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La critica cinematografica, Appunti di Storia E Critica Del Cinema

Riassunto approfondito di "La critica cinematografica" di Pezzotta.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 08/03/2023

Sara_de_mitri
Sara_de_mitri 🇮🇹

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3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La critica cinematografica e più Appunti in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! LA CRITICA CINEMATOGRAFICA I. L’identità incerta della critica Un regista, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto film autoriali. Truffaut non accettava quest’idea e in un articolo pubblicato su “Arts” nel 1955, intitolato I sette peccati capitali della critica, definiva una “professione ingrata, difficile e poco nota” che nella Francia dell’epoca non era all’altezza dei propri compiti. Il primo difetto del critico medio riportato da Truffaut era l’ignoranza totale della storia del cinema, a cui seguivano l’assenza di immaginazione, lo sciovinismo e la presunzione. Il giovane Truffaut esigeva una critica colpa e competente, non solo di storia ma anche di tecnica. Trent’ani dopo, regista affermatosi da tempo, guarderà serenamente alla realtà, con buon senso e pragmatismo. Nello stesso testo, Truffaut racconta la propria vocazione e apprendistato di critico. Il momento fondamentale in cui il francese diventa potenzialmente critico è quando compie l’esperienza di vedere più volte un film. A quel punto si accorge di quanto sia affascinante penetrare sempre più intimamente nell’opera che ci piace, fino ad avere l’illusione di riviverne la creazione. Truffaut esordisce come critico nel 1950 sul bollettino del cineclub del Quartiere Latino; nel suo articolo paragona la versione fino ad allora conosciuta di La regola del gioco (1939) di Jean Renoir con quella integrale appena ritrovata. Nel 1959 esordisce come regista con il lungometraggio I quattrocento colpi e scriverà nel 1966 Il cinema secondo Hitchcock. Ciò che scriveva Truffaut è ancora valido. Molte cose sono cambiate, la storia e la metodologia della critica cinematografica sono entrate tra le discipline universitarie. La critica è un materiale importante con cui ricostruire l’impatto del cinema nella cultura del suo tempo; ma, mentre diventa oggetto d studio, la critica allo stesso tempo non gode di buona salute. Ma, a questo punto, solo analizzando che cosa sia stata la critica in passato che si può capire se e come è cambiata. L’espressione “critica cinematografica” è ambigua: essa può designare il singolo testo scritto come recensione, un insieme di testi identificati come un genere di scrittura giornalistica o saggistica o un mestiere. Tante forme e tanti aspetti sono comunque riconducibili ad un comune denominatore: la critica parla di film, informando, spiegando, classificando, giudicando, analizzando e interpretando. Il cinema entra nelle università italiane all’inizio degli anni Sessanta: a Pisa, nell’anno accademico 1961-62, si apre un insegnamento di Storia e critica del cinema, tenuto da Luigi Chiarini. Le prime cattedre nascono all’interno degli istituti di storia della letteratura e qualche volta di storia dell’arte e di filosofia. Così come la critica cinematografica subisce il modello di quella letteraria, il cinema invoca dignità di oggetto di studio affiliandosi ai valori estetici consolidati della letteratura. Nel mondo accademico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta l’unione dell’idealismo crociano e del marxismo diffondono nello studio della letteratura un metodo “storicista”, che viene applicato anche al cinema. Il risultato è che il cinema viene insegnato innanzitutto come storia degli autori, evoluzione delle poetiche e lotta delle ideologie. All’inizio degli anni Sessanta, la diffusione di strutturalismo, semiologia, psicoanalisi e altre scienze umane provoca un boom della teoria, che si contrappone al semplice studio storico, rivendica una conoscenza più profonda dei meccanismi linguistici e simbolici del testo filmico. La teoria da una parte si interroga sulla natura del cinema in generale e dall’altra ambisce al rigore della scienza, creando un proprio linguaggio, distaccandosi e distinguendosi dalla critica. Agli occhi dei teorici, infatti, questa appare priva di valore scientifico. Per questo motivo i teorici vogliono superarla: nelle loro mani, il discorso sul cinema si dà strumenti analitici nuovi, aspira alla scientificità e ad una maggiore complessità e profondità. Nasce così uno scollamento tra teoria e critica, analisi accademica e mestiere del recensore. Una reazione al diffondersi delle scienze umane è stata anche una specializzazione di una parte della critica, che ha cercato di darsi strumenti più rigorosi e sofisticati rispetto