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la critica d'arte di venturi, Dispense di Critica Letteraria

riassunto preciso sulla critica d'arte

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 22/09/2022

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tania-mazzocchitti-1 🇮🇹

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Scarica la critica d'arte di venturi e più Dispense in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! Testi Storia della critica d’arte II – Prof.ssa Coletta Lionello Venturi - Il gusto dei primitivi (Prefazione di Giulio Carlo Argan e Introduzione) Prefazione di Giulio Carlo Argan Scrivendo Il gusto dei primitivi, apparso nel 1926, Lionello Venturi si proponeva di rimuovere i termini cronologici convenzionale, di ampliare il giro d’orizzonte, ma soprattutto di definire una nuova linea metodologica degli studi di storia dell’arte, allora autorevolmente guidati da suo padre, Adolfo Venturi. Dei maggiori discepoli di quest’ultimo, il più anziano Pietro Toesca, aveva intrapreso la ricerca in profondità della civiltà figurativa del Medioevo; tra i più giovani, Lionello Venturi e Roberto Longhi già divergevano negli interessi e questa divergenza più tardi si sarebbe spostata sul piano metodologico dando luogo a due diverse scuole. L’uno e l’altro muovevano dall’impostazione crociana del problema estetico e di quello storiografico, ma in direzioni diverse: se il Longhi sottilmente indagava attraverso quali filtri e quali imprevedibili combinazioni e reazioni la cultura dell’artista si decantasse fino a consumarsi nell’opera d’arte, il Venturi risaliva alle idee direttrici della cultura dell’epoca e ricercava come ad esse reagisse, spesso mutandole, quel nuovo fatto culturale che era l’opera d’arte. Il Venturi non celava la propria insofferenza nei confronti di ogni preconcetta delimitazione del campo: se la storia dell’arte doveva servire a capire situazioni e ad affrontare i problemi del presente, perché consigliare allo storico dell’arte di non occuparsi di fatti contemporanei, anzi di fermarsi, per maggior sicurezza, alla soglia dell’800? Ma c’era un impedimento e derivava dal fatto che alla fine del XVIII o al principio del XIX secolo si era irrevocabilmente chiuso un ciclo storico, e precisamente il ciclo del classicismo figurativo, il cui principio fondamentale era quello dell’imitazione. Il principio opposto era quello della creazione. Perché il processo dell’imitazione avrebbe dovuto essere dentro o il processo della creazione fuori dalla cultura? Il proposito del Venturi era di secolarizzare quel concetto, svuotandolo del suo originario significato teologico, pur conservandone, come motivo tipicamente culturale, il significato religioso. Si trattava insomma di passare dall’idea di creazione divina all’idea di creazione umana, storica. Se Il gusto dei primitivi fosse stato scritto in forma di dialogo l’interlocutore sarebbe stato certamente il Croce. Il Venturi era e fino all’ultimo si è dichiarato convinto idealista e crociano. Riconosceva però che l’estetica del Croce era stata costruita sulla base di una vasta conoscenza della poesia, ma senza una diretta esperienza dell’arte figurativa. Bisognava dunque dare alla costruzione filosofica del Croce il pilastro che le mancava, ciò che forse non era possibile fare senza comprometterne l’equilibrio. Inoltre, il Venturi sapeva quali decisivi progressi avesse fatto la metodologia della storia dell’arte negli ultimi cinquanta anni, specialmente per merito delle ricerche tedesche sulle strutture della visione: di Fiedler, di Riegl e di Wolfflin. Se l’origine dei denigrati “schemi” di Wolfflin era positivistica, ebbene bisognava “spiritualizzarli”, che poi significava storicizzarli. Da qui, in quale rapporto stava l’atto creativo con il sottofondo culturale, di cui pure non si poteva negare, nell’opera, la presenza? Bisogna dire che il Venturi non ha risolto, almeno sul piano teorico, questo problema: ha sempre distinto il fattore culturale dal momento dell’arte. Per quella consapevolezza del proprio limite disciplinare che solo i grandi studiosi sanno avere, si è sempre professato storico e non filosofo dell’arte. Ma come storico, appunto, si chiedeva: di che cosa propriamente deve fare la storia lo storico dell’arte, di una cultura che sembrerebbe essere estranea all’arte o di un’arte, che disgiunta dalla cultura, sarebbe irriducibile a storia? Il rapporto tra cultura e arte aveva preoccupato Venturi fin da quando, seguitando i primi studi sulla pittura veneziana, si era trovato in cospetto dell’enigmatica e affascinante figura di Giorgione. Nel 1913 aveva pubblicato Giorgione e il Giorgionismo. Giorgione si era posto fuori o contro una cultura data, ma per instaurare una diversa cultura, in cui il motivo dominante era il sentimento. Subito dopo la guerra, il Venturi era tornato a studiare quel delicato rapporto, e questa volta in Leonardo. A questo punto una verifica sull’intero arco della civiltà artistica occidentale, come quello tentato con Il gusto dei primitivi, s’imponeva. Non c’era dualismo nell’arte del mondo classico, la cui cultura s’impostava tutta sulla concezione della natura. Non c’era dualismo nel Medioevo, quando al principio naturalistico della mimesi classica si contrapponeva il principio spiritualistico della creazione, e l’arte si dava come atto creativo integrale e assoluto. Il dualismo si delineava nel Rinascimento, quando si cercava di congiungere naturalismo classico e spiritualismo cristiano. Con l’esaurirsi di esso si apriva il problema dell’arte moderna, che tornava bensì al principio della creazione e quindi al “gusto dei primitivi”. Sul piano teorico, il Venturi introduceva un concetto nuovo, il concetto di “gusto”, un insieme di preferenze o di scelte nell’ambito di una cultura generale, perché ogni artista è uomo del proprio tempo, ma anche di una cultura specificatamente artistica. Precisava il Venturi che il gusto è ciò che accomuna gli artisti permettendoci di raggrupparli per epoche e scuole, l’arte è ciò che distingue ciascuno di essi. E qui sorgeva la difficoltà che il Venturi non ha voluto affrontare sul piano teorico, ma che risulta superata sul piano critico: il gusto ha una struttura sui generis perché le manca l’articolazione nazionalistica che si ritiene comunemente propria della cultura. Il concetto di gusto, infine, interessando tutto il processo genetico o poietico dell’opera d’arte nonché quello del suo interagire con la cultura della società in cui si produce, appare da un lato come lo sviluppo in senso storicistico del Kunstwollen di Riegl, e dall’altro come la prima formulazione del moderno concetto di “poetica”. La distinzione tra gusto e arte si riduceva così alla distinzione tra una cultura data o istituzionalizzata ed una cultura in fieri, colta nel momento del suo autocrearsi; ed il superamento del passato, che così si realizza, non è la salita di un ulteriore gradino, come nel progresso scientifico e tecnologico, ma una riorganizzazione o ristrutturazione dialettica della cultura data. Il primo giudizio critico, che situa l’opera d’arte nella cultura è quello dell’artista, ed ogni ulteriore giudizio non può che essere un giudizio su quel giudizio, sicché non può esservi differenza tra la critica o la storia dell’arte e la critica o la storia della critica. Perciò appunto il Venturi ha concepito Il gusto dei primitivi come una storia delle idee sull’arte, e lo ha annunciato dome il primo di una serie di volumi dedicati alla “critica della critica”. Sembrava doversi dedurre che, per il Venturi, i primitivi fossero artisti per i quali l’atto creativo e immediato o spontaneo, senza bisogno di superare una difficoltà culturale o un impedimento intellettualistico; ma perché allora parlare di un “gusto dei primitivi”? il Venturi si proponeva di dimostrare che quei concetti erano profondamente radicati nella cultura; e poiché questa, essendo essenzialmente una teologica era assolutamente unitaria e di questa unità l’arte era parte integrante, non si poneva all’artista l’esigenza di superarla e, meno che mai, di contrapporre la ritrova in ognuno dei grandi artisti, anche se non appartenenti a quel periodo storico ch’è noto sotto il nome di classico. Se invece con la parola “classico” noi cerchiamo di definire il gusto degli antichi greci e romani in antitesi al gusto di altre epoche storiche allora noi non diamo, o non dobbiamo dare, alla definizione nessun carattere valutativo, ma semplicemente un carattere indicativo o descrittivo che dir si voglia. Ciò non toglie che la confusione tra i due significati della stessa parola “classico” abbia luogo in pratica molto più spesso di quanto si creda. L’imponenza dell’arte antica, il fatto