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LA CONCORRENZA SLEALE, Sintesi del corso di Diritto Commerciale

1. introduzione 2. le singole fattispecie di concorrenza sleale 3. legge antitrust 4. ambito di applicazione della legge antitrust 5, fattispecie 6. funzione delle authorities

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 10/05/2021

CarlottaLicci
CarlottaLicci 🇮🇹

4.1

(13)

16 documenti

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Scarica LA CONCORRENZA SLEALE e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! CONCORRENZA SLEALE 1. INTRODUZIONE La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di una pluralità di imprenditori che offrono beni e servizi identici o similari e che sono in competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei consumatori e conseguire il maggior successo economico. La competizione fra imprenditori deve svolgersi in modo corretto e leale. In Europa la disciplina della concorrenza sleale nasce essenzialmente come istituzione giurisprudenziale nella seconda metà dell’Ottocento. Le prime norme legislative risalgono alla revisione della Convenzione di Parigi, con la quale viene introdotto l’art. 10-bis dedicato appunto alla concorrenza sleale, recepito dall’ordinamento italiano tramite l’ordine di esecuzione emanato con r.d. 10 gennaio 1926, n.169, convertito dalla l. 29 dicembre 1927, n.2701. Tale norma, riveduta a Stoccolma nel 1967, è ancora in vigore. L’attuazione della già menzionata disposizione si è convertita nel Codice civile del 1942 con gli artt. 2589- 2061. In tali norme è delineata una disciplina che ha carattere speciale rispetto a quella generale dell’illecito civile. I valori tutelati dalla disciplina della concorrenza sleale non si esauriscono perciò nell’interesse degli imprenditori a non vedere alterate le proprie possibilità di guadagno per effetti di comportamenti sleali da parte dei concorrenti. Tutelato è anche il più generale interesse a che non vegano falsati gli elementi di valutazione e giudizio dei consumatori. Infatti, presupposto necessario e al tempo stesso sufficiente perché un atto configuri concorrenza sleale è l’idoneità dello stesso a danneggiare i concorrenti. Legittimati ad reagire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria. Una tutela diretta è assicurata dai consumatori da altre normative. Fra esse merita menzionare soprattutto le disposizioni sulle “pratiche commerciali scorrette” di cui agli artt. 18 ss. del codice del consumo e la disciplina sulla “pubblicità ingannevole e comparativa illecita” recata dal d.lgs. n. 145/2007. Si tratta di norme che precipuamente tipizzano illeciti amministrativi al fine di assicurare la corretta formazione della volontà della parte più debole nella fase prodromica alla conclusione dei “contratti d’impresa”. Sono possibili anche azioni di classe art. 140-bis cod. cons. L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale richiede la sussistenza di due presupposti: La qualità d’imprenditore del soggetto che subisce le conseguenze dell’atto di concorrenza sleale, come di quello che ne tragga vantaggio. Emerge dall’art. 2589, il quale individua ai primi due numeri fattispecie tipiche di concorrenza sleale fra imprese, ossia: 1) gli “atti di confusione”; 2) gli “atti di denigrazione” e gli “atti di appropriazione di pregi altrui”. L’esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra tali soggetti: soggetto attivo e soggetto passivo devono cioè offrire nel medesimo ambito di mercato geografico beni o servizi destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori o bisogni similari o complementari. Per la repressione dell’illecito concorrenziale il legislatore accorda una tutela reale specifica. La disposizione che assume rilievo è l’art 2599 per inibire la continuazioni di atti di concorrenza sleale e dare gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti. È sufficiente la presenza del solo danno potenziale. È per contro, la pronuncia è subordinata alla prova che l’illecito sia tuttora in atto o ne sia probabile la ripetizione. È ben possibile, e anzi frequente, che venga richiesto e ottenuto (perché il periculum in mora è qui in re ipsa) un provvedimento cautelare anticipatorio della pronuncia definitiva. Gli “opportuni provvedimenti” per la rimozione degli effetti dell’atto previsti nella seconda parte dell’art. 2599 possono consistere in un ordine di distruzione o di ritiro dal commercio dei beni realizzati con l’attività illecita. I provvedimenti risarcitori attuano in effetti una soddisfazione mirante a recuperare l’idoneità pregiudicata, mentre quelli restitutori necessitano di una modellazione caso per caso e sono finalizzati a conseguire la restituzione dell’interesse pregiudicato con l’atto di concorrenza sleale. L’azione giudiziale in parola può essere promossa dagli imprenditori lesi ogni qual volta gli atti di concorrenza sleale abbiano a che fare con l’esercizio dei diritti di proprietà industriali disciplinati nel c.p.i. (c.d. concorrenza sleale “interferente”). La relativa legittimazione è riconosciuta anche alle associazioni professionali degli imprenditori. La domanda ha prescrizione quinquennale. Inoltre, è