al buon senso e alla soggettività del gusto, rimanendo però distinta rispetto al rigore scientifico della teoria. Ne è nata quindi un’ulteriore separazione tra critica giornalistica e critica specializzata. In Italia tale separazione è stata sicuramente percepita tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta, quando si è creato uno iato tra la critica delle riviste cinefile e quella dei mass media. Dall’altro lato della barricata, a contestare la legittimità della critica sono stati anche i registi: una contrapposizione che spesso ha assunto toni accesi e polemici. Truffaut, che ha militato da entrambe le parti, si è espresso con serenità sulla questione: il rischio di essere giudicato fa parte del mestiere del regista, ma non lede in nessun modo la sua superiorità ontologica, mentre il critico resta qualcuno che comunque viene dopo. Per lasciare che la critica difenda la propria funzione, si può utilizzare un testo di Bazin, Reflexions sur la critique (1958). André Bazin fu insegnante, animatore di cineclub, critico ed è considerato il “padre spirituale” della Nouvelle Vague. Pur non avendo scritto libri di teoria, ha creato un nuovo modo di scrivere di cinema, intrecciando l’analisi tematica con quella storica, estetica e del linguaggio. discutono in altri campi della cultura, guardando anche oltre i confini nazionali. Emblematico è il dibattito sul neorealismo. Intellettuali e critici vengono coinvolti in alcuni grandi convegni che seguono la parabola del neorealismo, ma proprio in questi convegni vengono alla luce limiti e condizionamenti che peseranno: l’ideologismo e l’idealismo. Numerosi critici legati al PCI spesso subordinano la valutazione dei film a una correttezza ideologica modellata sul “realismo socialista” e, in parallelo, appare inevitabile il condizionamento dell’estetica di Benedetto Croce, con la distinzione tra “poesia” e “non poesia”. Ne consegue un concentrarsi su pochi grandi autori (Visconti, De Sica, Rossellini). Dopo la crisi del 1956, quando nella stessa Unione Sovietica si condannano i film di propaganda, la cappa ideologica diventa meno pesante. Nasce il dibattito “Sciolti dal Giuramento”, ma perdurano altri vincoli estetici, dove i cascami di crocianesimo sono ben nascosti sotto la cappa marxista. Negli anni Cinquanta la critica ha già definito un canone che rimane saldo negli anni a venire, ma che presto fa emergere contraddizioni. Se un grande autore come Visconti è progressista, perché il suo impatto sul grande pubblico è limitato? Se lo chiedono, alla metà degli anni Cinquanta, i critici di sinistra che tentano di fare i conti con un cinema più popolare. Ma ancora una volta i critici sono incapaci di analizzare la realtà a 360 gradi: concentrandosi sul cinema “di profondità” finiscono per mitizzare populisticamente la produzione “bassa”, mentre trascurano la produzione media. Nasce così con grande anticipo una polarizzazione che da questo momento caratterizza la critica intellettuale che si divide tra grandi autori e cinema di serie B, marginalizzando la fascia media. Negli anni Sessanta sui quotidiani continua a prosperare la critica di gusto ma i critici si fanno interpreti di una critica professionale e autorevole, sempre più libera da dogmi estetici ideologici. È all’inizio degli anni Sessanta, di fatto, che si apre il divario tra quotidianisti e specialisti. La Nouvelle Vague e la diffusione delle scienze umane portano uno scossone in quest’ultimo ambito, dove ancora ci si interroga sul concetto di realismo. Il modello “Cinema Nuovo” entra in crisi. Nata del 1965, la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro diventa un luogo importante di elaborazione teorica e di confronto tra i critici. Si proiettano i film underground americani e quelli delle nouvelles vagues europee. Negli anni Settanta si assiste inoltre ad un boom dell’editoria cinematografica: hanno successo i libri in cui i critici raccolgono le proprie recensioni. Si assiste inoltre a un allargarsi dei luoghi della critica: critici spesso si trasformano in organizzatori culturali e promotori di rassegne, prima nei cineblub e poi anche nei festival che diventano non solo una rete distributiva di film alternativa, ma anche proposta critica, divulgazione e condivisione di passioni e visioni eterogenee, diffondendo una nuova sensibilità senza regole. Si afferma un nuovo tipo di scrittura in cui emerge in primo piano l’io scrivente con le sue ossessioni. Nella seconda metà degli anni Settanta il boom delle TV libere che programmano film a tappeto, da una parte, porta a una crisi delle sale cinematografiche tradizionali, dall’altra, induce a fenomeni di riscoperta in cui si instaura un nuovo rapporto con l’oggetto-film. E si intreccia, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, con l’uso del videoregistratore come supporto cinefilo. In questo clima matura, dal 1988, l’esperienza di Fuori Orario di Enrico Ghezzi, spazio di programmazione notturno su RAI 3 dove la critica non è fatta solo con i discorsi del curatore con l’audio fuori sincrono, ma anche con la giustapposizione e il montaggio di film eterogenei. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si scrive molto di cinema. I trentenni che esordiscono nella scrittura sono anche la prima generazione di critici con una laurea in storia del cinema: portano nuove competenze e voglia di definire polemicamente la propria idea e grazie a firme come Alberto Farassino (“La Repubblica”) e Giovanni Buttafava (“L’Espresso”), il giornalismo raggiunge un’autorevolezza e conquista spazi che faticherà a conservare nel decennio successivo. L’horror diventa un manifesto per una nuova generazione di critici che non solo possono affermare la propria originalità, ma anche abbandonare definitivamente i canoni estetici del passato. Intanto, inizia un recupero cinefilo di generi bassi appartenenti al passato, lontano o recente, in concomitanza con il fenomeno dei cultural movies che esplode nella cinefilia d’oltreoceano. Negli anni Novanta questo atteggiamento, non più sorretto da ambizioni teoriche, decade nella goliardia e nel culto indiscriminato del trash. In quest’epica post ideologica apparentemente trionfale covano però i germi del tramonto della critica. Film spartiacque sono Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola e I predatori dell’arca perduta (1981) di Steven Spielberg. Il critico nel primo caso è ridotto a divulgatore del verbo dell’autore e a eco mediatica dell’evento; nel secondo si trasforma in un cinefilo alla rincorsa delle citazioni. Questi temi continuano a essere rilevanti anche nel decennio successivo. La critica specializzata finisce spesso per celebrare un cinema, soprattutto hollywoodiano, che diventa un trionfo della simulazione, immergendo il pubblico in un’esperienza in primo luogo sensoriale. Si evidenzia l’identità di un nuovo spettatore che non si identifica più con i personaggi, ma con lo spettacolo nella sua totalità. Film come Batman (1989) di Tim Burton inaugurano un postmoderno di massa e alla critica si pone il dilemma se partecipare al gioco o chiudersi in una torre d’avorio. Negli anni Novanta il cinema entra in crisi come industria e fenomeno culturale, ma continuano comunque a nascere riviste e molte altre chiudono o diventano invisibili. Sui quotidiani la critica perde progressivamente prestigio e si assiste al tramonto della tradizionale figura del critico- auctoritas, arbitro del gusto e dispensatore di consigli di visione. Nel nuovo millennio, su internet fioriscono newsgroup, forum, blog e siti di cinema. Questi, da una parte, contestano, in modo più o meno esplicito, la credibilità della critica istituzionalizzata, non evitando di abbassare il livello del discorso all’insulto o alla chiacchera; dall’altra offrono spazi di discussione e socialità che sostituiscono quelli dei cineforum. Nel nuovo millennio il cinema, almeno in Italia, perde centralità nel dibattito e nel consumo culturale, e quindi anche spazio sui mass media. III. Forme e luoghi della critica La recensione è il genere “esemplare”, “ideale” e “forte” della critica. Essa bilancia informazione, interpretazione e giudizio. È il prodotto di una lunga storia, e si è articolata secondo uno schema fisso riproposto fino a oggi con poche variazioni: cappello, trama, commento, conclusione. Cesare Cases, nell’editoriale intitolato E ai recensori, stilava una serie di regole valide anche per le recensioni cinematografiche. La recensione non è un saggio e non si rivolge a un lettore specialistico. Privilegia l’aspetto informativo, ma non è una neutra scheda: esprime una valutazione. Dal punto di vista quantitativo, la recensione varia dai 400 caratteri di un quotidiano all’ampio articolo pubblicato su una rivista o su un sito, che sconfina nel saggio. La scrittura giornalistica sul cinema comprende, oltre alla recensione, molti altri generi: il reportage dal set sulla lavorazione del film, la cronaca da un festival, l’intervista, l’inchiesta. Non tutti questi generi appartengono alla critica, ma possono rientrarvi. Con Il cinema secondo Hitchcock, Truffaut ha dimostrato che si può fare critica in forma di conversazione: ogni sua domanda presuppone non solo una conoscenza dettagliata dei film, ma anche idee critiche precise. In campo editoriale, il saggio monografico è la forma di scrittura critica più diffusa. Esso appare come un’espansione della recensione: spesso, di fatto, si presenta nella forma di una serie di recensioni cucite insieme. Perelman e Olbrechts-Tyteca intendono analizzare gli strumenti che si usano in tutti quei campi che non attengono alla scienza e alla ricerca