che i primi che ci abbiano tramandato ragionamenti sull’arte sono stati gli antichi greci e romani, l’influsso infine che sul nostro pensiero in generale esercita la civiltà antica, tutto ciò porta a identificare il valore universale di “classico” con l’arte dei greci e dei romani, onde si suol dire tuttora che la forma (quella dei greci) è in arte il sostantivo, e che il colore è soltanto l’aggettivo. Se si crede che gli artisti greci e romani abbiano raggiunta “la” perfezione dell’arte, si disconosce il valore della personalità in arte, e si incoraggia l’artista a trascurare l’espressione di se medesimo per pigliare a prestito dai gessi delle scuole e dai marmi dei musei la maschera dell’antichità: allora l’artista muore. Accade qualcosa di simile a proposito del “realismo”. La personalità dell’artista deve essere salvata dai modelli della tradizione, l’opera d’arte è sempre una creazione originale e non è mai copia. In questo senso ogni opera d’arte è opera realistica. Nessuno infatti ha mai saputo indicare il modello di una Madonna di Cimabue, che pure non è considerato un pittore realista. Se dunque “realismo” significa “non imitazione”, esso è una nuova condizione dell’opera d’arte; e come si dice che ogni vera opera d’arte è classica, così si deve dire che ogni vera opera d’arte è realistica. Ma se invece per realismo s’intende la prevalenza della imitazione della natura sulla trasformazione fantastica dell’oggetto rappresentato, allora si indicano con nome di realisti certi artisti o certe scuole che si sono distinti per la importanza assegnata allo studio della natura esteriore di fronte alla organizzazione dello stile. La differenza in tal caso consiste nel processo e non nel risultato. Per uno dei due processi l’indicazione di “realista” ha dunque significato storico e non filosofico, qualifica e non valuta. Se non che anche a proposito di “realismo” le confusioni non sono infrequenti, anzi accade spesso di udire anatemi scagliati contro lo stile, contro l’ideale, contro il classicismo, e invocazioni all’imitazione della natura, come alla perenne fonte dell’arte. né si accorgono costoro che “reale” non si oppone a “classico”, così come non si oppone ad “ideale”, perché ogni opera d’arte è insieme reale e classica e ideale. Mentre, qualora reale si opponga a classico, e realismo divenga anticlassicismo, allora esso perde ogni significato universale, e ne acquista uno ben precisato, particolare e storico, che serve a indicare, a qualificare, a descrivere, ma non a valutare. Per intendere i primitivi non basta di essersi liberati dai due pregiudizi di classicismo e di realismo, occorre rifiutarne un altro che è derivato dai due suddetti: la preminenza della forma. Anche la parola “forma” assume due significati ben distinti. L’uno è filosofico: il concetto di forma si oppone al concetto di contenuto, onde si può dire, senza pericolo di essere fraintesi, che la forma in arte assorbe in sé il contenuto. Ma nella critica delle arti figurative si adopera spesso “forma” in senso di “forma plastica” e in opposizione a “colorito”: e non è a tutti evidente, come dovrebbe, che tanto forma plastica quanto colorito sono tutti e due forma in senso filosofico. Sostenere la preminenza o la priorità artistica della forma plastica in arte è un non senso. Parimente è vero che la forma plastica è più conoscibile della ragione, più studiabile scientificamente, più misurabile, mentre il colorito è più l’oggetto della sensibilità, meno dimostrabile, meno teorizzabile; ma proprio in quanto la forma plastica è elemento di arte e non di scienza, di intuizione dunque e non di ragione, la sua “nobiltà” scientifica non le vale proprio nulla nella considerazione dell’opera d’arte. Ecco indicare almeno tre condizioni per intendere i primitivi: porre sul medesimo piano l’arte classica e l’arte romantica, l’arte realistica e l’arte idealistica, la forma e il colore. sono tre condizioni necessarie, ma negative. Ad esse bisogna aggiungere una condizione positiva: il riconoscimento della “rivelazione” nel processo creativo dell’opera d’arte. Quando si dice che l’arte è un colloquio tra l’uomo e Dio oppure che è un desiderio di Dio, un’aspirazione a Dio, si vuole indicare il rapporto, creato dall’arte, tra l’individuo e l’universale. Ma non mi pare che la critica abbia l’abitudine di considerare con sufficiente chiarezza quel processo attraverso il quale si giunge appunto all’universale. L’artista suppone sempre di avere davanti a sé un oggetto da rappresentare, e non chiama mai l’opera sua una creazione: quando la chiama così, egli non è un artista, perché ha sostituito la superbia dello scienziato alla umiltà dell’artista. Il vero artista crede di copiare: copierà la natura se si crede realista, copierà il modello o l’idea se si crede idealista, ma crede di copiare, sempre. L’artista saprà dare conto dei “mezzi” adoperati per la sua estrinsecazione, della sua tecnica. Ma quando dai mezzi passerà al processo artistico autentico, cioè alla sua unione col “modello”, scompariranno subito i concetti empirici che lo avranno fino allora sorretto, non rimarrà se non l’esaltamento, e da critico o pseudocritico egli diventerà il poeta che vi parlerà di ispirazione divina. Ora è evidente l’analogia che quell’atteggiamento ha con il processo mistico. L’estasi è una uscita fuori di sé, una esaltazione al di sopra della vita normale, al di là di ogni conoscenza finita, che assomma ogni impressione d’infinito, che assorbe il singolo nell’universale, che realizza nella coscienza del singolo la presenza di Dio. Se la “forma” di Dio riceve i contorni imposti da una religione costituita, vuol dire che la ragione si è assunta la funzione di guida, e si è proposto uno scopo conoscitivo, morale e sociale. Ma se l’animo si eleva alla intuizione di Dio, al di fuori delle forme fissate dalle religioni costituite, l’effetto della intuizione di Dio non ha più carattere razionale, morale, sociale, ma ha carattere artistico: la visione non più ineffabile diviene espressa sotto l’azione della fantasia creatrice, e il tormento religioso si rasserena nell’opera d’arte. Leonardo credeva di trarre le sue immagini dalle macchie che vedeva sui muri, non certo attraverso le sue acute analisi scientifiche, ma in seguito al libero dispiegarsi della sua fantasia. Così ogni artista trae le sue immagini dalle ombre della sua coscienza, come luci dalle tenebre, e chiama le luci immagini di Dio. Non si tratta cioè di adoperare l’arte per la conoscenza della divinità, di subordinare l’arte a uno scopo di conoscenza arazionale, di condurre l’arte al misticismo. Si vuole invece riconoscere la funzione del misticismo nella creazione dell’opera d’arte. La conseguenza critica di una tale constatazione è che i due strumenti più alla mano tra quelli che esistono per controllare la realtà effettiva di un’opera d’arte non bastano più al loro scopo. Noi ammettiamo generalmente che una pittura sia “reale” quando abbia un rapporto con le nostre esperienze sulla natura oppure con la “idealizzazione” della natura compiuta dalla tradizione degli antichi greci e dei cinquecentisti italiani. Ma un controllo di questo genere è in opposizione assoluta con il processo mistico dell’opera d’arte. Infatti, se teoricamente quel processo è comune a tutti gli artisti e a tutte le opere d’arte che siano veramente tali, storicamente non è dubbio che alcuni artisti e alcuni periodi storici abbiano dato a quel processo una importanza maggiore di altri. Anzi i greci antichi, i cinquecentisti italiani, e in genere i pittori chiamati “storicamente” realisti, hanno dato al processo mistico una importanza minore dei pittori, per esempio, italiani del Trecento. E cioè la presenza di Dio, dell’universalità, della realtà spirituale assoluta, è stata sentita dai trecentisti in elementi in cui i “classici” e i “realisti” non l’hanno sentita. E non l’hanno sentita, non perché siano stati più sapienti, ma perché hanno avuto meno afflato mistico. Osserviamo una montagna di Giotto e una montagna di Tiziano. La loro differenza non è soltanto di personalità artistica. Infatti, la montagna di Tiziano è individuata di fronte e Tiziano e di fronte alla natura: ci pare di averla incontrata più volte e, se l’incontrassimo di nuovo, subito la riconosceremmo. Invece la montagna di Giotto è certo individuata di fronte a Giotto, e perciò è opera d’arte, ma non è appunto individuata di fronte alla natura: non l’abbiamo mai riconosciuta in natura, e non la riconosceremo mai. La montagna di Giotto è molto più semplice, la sua unità è più rigorosa e assoluta, la sua vita spirituale è più immediata e penetrante, anche se meno complessa. Unità, semplicità, immediatezza sono sinonimi della presenza di