intenzionale dell’azione educativa che sarà valutata in itinere sulla base della sua capacità di incidere significativamente sulla situazione problematica in termini di produzione di cambiamento. Di qui la necessità di usare l’inquiry come forma di riflessione sull’indagine e sul metodo sperimentale atta ad individuare le operazioni che l’educatore, il pedagogista e l’insegnante compiono nel loro percorso di ricerca che, evidentemente, non può darsi se non nei termini della concretezza. Infatti, come ricorda Striano, secondo il Dewey di The Sources of a Science of Education: 1) le pratiche educative forniscono i dati, i contenuti che formano i problemi dell’indagine. Essi sono l’unica fonte dei problemi che devono essere esplorati e 2) che le pratiche educative sono anche l’ultimo banco di prova delle conclusioni di tutte le ricerche. L’utilizzo di procedure di indagine riflessiva consentono all’educatore, al pedagogista e all’insegnante di pensarsi nella realtà della situazione mediante la rappresentazione e l’interpretazione della situazione nel corso dell’intervento realizzato su di essa. Questa operazione consente si rivedere la propria pratica professionale nei suoi fondamenti teorico-pratici e ideologici in quanto soggetto impegnato a risolvere problemi e, quindi, soggetto che nell’opera mette in gioco se stesso e fa i conti con la propria deontologia pedagogica. Una deontologia, quella dei professionisti dell’educazione, che si nutre di riflessività, si dà solo se connessa e intrecciata alla riflessività: non solo nel suo momento di teorizzazione, ma anche e soprattutto in quello dell’azione, delle pratiche poiché è lì che il pensiero viene messo alla prova e le migliori intenzioni possono rivelarsi velleitarie. L’educatore, il pedagogista e l’insegnante, nel mentre guardano la realtà ne sono parte integrante (non la rispecchiano spettatorialmente in maniera ideale): ecco perché il professionista che agisce secondo l’impostazione metodologica della RAT non può non assumere anche se stesso come soggetto che apprende e si trasforma nel mentre agisce perché il suo conoscere professionale comprende anche la sua storia. Per un professionista dell’educazione e della formazione che si imbatte quotidianamente in situazioni problematiche uniche, pensare la pratica professionale in termini euristici significa riconoscere in prima istanza che per risolvere tali situazioni non è possibile contare su procedure, tecniche e modelli di azione standardizzati e ordinariamente utilizzabili. Se l’azione educativa nasce dalla constatazione dell’esistenza di una situazione problematica reale che richiede interventi di tipo trasformativo, la RAT interviene offrendo una modalità di svolgimento dell’indagine che non è prefissata ma si dà nella progressione ricorsiva di un processo di riflessione in costruzione e in ciclica evoluzione. In questo senso, fare ricerca sulla propria pratica professionale, ossia fare ricerca sull’educazione come transazione, significherà per il professionista dell’educazione e della formazione, r-innovare conoscenze e competenze alla luce di un habitus di ricerca che rifiuta ogni possibilità di ripetibilità e reperibilità dei risultati raggiunti nella propria ‘carriera professionale’, perché un professionista che svolge attività di ricerca sulla propria pratica si impegna in un processo continuo di autoeducazione. CAPITOLO 7. 1. L'osservazione nei discorsi e nelle pratiche dei professionisti dell'educazione. Negli odierni discorsi dei professionisti dell'educazione formale e non formale (insegnanti, formatori, educatori e pedagogisti), la pratica osservativa assume un ruolo sempre più centrale. Se opportunamente sollecitati-come spesso accade nei corsi di formazione iniziale e continua che si caratterizzano per un approccio attivo, partecipativo e critico-decostruttivo -, la stragrande maggioranza dei professionisti sopracitati non ha alcun dubbio nel riconoscere l'osservazione quale metodo principale sia per analizzare il contesto in cui si opera, alla ricerca di quelle caratteristiche peculiari che potrebbero porsi come segnali' per accedere alla cultura dell'organizzazione per cui lavorano, sia per comprendere la propria utenza, ossia per valutarne i prerequisiti, analizzarne i bisogni educativo-formativi e individuare gli obiettivi che con essa si vogliono raggiungere. Sembrerebbe, infatti, ormai ampiamente condivisa l'idea pedagogica secondo la quale l'intervento educativo può raggiungere risultati adeguati solo se è progettato sulla base delle reali esigenze degli individui, dei gruppi e delle comunità che ne sono protagonisti e solo se l'ambiente di riferimento è trasformato in modo da creare le condizioni per il soddisfacimento, via via più autonomo, di tali esigenze. Come a dire che una buona osservazione preliminare e permanente del contesto e degli utenti facilita tanto il processo di progettazione e attuazione dell'intervento educativo quanto il processo di monitoraggio e valutazione di quest'ultimo, aumentandone conseguente mente le probabilità di successo. Inoltre, sembrerebbe essere entrata a far parte della cultura professionale dei lavoratori della composita filiera educativa la consapevolezza di un effetto positivo della pratica osservativa non solo sul singolo intervento che si attua o sul più ampio servizio che si eroga, ma anche sull'identità professionale di chi conduce l'intervento o coordina il servizio. Molto spesso, infatti, gli insegnanti, i formatori, gli educatori e i pedagogisti affermano che una buona osservazione è utile a chi la attua perché consente attraverso la costruzione di uno sguardo più attento e aperto all'investigazione di mettere in dubbio i consolidati modelli di significato attraverso cui si interpreta la realtà quotidiana, di mettersi alla ricerca di nuove possibilità ermeneutiche anche sulla base dell'ascolto dell'altro con cui si struttura la relazione e, dunque, di costruire narrazioni educative più eque e inclusive. L'osservazione viene, dunque, intesa come un metodo per sviluppare le proprie conoscenze e competenze in direzione di una professionalità che non si declina più esclusivamente in senso verticistico e tecnico, secondo