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La cultura del narcisismo, Guide, Progetti e Ricerche di Sociologia

la cultura del narcisismo

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

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Caricato il 14/01/2016

Marco_Alessio
Marco_Alessio 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica La cultura del narcisismo e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Sociologia solo su Docsity! La cultura del narcisismo Il titolo di questo mio intervento ricalca quello di un celebre libro di Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, appunto, pubblicato per la prima volta nel 1979 e divenuto un vero e proprio classico sull’argomento. Una delle tesi principali di quel libro era che per comprendere a fondo certi effetti “asociali”, individualistici, diciamo pure, certe distorsioni relazionali, riconducibili a un narcisismo sempre più pervasivo, occorre anzitutto evitare di attribuire “al culto del privato sviluppi prodotti dalla disgregazione della vita pubblica”; in secondo luogo, secondo la migliore tradizione psicanalitica freudiana, occorre tenere ben fermo che “il narcisismo ha più punti in comune con il disprezzo di sé che con l’ammirazione di sé” (Lasch 2001, 44-45). Detto in estrema sintesi, secondo Lasch il narcisismo ha a che fare certo con determinate distorsioni patologiche della personalità (un culto di sé che deforma le relazioni con gli altri e con se stessi, senso di dipendenza e paura della dipendenza, vuoto interiore, ira repressa), ma anche con cambiamenti strutturali della società e della cultura, tra i quali, ne elenco solo alcuni, la burocratizzazione della vita, la medicalizzazione della società e il conseguente terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, la proliferazione delle immagini, il culto del consumismo, il fascino della celebrità, i cambiamenti intervenuti nella vita familiare e nei modelli di socializzazione (deficit di generazione in senso biologico –la crisi demografica- e in senso culturale –la crisi dell’educazione), i quali in un certo senso favoriscono la patologia narcisistica e ne vengono a loro volta rafforzati. Il mondo di ieri, per intenderci, ( e dico mondo di ieri in senso molto lato: dal mondo greco all’età modera) era caratterizzato da fattori strutturali e culturali che ostacolavano la diffusione del narcisismo (la durezza della vita, un forte senso della realtà, legami sociali molto forti, ferrei processi di socializzazione, fiducia nel futuro e si potrebbe continuare). Si pensi, per fare un esempio, alla società del lavoro del XIX secolo e ai suoi principali cantori: Hegel, Marx o Comte. Questa società vive del pathos del progresso e della verità. Il mondo contemporaneo invece, per i motivi che ho già accennato, si caratterizza per la presenza di elementi strutturali che promuovono il PAGE 9 narcisismo. La società del lavoro e del sacrificio ha lasciato il posto alla società del consumo e del divertimento, il pathos del progresso e della verità al culto del presente e allo spaesamento relativistico. Parlare di cultura del narcisismo significa dunque prendere atto di un fenomeno che va ben oltre la patologia psicologica e tende invece a investire l’intero universo della vita sociale. In ogni caso, sia ben chiaro, con questo non sto facendo un’affermazione valutativa, quasi che il mondo di oggi sia da considerarsi peggiore di quello di ieri. Non amo le filosofie della decadenza, né quelle del progresso. Mi piacciono piuttosto le filosofie della storia attente soprattutto alle ambivalenze di ogni epoca. Così, se il mondo di ieri soffriva di un eccesso di legami sociali, il mondo contemporaneo soffre per un eccessivo indebolimento degli stessi; se fino a ieri il narcisismo era una patologia piuttosto rara, oggi, con buone ragioni, siamo indotti a parlare addirittura di era del narcisismo (Cesareo, Vaccarini 2012). Al fine di esplicitare alcuni tratti della società e della cultura del nostro tempo che chiaramente costituiscono un buon brodo di coltura per il narcisismo, vorrei fare riferimento a un testo filosofico molto noto, pubblicato quasi in concomitanza con