Dio, che è diretta in Giotto e indiretta in Tiziano. I primitivi giungono a Dio direttamente per rivelazione; e non si possono intendere senza riconoscere il diritto della rivelazione in arte. il controllo che le esperienze classica e realista assegnano alla critica non serve dunque per i primitivi. La condizione positiva per capire i primitivi è il riconoscimento del processo mistico come fonte di rivelazione. Questo libro è scritto per recare all’attuale critica d’arte il contributo di una esperienza della “rivelazione” in arte. Non cerca ciò che individua gli artisti, cerca ciò che li accomuna, non la loro arte, ma il loro gusto. Per evitare equivoci, dichiaro che intendo per gusto l’insieme delle preferenze nel mondo dell’arte da parte di un artista o di un gruppo di artisti. La preferenza per la “rivelazione” e per tutte le sue innumerevoli conseguenze accomuna molti artisti che non sono né classici (greci e romani, italiano del Cinquecento) né romantici (in senso proprio, cioè alcuni artisti dell’Ottocento). L’attenzione del lettore sarà richiamata su due gruppi diversi di opere. L’uno comprende l’arte dei “primitivi” italiani, dei pittori cioè che vissero dal Duecento alla fine del Quattrocento, tra Cimabue e Botticelli. L’opera dei primitivi italiani può essere considerata come una delle altezze maggiori cui sia giunta la fantasia umana condotta da un afflato divino. inducono a giudicare l’arte del presente con la misura dell’arte del passato, e quindi a disconoscere ciò che vi è di originale e di autentico nella creazione contemporanea, o peggio a confondere l’imitazione di schemi tradizionali con la creazione. È l’esperienza dell’arte attuale che insegna a vedere l’arte del passato, e non viceversa, che riassume in sé e giustifica l’esperienza dell’arte passata. Conferma di ciò ci viene dal Winckelmann e dallo Hegel che proprio per aver basato l’interpretazione dell’arte sulla preminenza assoluta dell’arte greca hanno finito per fraintendere sia l’arte gotica sia quella moderna. Chi si pone di fronte a un’opera d’arte contemporanea deve esercitare il suo acume critico per scegliere, e per rifiutare, per rivivere gli slanci dell’immaginazione creatrice, e scoprire le combinazione intellettualistiche, i trucchi che vogliono farsi passare per arte. Poiché l’animo dell’artista si esprime, non per mezzo di forme e colori, ma nelle forme e nei colori, la critica del nostro secolo ha dato particolare risalto allo studio dei modi seguiti nel trattare forme e colori. In modo parallelo all’arte moderna, anche la critica ha cioè saputo escludere dai valori dell’arte quelli che erano dovuti soltanto all’associazione con la nostra esperienza della realtà, senza che quella esperienza fosse mediata e tutta trasformata in valori di forme e colori. La creatività di forme e colori è l’unico diapason per giudicare l’arte, ma la creatività non è isolata né isolabile dalla vita dell’uomo. Da qui le esigenze morali e religiose dell’opera d’arte, le quali non consistono nella pretesa che l’arte insegni la morale e la religione, ma nella necessità che l’atteggiamento dell’artista verso la sua stessa creatività sia pervaso di serietà morale e di aspirazioni all’infinito e all’universale. L’immaginazione non si esaurisce nella creatività, ma partecipa aderendo o ribellandosi alla vita della propria epoca. Perciò l’arte trascende la storia e nello stesso tempo partecipa alla storia. La storia critica dell’arte si distingue dalla storia dell’arte tradizionale per un’enfasi maggiore assegnata alla sua funzione critica. il centro della sua attenzione è la personalità dell’artista che si distingue dalla personalità dell’uomo perché è colta nel momento in cui l’immaginazione creatrice dell’uomo si attua nelle forme e nei colori. Lionello Venturi – La mia prospettiva estetica Le esigenze della critica attuale Come critico d’arte posso portare alla riflessione estetica la mia esperienza artistica e presentare ai colleghi qualche tentativo di sistemazione del pensiero. Vi sono libri di estetica che mostrano l’equilibrio delle forze, esperienza artistica e sistemazione di pensiero, per esempio la Poetica di Aristotele. Altri invece ne mancano, per esempio l’Estetica di Hegel. La concezione di arte come imitazione della natura fu definitivamente cancellata e sostituita dal concetto della espressione di un ideale. Ma per l’influsso del Winckelmann questi andò a cercare l’unica perfezione dell’arte nella scultura greca e a profetizzare la lenta fine dell’arte moderna. Purtroppo, anche l’estetica posteriore non si è mai liberata definitivamente dalle origini neo- classiche. La scultura greca era ammirata soprattutto nelle copie degli antichi capolavori e cioè in opere di valore pratico, tecnico e non artistico. L’arte del Rinascimento era altamente apprezzata. Il Barocco era disprezzato e il Medio Evo era un libro chiuso per il pregiudizio della sua barbarie. L’arte contemporanea era poi considerata con benevolenza se neo-classica o romantica temperata. Attraverso le avventure del realismo, impressionismo, simbolismo, fauvismo, i pittori hanno saputo creare una serie di indiscutibili capolavori. E l’arte moderna ha riscoperto valori dimenticati o ignorati dell’arte passata. Bastano forse questi accenni per intendere la nuova esigenza estetica che la mondiale esperienza artistica odierna impone. Sino a che si credeva che l’arte nei suoi aspetti migliori fosse connessa con una o due o quattro civiltà, era naturale che ci cercasse un appoggio alle proprie idee sull’arte nelle civiltà che si credevano le migliori, o classiche. Oggi il problema è opposto: poiché in ogni tempo e in tanti luoghi sono sorti artisti di prima grandezza, il pensiero deve isolare l’attività propriamente artistica da ogni interferenze dell’una e dell’altra civiltà. È vero che l’estetica moderna ha liberato l’arte dai limiti dell’artigianato, sottolineando il carattere spirituale del processo creativo dell’opera d’arte. Ma sia l’estetica, sia la critica letteraria hanno insistito sul carattere di completezza, di continuità. È noto oggi a tutti che i disegni di Leonardo hanno un potenziale creativo così eccezionale che si cercherebbe invano nelle sue opere finite. Si deve per questo togliere Leonardo dal novero degli artisti massimi e continuare a piangere, come si è fatto sin dal tempo di Vasari, perché non abbia compiuto un maggior numero di opere? L’esperienza dell’arte moderna ci dice che lo schizzo improvviso e quindi il non finito, e quindi il frammento, possono contenere in sé la totalità dell’arte, anzi possedere certe qualità artistiche che mancano nel capolavoro classico, compiuto. Sono dunque due le esigenze della critica odierna: il riconoscimento dell’arte in opera di qualsiasi luogo e tempo, qualunque sia il grado di civiltà donde sorgono; e la concentrazione dell’apprezzamento nell’attimo creativo qualunque sia il lavoro che l’accompagni. Il concetto di contenuto Nella teoria estetica di Benedetto Croce si possono trovare le giustificazioni di tali esigenze. Ma se dal piano teorico si passa al giudizio concreto, ci si accorge subito che non ci si intende più. Quando nel lontano 1917 pubblicai il mio primo saggio sulle idee degli artisti del Rinascimento, il Croce fu pieno di benevolo incoraggiamento; incoraggiamento che egli dispensò a chiunque si ponesse per quella via. Nel 1951 tenni una conferenza ai Lincei sulle Premesse teoriche dell’arte moderna ed esposi appunto le idee del Bergson, del Freud ecc., che hanno condizionato le varie tendenze dell’arte moderna. Il Croce si arrabbiò e disse che quelle idee erano tutte sciocchezze. È evidente che il giudizio del Croce non è stato libero, ma imposto dalla sua convinzione che tutto ciò che si produce oggi di extra-umanistico, vale a dire tutta l’arte moderna, sia da buttar via. Per trovare dunque giustificazione teorica delle esigenze critiche, non è necessario modificare i concetti fondamentali dell’estetica crociana, quanto interpretarli in un modo diverso da quello del loro autore. Per esempio, l’unità di forma e contenuto è una qualità essenziale di ogni opera d’arte, che richiede la precisazione del concetto di forma e del concetto di contenuto. Per molto tempo il Croce ha definito l’arte come espressione del sentimento. Ma di recente (1947) egli ha incluso tra le forme dello spirito la vita stessa, cui tutte le altre forme partecipano e che le contiene tutte indistinte. Ciò ha grande importanza per la concezione estetica, poiché la vita o vitalità è l’eterno e universale contenuto dell’opera d0arte. assegnare all’arte come contenuto la vita significa togliere all’arte qualsiasi limitazione e ridarle tutte le possibili libertà di cui è ghiotta. Supponiamo due pittori che