una visione rigida e schematica della programmazione educativa tipica di una certa pedagogia cognitivista degli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, ma si connota sempre più profondamente in senso orizzontale e riflessivo, in accordo con una visione euristica e artistico- artigianale del lavoro e, nello specifico, del lavoro educativo, che si è venuta a diffondere negli ultimi trent'anni. Tuttavia, le conversazioni con i professionisti dell'educazione formale e non formale evidenziano al tempo stesso una profonda difficoltà nel praticare l'osservazione. Le cause di questa difficoltà sono da addursi a svariati motivi: la mancanza di tempo, in primis, ma anche l'assenza delle necessarie condizioni organizzative e la scarsa padronanza nell'elaborare e/o usare metodi e strumenti adeguati. Infatti, gli insegnanti, i formatori, gli educatori e i pedagogisti spesso lamentano di non avere tempo da dedicare al l'attività di osservazione a causa dei già numerosi compiti che gravano sul le loro spalle. Il leitmotiv di tali discorsi è che nei servizi educativi formali e non formali-scuole, agenzie di formazione, comunità residenziali e semi-residenziali - la giornata di lavoro è caratterizzata da attività educative e amministrative a cui non è possibile rinunciare o sottrarre tempo. Inoltre, spesso si sostiene che l'attività di osservazione necessita la presenza contemporanea di più risorse umane, condizione ampiamente ostacolata dal continuo contingentamento budgettario a cui sono sottoposti tutti i servizi socio-educativi. Invece, coloro i quali la effettuano (e i casi non so no molti) svolgono l'osservazione del contesto e dell'utenza senza una riflessione critica preliminare circa il direzionamento dell'intenzionalità pedagogica oppure la praticano con metodi e strumenti predeterminati, che naturalmente non riescono a cogliere le specificità della situazione che è 'oggetto' di analisi in cui questa non avvenga in maniera corretta'. Mentre l'osservazione è da intendersi come una pratica di rilevazione delle caratteristiche della realtà non solo articolata, sistematica, rigorosa ma soprattutto come sottolinea Fabbri critica. Ossia la finalità conoscitiva della pratica osservativa è se lezionare, analizzare, mettere in relazione gli elementi di quella realtà quotidiana, di quella realtà 'normale' a cui la vigilanza non si interessa, al fine di descriverla, nella maniera più fedele e precisa possibile, per spiegarla/interpretarla. Inoltre, in alcuni casi, chi a tutta prima dichiara di fare osservazione nel contesto educativo presso cui lavora, in un momento successivo riconosce invece di fare vigilanza. Se, infatti, è facile distinguere l'attività occasiona le, immediata, spontanea, spesso poco consapevole del guardare dalla pratica attiva, mirata, specifica, volontaria e programmata dell'osservare, più difficile è distinguere quest'ultima dal vigilare. In effetti, entrambe le azioni si caratterizzano per una forte intenzionalità, per un inteso sforzo attentivo, per una organizzazione determinata e 'disciplinata' così come per una finalità consapevolmente conoscitiva nei confronti della realtà circostante. Tuttavia, nella vigilanza, il compito di esplorare in maniera costante e rigorosa il contesto educativo ha l'obiettivo di raccogliere informazioni circa quegli eventi, comportamenti o fenomeni che si pongono al di sotto o al di sopra della soglia di 'normalità': chi vigila è colui o colei che segue, controlla, sorveglia lo svolgimento di un'azione per poter intervenire nel caso le fasi di progettazione, attuazione e valutazione delle attività e dei servizi educativi così come ne sottolineano il potenziale generativo-formativo relativamente alla propria professionalità ma, da un altro lato, affermano o di non praticarla o di collocarla agli ultimi posti nella lista di attività da svolgere o di non saperla condurre in maniera adeguata e rigo rosa. E come se una tale centralità, fortemente dichiarata, perdesse la sua forza di fronte a quelle che sono percepite come richieste inemendabili della realtà educativa, con la conseguenza che l'osservazione viene a essere intesa come un lusso che ci si può permettere solo quando 'tutto funziona' ossia solo quando la realtà educativa - fatta di una pluralità di situazioni e persone-coincide con l'immagine idealtipica che di essa si ha. So lo quando, ad esempio, il committente di un percorso di formazione, in vestendo sul processo di analisi e progettazione, apre senza reticenze le porte della sua organizzazione al formatore prima della conduzione delle attività didattiche; oppure solo quando, in una comunità educativa di tipo residenziale, le esigenze legate al processo di ambientamento di un nuovo utente si integrano con quelle delle altre persone da più tempo residenti; o, ancora, solo quando, in un'aula scolastica, tutti gli studenti, ognuno a partire dalle proprie caratteristiche e potenzialità, riescono a svolgere l'attività loro assegnata. Quali sono le ragioni di un tale paradosso? In prima istanza, è possibile annoverare la natura duplice (se non ambigua) dei dispositivi di formazione iniziale e continua. Tali dispositivi, in linea con una visione dell'educazione degli adulti di stampo trasformativo, dovrebbero incoraggiare i professionisti dell'educazione a strutturare un ragionamento critico-decostruttivo sulla propria esperienza formativa e/o professionale pregressa al fine di far emergere ed eventualmente trasformare le teorie tanto implicite quanto esplicite che la informano. Tuttavia, a causa dei sistemi nei quali sono inseriti, tali dispositivi spesso faticano a innovarsi per finalità, metodi e attività, riproducendo così condizioni di formazione di tipo tradizionale - soprattutto per ciò che concerne la fase di restituzione e di valutazione degli apprendimenti che hanno effetti conformativi molto profondi. Sic che, in un sistema cosi strutturato, i professionisti dell'educazione formale e non formale si trovano a rispondere a una comunicazione basata su un doppio legame: da un lato, sono invitati a scavare nella propria storia di vita, formativa e professionale, per sviluppare la competenza di ri- conoscere en-significare gli eventi