quello di Lasch che ho già citato, il cui titolo, almeno immediatamente, non richiama certo il nostro tema, ossia la cultura del narcisismo, ma certamente aiuta a comprenderlo: alludo a After Virtue di Alasdair MacIntyre. Coloro che hanno letto questo libro, ne conoscono senz’altro la trama avvincente e il nucleo fondamentale, espresso fin dalle sue prime battute, come se si trattasse di un racconto di fantascienza. Si racconta di uomini che, a seguito di una non meglio precisata “catastrofe”, hanno perduto il senso della cultura nella quale vivono. Della società scomparsa, come macerie, sono rimaste alcune parole, termini etici valutativi quali “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto” o espressioni deontiche con cui i superstiti indicano ai loro simili cosa “debbano” fare in determinate circostanze. Sono rimaste altresì, aggiungo io, parole come “educazione”, “formazione”, “normalità”. Ma ciò che è scomparsa è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato; è scomparso il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare ancora come la vita di un “io” che non è soltanto un fascio di ruoli, o PAGE 9 concetto di storia e da quel genere di unità del personaggio che una storia richiede”(MacIntyre 1988, 259). La cultura del narcisismo di cui stiamo parlando presuppone in qualche modo la rottura del “concetto di storia”. La presuppone e nel contempo la rafforza. I segnali li possiamo vedere nella crisi della catena generazionale che abbiamo registrato in questi ultimi decenni, nella crisi dell’istituzione familiare e dei sistemi educativi in generale, nella difficoltà a pensare il passato, a riconoscersi in una tradizione, e soprattutto nella difficoltà a pensare al futuro. Sarebbe troppo lungo esaminare nel dettaglio ognuno di questi segnali. Ad ogni buon conto la crisi dell’istituzione familiare e dei processi di socializzazione in generale è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso dicasi della crisi della scuola, ridotta a semplice acquisizione di determinate abilità o competenze, mettendo completamente da parte la pur minima istanza formativa. In famiglia e a scuola ci siamo poco a poco dimenticati che il semplice fatto di nascere uomini implica che abbiamo bisogno di educazione. Ne abbiamo bisogno, non per diventare buoni cattolici o buoni cittadini, ma semplicemente per trovare la nostra strada, per sentirci a casa nel mondo che abitiamo e diventare ciò che siamo: uomini, appunto; persone, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive. A differenza degli altri animali, gli uomini hanno bisogno di molto tempo per “trovarsi”, per imparare a dire “io”, per condurre una vita all’insegna dell’autonomia, della libertà e della responsabilità; hanno bisogno di relazioni significative con altre persone che li amino e, amandoli, sappiano schiudere loro la bellezza del mondo e della vita. Ciò che siamo dipende in primo luogo dalle persone che ci hanno amato e dall’educazione che abbiamo ricevuto. L’uomo è un animale relazionale, non una monade autoreferenziale. Ha bisogno degli altri per diventare ciò che è. Ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi parte di una storia; non sopporta di essere solo, gettato nel mondo, senza speranza. Ma che cosa si può sperare in una società che fatica a pensare al futuro? Come dice Christopher Lasch, “L’emergenza della personalità narcisista riflette tra le altre cose un drastico mutamento del senso storico. Il narcisismo emerge come PAGE 9 forma tipica di struttura del carattere di una società che ha perso interesse per il futuro”(Lasch 2001, 234). A tal proposito mi sembra particolarmente eloquente la nostra crisi demografica. Una società che non mette più al mondo i figli non è soltanto una società che invecchia, ma una società disperata, una società disperatamente aggrappata al presente e per questo terrorizzata dalla vecchiaia e dalla morte. “Il terrore degli anni che passano –è sempre Lasch a dirlo- non nasce dal culto della giovinezza, ma dal culto di sé”. La nostra narcisistica indifferenza, se non addirittura disprezzo, nei confronti degli anziani ormai incapaci di nascondere gli anni e la loro fragilità, come