della verità suprema, ma dove lo scopo è di “provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso”. La retorica classica distingue vari generi di discorsi argomentativi: o Il discorso deliberativo: promuove l’utile, consigliando o sconsigliando un’assemblea a prendere determinati provvedimenti. La critica vi rientra quando si rivolge al regista per consigliarlo. o Il discorso giudiziario: difende il gusto, persuadendo l’uditorio che decide l’esito di un processo. La critica vi rientra quando attribuisce stellette e giudizi perentori, ma la funzione giudicante può avvenire anche in modo sfumato attraverso la difesa di un film sottovalutato o la rivalutazione di un autore. o Il discorso epidittico: loda o biasima, avendo per oggetto il bello o il brutto e facendo appello ai valori condivisi. Questo include anche la funzione pedagogica, per cui l’insegnante si fa portavoce dei valori di una comunità, promuovendo l’adesione a essi. La critica vi rientra quando cerca di spiegare e trasmettere nozioni. Le ambizioni possono variare, il critico può limitarsi a fornire un’idea del cinema, della società e del mondo e si presenta nella forma di maestro-auctoritas. Con la ripresa degli studi sulla retorica nella seconda metà del Ventesimo secolo, sono state incorporate in essa tutte le forme contemporanee di discorso persuasivo (come la pubblicità) e letterario (come la poesia). Il campo della retorica si è allargato anche allo studio di discorsi non verbali, come la fotografia, il cinema e la musica. Come ogni argomentazione, la critica si rivolge a un uditorio che intende persuadere. Per la reetorica classica, la conoscenza del tipo di uditorio è fondamentale per la scelta dei mezzi in grado di agire su di esso. L’oratore deve sapere quali sono la natura e l’opinione preventiva di coloro ai quali si rivolge, e si deve adattare a essi, se vuole essere efficace. Per persuadere il suo pubblico, l’oratore deve comunque partire da un terreno comune. Quanto più numerose sono le premesse che l’oratore condivide con il suo uditorio, tanto più agevole sarà persuaderlo a una determinata azione. Per capire come funziona la critica cinematografica, l’attenzione alle sedi in cui si esercita si deve quindi intrecciare con l’analisi delle premesse che chi scrive condivide con il suo lettore: premesso che possono essere sia di tipo quantitativo (linguistiche e tecniche) sia di tipo qualitativo (gerarchie di valori). Partiamo dal linguaggio: a chi scrive recensioni su un settimanale o su un quotidiano, il senso comune richiede che adotti uno stile diverso rispetto a chi stila saggi per una rivista specializzata e si rivolge principalmente a colleghi. La critica accademica usa un linguaggio settoriale, elaborato e a partire dagli anni Settanta per influenza delle scienze umane e variamente caratterizzato a seconda della disciplina di riferimento. Analogamente, le conoscenze tecniche o di storia del cinema che un critico può dare per scontate in un saggio accademico, richiedono uno sviluppo didascalico in un articolo rivolto a un ampio pubblico. Questo almeno fino in anni recenti, quando si è assistito a un parziale rimescolamento e a una diffusione di gergo tecnicista anche in ambiti non specializzati. Le basi che il critico deve condividere con il pubblico, se vuole essere efficace, riguardano inoltre una serie di premesse e di valori, nessuno dei quali è assoluto ma dipende da circostanze storiche e culturali. L’impegno civile, la ricerca formale e la tensione all’innovazione, la spettacolarità, l’appello alle emozioni sono altrettanti valori che non necessariamente critico e lettore condividono. L’adesione preventiva dell’uditorio a una determinata premessa o gerarchia di valori rafforza la capacità di persuasione dell’oratore, viceversa, se il pubblico fatica ad accettare un valore, condurlo alla tesi desiderata sarà molto più difficile. Ciò vale sia per la scheda da quotidiano sia per la complessa analisi accademica, che spesso non si preoccupa di emettere giudizi ma si fonda ugualmente su una serie di premesse, che giustificano la scelta dell’oggetto analizzato e i metodi adottati. La retorica classica aveva studiato e catalogato le premesse dell’argomentazione. E sotto il nome di luoghi comuni aveva elaborato veri e propri “magazzini di argomenti”: elenchi di schemi per costruire un ragionamento, e raccolti a mo’ di repertorio per comodità dell’oratore. Il critico cinematografico spesso non si rende conto che, mentre dà forma al proprio giudizio, attinge a un repertorio di premesse consolidate. Spesso queste non hanno bisogno di venire esplicitate; può essere il contesto o la sede che ospita il discorso critico a renderle implicitamente valide; in ogni caso, costituiscono il presupposto dell’argomentazione. Seguendo liberamente il Trattato