passati e presenti e, da un altro, sono confrontati a forme di valutazione che spesso si basano su modalità e criteri esclusivamente di tipo contenutistico. Ne consegue che i loro discorsi bascula no tra un'analisi delle reali e concrete pratiche educative e un adeguamento solo esteriore e non sostanziale ai modelli pedagogici, intrisi di categorie concettuali formali e di procedure metodologiche lineari. Un tale atteggiamento da parte dei professionisti dell'educazione formale e non formale, facilmente comprensibile e giustificabile, dischiude la possibilità di riflettere su una seconda ragione che potrebbe motivare il paradosso di cui sopra e che è da ricercarsi nella volontà della plurimillenaria cultura pedagogica occidentale di distinguere e separare, spesso opponendole, la dimensione del conoscere da quella del fare. Se, infatti, la natura duplice dei dispositivi di formazione induce i professionisti a 'replicare' il discorso pedagogico dominante - sottolineando, lo si ripete, la centralità della osservazione al di là di ciò che essi realmente fanno nei servizi educativi presso cui lavorano, allora ciò significa che costoro avvertono una di stanza che ritengono incolmabile tra la conoscenza pedagogica (i modelli formali) e l'intervento educativo (le pratiche reali). O meglio ritengono che tale distanza sia colmabile solo a patto di ridurre, a seconda dei contesti, uno dei due poli della relazione all'altro: in ambito accademico, si avverte la necessità di focalizzare l'attenzione sui modelli formali, tentando di ridescrivere le proprie pratiche reali sulla base di questi ultimi, mentre, nei servizi educativi, si avverte la necessità di concentrarsi sulle pratiche reali, marginalizzando il possibile apporto dei modelli formali. Da qui l'i dea secondo cui l'osservazione - quale metodo per conoscere il contesto e l'utenza è un 'qualcosa' di utile ma di 'aggiuntivo rispetto a ciò che è in dispensabile fare per adempiere al proprio compito educativo. In questo senso, il paradosso presente nei discorsi dei professionisti dell'educazione formale e non formale può essere letto come il prodotto transazionale che costoro producono nel confrontarsi con due realtà che sono ancora tutt'oggi percepite come opposte: la realtà dell'accademia, dove la conoscenza pedagogica sarebbe elaborata attraverso metodi di indagine rigorosi, e la realtà dei servizi, dove l'intervento educativo si strutturerebbe intorno alle routine tradizionali e alle emergenze del momento. Una tale opposizione induce gli stessi professionisti dell'educazione for male e non formale a non valorizzare la dimensione conoscitiva insita nel le loro pratiche reali. Come se le azioni volte a istruire, educare e formare - ossia le azioni volte a indurre un cambiamento nell'altrui modo di pensare c/o di agire - non fossero azioni volte a investigare, ricercare e conoscere la realtà esteriore e interiore dell'utente affinché in quest'ultimo possa emergere quel cambiamento tanto sperato nei modi di pensare e di agire. Li dove l'opposizione di cui qui si discute, come si cercherà di argomentare successivamente, non è stata strutturata e riprodotta solo dalla grande tradizione universale a tutto il genere umano attraverso un metodo naturale ossia attraverso un metodo che rispetti i tempi, il pro cedimento, la direzione e la gradualità del naturale sviluppo umano. Un tale metodo, dunque, non può che fondarsi sull'osservazione del processo di crescita che vede protagonista prima il bambino, poi il giovane e infine l'adulto, poiché solo l'osservazione dei dati di realtà consente la progetta zione di un intervento educativo soddisfacente. Ma, come sostiene Mari, questo assunto pedagogico di fare attenzione alla realtà assume "l'aspetto [...] del riconoscimento nell'esistente della natura intesa come un'entità viva, rispondente a proprie logiche, non totalmente estrinsecabili e-soprattutto foriera di orientamenti prescrittivi"16. Come a dire che la pedagogia di Comenio riconosce la centralità dell'osservare perché quest'ul timo, pur se non più inteso come contemplazione, resta comunque la chiave di accesso a una realtà altra rispetto a quella fisica, che impone iuxta propria principia le regole per la corretta formazione dell'uomo (opzione ontologica). In questo senso, l'osservazione, pur avendo assunto una configurazione più strutturata e rigorosa (opzione tecnico-strumentale), continua a essere individuata come un metodo conoscitivo per il disvelamento di una verità sovrasensibile che si impone dall'alto sul fare educativo per meglio caratterizzarlo. E in questa direzione si muovono i numerosi documenti di età moderna che attestano forme intenzionali, sistematiche, articolate e rigo rose di osservazione della realtà educativa, in specie dei processi di apprendimento e sviluppo infantile, al punto da poter individuare - quando germina una specifica cultura pedagogica dell'infanzia- la nascita di un vero e proprio sottogenere letterario come quello dei diari e delle biografie di bambini redatte da adulti impegnati in competenti e prolungate osservazioni. Tra queste va certamente ricordato il Diario sull'educazione del figlio che Pestalozzi scrive nel 1774, ben prima di avviare l'esperienza educativa di Neuhof, con il fine di riflettere sulle peculiari caratteristiche del piccolo Jacqueli, di descrivere gli interventi con lui realizzati e di problematizzare le finalità ad essi sottese19. Il diario, dunque, si pone - tanto nel caso specifico del pedagogista zurighese quanto in altri casi simili come un prodotto culturale capace sia di riportare la descrizione di ciò che si è vissi sia di stimolare un'analisi critica dell'esperienza, divenendo così un repertorio ragionato di pratiche educative da poter attualizzare in nuovi contesti e situazioni alla luce di quella universalità che fonda la natura umana. Questa diffusa tradizione che si articola in stretta relazione con una prima rilevante trasformazione del discorso pedagogico in direzione scientifica diviene poi, agli inizi dell'Ottocento, la base a partire dalla quale si iniziano a immaginare - nel senso etimologico del termine - le fondamenta di una riflessione specifica, articolata, strutturata