pure nei confronti delle generazioni future, esprime emblematicamente la crisi antropologica di una cultura che ha perduto il senso del legame sociale e ha rinunciato al futuro. Emile Durkheim giustificava quella che definiva la necessaria coercitività dei fatti sociali, dicendo che l’uomo, senza le norme sociali, senza la coercizione che la società esercita su di lui, sarebbe rimasto vittima dei sui desideri senza fine. Mai e poi mai avrebbe potuto immaginare che proprio a questo avrebbe puntato l’odierna società dei consumi. Come segnalava Pierre Bourdieu una ventina d’anni fa, la coercizione sarebbe stata sostituita dalla stimolazione, l’imposizione forzata di modelli comportamentali dalla seduzione, il controllo del comportamento dalle pubbliche relazioni e dalla pubblicità e la regolamentazione normativa in quanto tale dal sorgere di nuovi bisogni e desideri. Se ci pensiamo bene, l’odierna società dei consumi riflette bene quello che Charles Taylor descrive come pervertimento della cultura dell’autenticità nella cultura del narcisismo (Taylor 1994), allorché l’ideale della vita autentica si sgancia progressivamente dalla morale e diventa un affare eminentemente estetico, creativo, collegato non a caso alla vita artistica. Si tratta di un fenomeno che, secondo Taylor, incomincia a svilupparsi nella cultura europea del XVIII-XIX secolo, conferendo all’artista un prestigio sociale fino ad allora sconosciuto, e che trovo assai illuminante anche per il discorso che stiamo facendo sulla cultura del narcisismo. Chi è infatti l'artista nel nostro immaginario collettivo? L'artista è colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi dal peso delle tradizioni, che sa vivere in proprio, rompendo con PAGE 9 tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società. Sappiamo bene che però che tutto ciò costa anche molta fatica; la realtà resiste; per contrastarla, ci vuole spesso una volontà ferrea e una vitalità inesauribile. Per farla breve, non si possono abbattere i pregiudizi della cosiddetta “normalità”, coccolando semplicemente il proprio io, il proprio “pupo”, direbbe Pirandello. Ebbene la mentalità narcisista è come se assumesse l’artista come proprio ideale, senza disporre però della sua energia. L’eccezione che il narcisista contrappone alla normalità è quella di chi, guardando soltanto al proprio io, semplicemente si disinteressa degli altri e delle norme sociali. Egli non vuole combattere i pregiudizi per affermare un ideale più autentico, ma solo per affermare se stesso, per giunta secondo gli standard della società dei consumi in cui vive. Una sorta di contradictio in adiecto. Essendo diventati, infatti, tutti eccezionali, la stessa differenza, diciamo pure, l’eccezionalità di ciascuno, sembra diventare sempre più indifferente, addirittura fonte di disprezzo di sé. Ci accorgiamo che il nostro vivere estetico, come direbbe Kierkegaard, è un vivere che funziona finché è veramente un'eccezione; ma nel momento in cui diventa la norma, nel momento in cui si diffonde in tutti gli strati sociali, penetrando nei diversi modi di essere e di sentire, esso finisce per vanificare persino le eccezioni, e tutti diventiamo non a caso sempre più anonimi, sempre più impotenti e risentiti rispetto alla realtà che ci circonda (Belardinelli 2002). Sintomatici in proposito alcuni tratti della cultura occidentale degli anni Sessanta. Si pensi a Marcuse e alla prima generazione della famosa Scuola di Francoforte. La loro cultura ha poco o nulla a che fare con la fatica che la realtà impone per “conciliarci” con essa e per poter vivere una vita decente; la realtà va piuttosto trasfigurata ideologicamente, va resa insopportabile, per poterla poi trasformare radicalmente. Di qui il marcusiano “Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è” (Marcuse 1967, 82), la “negazione totale dell’esistente”, insomma una negatività devastante. In nome dell’eros, del “principio del piacere”, questi autori non si accontentano più di liberare il mondo del lavoro; vogliono piuttosto liberare il mondo dal lavoro (cfr. l’introduzione di G. Jervis a Eros e civiltà). Come PAGE 9
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