rappresentino ambedue la Madonna col Bambino, e l’uno idoleggi il proprio figlio e la donna del suo cuore, e l’altro si dedichi devotamente a illustrare l’idea di Dio e di sua Madre. Ambedue i pittori dipingono il medesimo soggetto, ma i contenuti delle due opere sono ben diversi, l’un pittore contempla ciò che di più vicino e intimo abbia su questa terra e l’altro sogna il mondo invisibile dell’al di là. Nel secondo caso il soggetto ha una corrispondenza con contenuto, ma nel primo no. Il soggetto è ciò che l’artista rappresenta, ma perché esso sia anche il come l’artista lo rappresenti deve diventare contenuto. D’altra parte, supponiamo che un pittore rappresenti un albero. Ciò che noi chiamiamo un albero appartiene alla vita del mondo e gli scienziati lo studiano per classificarlo o per fissarne l’età. Ma il pittore non cura di conoscere l’albero scientificamente, si occupa solo della sua apparenze e crede di vedere nell’albero un carattere umano, di forza o di debolezza, di tranquillità o di tormento, di ricchezza o di miseria. Partecipa così alla vita dell’albero, la fa propria e la trasforma spiritualizzandola. I pretesti per dipingere sono, come è noto, assai vari, comprendendo tutte le cose che si dicono naturali ed umane, e tutto quello che non appartiene alla natura, non solo le deità invisibili, ma anche altre deità che l’uomo stesso si forgia, come le figure geometriche, o proporzioni. Ed è proprio la passione per l’astrazione, il vagheggiamento dell’essenza, che costituisce il contenuto dell’arte dei cubisti e dei loro derivati. La tradizione e il gusto Il processo di elaborazione per realizzare la forma è molto vario e si svolge non solo a seconda della individuale fantasia dell’artista, ma anche a seconda della civiltà in cui l’artista vive. C’è dunque un momento nel processo della creazione quando l’artista adopera gli elementi offertigli dalla civiltà in cui vive. L’insieme degli elementi, dottrine e tecniche, fra cui l’artista deve scegliere, si chiama tradizione. L’artista sceglie dunque nella sua tradizione. Come sceglie? Con un giudizio di valore: crede migliore questo o quell’elemento e sceglie quello che crede migliore per la sua opera, il più adatto al suo contenuto, al suo temperamento. Un giudizio di valore che promuove l’attività artistica corrisponde assai bene al giudizio di gusto come era concepito da Kant. I continuatori degli impressionisti furono i simbolisti. Lo stesso Monet dopo il 1885 disperde ogni realtà in una visione molecolare della luce, assunta come simbolo del mondo. La rivoluzione impressionistica non era basata su alcuna precisa dottrina, ma su una spontanea intuizione dello stile. Se non che il bisogno di teoria si fece sentire. Cezanne si staccò dagli amici per concentrarsi e non più esporre sino a che non potesse giustificare teoricamente il suo modo di dipingere. Seurat immaginò ragioni scientifiche per giustificare il suo uso del colore e formulò astrazione psico- fisiche per il suo uso delle linee, simboli di stati d’animo. Gauguin e Van Gogh si staccarono deliberatamente dalla realtà, per cercare dentro di loro ciò che non trovavano più all’esterno. Intanto nuove fonti di pensiero indirizzavano gli spiriti in generale e gli artisti in specie. La critica delle scienza per opera di Boutroux distruggeva la pretesa positivistica di interpretare la vita morale con i principi della vita fisica. Ed ecco Henri Bergson a modificare il concetto di spazio. Sin da quando i fiorentini del Quattrocento ebbero inventato la prospettiva, e sino al 1890 circa, lo spazio era stato veduto, sentito e pensato come una realtà obiettiva, e gli artisti vi aveva ordinato le loro composizioni come se la loro fantasia vi trovasse l’ancora più sicura. Il Bergson ridusse lo spazio al tempo, cioè considerando la durata, la continuità temporale, come la forma della coscienza, vide nello spazio soltanto una proiezione esteriore della durata. È certo impressionante il fatto che verso il 1890 Cezanne, il quale probabilmente non lesse mai Bergson, cominciò a moltiplicare i punti di vista nella rappresentazione di oggetti nello spazio, proprio come se si fosse accorto che la coscienza deve giustapporre degli stati successivi per poterli sintetizzare. Ma cercate di immaginare un’applicazione rigorosa del modo di Cezanne e del sistema di Bergson. Abolita la prospettiva e quindi gli scorci, ciascun oggetto nello spazio sarà rappresentato per se stesso, e giustapposto ad altri oggetti perché la coscienza senta la loro unità della durata. Suppongo che vi rendiate conto che vi sto descrivendo un quado cubista. Infatti, i cubisti, come ci assicura il loro primo banditore, Guillaume Apollinaire, iniziarono il loro modo pittorico rifiutando la rappresentazione della realtà per raggiungere la rivelazione della verità, cioè dell’essenza della realtà. I cubisti erano stati preceduti dai “fauves” nell’avventura della ricerca dell’essenza. Questi si contentarono di partire dai principi do Gauguin e Van Gogh, secondo i quali occorreva usare i colori arbitrariamente per esprimersi intensamente. E infatti i fauves, si esaltarono per i colori puri, e sacrificarono ad essi la rappresentazione. Ma il colore non poteva colpire l’immaginazione come una forma plastica astratta. E perciò il cubismo prese presto il sopravvento. Il cubismo non si era ancora stabilizzato quand’ecco giungere da Milano il futurismo. Secondo la teorica ufficiale di Umberto Boccioni la pittura futurista contiene tre nuove concezioni: i volumi dell’oggetto per non perdersi nella liquefazione impressionistica, la linea-forza che imprima energia ai volumi e anche un ambiente emotivo. Se il primo punto era già stato realizzato dal cubismo, il secondo, la linea-forza, era un’effettiva novità rispetto al cubismo. Quanto alla terza istanza del futurismo, di un ambiente emotivo, il discorse deve essere più lungo. Il cubismo aveva ristabilito una esigenza strutturale per la composizione pittorica, che il realismo aveva smarrito, e cioè una coscienza di stile. Nelle intenzioni dei fondatori del cubismo c’era un’affermazione dello spirito in opposizione alla natura. Ma ci si avvide ben presto che il processo puramente intellettuale non era sufficiente a creare opere d’arte. Marc Chagall trovò che il cubismo era troppo realista. Voleva dire che si occupava di paini e di volumi, cioè di cose fisiche, anziché di gioie e di colori, della vita del sentimento. Nel frattempo, si espandeva imponendosi all’attenzione internazionale la filosofia di Benedetto Croce. A un pittore la filosofia del Croce suggeriva che non era affatto necessario di trasformare o dissecare per spiritualizzare il reale, ch’era necessario e sufficiente di sentire tutto il reale come vita dello spirito. Non credo che il fondatore della pittura metafisica, Giorgio de Chirico, né il suo teorico, Carlo Carrà, siano ortodossi rispetto alla filosofia del Croce. Certo è che essi hanno attribuito agli oggetti naturali comuni, per mezzo dell’associazione con altri oggetti e della composizione, un significato fantastico che partecipa della vita dello spirito. Ma se alla metafisica idealista si sostituisce quella della psicofisica, e alla filosofia dello spirito la psicanalisi del Freud, il risultato in pittura è il surrealismo. I surrealisti hanno preteso di adoperare la pittura per una ricerca scientifica, a fine di scoprire l’attività intellettuale. Il risultato è stato l’esercizio di rievocazioni erotiche dove il completo disinteresse per la forma ha distrutto alla radice la creazione dell’artista. Maggiore vitalità ha dimostrato la corrente formalistica. Arte formalistica o arte astratta sono sinonimi. Quest’arte ha avuto negli ultimi trenta anni una tale diffusione nel mondo, che occorre cercare quali ne possano essere le premesse teoriche. occorre qui riflettere a quali condizioni il formalismo assoluto possa essere arte. È toccato a Piet Mondrian d’immaginare la pittura dell’astratto assoluto, con un rigore tale che sembra abbia distrutto nelle sue pitture ogni vitalità e quindi ogni arte. Eppure, le sue teorie sono assai interessanti, come sono interessanti tutte le utopie, tutti i sogni dell’assoluto. “Man mano io esclusi dalla mia pittura tutte le linee curve finché alla fine le mie composizioni consistettero solamente di linee verticali e orizzontali che formavano incroci ciascuno separato e staccato dall’altro… Nel medesimo tempo io fui pienamente convinto che l’espansione visibile della natura è nello stesso tempo la sua limitazione. Linee verticali e orizzontali sono l’espressione di due forze contrapponentisi che esistono dovunque e dominano qualunque cosa. La loro azione reciproca costituisce la vita”. “L’arte astratta è la più pura espressione plastica