necessario che sia riscontrato l’elemento soggettivo della colpa o del dolo, insieme alla prova di un danno patrimoniale attuale. L’art. 2600, comma 3, facilita tuttavia anche l’onere della prova dell’attore, in quanto fa discendere dall’accertamento dell’atto di concorrenza sleale una presunzione relativa la sussistenza della colpa; ne consegue che spetta all’autore della condotta sleale provare che la stessa è stata realizzata in stato di ignoranza incolpevole. Il risarcimento in forma specifica è raramente prospettabile e si deve quindi normalmente ricorrere al risarcimento per equivalente. Possono riscontrarsi dei danni emergenti, ma nel danno della concorrenza sleale è pressoché sempre presente un lucro cessante, che è di difficile quantificazione. Esso dovrebbe corrispondere al mancato guadagno. Nella pratica, la giurisprudenza mette a confronto la diminuzione delle vendite o la mancata espansione dell’impresa attrice. La determinazione del quantum si basa su risultato realizzato dal concorrente sleale, ma non sempre il risarcimento ha finalità riparatorie e può assumere finalità sanzionatorie. La disciplina appena esaminata ha carattere residuale e integrativo. 2. LE SINGOLE FATTISPECIE DI CONCORRENZA SLEALE La prima categoria “tipica” descritta nell’art. 2598, ossia gli “atti confusori”, protegge innanzitutto la funzione distintiva dell’attività d’impresa, sanzionando l’attività del concorrente che utilizzi “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con quelli legittimamente usati da altri”. Si configura come la riproduzione delle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonea a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa. La confusione si rileva in merito all’origine imprenditoriale dei prodotti o servizi offerti e non di altre caratteristiche del prodotto. Deve essere cioè assicurato che i consumatori riconducano il prodotto offerto sul mercato all’imprenditore da cui esso proviene. Correlativamente la seconda parte dell’art. 2598, comma 1, dispone che compie atti di concorrenza sleale chi “imita servilmente i prodotti di un concorrente”. Divieto di imitazione servile significa divieto per l’imprenditore A di imitare il prodotto del suo concorrente B creando i presupposti affinché i destinatari del prodotto acquistino il prodotto di A credendo che sia il prodotto di B. Poiché l’obiettivo della norma è di impedire l’imitazione dei prodotti di concorrenti qualora questa abbia come effetto una confusione anche potenziale, oggetto dell’imitazione è tutto ciò che, se imitato, può determinare confusione e quindi la forma esterna oppure il suo packaging. La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale tipizzati nell’art. 2598, n.2 ricomprende: a) gli atti di denigrazione, che consistono nel “diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”; b) l’appropriazione “di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente”. Comune ad entrambe le fattispecie è la volontà di falsare gli elementi di valutazione comparativa del pubblico attraverso comunicazioni indirizzate a terzi primariamente con l’arma della pubblicità. La regola c.d. de minimis, concretantesi nell’escludere dall’applicazione della disciplina antitrust le pratiche concorrenziali ritenute “minori” sulla base di vari criteri oggettivi, comporta in ogni modo che la disciplina in parola viene ad essere normalmente applicata alle sole imprese di maggiori dimensioni. La A.g.c.m. è un’Autorità il cui collegio è composto da tre membri, nominati dai presidenti della Camera e del Senato ed è assistita da propri uffici. Poteri dell’A.g.c.m:  Ampi poteri di indagine e istruttori;  Poteri decisori e sanzionatori;  Controllo su condotte comunque idonee ad avere effetti distorsivi sulla concorrenza;  Vigilanza sul divieto di abuso dello stato di dipendenza economica di un’impresa cliente o fornitrice;  Accertare situazione di incompatibilità che impediscono di ricoprire cariche politiche in ragione di conflitti di interessi. 5. FATTISPECIE Le “intese restrittive” corrispondo ad “accordi” fra imprese indipendenti concorrenti o “pratiche concordate” fra le stesse – ossia condotte parallele sistematiche atte a far presumere l’esistenza di una collusione o, per lo meno, di un interscambio di informazioni sensibili “di impedire, respingere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza”. Il divieto mira ad impedire che più imprese operanti nello stesso stadio del ciclo produttivo o commerciale (c.d. imprese orizzontali) o anche a livelli diversi (c.d. imprese verticali) atte a ostacolare strategie di mercato individuali, a danno dei consumatori. Le intese illecite sono nulle ad ogni effetto; chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità. L’art. 2 legge antitrust contiene un’elencazione meramente esemplificativa di tipologie di imprese restrittive, cioè quelle dirette: a) “fissare direttamente o indirettamente i prezzo di acquisto o di vendita” (c.d. “intese sui prezzi”); b) “limitare o controllare la produzione” (c.d. “intese di blocco”); c) “ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento” (c.d. “intese di zona”); d) applicare “condizioni dissimili per prestazioni