e coerente circa i caratteri di scientificità della pedagogia. In effetti, riprendendo ma superando l'insegnamento di Pestalozzi, Herbart - 'iniziatore della suddetta riflessione epistemologica - sostiene che la possibilità di una conoscenza scientifica mente fondata dell'esperienza educativa si dia, contro tutti i riduzionismi irrealistici della pedagogia idealista, solo conciliando l'osservazione sistematica della realtà (-il fare metodologicamente fondato) con la sua analisi concettuale (il conoscere epistemologicamente fondato). Ossia l'osservazione, quale chiave di accesso alla realtà, produce conoscenza utile alla nascente scienza dell'educazione solo se essa rispetta due condizioni: 1) so lo se supera la forma di una pratica individuale e disarticolata in favore, per dirla con Credaro, di una pratica "ripetuta più volte e in più condizioni, prima di arrivare a un buon risultato; 2) solo se non disegna gli apporti della teoria, intesa come analisi concettuale dei dati emersi dall'indagine empirica. Li dove tale duplice condizione, da un lato, consente al l'osservazione di assumere una identità metodologica più strutturata e fon data ma, da un altro, tale identità resta dipendente da un quadro teoretico ancora ampiamente deduttivo e metafisico. E questa l'accusa, ad esempio, che nell'ultimo trentennio dell'Ottocento viene rivolta al pensiero di Herbart da parte di un gruppo dei suoi stessi allievi facenti parte della Verein für wissenschaftliche Pädagogik. Guidati da Ziller, i cosiddetti innovatori' avanzano la proposta di una pedagogia scientifica quale sapere esplicativo, empirico e induttivo, individuando nell'osservazione della pratica educativa il punto di partenza di tale sapere. Una tale nuova orientazione ben si coagula con il profondo discredito che in quegli anni colpisce definitivamente la filosofia dell'educazione e, più in generale, il ragionamento teoretico nella sua interezza e che conduce la pedagogia a emergere quale disciplina autonoma e a istituzionalizzarsi in ambito accademico. Un processo di disciplinarizzazione, quest'ultimo, che, seppur caratterizzato da una molteplicità di progetti e di strategie le gate tra loro da una tensione al tempo stesso fusionale e conflittuale, si è inscritto prevalentemente in un orizzonte di senso che privilegia l'esperienza, il sensibile, la realtà fenomenica quale dimensione in cui è possibile trovare la verità e, dunque, quale dimensione su cui è possibile fondare una conoscenza epistemologicamente e metodologicamente fondata, La verità non risiede più nell'idea che si disvela attraverso l'osservazione con templativa né nella natura quale entità viva che va conosciuta ed eventualmente trasformata, ma nel bathos di ciò che si dà nel qui ed ora senza alcun riferimento ad alterità non osservabili. Alla luce di questa nuova opzione ontologica e gnoseologica, diviene rilevante chiedersi ai fini dell'argomentazione qui proposta se, entrata in cri si la dimensione metafisica sottesa alla ricerca veritativa, sia venuta meno anche la dicotomia tra conoscere e fare, tanto cara alla tradizione pedagogica occidentale. Lì dove, per tentare di dare una risposta a tale quesito, è necessario analizzare, del suddetto processo di disciplinarizzazione della pedagogia, il volano principale e dominante che ha influenzato, diretta mente e/o indirettamente, tutte le altre proposte di definizione epistemologica e metodologica di tale sapere. Infatti, come ha affermato Schurmans, la logica della ricerca scientifica di quegli anni fa sostanzialmente ri ferimento alla postura oggettivante, esplicativa e induttiva del modello sperimentale proprio delle scienze naturali, ripreso e attualizzato dal positivismo comtiano, secondo cui la realtà 'esiste nella sua datità fenomenica (opzione ontologica) e può essere esplorata in maniera oggettiva attraverso un adattamento costante degli schemi concettuali ai fatti (opzione gnoseologica), con l'obiettivo di scoprire in questi ultimi quei nessi di cau sa ed effetto che si possono spiegare (opzione epistemologica) attraverso le evidenze derivanti della ricerca sperimentale di tipo classico ossia da un tipo di indagine il cui flusso euristico è strutturato nella seguente sequenza: osservazione, elaborazione delle ipotesi, definizione del disegno di ricerca, conduzione degli esperimenti, analisi dei risultati e verifica dell'ipotesi iniziale (opzione metodologica). L'osservazione, dunque, si viene a caratterizzare come la prima fase di quel processo di investigazione che il ricercatore sperimentale deve portare a termine per decifrare il rapporto tra le variabili, dipendenti e indipendenti, che strutturano i fenomeni educativi. In particolare, l'osservazione viene effettuata per conoscere meglio l'oggetto di indagine ossia per ottenere alcune evidenze empiriche su cui costruire ipotesi da validare attraverso il procedimento del testing, la cui configurazione tecnica dipende dal disegno di ricerca (obiettivi, attività, strumenti, tempi) elaborato precedentemente. Ne consegue che, affinché il processo di indagine possa proseguire senza intoppi e in assoluta imparzialità, l'attività di osservazione debba possedere caratteristiche precise e imprescindibili (opzione tecnico strumentale): 1) deve essere sistematica, rispetto alla sua organizzazione e alla sua conduzione, e direzionata, rispetto alla finalità di scoprire' possi bili relazione tra i fattori del fenomeno investigato; 2) deve essere strutturata, poiché il motivo per cui la si conduce è "conta[re] la frequenza con cui avvengono determinati comportamenti o si dicono determinate co se; 3) deve prevedere un osservatore non partecipante o esterno, che non interagisce direttamente con la situazione e i suoi attori; 4) deve essere precisa e completa così da offrire una descrizione il più fedele possibile della realtà fenomenica indagata. Lì dove tutte queste caratteristiche obbligano chi osserva il contesto educativo a non poter agire in esso: chi osserva per conoscere deve sospendere il suo fare. La possibilità di fare si ripresenta solo nel momento in cui l'attività osservativa si è conclusa, le ipotesi sono state elaborate e si procede alla conduzione degli