del nuovo realismo. Essa è conscia dell’importanza di una manifestazione obiettiva. È conscia del fatto che la realtà rivela se stessa con forme sostanziali palpabili, accumulate o disperse in spazio vuoto. È conscia che queste forme sono parte di questo spazio, e che lo spazio tra esse appare come forma, fatto che rende evidente l’unità di forma e spazio. Quindi è importante che le forme siano astratte categorie e che ogni categoria abbia la sua particolare espressione”. È impossibile leggere Piet Mondrian senza avere la sensazione ch’egli parli di qualcosa che non ha rapporto con la pittura tradizionale, di una disciplina di nuovo tipo che formi in senso teorico un ponte tra pittura e architettura, di una specie di architettura ideale e sia in realtà una teoria estetica dell’architettura. Infatti, gli architetti moderni si sono ispirati ai pittori e agli scultori come a teorici dai quali hanno tratto motivi di realizzazioni architettoniche. Ma le premesse teoriche dell’architettura moderna sono molto più complesse che l’ispirazione ai pittori. Non è casuale che ragioni sociali abbiano avuto per l’architettura moderna un’importanza che non potevano avere per la pittura e la scultura. Infatti, l’architettura non può essere una cosa privata, è legato a certi bisogni pubblici, anche se, come arte, non dipende da essi, e quindi assume una responsabilità sociale che le altre arti non hanno. Alle origini sociali dell’architettura moderna stanno la trasformazione dell’industria e l’enorme sviluppo delle città negli ultimi ottanta anni. onde nuove esigenze e il dovere di nuove risposte. Come avviene a nuove esigenze la prima reazione è il contrasto. Ruskin e Morris furono i primi campioni del rinnovamento del gusto, liberato dalla ornamentazione convenzionale e meccanica, per mezzo di un ritorno all’artigianato medievale e al modo di sentire dei primitivi, cioè di coloro che erano diretti nella vita dalla religione anziché dalla scienza. Tutti i ritorni falliscono, e così fallì anche la crociata di Ruskin e Morris. Ma qualcosa del loro insegnamento sopravvisse. L’oggetto artistico doveva essere tale in funzione del suo uso. E se il vago misticismo senza Dio e l’accento portato sulla decorazione, anzi che sulla costruzione, hanno infirmato i tentativi rinnovatori del cosiddetto Ant Nouveau, anche questo stile effimero ebbe la sua importanza come contributo alla critica di tradizioni convenzionali e ormai morte. L’architettura moderna doveva rispondere a nuove esigenze sociali, morali e tecniche, ma è chiaro che doveva trarre dalla fantasia degli architetti, e non esigenze stesse, la forma che le compete. Invece gli architetti profittarono del cubismo, del futurismo e persino, per quanto possa sembrare assurdo, dell’espressionismo per iniziare una nuova era architettonica. Ma nell’architettura la forma astratta dalla visione empirica della realtà dura dall’origine dei tempi. Se dunque gli architetti già usavano forme astratte che cosa potevano imparare dal cubismo? Evidentemente la nuova concezione dello spazio, non più unito e chiuso, ma vivente in una successione temporale di elementi per sé stanti. Lo spazio aperto nel tempo, una specie di forma aperta che si estende all’infinito, è appunto una caratteristica essenziale dell’architettura moderna. Ma nemmeno con questo si esauriscono le sue premesse teoriche. Ed è proprio nelle premesse teoriche che si trova la ragion prima della distinzione tra architettura “razionale” e architettura “organica”. L’architettura razionale, che si è sviluppata in Germania sotto la guida di Walter Gropius, è connessa con la filosofia dello Husserl. Perduta la fede in qualsiasi ideale di pretesa universale, i migliori Tedeschi acuirono la loro logica formidabile per intendere i fenomeni della realtà per se stessi e per dare una forma perfettamente adatta all’uso umano, senza alcuna pretesa ulteriore. L’architettura di Gropius è una tecnica che rivela una maniera di essere di evidente valore morale. Completamente diversa l’architettura organica dell’americano Frank Lloyd Wright. La differenza essenziale consiste nel rigore logico concentrato nella tecnica di Gropius, e nell’estensione passionale di Wright, che abbraccia il mondo con impeto religioso. passata e futura. E non si opponga l’opera potenziale all’opera realizzata e attuale, perché ogni tocco di Leonardo è una apparizione completa della sua arte. ivi Leonardo ha trovato la sua perfezione, perché ha rivelato il ritmo costante della sua personalità, il nucleo originale della sua creatività, e ha costituito una svolta nella storia dell’arte. Gli storici della letteratura italiana, quando considerano gli anni fatali che iniziarono il Cinquecento, orientano la loro trattazione su due cardini: Ariosto e Machiavelli. Ariosto, rappresentante ideale della poesie che ha contenuto la coscienza vivissima dell’arte e di null’altro, distratta dalla vita tragica dell’Italia del tempo. E il Machiavelli, che vive e soffre la tragedia del suo tempo, e con impeto poetico crea la prosa scientifica moderna a proposito della teoria politica, proiettata nell’avvenire per la disperazione di non poterla attuare di persona. Gli storici dell’arte figurativa non hanno pensato di cardinare il secolo XVI sue due tendenze così opposte e così precise della vita italiana. Eppure, essi sono facilmente discernibili. Non meno dell’Ariosto, Raffaello ha per coscienza soltanto il desiderio della bellezza, e galleggia sulle acque torbide del tempo. E non meno di Machiavelli, Leonardo da Vinci pone la sua fantasia artistica a servizio di molte scienze che dovrebbero dare potenza e ricchezza agli uomini, ma è costretto dall’anarchia del suo tempo a proiettare nel futuro le sue invenzioni, che saranno realizzate l’una dopo l’altra nei secoli. Si può ben dire che l’Italia intera fosse allora un profeta disarmato, come Machiavelli e Leonardo. Vivevano Ariosto e Raffaello, e rendevano eterno il loro tempo in nome dell’arte, almeno sino a quando alcuno vorrà sacrificare al culto della bellezza. Ma c’era un’altra Italia, che soffriva, che si dibatteva, che sapeva la propria civiltà essere la maggiore d’Europa, e poiché doveva subire l’umiliazione della forza, si dedicava all’avvenire, all’età moderna e preparava il pensiero di Bruno o i calcoli di Galileo. I suoi rappresentanti sono Leonardo e il Machiavelli. Leonardo e Machiavelli concordano nel loro atteggiamento verso Dio, tutto rispetto, ma accompagnato da una vena d’ironia verso coloro che ne trattano con troppa familiarità. E si affrettano a parlare d’altro per conoscere la realtà in modo obiettivo. Contro il fidarsi delle apparenze, il non tener fede alle certezze, contro la condotta illogica della vita e le follie del volgo Machiavelli e Leonardo scagliano il loro biasimo. Nel rifiuto di ogni trascendenza, nella sete di verità, anche a costo di lasciare insoluti i troppo alti problemi, nella determinazione degli errori del volgo e nel provvedere a evitarli, e infine soprattutto nella sete di libertà, come del maggior dono di natura, si nota dunque l’accordo di Leonardo e di Machiavelli. Per opere di Leonardo al principio del Cinquecento l’Italia offerse al mondo la teoria delle scienze fisiche e matematiche, basata sulla intuizione più che sul ragionamento. Con piena fede nel disegno come strumento massimo di conoscenza, Leonardo partì alla scoperta del mondo. E affermò più di tutti che l’arte era allora la guida della civiltà. Per vario tempo l’azione profetica di Leonardo non fu sentita nell’arte moderna. Il realismo cromatico e la grande maniera dei Veneziani ebbero dapprima il sopravvento. Poi, le statue antiche e Raffaello suscitarono il classicismo del Seicento e il neo-classicismo del Settecento. E infine l’evasione dal classicismo condusse alla decorazione barocca. Troppo tormentata, concentrato, penetrante in profondità, era stato il messaggio di Leonardo da Vinci perché fosse ascoltato prima del secolo XIX. E solo quando il Romanticismo risuscitò i tormenti dell’arte, i contrasti di pensiero e fantasia, e assegnò all’arte un compito di conoscenza, talvolta persino oltre il pensiero, solo allora ci si accorse che all’origine del tormento moderno per raggiungere con l’arte nuove conquiste spirituali, c’era il gran veggente solitario, Leonardo da Vinci. Lionello Venturi - Arte e Scienza in Toscana nel secolo XV Non è dubbio che i creatori del Rinascimento siano stati i Fiorentini prima e in genere i Toscani poi. Occorre infatti guardare a Firenze e al principio del secolo XV per capire il distacco dal passato, il salto verso l’avvenire, che si chiama Rinascimento. Lo scopo che gli artisti si prefiggevano era la conoscenza, e non avevano a disposizione un’estetica moderna per