equivalenti” (c.d. “pratiche discriminanti”); e) “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione di strumenti supplementari che non abbiano alcun nesso con i contratti stessi” (c.d. “tying contracts”). L’illeceità dell’impresa può essere esclusa quando essa risulti idonea a produrre effetti di efficienza economica a vantaggio dei consumatori. In positivo occorre che l’intesa sia tale da migliorare a condizione di offerta sul mercato (diminuzione dei prezzi o incremento della qualità). In negativo bisogna che le restrizioni previste dall’impresa non vadano oltre quanto strettamente indispensabile alla realizzazione dei predetti obiettivi. Il divieto di abuso di posizione dominante (art. 3 legge antitrust) mira a sanzionare le condotte anti-competitive realizzate dall’impresa o da più imprese in posizione dominante. Non è vietata Dall’applicazione delle norme antitrust si sottraggono le imprese che per legge gestiscono servizi di interesse economico generale. Quando dette imprese oltrepassino i parametri della proporzionalità e della necessarietà del loro operato rispetto alle finalità pubbliche, pure essere possono essere sottoposte alla disciplina antitrust. L’abuso di dipendenza economica è considerato un “abuso di potere relativo”, concernendo la posizione di forza di un’impresa nei suoi rapporti negoziali con singole imprese, a differenza dell’abuso di posizione dominante, che consente di condizionare l’attività di tutte le altre imprese sul mercato, perciò denominato “abuso di potere assoluto”. l’acquisizione di una posizione dominante; è vietato l’eventuale abuso di comportamenti unilaterali che si sostanziano in abusi di sfruttamento e abusi di impedimento. L’esistenza di una posizione dominante sussiste se la quota detenuta dall’impresa superi il 70% e insussistente se è inferiore al 40% di un determinato mercato. La norma considera peraltro espressamente anche la posizione dominante “collettiva”. Pure le concentrazioni di imprese non sono vietate di per sé, ma, nella consapevolezza che possono perseguire obiettivi di efficienza con potenziali effettivi benefici anche per i consumatori in termini di riduzione dei prezzi, vengono sottoposte a un giudizio implicante una comparazione fra questi e gli effetti anticoncorrenziali (c.d. “test di dominanza”). Alcune fattispecie di concentrazioni sono le fusioni societarie e la costituzione di un’impresa comune a carattere concentrativo. Acquisto del “controllo” dell’insieme o di parti di una o più imprese. 6. FUNZIONI DELLE AUTHORITIES Le funzioni al public enforcement che l’Autorità di vigilanza italiana o comunitaria svolge sono diverse a seconda che si tratti di intese e abusi di posizione dominante o piuttosto di operazioni di concentrazione. Nelle prime due ipotesi l’Autorità, riscontrata un’infrazione alle norme antitrust, impone alle imprese interessate di porre fine alla condotta lesiva. Nei casi più gravi irroga sanzioni amministrative di carattere pecuniario; in caso di reiterazione dell’illecito, può anche disporre la sospensione dell’attività di impresa fino a 30gg. L’Autorità sulla base di una prima delibazione, decide se avviare l’istruttoria; se non procede in tal senso entro 30gg secondo la disciplina nazionale o 25gg secondo la disciplina europea, l’operazione si considera vigilata positivamente e potrà essere eseguita; qualora invece entro detto termine dia comunicazione dell’apertura dell’istruttoria ha facoltà di sospendere l’operazione di concentrazione secondo la disciplina italiana, mentre se si applica quella europea la sospensione è automatica fino alla chiusura della procedura di controllo preventivo. Ad esisto della procedura, l’Autorità può alternativamente pronunciare un provvedimento di: a) Autorizzazione piena e incondizionata dell’operazione stessa; b) Autorizzazione condizionata al rispetto entro un termine prefissato di prescrizione idonee a impedire la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante; c) Divieto di realizzazione dell’operazione. Se l’operazione di concentrazione viene ugualmente posta in essere, l’Autorità può infliggere un’ammenda fino al 10% del fatturato aziendale, o anche imporre sanzioni atipiche, quali misure di “deconcentrazione”. Nel 2006 è stato introdotto l’art.15, comma 2-bis, legge antitrust in forza del quale l’A.g.c.m. ha il potere di non applicare le sanzioni previste per una determinata violazione o di ridurle, qualora l’impresa abbai collaborato al suo accertamento autodenunciandosi e fornendo informazioni utili a far scoprire illeciti più gravi (c.d. “programma di clemenza”). I provvedimenti definitivi dell’A.g.c.m. possono essere impugnati dalle imprese interessate avanti al giudice amministrativo secondo la disciplina del codice del processo amministrativo. La violazione di norme antitrust è presidiata anche dal c.d. private enforcement, ossia giustificare la promozione da parte di imprenditori o consumatori di azioni civili volte a far dichiarare la nullità degli atti concorrenziali e/o a conseguire il risarcimento del danno subito nonché ottenere gli opportuni provvedimenti d’urgenza (c.d. inibitorie positive e/o negative).
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