esperimenti. Tuttavia, come si diceva sopra, questo fare non è un fare quotidiano ma è un fare epistemologicamente fondato e metodologicamente direzionato. E tale fare dona senso all'osservazione stessa. che, nella logica sperimentale classica, è una pratica necessaria ma non sufficiente allo sviluppo dell'indagine scientifica: è indispensabile perché con sente di far confluire i dati di realtà nelle ipotesi di ricerca affinché queste ultime non siano delle vuote categorie concettuali, ma non è autoconsistente perché da sola non può giungere all'accertamento oggettivo della realtà fenomenica. A tal proposito, nel 1905, nella quarta sezione della sua celebre opera Psychologie de l'enfant et pédagogie expérimentale, Claparède - uno dei padri putativi della neonata pedagogia scientifica a indirizzo sperimentale sostiene: L’osservazione relativa ai bambini consiste nel considerarli nel la vita di tutti i giorni, allo stato libero, per così dire, senza che essi dubitino di essere oggetto di curiosità. Questo metodo ha il grande vantaggio di cogliere il loro comportamento spontaneo, e di raccogliere i prodotti della loro attività naturale (di segni, giochi, ecc.). A chi sa guardare, la semplice osservazione dei fatti della vita quotidiana fornisce un buon numero di documenti preziosi e di suggerimenti interessanti. [...] Per la maggior parte dei casi, tuttavia, questo metodo non basta da solo a portare alla soluzione dei problemi posti, perché i fenomeni che si tratterebbe di osservare non si producono spontaneamente, o si producono spontaneamente così di rado che occorrerebbe una straordinaria fortuna perché l'osservatore si trovasse presente proprio nel momento in cui un bambino si comporta nel modo atteso. Occorre dunque provocare le osservazioni, in modo che i fenomeni si presentino quando se ne ha bisogno: è la sperimentazione. Li dove provocare l'osservazione - o sarebbe più corretto dire, provocare il comportamento che si vuole osservare significa cambiare radicalmente il ruolo che il ricercatore assume nei confronti della realtà. Se, in fatti, sostiene Vertecchi, l'osservazione presuppone che il ricercatore abbia un "ruolo che è di semplice descrizione", visto che il suo compito dovrebbe limitarsi a registrare e a descrivere ciò che accade nella realtà, nell'osservazione provocata ossia nella sperimentazione, invece, costui ha un ruolo "di intervento attivo, nel senso della trasformazione di uno stato inizia le", visto che deve manipolare e controllare una o più variabili indipendenti per verificare gli effetti che tale manipolazione ha sulle variabili di pendenti. Ciò significa che un tale intervento modifica in maniera artificiale la situazione educativa quotidiana attraverso, ad esempio, l'introduzione o lo spostamento di alcuni oggetti nel setting, la sollecitazione degli educandi con particolari nuovi stimoli o la ripetizione intervallata dei vecchi così come il cambiamento delle istruzioni che è necessario eseguire per svolgere un dato compito. In letteratura, infatti, si sostiene che la sperimentazione deve inevitabilmente aver luogo in ambienti artificialmente predisposti o, come più spesso accade in ambito educativo, in ambienti quotidiani artificialmente modificati. Ne consegue che lo sperimentare per conoscere i processi di educazione e formazione impatta profondamente e unidirezionalmente sul fare educativo. La dicotomia moderna tra 'sperimentare per conoscere' e 'tentare per fare', dunque, si palesa anche nella visione contemporanea della scienza al punto da sottoporre a critica l'uso 'ibridato' delle pratiche di osservazione e di sperimentazione. Basti pensare alle critiche ricevute da Piaget negli anni Trenta dello scorso secolo circa il suo uso della cosiddetta osservazione quasi sperimentale o anche definita osservazione controllata. In questo metodo, l'obiettivo è condurre l'osservazione in un contesto quotidiano non artificialmente predisposto o modificato, a differenza di ciò che avviene nella sperimentazione, partecipando alle sue attività al fine di verificare o falsificare (avrebbe detto Popper) le ipotesi di lavoro che ci inducono ad agire educativamente in un certo modo. Lì dove per fare ciò è necessario, secondo l'intendimento sperimentale, controllare, 'misurare' e valutare con precisione e obiettività ciò che accade nel contesto educativo al fine di individuarne le costanti e le variabili. Ossia, per usare direttamente le parole di Piaget, bisogna saper osservare, cioè lasciar parlare il fanciullo, non perdere nulla, non falsare nulla, ma nello stesso tempo cercare qualcosa di preciso, avere in ogni momento qualche ipotesi di lavoro, qualche teoria giusta o falsa, da controllare. In altri termini, l'osservazione quasi sperimentale deve essere prolungata, quotidiana, dettagliata, sistematica ma soprattutto strutturata ossia deve essere guidata dalla formulazione di ipotesi e deve svolgersi in condizioni controllate. L'attività investigativa, cioè, deve essere condotta dal ricercatore attraverso un filtro categoriale-le ipotesi della ricerca - che orientano la pratica osservativa e la strutturano nella direzione di un controllo sempre maggiore, ma privo di manipolazione, di alcune delle condizioni attraverso cui si dispiega il fenomeno da analizzare. Ad esempio, l'osservazione quasi sperimentale in un contesto educativo non formale, come una comunità alloggio per minori, può essere condotta con la volontà, da parte del ricercatore, di analizzare esclusivamente i comportamenti assunti dai minori in relazione alla comunicazione di un compito da parte dell'educatore al fine di verificare l'incidenza dello stile comunicativo di quest'ultimo. In questo caso, l'attenzione osservativa risulta essere focalizzata su un unico aspetto della realtà da analizzare (lo scambio comunicativo) e tale aspetto è controllato dall'osservatore attraverso: a) la postura epistemologica della ricerca che attenziona il solo comportamento osservabile, intendendolo come una reazione ad un'azione altrui; b) l'ipotesi teorica secondo cui tra stimolo e risposta vi è una qualche relazione di dipendenza causale; c) il dispositivo metodologico che assicura che tutti i minori osservati che sono soggetti