distinguere la conoscenza artistica e la conoscenza scientifica. Essi volevano conoscere l’uomo, il suo posto nella natura, e la natura attorniante, cioè volevano raggiungere una conoscenza scientifica del mondo. S’intende che non sarebbero stati i grandi artisti che furono se non avessero attuato una conoscenza artistica accanto a quella scientifica. Il fatto è che non sapevano della differenza, e che forse mai nella storia dell’arte, o soltanto nella Grecia di Fidia, arte e scienza furono connesse più intimamente. Filippo Brunelleschi ha compiuto opera essenzialmente di scienziato quando ha elevato la cupola di Santa Maria del Fiore. Ma quando ha immaginato l’interno di San Lorenzo ha adoperato dei principi prospettici, quindi scientifici, per un fine che è nello stesso tempo artistico e scientifico. Esso si oppone al gotico e precisamente al gotico fiorito. In una cattedrale gotica l’uomo fa parte della costruzione stessa. I contorni precisi, le forme geometriche, la mancanza di ogni ornamento in un interno brunelleschiano fanno sì che l’uomo che vi entra vi si sente isolato. Cioè l’uomo non è più confuso con la natura, è l’uomo di fronte alla natura. È palese che una simile concezione è nello stesso tempo una presa di posizione scientifica, ed è inserita in un alone di orgoglio e di coraggio, di fermezza e di fede nell’uomo. L’arte occidentale moderna s’inizia, si può ben dire, con la scoperta della prospettiva. La nuova visione fu il risultato nello stesso tempo della conoscenza prospettica della realtà e di una nuova coscienza morale. Fu uno slancio religioso che realizzò la fede nell’uomo e trasformò l’abbandono mistico nell’al di là in una concentrazione morale intima dell’uomo. Non fu dunque per indifferenza religiosa, ma per una nuova concezione religiosa, immanente all’uomo, che il Rinascimento iniziò la sua nuova vita. L’elaborazione dell’ideale artistico del Rinascimento fu opera di Brunelleschi e di Donatello durante tutta la loro vita. Ma per la pittura, questo ideale ebbe una apparizione improvvisa e definitiva per opera di Masaccio. Masaccio è l’artista completo di cui forma e colore, composizione ed espressione, hanno una coerenza e unità perfette. Piero della Francesca fa della forma regolare geometrica il suo ideale trascendente, la sua esperienza della realtà. Nell’affresco della Regina di Saba, conservato ad Arezzo, la prospettiva ha il suo punto di vista molto basso e, in conseguenza la visione si perde lontano, affinché le immagini si dispongano in primo piano dispiegando un’altezza paradossale. Il che significa andare al di là della verosimiglianza e dell’equilibrio di Masaccio per raggiungere una più grande libertà fantastica. Piero della Francesca dà alle sue immagini una tale monumentalità, una tale regolarità formale, che si sente non la loro rigidità, ma il loro peso e la loro statica, come se ciascuna immagine fosse una architettura. La plastica di Piero della Francesca è molto forte, più sintetica e più astratta di quella di Masaccio. Questi la realizzava con il chiaroscuro, Piero la esprime per mezzo di zone di colore chiare e oscure. Ciò significa ch’egli raggiunge la sua plastica con dei contrasti di colore. Nel XV secolo a Firenze i pittori si sono avvicinati al punto di coincidenza fra l’arte e la scienza più forse che in ogni altra epoca. Piero sviluppò le conoscenze scientifiche al massimo, ma sviluppò anche la sua libera immaginazione; egli è un punto d’arrivo dell’immaginazione creatrice di verità. Tutti i problemi che il Rinascimento fiorentino aveva posto dopo l’inizio del secolo sembrano risolti da Piero della Francesca, e anche superati con una certa grazia trascendente che i Fiorentini puri non conoscevano. Non si poteva superare Piero, bisognava dopo di lui tracciarsi un diverso cammino. Egli era ancora vivo, e già a Firenze si manifestavano le nuove tendenze, rappresentate soprattutto da Antonio del Pollaiolo che fondò un nuovo gusto. Vibrazione e movimento sono essenziali all’arte del Pollaiolo. Egli è troppo radicato nella tradizione perché il movimento delle sue immagini rappresenti l’azione: esse assumono delle pose in funzione di movimento. Fra le differenti maniere di realizzare il movimento, Pollaiolo ha scelto la linea. È il suo contorno che con contrasti e interruzioni entra nei corpi, li scuote, li lancia nello spazio. Da Masaccio a Piero della Francesca la linea aveva perduto il suo ufficio nella pittura: il rilievo l’aveva soppiantata. Se la forma umana non è presentata secondo il suo volume, ma secondo il contorno, l’attenzione si fissa di più sui dettagli, sui centri, sui rapporti delle parti del corpo. Ciò significa che diviene necessario il bisogno di uno studio più diligente dell’anatomia. Pollaiolo è stato un gran conoscitore dell’anatomia. È per lui che la pittura fiorentina, che si era distinta per la prospettiva nella prima metà del XV secolo, si distingue per l’anatomia nella seconda metà del secolo. della sua opera che più scopertamente dipendono da interessi culturali e pratici, ma l'esperienza insegna che la personalità artistica è spesso molto diversa dalla personalità pratica. Per spiegare il passaggio dalla questione della personalità alla questione della cultura, è necessario ricordare che, proprio in quegli anni, il Venturi cercava ansiosamente di ragguagliare all'estetica idealistica alcune teorie dell'arte, dette della “visibilità”. Queste teorie erano state ironizzate dal Croce. Infine, come distinguere la personalità, la cultura autentica, dalla personalità, dalla cultura non- autentica? È valida la tura che viene totalmente investita nel fare artistico, la visione che si con creta in forme, linee, piani, colori : non è valida (o, almeno, non è ugualmente valida) la cultura che rimane « separabile » dalla concretezza formale l'opera d'arte. Si riapre allora, come problema interno alla personalità artistica e non come elemento biografico, la questione morale. Nel '25, quando già preparava II gusto dei primitivi, il Venturi suggellò con un saggio di poche pagine una lunga ricerca, che aveva dato ottimi frutti, sul Caravaggio : un'altra personalità d'eccezione, un altro artista «contro corrente», addirittura un ribelle. Il motivo dominante è chiaro: Caravaggio non è affatto il « realista » incolto, che sgombra d'un tratto pregiudizi, e guarda la realtà con occhi lavati ; è un artista portatore d'una nuova cultura, che ha le sue profonde motivazioni storiche. Per quella nuova cultura lotta con accanimento, fino a mettersi in contrasto con una società gelosa dei suoi valori tradizionali. Il gusto dei primitivi ha appunto lo scopo di fondare un senso morale la “personalità” dell’artista. Si rimproverò al Venturi una improvvisa quanto conversione verso motivi e atteggiamenti che si ritenevano ormai mente superati, come le tendenze misticizzanti del primo Romanticismo poi, del Ruskin ; ma temo che la vera cagione della levata di scudi t'altra, e precisamente la recisa condanna del « richiamo all'ordine classico » allora in voga, e la pacifica ammissione di alcune opere d'arte moderne sullo stesso livello di valore della- grande arte antica. Sul piano teorico, la novità più scandalosa era la definizione, come si diceva allora, di due nuove categorie: la «rivelazione» e il «gusto». Il Venturi aveva riaffermato la necessità di fondare il giudizio sui valori della visione, ma aveva aggiunto che, perché si dia arte, occorre che la « visione divenga contemplazione », e cioè si passi dall'osservazione e annotazione del particolare all'intuizione dell'universale. Ma, una volta posto il problema in termini storici, non si poteva più non riconoscere che il concetto di contemplazione o quello di rivelazione non si potevano separare dal contenuto e dalla funzione religiosi che sono stati, per secoli, il contenuto e la funzione dominanti dell'arte figurativa. Sul problema generale della religiosità dell'arte, il Venturi è esplicito: « Se la ' forma' di Dio riceve i contorni imposti da una religione costituita, vuol dire che la ragione si è assunta la funzione di guida, e si è proposto uno scopo conoscitivo, morale o sociale. Ma se l'animo si eleva all'intuizione di Dio, al di fuori delle forme fissate dalle religioni costituite e col potere di liberarsi dal tipo di visione 'ineffabile', perché non comunicabile, non determinabile dalla co scienza, oscura, confusa e torbida, allora la purificazione dal tormento fisico e morale, l'immagine chiara che succede al sogno angoscioso, il mondo reale che succede al mondo immaginario, l'effetto insomma dell'intuizione di Dio non ha più carattere razionale, morale, sociale, ma ha carattere artistico. La religiosità veniva così riproposta, fuor d'ogni conformismo dommatico, come