dell’argomentazione, si può provare a passare in rassegna alcune delle gerarchie di valori su cui il discorso critico fonda i propri giudizi: • I luoghi della quantità: sono i luoghi comuni che affermano che una cosa vale più di un’altra per ragioni quantitative. Applicazioni alla critica: un film di grande successo è preferibile a uno di nicchia; un film girato con un grande budget è migliore di uno a basso costo; un film deve essere semplice e accessibile a tutti. In questo ambito rientra l’esaltazione del piacere fisico della visione; la quantità di emozioni diventa parametro di valore e i film che divertono e eccitano sono migliori di quelli austeri e punitivi; • I luoghi della qualità: sono i luoghi comuni che contestano la virtù del numero e che si fanno forti della singolarità, della novità, della complessità e della profondità, opponendoli alla banalità e alla convenzionalità. Applicazioni nella critica: un film d’autore è migliore di un film commerciale; un film indipendente è migliore di un prodotto da studio; un film sperimentale è migliore di un film tradizionale. • I luoghi dell’ordine: sono i luoghi comuni che affermano la superiorità dell’anteriore sul posteriore. L’anteriorità vale sia in senso cronologico sia nel senso di una gerarchia ideale. Applicazioni alla critica: i film dei maestri, dei capostipiti e dei fondatori di un genere sono migliori di quelli degli epigoni. I luoghi dell’ordine possono essere usati anche in senso opposto, quando la discendenza dal passato è usata per valorizzare il presente. Annettere un film contemporaneo a un modello prestigioso significa promuoverlo. • I luoghi dell’esistente: sono i luoghi comuni che affermano la superiorità di quanto esiste, di quanto è attuale, di quanto è reale sul possibile, l’eventuale, l’impossibile. Applicazioni alla critica: i film verosimili e realistici sono migliori di quelli inverosimili in quanto seguono una maggiore logica narrativa. Le applicazioni possono avere anche implicazioni politiche quando un film che denuncia la società viene criticato con la scusa di non essere realistico e di deformare la realtà. La retorica classica si articola in cinque parti, corrispondenti ad altrettante fasi che deve affrontare chi costruisce un discorso: § Inventio: il momento in cui l’oratore trova tutti gli argomenti (o prove) relativi al tema del suo discorso, con i quali intende persuadere l’uditorio; § Dispositio: il momento in cui l’oratore organizza la struttura del suo discorso; § Elocutio: il momento dell’elaborazione stilistica del discorso; § Actio: il momento di decisione delle tecniche di recitazione del discorso; § Memoria: il momento di decisione delle tecniche con cui l’oratore ricorda cosa dire. Le ultime due sono ad oggi cadute in disuso. Il discorso critico, in quanto epidittico, ha una specificità che lo distingue dagli altri generi retorici. Il suo compito, infatti, non è solo persuadere, ma anche confrontarsi con un oggetto preesistente e interpretarlo. In questo senso fa qualcosa di diverso: non solo stabilisce l’utile, non solo giudica, non solo elogia o accresce l’adesione a un valore, ma spiega, analizza ed eventualmente porta alla luce un significato in precedenza ignoto al lettore. La retorica diventa ermeneutica. Costruire un discorso critico significa argomentare una tesi sulla base di una serie di premesse e con il sostegno di una serie di dati rinvenuti nel film. § Dissociazione: questo tipo di argomentazione vuole mostrare che una realtà solitamente considerata univoca e monolitica ne nasconde invece due, una profonda e una apparente. Ragiona così chi dice che un film sembra di genere, ma è molto di più. In campo critico, la dicotomia tra apparenza e realtà si traduce in varie coppie oppositive, dove il secondo termine è dato come più rilevante e decisivo per l’interpretazione. La dissociazione presuppone sempre un altro argomento, che contesta. Esso è usato tipicamente dalla critica autorialista, che giustifica eventuali difetti di un film, riportandoli a un significato più profondo o a un fine superiore. § Criteri di verificabilità: rifacendosi a una tradizione secolare, Bordwell afferma che “in senso lato, la critica è sempre allegorica”, essa infatti cerca di estrarre dal film qualcosa di diverso rispetto a ciò che dice letteralmente. Sempre secondo l’autore, nel sistema culturale contemporaneo, al critico si richiede di produrre un’interpretazione nuova e persuasiva di uno o più film appropriati. Nel dettaglio, i problemi che deve affrontare ogni interpretazione critica sarebbero quattro, ossia l’appropriatezza dell’oggetto analizzato, l’adattamento dei dati, l’originalità dell’interpretazione, la plausibilità dell’interpretazione. Anche se spesso non lo fa esplicitamente, la critica deve innanzitutto giustificare la scelta del proprio