allo stesso stimolo comunicativo. Un'osservazione così impostata e organizzata si allontana sia dall'idea tradizionale di osservazione, quale neutrale descrizione di ciò che è o di ciò che si dà nella realtà, sia dall'idea 'tradizionale di sperimentazione, quale trasformazione intenzionale e programmata della variabile indipendente (nel suddetto esempio, lo stile comunicativo dell'educatore) per verificare gli effetti che tale cambiamento ha sulla variabile dipendente (nel suddetto esempio, il comportamento dei minori). Ed è tale duplice distanziamento ad essere criticato da ambo le parti: da un lato, quello della ricerca osservativa 'pura', l'osservazione quasi sperimentale à la Piaget è troppo orientata, focalizzata, selettiva e perciò poco aperta alla scoperta di nuove ipotesi conoscitive; da un altro lato, quello della ricerca sperimentale pura, essa va contro i principi metodologici dell'attendibilità del processo di campionamento (la selezione del campione è casuale visto che l'osservazione avviene in una situazione quotidiana, non intenzionalmente modificata) e della replicabilità dell'esperienza conoscitiva (l'ipotesi validata dall'osservazione non può essere verificata in un'altra situazione visto che è difficile che lo stesso comportamento si riproduca in maniera naturale e visto che non è possibile compare le variabili che strutturano le due esperienze conoscitive). E per tali motivi che ricerca osservativa e ricerca sperimentale hanno continuato a viaggiare per lungo tempo in maniera parallela e separata per poi essere ripensate solo tecnica, rimandando a un complesso di norme che regolano l'espletamento pratico e strumentale di un compito, individua una competenza che non richiede alcuna partecipazione al processo decisionale che si trova a monte dell'attività di espletamento ossia il processo in cui si stabiliscono le norme che poi è necessario eseguire. Il professionista, dunque, è colui che applica la conoscenza prodotta altrove (in ambito accademico) e acquisita durante il periodo di formazione professionale. In questo senso, tra il conoscere e il fare vi è un rapporto deterministico di tipo sequenziale, casuale e derivato. È la razionalità scientifica, che caratterizza il lavoro di ricerca, a produrre quel sapere oggettivo, obiettivo e neutrale che è alla base della razionalità tecnico-strumentale, che caratte rizza, invece, il lavoro professionale. Li dove questo secondo tipo di razionalità è da intendersi come la capacità intellettuale di tipo logico volta a individuare delle possibili applicazioni della conoscenza scientifica in un dato settore di attività oppure, per dirla con Schön, è quella capacità "inerente alla definizione di 'decisioni razionali', basata sulla sussunzione delle decisioni all'interno di una gerarchia di regole"39. E, in questo senso, precisa Flexner, che il lavoro professionale non è meccanico, riproduttivo e routinario al pari di quello di un operaio, poiché esso richiede uno sforzo intellettuale volto alla costruzione di una sequenza azionale sulla base dei dati prodotti dal lavoro di ricerca. Sicché è la conoscenza scientifica, elaborata dal ricercatore, a gettare le condizioni affinché l'azione efficace ed efficiente e perciò legittima - del professionista possa emergere, ma mai viceversa: il ricercatore è colui che, attraverso la sua indagine scientifica, genera quelle conoscenze che il professionista deve applicare nella sua pratica lavorativa con l'obiettivo di innovare le dinamiche del tessuto sociale, ma il professionista non ha il potere di 'risalire' e di rimettere in discussione le opzioni ontologiche, gnoseologiche, epistemologiche, metodologiche e tecnico- strumentali elaborate dal ricercatore. La conseguenza di una tale concezione tecnica di professionalità, sottesa ai metodi di investigazione osservativa appena analizzati, induce coloro i quali agiscono nei contesti educativi formali e non formali a pensare - come si è visto nel primo paragrafo - l'osservazione come un compito aggiuntivo, in quanto non previsto dal lavoro professionale, e gravoso, in quanto caratterizzato da un insieme di conoscenze e competenze tipiche di un livello di attività (quello della ricerca epistemologica e metodologica mente fondata) gerarchicamente superiore. Sicché se si è interessati a costruire una 'reale cultura dell'osservazione nei contesti educativi non è tanto necessario socializzare i professionisti a tali conoscenze e competenze, in una sorta di allargamento del referenziale della loro figura lavorativa, ma è necessario decostruire la suddetta concezione di professionalità. Là dove tale decostruzione è necessariamente seguita da una finalità costruens, che punta a elaborare una nuova rappresentazione del lavoro educativo, inteso- secondo il paradigma epistemologico in cui questo volume si situa - come un fare all'interno del quale si costruisce conoscenza. Ossia, contro la dicotomia plurimillenaria in cui la cultura Occidentale è sorta e si è are nata, la conoscenza pedagogica è da intendersi come il prodotto non solo di una riflessione sulla pratica educativa, ma anche come il prodotto di una riflessione che nasce nella pratica educativa e che il professionista effettua spesso in maniera tacita, implicita, sottesa e probabilmente inconsapevole! In questa nuova concezione di professionalità, il fare educativo diviene lo spazio-tempo in cui il professionista mette in atto un processo cognitivo attraverso cui elabora una conoscenza tacita, poiché ancorata al contesto di produzione, e personale, poiché incarnata nella corporeità del soggetto. E tale conoscenza professionale può essere resa manifesta, esplicita e, dunque, più consapevole attraverso un processo di riflessione sull'azione esercitata; processo, questo, che si traduce in una "continua riorganizzazione o ricostruzione dell'esperienza"43, capace di conferire "nuovi e diversi significati alle esperienze in questione, anche attraverso l'individuazione di trame di relazione con esperienze precedenti e future"44. Ossia la riflessione sull'azione, se ben sostenuta, può consentire di ridisegnare il vissuto personale attraverso ipotesi interpretative nuove e piene di significato tali da