esigenza e attitudine fondamentali dello spirito umano : più ancora, veniva coraggiosamente rivendicata come ideale squisitamente “laico”. Il « gusto » non era un concetto nuovo nella critica d'arte : i teorici inglesi del Settecento chiamavano gusto (taste) la capacità di scegliere il meglio, così nell'arte che nella natura, mediante un giudizio, non logico ma pratico. Il Venturi intende per « gusto » l'insieme delle preferenze dell'artista nel mondo dell'arte : così Raffaello ha il « gusto » della forma plastica, Leonardo dello «sfumato», Tiziano del colore tonale. Il «gusto» dei primitivi è il gusto della rivelazione. In altri termini, per gli artisti dei periodi classici, il contatto con l'universale o la- contemplazione avviene attraverso la mediazione della natura. Per i primitivi, quel contatto è diretto e l'espressione formale si realizza in un fare che non imita o ripete il farsi della natura. La conseguenza, che il Venturi ne deduce sul piano storico, è rigorosa mente logica: nell'arte di alcuni artisti contemporanei, per esempio degli Impressionisti francesi, i valori fondamentali della visione riappaiono allo stato puro, con una nitidezza e immediatezza che legittimano il raffronto ai primitivi. Per ricostruire con maggiore chiarezza questo percorso il Venturi affrontò l’impresa di una Storia della critica d’arte. La trattazione del Venturi, benché concisa, abbraccia la storia del pensiero estetico, le teorie dell'arte, tati, le storie, le testimonianze e le dichiarazioni degli artisti. Lo scopo è infine, di radunare tutte le idee che, comunque enunciate, risentono l'esperienza dei fatti artistici e condizionano il loro prodursi; di delimitare l'area culturale nella quale i fatti artistici si determinano ed esercitano loro influenza; di determinare i modi e i processi per mezzo dei quali il necessario rapporto tra l'arte e il mondo storico. Naturalmente, sempre il concetto di gusto, il pensiero della cultura che si investe rare artistico e realizza in esso il suo momento veramente creativo. Ora il Venturi è giunto ad una conclusione essenziale : ha per così dire, l'onnipresenza della critica: nella teoresi estetica, che si costruisce sull'esperienza dell'arte; nei processi di valutazione, che ricostruiscono criticamente il processo dell'artista; in questo processo infine non è che un succedersi di giudizi o di scelte. Le tristi vicende d'Italia l'avevano intanto costretto, per aver ricusato di giurare fedeltà al fascismo, ad abbandonare la cattedra universitaria (la prima, in Italia, dalla quale si parlasse d'arte moderna) e a riparare prima a Parigi e poi a New York. L'interesse del Venturi si sposta ormai decisamente verso la pittura dell'Otto cento e contemporanea. È tra i primi a farne oggetto, non solo di appassionata difesa, ma di approfondita ricerca storica e filologica. Nell’ambito della nuova cultura, il Venturi vuole isolare e definire sono le singole personalità: e non più per il “culto della personalità” che l'estetica idealistica aveva instaurato, ma perché nell'autonomia delle singole personalità si trova il motivo quello che fu un “gusto” collettivo. Pierre Francastel ha garbatamente rimproverato al Venturi passionata esaltazione della personalità nell'àmbito di quell'arte che, ogni giorno di più, appare come il risultato di uno sforzo che esclude gli « eroi », i grandi protagonisti, i grandi “leaders” rinascimentali. Il ritorno del Venturi in Italia, quando la seconda guerra era per finire, fu uno degli avvenimenti più umanamente validi che la cultura bia vissuto in quel tempo di angoscia : e non solo per l'incontro e i discepoli e per l'entusiasmo di cui s'accese la giovane scuola storia dell'arte, ma per le conseguenze che ne derivarono sul terreno dell’attività artistica. Capì che a una rivoluzione italiana, di cui ogni libera coscienza sentiva l'urgenza, non poteva mancare il contributo di un'arte profondamente rinnovata. Con la sensibilità morale che gli è propria avvertì nel l'autorità che gli era riconosciuta una sorta d'imbarazzo, un peso da compensare con l'aperta franchezza dei rapporti umani, con un quotidiano, quasi umile, impegno nell'azione. Il Venturi fu uno dei pochi a combattere il morbido pathos del dopoguerra e a spiegare che l'Europa non era affatto distrutta, né mai lo sarebbe stata, finché gli europei avessero conservato la coscienza e l'amore della libertà. Poiché, da quando ritornò in Italia, il Venturi ha messo sua autorità e la sua esperienza di studioso al servizio di un'azione o, se vuole, di una nobile missione culturale. Riallacciando, col prestigio del nome e l'integrità del suo passato politico, relazioni internazionali da tempo interrotte, patrocinò il risorgere della Biennale veneziana, orientandola quella direzione francamente moderna, che fece in breve tempo di essa la importante manifestazione artistica mondiale; riportò gli studiosi italiani di storia dell'arte nei consessi internazionali ; ma soprattutto si avvicinò artisti, discusse i loro problemi, li presentò nelle mostre all'estero, ne studiò e commentò l’opera, spesso appena agli inizi, con lo zelo che altri avrebbe serbato per i più celebri maestri. Fu insomma, il primo storico della giovane arte italiana. Giulio Carlo Argan – L’impegno politico per la libertà della cultura Nel giugno del 1931 la mia fu l’ultima laurea che Lionello Venturi discusse prima di lasciare l’Università, Torino, l’Italia. Non tanto per sé temeva la persecuzione fascista quanto per il figlio, Franco. Fu antifascista perché senza libertà non c’è cultura e lo urtavano la grossolanità e la ribadita ignoranza del fascismo. Per Torino la perdita di Venturi fu il principio di un triste declino culturale. Cessò la stagione brillante del teatro di Torino e la stupenda raccolta d’arte antica finì sequestrata nei depositi della Pinacoteca. Con gli allievi Venturi non parlava di politica se non per cenni: mi disse poi che per fare degli antifascisti bastava insegnare a ragionare e giudicare. Pensava così anche Croce, di cui Venturi era amico. Ci insegnò a vedere in Croce la guida anche morale degli intellettuali; ma alimentò in noi un rispettoso dissenso e il desiderio di altre esperienze. Negli anni in cui fu in Francia precisò il suo orientamento politico: “Giustizia e libertà”, il cosiddetto liberalsocialismo. Fu amico di Carlo e Nello Rosselli, coraggiosamente denunciò il regime fascista come mandante diretto del loro assassinio, da allora al suo lavoro s’intrecciò, componente necessaria, un intento politico. Non abbandonò mai il pensiero di un possibile ritorno in Italia a fascismo morto, della necessità di recuperare il tempo perduto, di colmare le lacune scavate nella cultura del suo paese dall’ignoranza organizzata e imposta dal defunto regime, come amor patrio. Non appena fu liberata Roma, Venturi rinunciò a insegnare negli Stati Uniti, tornò, riprese subito a insegnare nell’Università di Roma. impostò e condusse l’insegnamento su una larga base culturale europea, ma, come per un superiore dovere civile e morale, evitò ogni atteggiamento di rivincita e di quei tredici anni di non dorato esilio non di fece merito; si fece invece un dovere di sollevare gli intellettuali italiani dalla mediocrità imposta e subita. Gli intellettuali erano per la maggior parte Egli propone che la pura visibilità sia visione di uno stato d’animo e non di una forma astratta, che venga cioè spiritualizzata, che la decorazione sia costituita dalle forme e dai colori concreti di una singola personalità anziché dai concetti astratti di forma e colore. Storico e critico: il mutevole scambio tra arte moderna e contemporanea Un impegno nel quale Venturi ha riversato continue energie è stato quello della ricerca di un terreno comune alla critica d’arte moderna e a quella contemporanea. A quella data si potevano cogliere due diverse caratterizzazioni dello storico, il “tradizionalista”, che impostava il suo lavoro sulla ricerca e la pubblicazione dei documenti, e il “riformatore”, impegnato nel riscrivere la storia dell’arte sulla base dell’osservazione stilistica dell’opera. uno storico così impegnato, nell’uno e nell’altro verso, poteva anche apprezzare l’arte contemporanea, ma certo non avrebbe saputo cosa farsene, se il suo obiettivo era comunque il catalogo ragionato delle opere d’arte, e firmate e datate erano le opere d’arte contemporanea. Non erano gli storici ad occuparsi dell’arte contemporanea bensì, come ci spiega Venturi, i giornalisti. Dopo aver dato un respiro filosofico alla critica d’arte e aver motivato le ragioni del necessario fondamento psicologico, e dopo aver sostenuto che è nella personalità dell’artista che vanno ricercate le motivazioni stesse della sua opera, tema già affrontato nel notissimo saggio del 1919, La critica e l’arte di Leonardo da Vinci, e indicata alla critica una nuova possibilità, quella di riflettere su se stessa, una volta usciti dal ristretto campo dell’indagine filologica e stilistica, e realizzato, per dirla con le sue parole, il catalogo ragionato delle opere d’arte, poteva sembrare inevitabile affrontare il problema dell’arte contemporanea. Un’ipotesi che verrebbe confermata dalla convinzione che la conoscenza dell’arte contemporanea avrebbe accresciuto la coscienza dell’arte antica. Il Gusto dei primitivi prende le mosse dalla condizione storica contingente alla data della sua stesura. Uno degli obiettivi che l’autore si pone è la confutazione che il classico sia maggiore di qualunque altra espressione di qualsiasi tempo e luogo, così come il classicismo, ovvero tutte quelle espressioni che ne assumono i modelli. Quel che premeva a Venturi era certamente la rivalutazione dell’arte dei primitivi da Cimabue a Botticelli; ma allo stesso tempo di agire sulla cultura nel suo farsi. Egli rivaluta e sostiene i nuovi primitivi: gli impressionisti e i macchiaioli, ovvero i portatori di uno nuova sensibilità. Il programma che Venturi si proponeva era di ribaltare sul piano della coscienza dell’arte la cultura del suo tempo; in altri termini, voleva rendere l’espressione artistica lo specchio della cultura. Ma non si può trascurare il fatto che Venturi si poneva come fine di scardinare un atteggiamento reazionario diffuso che, in nome della tradizione italiana classica, o meglio classicistica, impediva il progredire della pittura italiana contemporanea sottomessa alle tendenze conservatrici degli anni Venti. L’impegno militante L’impegno per l’arte contemporanea si svolse secondo un progetto di cristallina coerenza che partì dagli impressionisti e arrivò all’arte astratta. Per gli uni e per gli altri egli si impegnò a fondo nel sostenerli nel momento in cui ogni cosa sembra loro avversa. Così fu per l’impressionismo, che, se godette qualche notorietà negli anni che precedettero la Prima guerra mondiale, negli anni Venti ebbe una gran quantità di attacchi in nome di una ritrovata arte classica e italiana. La battaglia combattuta a favore dei “Sei” è emblematica dell’impegno di Venturi. Le ragioni non sono da ricercare solo nelle qualità intrinseche della loro espressione artistica. Infatti, non è sufficiente affermare che la loro pittura era post all’insegna di Manet. Nemmeno sarebbe sufficiente pensare a quale stima essi ebbero per Cezanne; piuttosto bisogna cogliere il senso più generale di tale scelta in relazione alla contingenza storica. Perché i “Sei”, la loro affermazione, rappresentava una riconosciuta opposizione al Novecento italiano. In quegli anni il dibattito a Torino intorno alla pittura impressionista, a Manet, a Cezanne e ai “Sei” trova sostenitori e denigratori, costituendosi così come un centro di promozione culturale pericoloso per quanti erano impegnati nel sostegno di un’arte che ammiccava al regime. È sicuramente da ricollegare a questo clima culturale la scelta di non prestare quel giuramento di fedeltà. E nel 1932 Venturi lasciò l’Italia per Parigi e, successivamente, nel 1938, si trasferì negli Stati Uniti. È l’esilio, politicamente volontario, ma culturalmente obbligato, e con esso il suo uscir di scena da una cultura che inevitabilmente si ripiegherà su se stessa. L’arte come espressione della spiritualità umana L’azione di Venturi tornerà a farsi sentire in Italia sul finire della Seconda guerra mondiale, quando, chiamato a insegnare all’Università di Roma, rientrerà forte della sua esperienza internazionale e più che mai convinto di battersi per la libera circolazione dell’espressione d’arte. Intanto sulla scena mondiale era apparsa l’arte astratta, di cui Venturi si fece grande sostenitore per una coerenza, tutta interno all’arte, che legava l’impressionismo all’arte astratta. All’origine dell’astrazione vi era proprio la sensibilità impressionista che rappresentava il primo passo verso l’autonomia dell’arte della rappresentazione della realtà di cui l’astrattismo era il punto di arrivo. In questa luce assume un particolare significato l’esperienza del gruppo degli “Otto pittori italiani” presentati da Venturi nel 1952. Il rinnovamento a cui Venturi sottopose il proprio lavoro non si limita al giudizio sull’opera, ma reagisce sul piano più ampio della filosofia dell’arte. Afferma: “L’estetica moderna ha trasportato all’interno del soggetto creatore quella natura che prima era considerata empiricamente come case, fiumi e montagne”. E coerentemente si pone come obiettivo di dimostrare, risalendo dall’opera al pensiero, che l’arte moderna è strettamente collegata con la nostra civiltà e con la sua storia. Enrico Crispolti – La sollecitazione al contemporaneo Ritrovo fra le carte d’archivio l’appunto al vivo preso durante una esercitazione di Venturi all’Università di Roma il 22 marzo 1955. Riguarda una valutazione su Mondrian. In quel breve passo credo si possano leggere diverse componenti rilevanti della personalità venturiana e del suo rapporto particolare con l’arte del proprio tempo. anzitutto l’onestà, la sincerità, il non- opportunismo, e un candore di franchezza. Non sarebbe stato infatti difficile anche per un personaggio del suo calibro adattarsi all’ovvia montante fortuna storico-critica di Mondrian, a metà degli anni Cinquanta. Una evidente implicita scarsa simpatia per la non-figurazione, almeno nei suoi aspetti più radicali e in certo modo massimalisti. L’onestà di Venturi era certamente di ceppo vetero-liberale, remotamente risorgimentale. Onestà di rapporti, e onestà intellettuale anzitutto. Vale a dire coerenza con una propria linea d’impostazione culturale. Il candore si manifestava in quel suo dichiarare apertamente una propria diversa convinzione, fino al punto di interrogarsi ancora in quel caso su Mondrian nel 1955 come già nel 1947. Altrettanto che del resto qualche anno dopo a dichiarare dunque senza mezzi termini o cautele di non riuscire a comprendere Burri. In realtà il candore attraverso il quale offriva le proprie valutazione peraltro non facili costituiva un aspetto della discorsività critica, dell’intenzionalità comunicativa dell’esercizio critico, che Venturi praticava spontaneamente. E riguardava il suo sostanziale entusiasmo nell’approccio verso l’arte del proprio tempo, e pur attraverso un taglio di interessi particolare, e dunque sensibilmente riduttivo. Non dimentichiamo che sostanzialmente fin degli anni Venti-Trenta l’approccio di Venturi ad alcuni aspetti dell’arte del proprio tempo fu quello di uno storico dell’arte già solidamente affermato e non di un critico militante. Venturi da storico dell’arte intuì il peso possibile dell’arte contemporanea abbastanza tempestivamente. E rispetto al profilo corrente degli storici dell’arte del tempo fu certamente uno rottura. Ma lo intuì per esempio, diversamente da Longhi, che in alcun brevi occasioni riuscì ad essere effettivamente anche un disincantato compagno di strada. Ma la cui visione del contemporaneo perciò s’incasellava inevitabilmente quanto peraltro proficuamente entro una prospettiva di condivisa “poetica”. Non tanto un partecipe della ricerca, quanto un apprezzatore culturale. E non a caso forse il suo maggior ruolo critico-storiografico è relativo più al moderno che non al contemporaneo, intendendo per moderno il grande Ottocento europeo sul quale ha forse dato, nei volumi I pittori moderni, del 1947, e Da Manet a Lautrec, del 1950, le sue pagine più stimolanti e di largo orizzonte. Fu forse proprio la trasmissione di una consapevolezza di quell’esperienza la molla che sollecitò i suoi allievi a un’attenzione diversa e criticamente attenta al proprio tempo: più rari a Torino, più numerosi a Roma. Dimostrando appunto la dignità storica del moderno più prossimo al contemporaneo. E del resto dell’esercizio antico e moderno della critica Venturi aveva pionieristicamente tracciato la storia. un esercizio critico fatto di passione valutativa più che partecipativa. Di entusiasmo intellettuale piuttosto che di coinvolgimento esistenziale. Dell’opera d’arte aveva una concezione d’idealistica autonomia. E ciò fu argine rispetto a una critica di natura psicologistica, soprattutto francese, sollecitando invece la lettura linguistica dell’opera. certo non estraneo a scelte politiche, Venturi difese l’arte dalla politica rivendicandone l’autonomia, ma non sospettandone tuttavia neppure i nessi mitopoietici. Complessivamente, rispetto al contemporaneo, la sua è stata una fondamentale sollecitazione di disposizione all’apertura, un grande contributo di svecchiamento nel senso di suggerire la
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