oggetto. Appropriatezza significa quindi che il critico deve fare in modo che il film sembri appropriato all’analisi che se ne fa. Per fare questo, deve anche tenere conto del suo pubblico, ossia negoziare con le premesse istituzionalmente stabilite di chi lo legge. L’appropriatezza vale però anche nel senso contrario, chi la critica deve essere all’altezza dell’oggetto scelto, altrimenti ne perde la specificità. Quello dell’originalità è il riconoscimento significativo della componente creativa della critica. Essa dovrebbe aprire nuovi orizzonti e un critico è un buon critico se aiuta lo spettatore a capire il film meglio di quanto non potrebbe fare da solo. Per fare questo deve avventurarsi anche su terreni inesplorati. Il concetto di plausibilità si riconduce ai “principi di cooperazione” di Paul Grice, che si possono ricondurre a quattro regole, modellate sulle categorie kantiane della quantità (dà il contributo informativo richiesto), della qualità (non dire ciò per cui non hai prove adeguate), della relazione (sii pertinente) e del modo (evita l’oscurità e l’ambiguità, sii breve e ordinato). Chi mente o non vuole farsi capire viola evidentemente queste regole, ma esistono convenzioni per cui si può violare formalmente una regola con lo scopo di comunicare qualcosa in modo obliquo o ironico. VI. Lo stile della critica La dispositio della recensione nasce con Filippo Sacchi e arriva con poche variazioni fino a oggi, rispettando il seguente schema: • Cappello introduttivo con eventuali note di colore, considerazioni personali, agganci all’attualità; • Esposizione della trama; • Analisi del contenuto; • Giudizio sul film. È facile trovare in questo schema un’incarnazione della tipica dispositio della retorica classica. Nell’esordio si comincia il discorso. La parte centrale comprende narratio e confirmatio: prima l’esposizione dei fatti, poi l’insieme degli argomenti. E per finire, la peroratio: la conclusione in cui si ricapitola il discorso. § Esordio: L’esordio di una recensione stabilisce subito il tono e il rapporto tra il critico e il lettore (colloquiale, tra pari, dall’alto verso il basso, affabile, serioso, ludico). Fin dai tempi di Sacchi si usa spesso l’esordio in medias res, con cui si parte dal racconto della prima scena di un film, oppure da una battuta di dialogo o dall’analisi del titolo. Gli attacchi possibili sono innumerevoli. Si può partire da considerazioni di tipo generalissimo, da un inquadramento dell’autore, da cenni storici; non mancano i consigli di lettura o bibliografici. Una citazione di classici o di filosofi fa sempre più effetto e c’è chi unisce alla critica del film la disamina dei media e del paratesto. C’è chi dichiara subito la propria tesi, chi la nasconde per poi affermarla in coda. Chi inizia con una citazione del regista invoca subito l’argomento di autorità a suffragio della propria tesi. Un ruolo importante viene giocato spesso dalla definizione, tanto più se viene posta all’inizio, anticipandone le conclusioni. § Narratio e confirmatio: La parte centrale della recensione narra i fatti ed espone i propri argomenti, spesso confutando quelli dell’avversario. La retorica classica raccomandava chiarezza, brevità e credibilità nell’esposizione dei fatti. L’obiettività è solo apparente, dato che l’oratore seleziona i dati a seconda delle proprie esigenze. Sia sulla stampa specializzata sia sui rotocalchi, spesso la trama viene separata anche tipograficamente dalla recensione vera e propria: un espediente che presuppone l’ideale giornalistico di separare i fatti dai commenti. In una recensione degli anni Sessanta e Settanta esordio e conclusione avevano notevole ampiezza, mentre il commento spesso si sviluppava con respiro maggiore rispetto alla trama, rispettivamente il 40% e il 30% dell’ingombro. In una recensione odierna da quotidiano, la trama invece può superare il 60% dello spazio e il commento può venire inglobato nella conclusione. § Conclusione: Una tipologia dei finali si sovrappone in parte a quella degli incipit. Si può riassumere la tesi ed enfatizzarla, oppure coinvolgere il lettore e fare appello al pathos. Nel finale la definizione può essere una pietra tombale, una stoccata feroce. Nella retorica classica, l’elocutio concerneva la scelta dello stile, che per prima cosa doveva essere adatto al soggetto. Ciò significava scegliere un certo registro lessicale, un certo fraseggio, e soprattutto usare le figure retoriche. La figura non è altro che un modo di esprimersi che si allontana dall’uso comune, e che ha maggiore vividezza rispetto alla lingua di tutti i giorni. Il discorso critico, come genere di scrittura, ammette e anzi richiede un certo grado di elaborazione stilistica. Una prosa grigia, arida, monotona può aspirare al rigore della scientificità; ma probabilmente non si tratta