consentire una trasformazione diretta e sensibile della qualità dell'esperienza stessa. Li dove tale riflessione sull'azione può avvenire non solo quando l'azione si è ormai conclusa, ma anche nel suo divenire grazie a quegli eventi incerti, ambigui, enigmatici, problematici o interessanti che obbligano il professionista a rimettere mano' alle risorse concettuali e procedurali che vengono solitamente utilizzate per gestire la quotidianità del lavoro educativo. E in questo rimettere mano', il professionista "riflette anche sulle comprensioni implicite nella sua azione, che fa emergere, critica, ristruttura, e incorpora nell'azione successiva"46 Ne consegue che la conoscenza professionale si caratterizza come una conoscenza prodotta, artigianalmente o artisticamente, dal professionista stesso attraverso una 'conversazione riflessiva con la situazione', [che] si configura, così, come un processo euristico consapevole mediato dalla ri flessione sulla situazione e sul proprio modo di conoscere in essa [...], grazie alla quale il professionista riflessivo retroagisce sui propri saperi e sulle proprie competenze ¹7. Per dirla in altri termini, la conoscenza professionale è "quella forma di conoscenza prodotta dal continuo oscillare e trascorrere da una zona preriflessiva, tacita, intuitiva, artistica, ad una zona riflessiva, esplicita, razionale, scientifica". E ciò significa che la professionalità degli insegnanti, dei formatori, degli educatori e dei pedagogisti dipende non solo dalla conoscenza che possiedono e dalla capacità razionale che hanno sviluppato, ma dipende anche dalla loro competenza nel fare ricerca. Ossia ciò che rende un professionista realmente competente non è solo una 'cassetta de gli attrezzi costituita da conoscenze scientifiche, da metodologie operative e da strumenti tecnici, ma è soprattutto la sua capacità di osservare, porre questioni, fare ipotesi, analizzare gli scenari possibili, interconnettere le di verse categorie concettuali e produrne di nuove, ridescrivere costantemente i problemi e le soluzioni. Ripensare, dunque, l'identità del professionista dell'educazione formale e non formale come quella di un pratico che fa ricerca e costruisce conoscenza significa, sull'altro versante, ripensare i concetti di ricerca e di conoscenza. La ricerca non può essere più pensata come un'attività distaccata condotta da chi non vive i contesti educativi, ma deve essere intesa come l'attività euristica che emerge dal confronto costante tra tutti i nodi' che compongono la rete dei significati e di finalità che dà vita al contesto educativo. Ossia lo scopo della ricerca diviene quello di costruire, con tutti gli attori sociali interessati, spazi permanenti di pensiero critico capaci di mettere in discussione, da un lato, la falsa universalità delle pratiche di investigazione scientifica e, da un altro lato, l'apparente distacco del ricercatore dal campo e dall'oggetto di indagine al fine di riconoscere ogni attore sociale - al di là della tradizionale distinzione tra ricercatore e partecipante alla ricerca come un cittadino portatore di una 'responsabilità politica verso l'altro'50. Allo stesso modo, la conoscenza prodotta da un tale tipo di ricerca, lungi dal porsi come un prodotto veritativo e universale, si viene a configurare come un accordo il cui valore è valido - per dirla con Apel nello spazio-tempo della comunità comunicazionale di tipo storico a cui si appartiene e, oltre di esso, nello spazio-tempo che la suddetta comunità riesce a disegnare nel richiamare reciprocamente la comunità comunicazionale di tipo ideales¹. In questo nuovo quadro, ad esempio, lungi dal porsi quale procedura strutturata e non partecipante, l'osservazione diviene un metodo di ricerca che richiede il coinvolgimento attivo degli attori sociali che vivono i con testi educativi, tra cui i professionisti dell'educazione formale e non for male. Lì dove il coinvolgimento di questi ultimi si delinea, come nella pratica etnografica utilizzata nelle ricerche di stampo antropologico, quale strumento grazie al quale, da un lato, è possibile limitare o arrestare l'introduzione nel contesto di categorie concettuali che rendono inutilmente artificiale e predeterminato l'agire educativo e, da un altro lato, è possibile ascoltare il contesto stesso per comprenderne la specifica cultura e le sue categories2, Ossia l'osservazione dei processi, delle relazioni e degli inter venti educativi diviene l'occasione che il professionista ha per riflettere sul lo sguardo implicitamente categoriale che usa quando vigila o agisce nella situazione così da renderlo più esplicito e raffinato oppure da trasformarlo e ridefinirlo, utilizzando nuove categorie che gli consentano di vedere in maniera diversa i vecchi aspetti della realtà educativa o di vederne di nuovi. Sicché l'osservazione, quale metodo di ricerca riflessiva, consente non solo di costruire conoscenza sulla situazione vissuta e analizzata, ma anche su chi la analizza ossia sullo stesso professionista che conduce l'osservazione. Ed è in questo senso che l'osservazione riflessiva racchiude in sé i momenti della ricerca pedagogica, del lavoro educativo e della formazione delle professionalità. Una possibile declinazione di tale metodo è il procedimento dell'observation projet proposto da Anne-Marie Fontaine nel suo L'osservazione al ni do. Guida per educatori e professionisti della prima infanzia, il cui raggio d'azione può essere facilmente allargato anche ad altre fasce d'utenza e ad altri servizi educativi, formali e non formali che siano. Tale procedimento, che si compie per un periodo limitato, è articolato in quattro fasi, di cui - come sostiene l'Autrice - le prime due sono le più importanti: - la definizione delle domande che si vogliono approfondire nel corso dell'indagine che si conduce; - la riflessione sui metodi che si vogliono utilizzare per rispondere alle domande e per preparare il processo di osservazione; - la conduzione dell'osservazione; la formulazione di un bilancio finale del processo euristico e l'elabora zione delle risposte alle domande di partenza al fine di riprogettare l'intervento educativo. In particolare, la prima fase si caratterizza per una