di critica cinematografica, proprio perché cerca di convincere con la forza di un ragionamento filosofico, rinunciando agli elementi emotivi ed estetici che sono propri della persuasione. L’impiego di un certo registro è un sintomo preciso del livello al quale si colloca il critico. L’uso di metafore tratte da altri ambiti equivale a rifiuto di specializzazione. Un abbassamento del lessico è una caratteristica di questi ultimi anni, condivisa da riviste specializzate, quotidiani e siti web; spesso è il segnale di una volontà di reagire ai luoghi comuni imperanti, a costo di essere triviali o volgari. Al tempo stesso, i cascami del lessico accademico si divulgano. Termini come “metacinema”, “ontologico”, “diegetico” si sono diffusi in ambiti molto diversi e spesso vengono usati in pura funzione ornamentale. Un caso affine è la diffusione di uno stile di scrittura che usa i tecnicismi della semiotica in funzione poetico-letteraria e che ha il suo massimo divulgatore in Enrico Ghezzi (coppie di parole separate da una barra o scritte tutte attaccate, abuso di virgolette e corsivi per suggerire significati più profondi, periodi gonfiati da incisi e parentesi, parole frantumate da trattini o parentesi). Un’importante strategia stilistica è la scelta della forma enunciativa. Critici-scrittori come Giuseppe Marotta e Mario Soldati usano il pronome “io” in modo istrionico per riportare ogni giudizio, reazione o scatto umorale. Il loro è un “io” maiuscolo e autorevole. Ci sono altri tipi di “io”, come quello di Oreste del Buono, che non si mette sul piedistallo e fa di tutto per celare le sue svariate competenze. Alberto Moravia, invece, all’“io” preferisce un “noi” impersonale. Nelle sue recensioni intende elevarsi sopra la particolarità del gusto individuale, per farsi guida e portavoce di una società. Gli autori nascono, muoiono, vengono riscoperti: significa che non sono valori assoluti, ma funzioni dei vari contesti culturali. Quando un autore viene riconosciuto come tale, può essere lieto di legittimare una lettura autorialistica retrospettiva della propria opera, ma per essere riconosciuti autori non basta avere uno stile e poetiche riconoscibili o ricostruibili a posteriori: occorre che intervenga una legittimazione culturale, una moda, un interesse accademico. Nella storia della critica degli ultimi decenni, pochi hanno messo in dubbio il primato dell’autore come metodo. Negli anni Settanta Adriano Aprà, con argomentazioni di critica culturale alla Adorno, vedeva l’autore come un’etichetta con cui il mercato promuove alcuni suoi prodotti. Oggi l’autore diventa spesso un marchio, una griffe con cui vendere il film. Autore e generi sono visti spesso come temi in vario modo incompatibili. La critica dei “Cahiers du cinéma” si prefiggeva di dimostrare come la soggettività dei registi americani potesse emergere all’interno dei limiti imposti da determinati modi produttivi e vincoli espressivi. Lo studio dei generi è stato appannaggio soprattutto della storiografia e della teoria: uno dei risultati più innovativi è stato il saggio di Rick Altman (2004), che studia il genere secondo un approccio pragmatico, ponendosi sia dal punto di vista dell’industria (perché i produttori realizzano film di genere?) sia da quello della ricezione (come fanno gli spettatori a riconoscere un genere?). Per la critica, invece, il genere è spesso un’essenza indiscutibile e universalmente accettata, che crea classi di film. Queste ultime sono utili a posizionare le pellicole da giudicare. La maggiore o minore adesione alle caratteristiche del genere può segnalare la novità e il pregio del film. Il concetto di autoriflessività ha avuto la sua prima elaborazione organica all’interno del formalismo russo. Per quest’ultimo l’arte è un mezzo “per distruggere l’automatismo della percezione”. Attraverso lo “straniamento”, la lingua poetica attira la percezione del lettore sulle proprie caratteristiche formali: in altri termini, parla di sé stessa. Nella sua declinazione cinematografica, il tema dell’autoriflessività prevede che un elemento del film diventi una metafora del cinema: in questo modo il critico può affermare che un dato film parla di sé stesso, di chi lo guarda e di chi l’ha fatto, nonché dell’essenza stessa del cinema o della sua crisi. Un classico esempio è la lettura di La finestra sul cortile (1954) fatta da Chabrol e Rohmer, per cui “il tema centrale” del film di Hitchcock “riguarda l’assenza stessa del cinema: la visione, lo spettatcolo. Un uomo guarda e attende mentre noi guardiamo quest’ultimo e attendiamo quel che lui attende”. Qualunque elemento del film legato alla visione può diventare metafora dello sguardo e quindi autoriflessivo. A diventare autoriflessivi possono essere anche elementi formali: una soggettiva, una carrellata, un angolo di ripresa insolito, ogni momento in cui l’attenzione dello spettatore è attirata dalla forma a scapito del contenuto. E qui il tema dell’autoriflessività si sovrappone a quello della metalinguisticità. Quello dell’autoriflessività è anche un esempio di come i temi cambino significato a seconda del contesto culturale. Negli anni Settanta, nel campo della critica cinematografica, la distinzione tra due tipi di cinema: da una parte il cinema borghese, che produceva un’“illusione realista”; dall’altra il cinema d’avanguardia che “metteva a nudo” i materiali – ossia le immagini e i suoni -, evitando qualunque inganno. Compito della critica era smascherare i film impegnati ma che in realtà adottavano le forme del cinema spettacolare borghese; viceversa, valorizzare i film che, per quanto calati nell’ideologia borghese, riuscivano a “demistificarla” efficacemente. In seguito, il tema dell’autoriflessività si intreccia con quello sulla modernità. Daney è uno dei primi a riflettere sul rapporto tra classicità e modernità nella storia del cinema. I registi classici credono che davanti alla macchina da presa ci sia una realtà da scoprire e che l’immagine cinematografica la rispecchi. Con la modernità, il cinema comincia a riflettere su sé stesso e i registi prendono atto che la realtà è inconoscibile e che le immagini sono fittizie: ma rimane viva una tensione morale, che Daney chiama “pedagogia” della percezione. Legato all’autoriflessività è un tema ricorrente del postmoderno: la citazione come chiave per analizzare e valorizzare i film. I registi degli anni Ottanta e Novanta citano e trasformano il cinema del passato, senza tabù estetici e senza distinzioni gerarchiche: e la critica ricostruisce questa stratificazione di allusioni, attribuendovi un giudizio di valore. In termini estetici, può significare, nei casi più estremi, la fine del modello dell’autore alla Bazin-Nouvelle Vague: lo stile non è più una questione di morale, e la citazione (o la contaminazione) è l’unica cosa che rimane quando non c’è più nulla di nuovo da dire. Prima di analizzare e giudicare un film, un critico dovrebbe assicurarsi che la copia che sta vedendo, su qualunque supporto, è quella più vicina alla volontà dell’autore. I criteri principali di cui tenere conto sono i seguenti: § Formato; § Velocità di proiezione: ai tempi del muto era più lenta rispetto ai 24 fotogrammi al secondo odierni. Per cui un film muto, masterizzato su dvd alla velocità sbagliata, è sgradevolmente velocizzato; § Integralità: i film sono oggetto di infinite censure, da parte del produttore, delle commissioni di censura e dei distributori di ogni Paese. Solo in anni recenti sono disponibili sul mercato italiano del DVD versioni integrali di classici che da noi si erano sempre visti tagliati o manipolati. VIII. Le oscillazioni del giudizio L’attribuzione di valore a un film dipende dalla persuasività della critica. Un discorso critico convincente si basa sulla condivisione delle premesse evocate, sulla pregnanza delle argomentazioni, sul prestigio culturale dei metodi e dei percorsi interpretativi adottati. È espresso con uno stile appropriato e, magari, personale. Il risultato è quello di far parlare il film: individuare in esso temi pertinenti, rilevanti e originali per il contesto sociale e culturale in cui si svolge. Il numero di letture tollerate da un film, e la loro rilevanza, può essere un criterio per giudicare il suo valore attraverso la storia della sua ricezione. Spesso i cosiddetti capolavori sono quelli che reggono al mutare delle mode interpretative, e che rispondono alle esigenze di ogni epoca. Anche se ciò non toglie che si possano ritenere a buon diritto capolavori film su cui il consenso è relativamente recente. Il fenomeno della rivalutazione è quello in cui sono più evidenti sia la storicità sia la relatività del giudizio critico. Nessuna revisione o rivalutazione, per altro, è innocente e dipende a sua volta da paradigmi culturali, o, peggio, da mode. Il cinema ha impiegato decenni per avere un posto all’interno dei valori culturali riconosciuti, e a lungo tempo l’etichetta di artisticità è stata riservata a pochi registi. Sul cinema di genere e popolare si sono combattute le battaglie dai risultati più duraturi: quelle per far entrare nel discorso critico serio opere su cui pesava un pregiudizio negativo, in quando considerate puramente escapiste, commerciali, o, nel migliore dei casi, frutto di artigianato più che di arte. Negli anni Sessanta, gli studi sulla cultura di massa spingono gli studiosi a occuparsi di film in precedenza ritenuti indegni di discorso critico. Il paradigma culturale cambia quando lo sguardo verso il basso si unisce al piacere della fruizione. Il saggio spartiacque in questo senso è quello di
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