osservazione diretta, intenzionale e programmata ma non sistemica né strutturata, che ha il fine di far emergere, in ogni professionista che lavora nel servizio educativo, una curiosità' rispetto a una situazione che si percepisce come 'normale'. Dal confronto tra le diverse curiosità emerse, l'équipe stabilisce di focalizzare l'attenzione su un unico oggetto di interesse (un'attività da svolgere o un momento della giornata) per poi effettuare una nuova osservazione di retta, intenzionale e programmata, ma questa volta finalizzata e selettiva. Li dove tale selettività non deriva solo dalla scelta dell'oggetto di indagine, ma anche dalla scelta dei criteri gnoseologici utilizzati per dare forma al processo euristico e dalla scelta degli obiettivi che ci si pone nel condurlo. Ad esempio, se l'équipe di un nido sceglie di focalizzare l'attenzione osservativa sull'oggetto di indagine pasto', sarà necessario individuare tra le dimensione che compongono l'oggetto di indagine quella a cui si è maggior mente interessati (organizzazione materiale, qualità del cibo, ruolo degli educatori, ruolo degli addetti alla cucina, ruolo dei bambini, ecc.) e i motivi di un tale interesse (rispetto alla dimensione 'ruolo dei bambini', l'obiettivo potrebbe essere il contenimento del pianto degli utenti). Solo a questo punto del lavoro di negoziazione collegale è possibile porre la do manda che orienta l'osservazione di tutti i professionisti che lavorano nel servizio educativo. La domanda emersa va ulteriormente definita. Solitamente, infatti, le domande scelte dagli insegnanti, dai formatori, dagli educatori e dai pedagogisti sono centrate sul lavoro educativo e non sui bisogni dell'utente, mentre è su questi ultimi che deve ruotare il lavoro di indagine. Riprendendo l'esempio poco sopra esposto, la domanda relativa al ruolo dei bambini durante il momento del pranzo può essere formulata in più modi, tra cui: cosa posso/devo fare per ridurre il pianto?', nel caso in cui la questione è centrata sul lavoro educativo, oppure perché il bambino piange in quel momento?', nel caso in cui la focalizzazione è sull'utente. Tale differenza ci rimanda a un cambiamento di prospettiva che è necessario compiere per decentrarsi dal proprio posizionamento dominante, derivante dallo sguardo categoriale che implicitamente si usa nel quotidiano per interpretare la realtà, e per accedere a un nuovo posizionamento, spesso marginale e minoritario, che consente di guardare la realtà con uno sguardo. 'altro. Uno sguardo che va allenato, tramite appunto l'osservazione riflessiva, per cogliere tutta una serie di comportamenti-segnali che l'utente in dirizza per comunicare un messaggio che non sa, che non può o che non vuole esprimere con altri linguaggi. Ad esempio, ritornando al caso del ni do, il pianto al momento del pasto può essere investigato in modi diversi a seconda dei comportamenti del bambino rispetto al cibo, rispetto ai tempi e agli spazi, rispetto agli altri bambini e rispetto all'educatore. Definita la domanda, è necessario preparare l'osservazione non solo da un punto di vista organizzativo (data, ora, durata, risorse umane) e tecnico-strumentale (osservazione individuale/collettiva, schede di osservazione, note di campo e diari di bordo), ma anche da un punto di vista concettuale. Ossia bisogna ulteriormente riflettere sulle domande centrata sul l'utente affinché nell'équipe siano realmente condivisi i significati ad essa sottesi. Se, prendendo un altro esempio, il consiglio di classe di una scuola secondaria di II grado si chiede, rispetto a uno studente, quali sono i motivi della sua mancata partecipazione alle attività di studio in gruppo, individuando tutta una serie di comportamenti utili a rispondere, chi con duce l'osservazione dovrà interrogarsi sul significato da dare alla parola partecipazione' (svolgere in maniera individuale il lavoro di gruppo è una mancata partecipazione? o ancora, 'disturbare' il lavoro degli altri studenti è un modo di partecipare?) così come dovrà essere attento a tutto ciò che lo studente fa mentre non partecipa. Lì dove tali riflessioni consentono al gruppo di professionisti che fanno ricerca di elaborare delle schede di osservazione ad hoc per il 'caso' analizzato, schede che osservazione dopo osservazione possono divenire sempre più strutturate e, dunque, sempre più facili da compilare. E a questo punto che, arrivando alla terza fase del processo euristico, è possibile condurre una osservazione continua, di durata limitata (al massimo 15 minuti), in una situazione ben precisa, senza venire meno al proprio fare educativo. Nella quarta fase, l'équipe di professionisti dell'educazione si impegna nell'analisi delle griglie di osservazione precedentemente compilate, effettuando sia una analisi quantitativa, volta a individuare i comportamenti ricorrenti per poi stimarne la frequenza, sia una analisi qualitativa, volta a descrivere se e come cambia il comportamento dell'utente nel corso della singola osservazione e/o di una serie di queste. Una tale analisi consente ai professionisti dell'educazione di avere dei dati meno vaghi rispetto alle percezioni soggettive tipiche del fare quotidiano e soprattutto consente di avere dati comparabili, perché prodotti attraverso lo stesso procedimento. Li dove la minore vaghezza e la maggiore comparabilità consentono la costruzione di un clima più sereno per la condivisione e, dunque, per la presa di decisioni: l'obiettivo di questa fase è, infatti, rispondere alle domande centrate sul lavoro educativo (ad esempio, come contenere il pianto del bambino nel momento del pranzo?' o 'come indurre lo studente a una maggiore e più adeguata partecipazione ai lavori di gruppo?"). E tale risposta, costruita attraverso un processo euristico partito dal basso e limitato nel tempo, consente alla stessa équipe di riprogettare l'intervento educativo affinché sia più rispondente ai reali bisogni dell'utente così come consente a ogni singolo professionista di apprendere qualcosa in più sulla sua pratica e sui processi cognitivi taciti e impliciti che la informano, attivando una sorta di osservazione auto-osservante.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved