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La devianza. Teorie e politiche di controllo. Scarscelli D., Vidoni Guidoni O. (2008), Appunti di Sociologia Economica

La devianza. Teorie e politiche di controllo. Scarscelli D., Vidoni Guidoni O. (2008)

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 22/03/2019

Serena.agozzino92
Serena.agozzino92 🇮🇹

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Scarica La devianza. Teorie e politiche di controllo. Scarscelli D., Vidoni Guidoni O. (2008) e più Appunti in PDF di Sociologia Economica solo su Docsity! II MODULO – DEVIANZA, CONTROLLO SOCIALE E DETERRENZA LA DEVIANZA. Teorie e politiche di controllo PRESENTAZIONE DEI CASI Il caso del tossicodipendente. La tossicodipendenza è una condotta deviante relativamente diffusa nella società, che suscita diversi tipi di reazione sociale in quanto non vi è un consenso unanime nell’opinione pubblica sulla necessità di sanzionare, sempre e comunque, il consumo. Otto mesi fa Mario fu fermato ad un posto di blocco della polizia, poiché un’auto come la sua era stata segnalata nei pressi di una casa i cui proprietari avevano denunciato un furto. Durante la perquisizione fu trovata una bustina contenente una dose di eroina. Per tale ragione Mario fu segnalato alla prefetto, il quale è competente per legge ad applicare la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, della licenza del porto d’armi, del passaporto e di ogni altro documento. Le assistenti sociali del NOT (nucleo operativo tossicodipendenze), a seguito le segnalazioni della polizia, lo convocarono per un colloquio, che aveva lo scopo di affidare Mario al servizio pubblico per le tossicodipendenze (SERT) della sua ASL di residenza per l’effettuazione di un programma terapeutico. Durante il colloquio l’assistente sociale del NOT ha raccolto alcuni dati su Mario: ha 26 anni, vive con i suoi genitori in un quartiere periferico di una grande città del Sud. Il padre di Mario ha 52 anni, ha un diploma di scuola media superiore ed è impiegato presso l’ufficio del personale di un’azienda. La madre ha 50 anni ed è insegnante. Mario ha conseguito la maturità scientifica. Si era iscritto alla facoltà di matematica, ma dopo aver sostenuto alcuni esami ha interrotto la sua carriera universitaria e si è iscritto a un corso di formazione per programmatori informatici. Dopo aver conseguito il diploma di formazione regionale, ricorrendo ad un’agenzia di lavoro interinale ha lavorato presso diverse aziende con contratti a tempo determinato. Da circa un anno però è disoccupato. Carriera deviante. Mario ha iniziato a fare uso di droghe leggere all’età di 16 anni. A 20 anni ha cominciato a usare eroina. Da circa tre anni ne fa uso quotidiano, diventandone dipendente, poiché quando smette avverte i sintomi della crisi di astinenza. Non ha mai chiesto aiuto a specialisti, né tantomeno ha avuto problemi con la giustizia. Il caso del criminale dal colletto bianco. Con il termine colletto bianco si indicano i crimini commessi individualmente, nell’esercizio della propria attività, per promuovere i propri interessi, spesso in contrasto con gli interessi delle organizzazioni per le quali si sta lavorando. Con l’espressione corporate crime si descrivono gli atti criminali che sono il risultato di decisioni assunte da coloro che occupano una posizione strutturale all’interno di un’impresa per l’ottenimento di benefici per l’impresa stessa. Luca sta scontando una pena di quattro anni dopo essere stato condannato per un reato di disastro doloso ambientale, poiché gli scarichi di produzione dell’azienda chimica di cui egli era un dirigente venivano smaltiti in modo irregolare, provocando anche un incremento del numero di tumori. Poiché Luca ha già scontato metà della pena, il suo legale ha richiesto l’affidamento in prova al Servizio sociale come misura alternativa alla detenzione. Luca ha 45 anni, è sposato, con due figli. Sua moglie ha 44 anni, è un architetto e lavora presso un noto studio della città in cui vivono. Luca si è laureato in Economia e commercio con il massimo dei voti. Il padre è un imprenditore, la madre un avvocato. Dopo la laurea, Luca ha iniziato a lavorare nell’azienda familiare, da circa dieci anni lavora presso un’azienda chimica di cui è un dirigente di alto livello. Vive con la sua famiglia in un quartiere residenziale della città. Carriera deviante. Il pubblico ministero dimostrò che l’azienda di Luca smaltiva illegalmente gli scarti di produzione da molto prima del suo arrivo in azienda. Dopo alcuni anni dall’assunzione, a Luca, fu affidata anche la responsabilità dello smaltimento dei rifiuti aziendali, che continuò ad avvenire con le stesse procedure illegali che l’azienda seguiva da anni. Durante il processo Luca negò di essere a conoscenza di come venissero trattati gli scarti, sostenendo che egli aveva semplicemente fatto il suo lavoro da buon dirigente individuando un mediatore che aveva reso possibile lo smaltimento dei rifiuti a costi molto contenuti. I rappresentanti dell’accusa riuscirono però a convincere il giudice sulle responsabilità di Luca che non aveva mai avuto problemi con la giustizia prima di questa vicenda. Il caso del criminale predatorio. Con reato predatorio si fa riferimento a quegli atti criminali in cui il reo si appropria dei beni mobili altrui o procura danni a persone o a beni mobili altrui. Mohamed ha scontato una condanna a due anni e mezzo per scippo. Poiché sprovvisto del permesso di soggiorno verrà trasferito al Centro di permanenza temporanea e di assistenza (CPT) per essere successivamente espulso dal nostro paese. Mohamed ha 26 anni e proviene dal Marocco. È arrivato in Italia nel 1995 senza permesso di soggiorno. Per emigrare in Italia ha interrotto gli studi. La sua famiglia, non poverissima, vive in Marocco: suo padre è un contadino, la madre lavora in ambito domestico. Ha cinque fratelli. Prima di essere arrestato viveva in un quartiere periferico di forte immigrazione di una grande città del Nord d’Italia. Nel 1998 ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Nel 2002 è stato licenziato. Quando è stato arrestato per il reato di scippo era disoccupato e privo di permesso di soggiorno. Carriera criminale. Dopo un anno dal suo arrivo in Italia è stato arrestato per spaccio e detenuto in un istituto penale minorile. Poiché la legge sull’immigrazione, in vigore quando egli terminò di scontare la sua pena, vietava l’espulsione di un minore di 18 anni, il Servizio sociale minorile, utilizzando una borsa lavoro, lo fece assumere in qualità di operaio presso un’azienda, ottenendo così, anche il permesso di soggiorno. Dopo essere stato licenziato è stato arrestato per scippo. INTRODUZIONE La sociologia della devianza si struttura intorno a tre questioni fondamentali: • chi è il deviante (rappresentazione del deviante); • come e perché si diventa devianti (teorie); • come la società reagisce alla devianza (prassi operative). La devianza è una condotta di una persona o di un gruppo che viola le aspettative di ruolo, le norme sociali e i valori della maggioranza dei membri di una collettività e che per questa ragione suscita una qualche forma di reazione sociale. In primo luogo, la devianza è sempre un atto, un comportamento (anche verbale), ne consegue quindi che nessuno può essere considerato deviante in virtù della propria diversità fisica. In secondo luogo, per un sociologo, un atto non è mai intrinsecamente deviante, ma è giudicato tale in relazione ad uno specifico contesto normativo. Ne consegue che un comportamento considerato deviante da un gruppo, può essere accettato da un altro (reati come l’omicidio e la violenza sessuale, suscitano reazioni negative da parte di tutti i membri della collettività, indipendentemente dal gruppo sociale di appartenenza. Reati come il consumo di droghe, l’evasione fiscale o il gioco d’azzardo, suscitano reazioni conflittuali da parte dei diversi gruppi sociali); che lo stesso comportamento può essere stigmatizzato nell’ambito di una particolare situazione, mentre può essere considerato non deviante in una situazione diversa (un rapporto sessuale in luogo pubblico verrà sanzionato penalmente, nella propria stanza da letto non sarà giudicato deviante); che una medesima condotta può essere considerata deviante a seconda dello status o del ruolo del suo autore (l’uso della forza è consentito legittimamente solo a chi ricopre un determinato ruolo). In terzo luogo, un atto giudicato deviante produce (quasi) sempre una reazione sociale. Solitamente le condotte che sono percepite dall’opinione pubblica come molto dannose (per le singole vittime e o per la collettività) non soltanto suscitano un forte biasimo ma sono considerate dei crimini e per esse vengono richieste sanzioni penali severe. Ci sono diversi paradigmi che affrontano il tema della devianza, all’interno dei quali è possibile riscontrare le varie teorie che spiegano il comportamento deviante e le conseguenti politiche di intervento di tipo sociale e penale, che si adottano per punire, prevenire o limitare il comportamento deviante. CAP. 1 IL PARADIGMA CLASSICO E LE TEORIE DELLA SCELTA RAZIONALE 1. LE TEORIE Reati come furto, rapina, bancarotta, violenza sessuale, omicidio, truffa ecc., costituiscono un evento criminale, ovvero condotte criminali che violano la norma penale e per le quali è prevista una sanzione, realizzate da attori che interagiscono in un determinato contesto sociale. Gli attori protagonisti di un evento criminale sono quattro: da una parte abbiamo la coppia bilanciamento tra ciò che si può fare (opportunità) e ciò che si vuole fare (desideri). Tra l’altro si deve tenere presente che le opportunità non sono mai oggettivamente date, ma sono sempre filtrate dalle nostre credenze, ovvero da ciò che noi riteniamo siano le nostre opportunità. Ogni individuo interpreta il contesto in cui si trova ad agire in base alle proprie conoscenze, convinzioni e preferenze e quella che per un attore è un’opportunità, per un altro può costituire un vincolo. Un’azione può considerarsi razionale quando l’attore sociale, di fronte a diversi corsi di azione, intraprende quello che, a proprio giudizio, darà il risultato migliore. Questo evidenzia tre elementi principali: • l’azione è uno strumento per realizzare determinati fini; • gli individui scelgono l’alternativa che, in base alle loro credenze, è la migliore, quella più conveniente, quella che dà il miglior saldo costi/benefici; • nessun individuo è in grado di raccogliere tutte le informazioni possibili per scegliere il corso d’azione ritenuto migliore né di prevedere con certezza gli esiti del corso d’azione scelto. È possibile quindi definire un’azione deviante come razionale, se questa appare ad un attore, in base al proprio ordine di preferenze, la scelta più adeguata per raggiungere determinati fini. Sono tre le teorie che mettono al centro della loro analisi il contesto situazionale in cui si prendono le decisioni: la teoria razionale della devianza, la teoria degli stili di vita e la teoria delle attività abituali . 1.3 La teoria della scelta razionale. Verso la fine degli anni ’60 del Novecento, anche gli economisti cominciano a occuparsi di “criminalità”. La teoria economica della criminalità, proposta da BECKER, assume che i criminali siano, così come i consumatori nel libero mercato, attori razionali mossi dal desiderio di massimizzare il proprio benessere, facendo un calcolo costi/ benefici. I costi sono rappresentati dalla probabilità di essere individuati e condannati, mentre i benefici sono costituiti dai vantaggi, sia materiali che immateriali, che si ottengono con la commissione del crimine. Gli stessi teorici della scelta razionale individuano dei limiti severi a questo modo di guardare ai fenomeni devianti e criminali: in primo luogo, i vantaggi sono considerati prevalentemente in termini materiali; in secondo luogo, la metafora del mercato, utilizzata per spiegare le decisioni individuali di commettere il crimine, non può essere impiegata in molti tipi di crimini, dove se è vero che c’è un’elevata offerta di vittime, non è detto che queste domandino di essere vittimizzate; infine, l’immagine di un individuo perfettamente razionale che massimizza il proprio interesse, valutando attentamente costi e benefici, trova scarso riscontro nella realtà. I teorici della scelta razionale, CORNISH e CLARK, elaborano un modello di spiegazione del processo decisionale che induce un individuo a compiere un reato, abbandonando le formulazioni matematiche tipiche del ragionamento economico. Secondo questa teoria i vantaggi che le persone possono ottenere dalla commissione di un reato non sono soltanto strumentali (ricavare denaro o acquisire un bene), ma consistono anche nel piacere sessuale, nel divertimento, nella ricerca del prestigio sociale. Entrambi osservano, come la capacità di un criminale di pianificare la realizzazione di un reato sia condizionata dalla natura limitata della razionalità umana (razionalità limitata), poiché nessun individuo è in grado di raccogliere tutte le informazioni possibili per scegliere il corso d’azione che massimizzi il proprio piacere, né prevedere con certezza l’esito del corso di azione scelto. I due autori, scompongono il processo decisionale che conduce un individuo a compiere un reato in due distinti momenti: le decisioni di coinvolgimento e le decisioni di evento. Le prime (criminality) sono quelle relative alle scelte di essere coinvolti, continuare o ritirarsi da un reato. Le seconde (crime) sono decisioni di carattere strategico che riguardano la selezione della particolare tattica da utilizzare nella commissione del reato. Queste normalmente sono decisioni di breve periodo, riguardano le modalità concrete di effettuazione del crimine e si basano su informazioni circoscritte alla particolare situazione in cui si decide. 1.4 La teoria degli stili di vita (Hindelang, Gottfredson e Garofano). Con il concetto di stile di vita si intende l’insieme delle attività quotidiane legate al lavoro, alla scuola, alla gestione della casa o al tempo libero. Esso è un approccio teorico e di ricerca che spiega la diversa distribuzione dei rischi di vittimizzazione, collegati ai differenti stili di vita dei gruppi considerati: più si frequentano luoghi ad alto rischio criminale e più ci si trova a contatto con individui inclini a compiere determinati reati (chi sta fuori casa, frequenta discoteche, locali, bar, ecc.), più si corre il rischio ad essere vittimizzati. Gli stili di vita sono influenzati da almeno tre elementi: - dal RUOLO SOCIALE che le persone ricoprono nella società: i giovani rischiano di essere maggiormente vittimizzati rispetto agli adulti o agli anziani in quanto il ruolo che ricoprono li porterà con più frequenza a svolgere attività fuori dalle mura domestiche; - dalla POSIZIONE ricoperta nella struttura della società: in genere più questa è alta, minore è il rischio di rimanere vittime di determinati tipi di reato; - dalla COMPONENTE RAZIONALE DEL COMPORTAMENTO: in base al ruolo e alla posizione sociale si può decidere di limitare le attività che più di altre espongono ai rischi di vittimizzazione. 1.5 La teoria delle attività abituali (COHEN e FELSON) ha l’ambizione di spiegare la variazione nello spazio e nel tempo dei tassi di criminalità e di vittimizzazione, in particolare per quei reati per i quali è previsto un contatto diretto tra aggressore e vittima. Secondo questa teoria, affinché possa verificarsi un reato devono realizzarsi tre condizioni minime contemporaneamente presenti in un certo luogo e in un certo momento: - una persona disposta a compiere un reato; - un bersaglio interessante; - l’assenza di un guardiano in grado di impedire la commissione del reato. Secondo questa prospettiva teorica, il tasso di criminalità può aumentare anche se non aumenta il numero di potenziali criminali, nella misura in cui si verifichino dei mutamenti nelle attività abituali (lavoro, tempo libero, spesa, ecc.), che rendano determinati bersagli appetibili, meno protetti dalla presenza di un guardiano capace (la diminuzione del tasso di disoccupazione può favorire un aumento dei furti negli appartamenti per il fatto che le persona trascorrano più tempo fuori casa per ragioni di lavoro). Le differenze nelle attività abituali, espongono gli individui a differenti rischi di vittimizzazione: gli individui di alta classe sociale sono più a rischio di subire reati predatori, come furti in appartamento, poiché i beni di cui dispongono appaiono ai criminali particolarmente remunerativi; coloro che frequentano mezzi pubblici o aree mercantili durante le ore di maggior afflusso (donne) rischiano maggiormente di subire reati come il borseggio e/o il furto di deterrenza. 2. LE POLITICHE Secondo la teoria della scelta razionale, la devianza si riscontra soprattutto nell’individuo, per tale ragione le politiche di intervento devono avere finalità essenzialmente punitive, pertanto, la devianza si previene alzando i costi dell’azione deviante. Ciò avviene attraverso due forme di prevenzione: • Il principio della deterrenza (sanzione del reo), secondo cui ogni criminale viene punito con una sanzione che procuri al condannato un “costo” che ecceda il “beneficio”; • la prevenzione situazionale permette di “prevenire” i crimini intervenendo sulla specifica struttura di opportunità collegata ai diversi tipi di reato, in modo tale da rendere la scelta del crimine più difficile e costosa. 2.1 La deterrenza. I principi della certezza, prontezza e severità della pena sono gli elementi fondamentali di ogni strategia di prevenzione della criminalità che si fondi sulla deterrenza: i potenziali criminali e i criminali condannati, essendo attori razionali, eviterebbero di infrangere le norme penali o di ritornare ad infrangere le norme, per la paura delle conseguenze. Questa paura dipenderebbe dal rischio percepito di subire una sanzione (certezza della pena) e dal suo grado di severità (pena pronta). Se la prevenzione generale si fonda sull’esperienza “indiretta” della sanzione (vedere i crimini puniti) e la prevenzione speciale si fonda su quella “diretta”, cioè sulla propria punizione in quanto criminale, è evidente che la sanzione ha un effetto deterrente nella misura in cui i cittadini, da un lato, siano consapevoli dell’esistenza della sanzione, dall’altro, ritengano che la probabilità di essere sanzionati, commettendo il reato, sia elevata. Alcune ricerche che hanno tentato di verificare se la deterrenza funziona, hanno evidenziato un effetto deterrente minimo del livello di severità della pena e più elevato per quanto riguarda la certezza e la prontezza (pena capitale, tolleranza zero, richiesta di condanne esemplari, ecc.). Chi infrange le norme frequentemente senza mai essere arrestato, maturerebbe una percezione del rischio di essere sanzionato che lo porta a reiterare il comportamento criminale. Le ricerche condotte sulla criminalità giovanile hanno invece dimostrato come sia soprattutto l’esperienza soggettiva (diretta o indiretta) del rischio di essere catturati che ha un effetto deterrente. L’efficacia della pena varia in relazione alla natura dell’atto e al grado di coinvolgimento nel delitto come stile di vita da parte del criminale. Secondo il meccanismo esplicativo della teoria della prevenzione generale e speciale, la pena ha un effetto deterrente nella misura in cui l’individuo, per raggiungere il proprio fine, consideri il comportamento deviante come un corso di azione alternativo alla condotta conforme. Quando, invece, l’individuo agisce per abitudine (cap. 4) o senza fare un calcolo costi/benefici, l’efficacia deterrente della sanzione sarebbe minore. Secondo la tipologia elaborata da CHAMBLISS, la pena raggiungerebbe la sua massima efficacia quando l’atto è strumentale (ottenere un beneficio materiale) e il potenziale reo ha un basso livello di coinvolgimento nel delitto come stile di vita, cioè dispone di alternative d’azione non devianti e teme di incorrere nella sanzione perché questa lo porterebbe a perdere molte cose (lavoro). In questo caso i costi della pena sarebbero molto più alti dei benefici. Alcuni autori hanno evidenziato come i controlli sociali informali sembrino avere un effetto deterrente sugli individui, che può essere più forte di quello delle sanzioni formali, in particolare i controlli interni diretti, cioè quelli che si manifestano nei sentimenti di colpa e di vergogna che prova chi tradisce una norma (cap. 2, John Braithwaite). Un esempio è l’uso della contravvenzione, inviata a domicilio del proprietario dell’auto, allo scopo di scoraggiare i clienti delle prostitute. Secondo questa strategia di intervento, non è tanto la minaccia della contravvenzione che di per sé dovrebbe indurre i clienti a non frequentare più le prostitute, quanto piuttosto il timore di compromettere la propria reputazione e di essere disapprovati dai propri familiari o dalle proprie compagne o dai propri datori di lavoro. In conclusione, secondo la teoria della deterrenza, una volta che il criminale viene messo sotto controllo, non può essere altro che punito, per dimostrare ai potenziali rei che il crimine non paga (natura del messaggio: chi sbaglia paga). Inoltre, siccome il comportamento non sarebbe influenzato da fattori sociali, familiari e culturali, la rieducazione e la riabilitazione dei detenuti non rientrano tra i compiti del carcere. Ciò non vuol dire che i detenuti non debbano essere trattati con umanità e rispettando la legge. Come si è visto, secondo Beccaria e la Scuola classica, la pena deve risparmiare inutili sofferenze al condannato, ma deve comunque far soffrire il reo, poiché diversamente, non rappresenterebbe un costo e non avrebbe il suo effetto deterrente: basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto e in questo eccesso di male deve essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico (Beccaria). Secondo questo principio di less elegibility, la detenzione, tra le misure previste dal nostro ordinamento, è indubbiamente la pena che procura più sofferenza al condannato poiché lo priva della sua libertà impedendogli di mantenere relazioni sociali con familiari, amici, ecc., di una serie di beni e servizi che caratterizzano la vita quotidiana, delle relazioni etero sessuali, dell’autonomia, dell’indipendenza e della sicurezza personale (Sykes). 2.2 La prevenzione situazionale. Secondo la prospettiva della scelta razionale, la prevenzione sociale è “inefficace” in quanto chiunque potrebbe commettere un reato qualora si presentasse funziona per quelli che hanno un basso grado di coinvolgimento nella devianza e che ritengono giusto rispettare le leggi e punire coloro che, infrangendole, mettono in discussione il contratto sociale alla base del sistema normativo. Secondo Slapper e Tombs, per i colletti bianchi, il timore di compromettere la propria immagine pubblica di onesti cittadini attraverso un arresto può fungere da deterrente. Inoltre, secondo la teoria della prevenzione speciale e generale, la pena deve avere la funzione di alzare i costi del crimine, senza avere alcuna funzione rieducativa, quindi, la condizione del criminale condannato deve essere meno preferibile delle condizioni di vita di qualsiasi persona rispettosa della legge, pertanto, l’adozione di una misura alternativa al carcere (nel caso di Luca di affidamento in prova ai servizi sociali), potrebbe minare l’efficacia deterrente della pena, dimostrando ai criminali dal colletto bianco che si può evitare di scontare tutta la pena in carcere. 2. Per quanto riguarda la prevenzione situazionale, le strategie di prevenzione del crimine dei colletti bianchi, come quello di ogni altro crimine, devono intervenire sulle strutture di opportunità collegate ai diversi tipi reato (corruzione, concussione, falso in bilancio, inquinamento ambientale, ecc.), tenendo conto dei fattori organizzativi. Coerentemente con il meccanismo esplicativo della teoria della scelta razionale, si dovrebbe intervenire per potenziare il controllo sociale sul comportamento dei dirigenti attraverso due tipi di interventi: • prevedendo forme di controllo esterno (ispezioni periodiche), per aumentare, in coloro che sono i responsabili dei reati (smaltimento dei rifiuti industriali), la percezione del rischio di essere scoperti; • sensibilizzando le potenziali vittime di tale reato, in modo da favorire la loro mobilitazione per vigilare sul comportamento dei colletti bianchi. 3.3 Il caso del reato predatorio. L’immigrato irregolare che adotta un comportamento criminale è considerato un individuo che sceglie liberamente di infrangere la norma penale quando i benefici che può ricavare dall’atto siano superiori ai costi che deve sostenere. Secondo la prospettiva della scelta razionale, i bisogni che spingono l’immigrato (Mohamed) ad infrangere le norme penali, sono gli stessi che orientano le azioni di coloro che non infrangono le leggi (denaro, status, amicizia, sesso, divertimento, ecc.). Il caso di Mohamed: spiegazione e intervento. Facendo riferimento al caso specifico, si dovrà ricostruire il processo decisionale in relazione alle decisioni di “coinvolgimento” e a quello di “evento”, poiché l’analisi aggregata dei processi decisionali degli autori dei reati di spaccio e scippo può consentire di individuare le strategie di prevenzione situazionale più efficace (politiche colletti bianchi). 1. Per quanto riguarda la deterrenza, secondo la teoria della prevenzione speciale, è probabile che qualsiasi individuo razionale (Mohamed), interrompa la sua carriera criminale per non andare incontro a nuove sanzioni. Come si è visto precedentemente, l’efficacia deterrente della pena dipende però dalla natura dell’atto e dal grado di coinvolgimento nel delitto come stile di vita da parte del criminale. La pena, secondo questa prospettiva, non deve avere alcuna funzione rieducativa; l’unico scopo della sanzione è quello di punire il reo (Mohamed) trasmettendogli un preciso messaggio da parte dello Stato: il crimine non paga, si devono rispettare le leggi. 2. Per quanto riguarda la prevenzione situazionale, adottando la teoria della scelta razionale, la criminalità degli immigrati non si previene migliorando la condizioni sociali ed economiche dei potenziali criminali, ma intervenendo sulle condizioni che rendono possibili i singoli atti criminali. A tal proposito le strategie di intervento sono molteplici: • rendere la vittima un “bersaglio” più difficilmente raggiungibile. In questo caso rientrano tutti quegli interventi che sensibilizzano le potenziali vittime, aiutandole ad individuare le situazioni a rischio e ad adottare comportamenti che le rendano bersagli designati meno appetibili o che riducano i danni di un eventuale scippo subito (non tenere la borsa nella direzione della strada); • prevedere la presenza di un “guardiano capace”. In questo caso rientrano tutti quegli interventi che rafforzano il controllo sociale all’interno di quelle zone in cui si verificano più facilmente gli scippi; • rendere il territorio maggiormente controllabile e difendibile (potenziare l’illuminazione e usare videocamere in determinati luoghi); • Avviare programmi di prevenzione comunitaria che prevedano il coinvolgimento dei residenti nella sorveglianza degli hot spots; e programmi che prevedono una maggiore sorveglianza da parte della polizia degli hot spots e un maggior contatto tra la polizia e i cittadini residenti i gli operatori commerciali (poliziotto di quartiere). CAP. 2 IL PARADIGMA SOCIALE: DURKHEIM E LA SCUOLA DI CHICAGO 1. LE TEORIE Nel corso del XIX sec. emerge un paradigma sociale che considera la devianza un “fatto sociale”, poiché industrializzazione, urbanizzazione e immigrazione di massa hanno favorito lo sviluppo nelle città di alti tassi di criminalità e appunto di devianza. Questa prospettiva, rifiuta la spiegazione utilitarista, e sostiene, che le cause del comportamento deviante, non sono riconducibili a spiegazioni di tipo psicologico e biologico ma vanno individuate in quelle condizioni sociali, materiali ed ambientali che gli individui non possono controllare e che li predispongono a certi comportamenti. Il deviante tende ad essere rappresentato come vittima della società. All’interno del paradigma sociale della devianza e del crimine troviamo tre importanti teorie: • La prima fa riferimento a Durkheim che individua nell’anomia, la causa degli alti tassi di devianza e criminalità nella società industriale; • La Scuola di Chicago, che fa riferimento alla disorganizzazione sociale per evidenziare come la devianza e la criminalità non siano caratteristiche degli individui ma piuttosto dei contesti sociali in cui tali individui vivono (distribuzione territoriale delle patologie); • La teoria struttural-funzionalista, che esamina il rapporto tra devianza, struttura sociale e culturale di una società. 1.1 Devianza e anomia. Il contributo teorico di Durkheim. D. propone una concezione relativistica della criminalità secondo la quale: è criminale un comportamento che viene giudicato negativamente dalla maggior parte dei membri di una collettività poiché viola le norme e i valori di tale collettività. Un atto, quindi, può essere considerato deviante soltanto facendo riferimento al contesto sociale e culturale in cui si manifesta: non esistono quindi comportamenti “intrinsecamente” devianti, ma comportamenti che sono giudicati tali poiché urtano l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società. La devianza è un fatto sociale normale. Secondo D., la criminalità è un fenomeno sociale “normale” poiché è presente in ogni tipo di società. Ciò fa si che la criminalità debba svolgere un importante “funzione sociale” come quella del mantenimento della coesione sociale. Infatti, un atto criminale, determinando una reazione della società, rafforza i sentimenti collettivi contro la trasgressione della norma e quindi indirettamente contribuisce a rafforzare l’ordine sociale, ricordando ai membri della società ciò che in quel momento storico e in quella determinata società è lecito e ciò che non lo è. Secondo la prospettiva di D. la devianza, come sostiene ERIKSON, non si verifica soltanto quando la società funziona male, ma al contrario, contribuisce alla stabilità della vita sociale poiché avvicina e concentra le coscienze oneste. Per dimostrare tale tesi D. propone l’esempio di una società dei santi, cioè una società di persone virtuose che potremmo presumere non metterebbero mai in atto i comportamenti devianti che caratterizzano le nostre società. Anche in questa società, però, saranno messi in atto comportamenti che, offrendo i sentimenti e le credenze dei suoi membri ed essendo quindi percepiti come una minaccia per la coesione sociale, susciteranno una reazione sociale che avrà lo scopo di rafforzare la coscienza comune e mantenere l’ordine sociale. D. considera gli uomini come esseri viventi i cui desideri non sono limitati né dalla costruzione organica (come nel caso degli animali), né da quella psicologica. Per D. l’uomo ha bisogno di un’autorità morale che regoli la sua condotta e agisca da freno: la società è, quindi, la sola potenza che può porre limiti alle inclinazioni egoistiche degli individui consentendo loro di coesistere pacificamente. Nel momento in cui, la società, non agisce più come potere che regola il comportamento dei suoi membri e non è più in grado di imporre loro alcun limite, si cade in una condizione di anomia, cioè quell’assenza di norme (deregolamentazione), che avviene nella società quando i legami sociali si indeboliscono e la società stessa non è più in grado di regolare i sentimenti e le attività degli individui (fatto sociale). Anomia e devianza. Per spiegare l’aumento del tasso di devianza, D., ricorre all’anomia. Egli sviluppa il concetto di anomia nel suo studio sul suicidio. D. osservando come non esistano società in cui il suicidio non si verifichi, prova a dimostrare come tale fenomeno, che sembrerebbe dover dipendere da fattori individuali, qualora lo si consideri come fenomeno aggregato, possa essere studiato come fatto sociale. Analizzando i tassi di suicidio nell’ambito di una stessa società per un periodo di tempo non troppo esteso, D. mette in evidenza come tali tassi non varino nel breve periodo, poiché le condizioni di vita dei popoli restano immutate. Nel lungo periodo invece, si possono osservare mutamenti nei tassi che denotano la presenza di profondi cambiamenti strutturali della società. D. individua tre tipi di suicidio: - il suicidio egoistico, risultante da una eccessiva individualizzazione, si verifica a causa della scarsa “integrazione sociale” che non permette all’individuo di affrontare i problemi quotidiani. D. analizzando le categorie di persone che si suicidano, ha notato che in presenza di legami sociali forti il tasso di suicidio è notevolmente ridotto se non assente (i cattolici si suicidano in misura maggiore dei protestanti, i celibi dei coniugati, mentre nelle società attraversate da “grandi fenomeni sociali” come le guerre popolari, i tassi di suicidio diminuiscono); - il suicidio altruistico, si verifica quando l’individuo è troppo inserito nel tessuto sociale e ha un eccessivo attaccamento al gruppo, che lo spingono a sacrificarsi per il bene della comunità (il comandante che affoga insieme alla nave); - il suicidio anomico (ossia contro le regole), pone le condizioni di sofferenza dell’individuo in relazione alla società. Viene commesso generalmente da persone le cui passioni e i cui desideri sono violentemente repressi da una disciplina o da regole oppressive. Per D. si tratta di un atto estremo, la cui frequenza aumenta nei momenti di crisi e benessere economico, mentre diminuisce nei periodi di depressione dovuti alla presenza di conflitti, guerre e disordini politici. Secondo la prospettiva teorica di D. non ci si deve interrogare sulle ragioni per cui le persone diventano criminali, ma spiegare come i membri di una società vengano inibiti dall’adottare comportamenti devianti (teoria del controllo sociale: formale e informale). La teoria del controllo sociale. HIRSCHI utilizza la teoria del controllo sociale per spiegare il comportamento deviante degli adolescenti. Egli facendo riferimento a D., ritiene che l’uomo sia un essere egoista, il cui comportamento sarebbe orientato prevalentemente al perseguimento dei propri interessi se non vi fosse la società a contenerlo. Quando questo legame tra individuo e società si indebolisce o si annulla, si manifesta il comportamento deviante. Secondo HIRSCHI i legami sono caratterizzati da quattro elementi: attaccamento, impegno, coinvolgimento e convinzione. 1. L’attaccamento consiste nell’interiorizzazione delle norme della società. Proprio la forza di tale attaccamento può inibire il comportamento deviante poiché quanto più un soggetto è legato ad amici, genitori, insegnanti, vicini, tanto più è improbabile che sia disposto a mettere in atto comportamenti devianti, in quanto violando le norme sociali, teme di perdere la fiducia, l’affetto e la stima di coloro a cui si è legati emotivamente (controllo sociale indiretto o interno). 2. L’impegno rappresenta l’investimento, in termini di tempo e di energia, di una persona in attività sociali convenzionali (lavorare, studiare ecc.). Il timore di perdere l’investimento fatto nel mondo convenzionale può scoraggiare il soggetto dal compiere un atto deviante. 3. Il coinvolgimento fa riferimento al tempo che una persona dedica alle diverse attività. Quanto In tal modo, cercando di cogliere il punto di vista dei devianti, i sociologi di Chicago li hanno rivalutati: tali studi individuano le cause che hanno originato il fenomeno deviante per eliminare “sia le cause, sia il loro prodotto”. Così, la devianza smette di essere considerata una patologia individuale, poiché non sono gli individui ad essere patologici, ma la società o una parte di essa. Al concetto di patologia individuale si contrappone quello di diversità, inteso come variante o cambiamento sostenibile. In questo modo riuscirono a studiare le regioni morali delle città con lo scopo di descrivere i diversi stili di vita dei devianti e i loro mondi sociali. Devianza e conflitto culturale. La teoria del “conflitto culturale”, è stata utilizzata per spiegare alcune forma di devianza e criminalità degli immigrati. Secondo questa teoria, il deviante, non è un soggetto “patologico”, ma è un individuo che si è conformato alle norme di condotta della propria cultura. Il conflitto, si origina quando l’osservanza delle norme della propria cultura induce un soggetto ad adottare un comportamento che viola la norme di condotta della cultura dominante. Per esempio, i gruppi sociali che detengono il potere politico (gruppo dominante) impongono le proprie norme di condotta ai gruppi subordinati, determinando, così, una situazione conflittuale. Essa venne elaborata da SELLIN, secondo il quale, le definizioni legali, di ciò che è criminale e ciò che non lo è, sono relative poiché mutano nel tempo come risultato dei cambiamenti nelle norme di condotta che regolano il comportamento dell’individuo nella vita quotidiana. Egli distingue due tipi di conflitto culturale: primario e secondario. Quello primario si verifica quando le norme di una determinata cultura sono considerate devianti nell’ambito di un’altra cultura (imporre il proprio sistema normativo a un gruppo di un altro territorio). Un uomo, che conformandosi alle norme della propria cultura volesse sposare in Italia due o più mogli, commetterebbe un reato. Quello secondario si verifica, invece, nell’ambito della stessa cultura, quando i membri di una società (subcultura) definiscono normale e non criminale un comportamento che altri membri della stessa società (cultura dominante) considerano deviante. Per esempio il consumo di droghe, è considerato un comportamento lecito in alcune subculture, mentre è considerato illegale ed immorale nell’ambito della cultura dominante. 2. LE POLITICHE Secondo le teorie dell’anomia, della disorganizzazione sociale (trasmissione culturale) e del conflitto culturale sono le condizioni sociali, culturali e ambientali in cui vivono gli individui, che producono devianza, pertanto, il comportamento deviante si previene e si controlla intervenendo sulla società o su parti di essa e non sui singoli individui. Le politiche, ispirate a queste prospettive teoriche, hanno finalità di promuovere lo sviluppo di programmi: • che abbiano lo scopo di riorganizzare gli spazi di vita in particolari contesti territoriali per rendere più difendibile lo spazio fisico; • che consentono di rafforzare i legami sociali tra i membri di una stessa comunità (attività ricreative per i giovani); • che intervengano sulle capacità di empowerment della comunità rendendo i membri consapevoli dei problemi della propria comunità e capaci di trovare soluzioni ad essi comuni; • che rimuovono o riducono il “conflitto culturale”, favorendo l’integrazione degli immigrati nella società in cui vivono, facilitando così, l’acquisizione dei valori e delle norme di condotta della cultura dominante. Questo processo di socializzazione culturale può avvenire in diversi ambiti della vita sociale (scuola, lavoro, tempo libero, sport, ecc.) e deve essere accompagnata da un’effettiva integrazione sociale, altrimenti può generare tensione e ciò può favorire una condotta deviante. Tale processo di integrazione può essere orientato da tre logiche: 1. La logica dell’immigrazione temporanea, secondo cui l’integrazione dell’immigrato deve essere limitata poiché l’immigrazione è considerata un fenomeno contingente, funzionale alle esigenze del mercato del lavoro. 2. La logica dell’assimilazione, che promuove l’omologazione culturale dei nuovi arrivati affinché si integrino nella società ricevente rendendosi indistinguibili dalla maggioranza della popolazione. 3. La logica pluralista, che promuove le pratiche politiche multiculturali le quali implicano che i membri della società ricevente accettino le differenze culturali e modifichino di conseguenza i propri comportamenti sociali e le proprie istituzioni. Nel caso dello sviluppo di programmi per rafforzare i legami sociali, se si considera la devianza come il prodotto di una situazione di disorganizzazione sociale, lo scopo degli interventi è quello di rafforzare il controllo sociale informale attraverso il consolidamento delle relazioni sociali che legano le persone alla comunità locale. Come osserva SAMPSON, non sono i legami sociali di per sé a scoraggiare il crimine, ma quelli che favoriscono il controllo sociale informale e la coesione sociale: vi sono, infatti, situazioni in cui i legami forti tra determinati membri di una società possono favorire il consolidamento di reti sociali che promuovono le condizioni criminali. Le reti sociali, infatti, nella misura in cui favoriscono lo sviluppo e il mantenimento di una cultura dell’illegalità e il reperimento dei mezzi illegittimi, possono anche essere utilizzate dalle organizzazioni criminali per perseguire i propri scopi (bande criminali, organizzazioni mafiose). SHAW e MCKAY applicarono le loro teorie nella realizzazione di un programma di prevenzione, denominato Chicago Area Projet, che, gestito da “comitati locali”, aveva lo scopo di promuovere la riorganizzazione dei quartieri. A tal proposito, furono organizzate attività ricreative per i ragazzi, campagne per sensibilizzare i residenti sulla necessità di migliorare le condizioni di vita della comunità e di aiutare i giovani che erano a rischio di devianza o che avevano avuto problemi con la giustizia. Tale progetto cercò di sviluppare un positivo interesse dei residenti per la loro comunità e di promuovere un attivo coinvolgimento degli stessi nella gestione dei problemi delle zone in cui vivevano. Alcune ricerche hanno dimostrato come la variazione dei tassi di criminalità nei diversi quartieri non sia soltanto attribuibile alle caratteristiche socio demografiche dei residenti, ma soprattutto alla loro capacità di mobilitarsi per affrontare questioni di comune interesse e mantenere un efficace controllo sociale informale. Tale capacità, definita efficacia collettiva, dipende in larga parte dalle condizioni di mutua fiducia e solidarietà che si instaurano tra i residenti. Nelle zone urbane caratterizzate da un’elevata concentrazione di immigrati o un’elevata instabilità residenziale, l’efficacia collettiva è più debole, poiché queste comunità non dispongono del capitale sociale necessario per esercitare un controllo sociale informale sul proprio territorio e garantire che gli spazi pubblici siano fruibili come luoghi “sicuri”. Secondo SAMPSON e RAUNDENBUSH il disordine e le inciviltà urbane non sono la causa dell’aumento della criminalità, infatti, hanno dimostrato come vi sia meno criminalità nei quartieri in cui è maggiore la coesione sociale e sono maggiori le aspettative condivise sulla necessità di esercitare forme di controllo sociale sul territorio. Quindi la criminalità non si riduce reprimendo duramente gli autori delle inciviltà urbane, ma la si contrasta sostenendo le comunità locali nella loro capacità di mobilitarsi per affrontare problemi di comune interesse, cioè nella loro capacità di organizzazione sociale. 3. APPLICAZIONI DELLE TEORIE AI CASI facendo riferimento alla teoria dell’anomia di Durkheim e della disorganizzazione sociale della Scuola di Chicago e della teoria del conflitto culturale. 3.1 Il caso del tossico dipendente. Quando si adottano la teoria dell’anomia di D. e della disorganizzazione sociale della Scuola di Chicago, il consumo di droghe viene studiato come un problema sociale, infatti, lo si ritiene un “sintomo” del cattivo funzionamento della società (non si studiano le caratteristiche individuali del consumatore). Secondo entrambe le teorie la devianza e il crimine sono il prodotto dell’indebolimento del controllo sociale formale. Secondo la teoria della trasmissione culturale della devianza, i ragazzi che vivono in un quartiere dove si registra un aumento dell’uso di droghe, avranno maggiori probabilità di apprendere valori e norme tipici delle subculture della droga e di diventare a loro volta consumatori. Il caso di Mario: spiegazione e intervento . Analizzando il singolo caso: occorre valutare la rilevanza statistica del comportamento deviante, per capire se il consumo di droghe illegali sia un caso isolato (Mario) o un fenomeno diffuso nel quartiere, consultando i dati di fonte secondaria, oppure realizzando indagini ad hoc, per vedere se ci sono differenze significative con altri quartieri della città. Se il fenomeno è statisticamente rilevante, occorre verificare se il consumo di droghe è variato nel corso degli anni: se sono aumentati, in uno specifico quartiere (Mario), i tossicodipendenti registrati dalle diverse istituzioni, si deve verificare in quale misura tale aumento sia il sintomo della presenza di processi che stanno realmente minando il “buon” funzionamento della società. Qualora la risposta fosse affermativa, l’aumento del consumo di droga in uno specifico quartiere, essendo interpretabile come un sintomo di disorganizzazione sociale/anomia, potrebbe essere spiegato come uno degli effetti dell’indebolimento dei legami sociali, in quanto, la comunità locale non sarebbe più in grado di esercitare un controllo sociale informale sui propri membri, in particolare su quelli più giovani. In questo caso, i programmi di intervento, non dovranno essere rivolti al singolo tossicodipendente, ma dovranno migliorare il complessivo funzionamento della società, rafforzando i legami sociali e promuovendo quelle potenzialità che rendono la comunità locale capace di trovare una soluzione ai propri problemi (efficacia collettiva). Tale filosofia di intervento può essere adottata anche per i singoli consumatori (Mario), facendo in modo che il singolo individuo: • Investa più tempo ed energie in attività convenzionali, aiutandolo, per esempio, nella ricerca di un lavoro. In questo modo il soggetto in questione (Mario) acquisirà uno status (di lavoratore), che potrà inibire il suo comportamento deviante per due ragioni: in primo luogo, la paura di perdere la reputazione infrangendo la legge; in secondo luogo, il datore di lavoro e i colleghi potranno esercitare un efficace controllo informale sul suo comportamento. • Dedichi più tempo a tali attività convenzionali, favorendo, per esempio, il suo inserimento in attività ricreative e sportive che lo aiutino a trascorrere il suo tempo libero in attività non devianti (più palestra meno amici tossicodipendenti). • Venga eventualmente allontanato dal proprio contesto di vita e inserito presso una struttura residenziale (comunità terapeutica) con lo scopo di promuovere quei legami in grado di favorire un più efficace controllo sociale. • Sia convinto a non infrangere più determinate norme sociali perché esse hanno un senso e, quindi, devono essere rispettate (vedi cap. 4). La teoria del conflitto sociale. Quando si adotta la teoria del conflitto culturale, si dovrà valutare se il consumo di droghe illegali di un individuo sia un comportamento non stigmatizzato o addirittura promosso dalle norme di condotta di una cultura (o subcultura) a cui egli fa riferimento: il consumo di droghe potrebbe essere lecito per i membri della “subcultura” e illecito per i membri della “cultura dominante”. Vi possono essere però, culture e subculture in cui determinati modelli di consumo o il consumo di determinate sostanze sono tollerati. In questi casi l’uso di droghe viene considerato un comportamento “normale”, così come è normale per la maggior parte dei membri della nostra società consumare tabacco, alcolici o psicofarmaci. Secondo questa prospettiva teorica, il consumo di droghe, non viene sanzionato perché è sintomo di una patologia sociale o di un cattivo funzionamento sella società, ma perché alcuni gruppi sociali hanno il potere di definire questo comportamento illegale, deviante e di applicare con successo le relative sanzioni ai trasgressori. Il caso di Mario: spiegazione e intervento. Analizzando il singolo caso, occorre innanzitutto capire se il consumo di droga da parte del singolo individuo (Mario) sia espressione di una determinata subcultura (come e dove è avvenuta l’iniziazione all’uso di droghe leggere? È avvenuta in gruppo? Il passaggio all’eroina è avvenuto nello stesso gruppo o in uno diverso) e quali siano le norme di condotta che orientano il comportamento di consumo dei membri di tale subcultura. Le politiche di intervento finalizzate ad affrontare il consumo di droghe seguono due logiche: • La prima è caratterizzata da un atteggiamento tollerante nei confronti degli autori di un “reato senza vittima”, quale è quello del consumo di droghe illegali (depenalizzazione e legalizzazione). In questo caso (etichettamento cap. 5), si dovrà fare attenzione a contenere gli effetti negativi della reazione sociale sul singolo individuo (Mario). • La seconda favorisce l’assimilazione dei valori e delle norme di condotta della cultura dominante da parte dei membri delle subculture. 3.2 Il caso del criminale dal colletto bianco. La criminalità dei colletti bianchi, non può essere spiegata attraverso la disorganizzazione sociale, poiché, sarebbe difficilmente sostenibile l’ipotesi che il falso in bilancio, oppure il disastro doloso ambientale, si verifichino perché la comunità locale non riesce a controllare efficacemente gli autori di tali comportamenti a causa del deterioramento fisico e urbano. Può essere spiegata, invece, con il concetto di anomia, in quanto, in grado di analizzare sia la devianza dei poveri sia quella dei ricchi. 1. LE TEORIE Nell’ambito del paradigma sociale le teorie struttural-funzionalistiche studiano la società come un sistema integrato composto da strutture sociali e culturali tra loro indipendenti, ciascuna delle quali fornisce un particolare contributo (detto funzione), a favore del mantenimento di una o più condizioni essenziali per l’esistenza e la riproduzione del sistema sociale. Mentre i teorici del conflitto, focalizzano la loro analisi sulle divisioni interne alla società e sui conflitti che sorgono tra i diversi gruppi sociali per il controllo di quelle risorse ritenute indispensabili per il perseguimento dei propri interessi, per i funzionalisti ogni società è caratterizzata da un sistema normativo condiviso dai propri membri, i quali, apprendono, attraverso la socializzazione primaria e secondaria, come agire in modo conforme alle aspettative di ruolo. Secondo questa prospettiva, quindi, il deviante è un soggetto che, in seguito ad una socializzazione inadeguata, agisce violando tali aspettative, poiché non ha adeguatamente interiorizzato norme e valori. Secondo la prospettiva funzionalista (PARSONS), gli attori sociali agiscono facendo riferimento a modelli che sono ritenuti desiderabili non soltanto dal soggetto stesso ma anche dagli altri membri della società. In ogni società, infatti, sono definiti culturalmente sia le mete a cui gli individui possono legittimamente aspirare, sia i modi accettabili attraverso cui tali mete possono essere perseguite. Non tutti i membri della società, però, per la posizione che ricoprono nell’ambito della struttura sociale, dispongono dei mezzi previsti dalle norme istituzionali per raggiungere quelle mete che la struttura sociale propone (Merton fa l’esempio del successo economico). Poiché i mezzi non sono distribuiti in modo “eguale” fra tutti i membri della società , determinati gruppi sociali (i più svantaggiati) sono costretti a sperimentare lo scarto tra le mete a cui sono stati culturalmente indotti ad aspirare, e le limitate risorse (opportunità) di cui dispongono per perseguire i loro fini. Quindi, quando in una società è presente la dissociazione fra le mete culturalmente indotte dal sistema sociale e la scarsa importanza che si riserva ai mezzi legittimi che devono essere utilizzati per raggiungerle, si genera l’anomia. La devianza, può essere considerata, quindi, un sintomo di tale “dissociazione”, poiché nei gruppi in cui le due componenti della struttura sociale sono poco integrate, si verifica la demoralizzazione, cioè il processo attraverso cui le norme perdono il loro potere di regolare il comportamento, con il risultato di provocare quell’assenza di norme che è una componente dell’anomia. Se per D. la devianza scaturisce dalla debolezza delle norme, poiché una società caratterizzata dall’anomia non è in grado di regolare le inclinazioni egoistiche degli uomini. Per M., al contrario, il comportamento deviante deve essere considerato un prodotto della struttura sociale e culturale cosi come lo è il comportamento conformista. Quindi, la devianza, scaturisce dall’esistenza di norme forti, che entrano in contrasto con la struttura sociale: “se la struttura sociale reprime talune disposizioni ad agire, ne crea altre”. M. esemplifica il suo ragionamento facendo riferimento alla società americana, che è caratterizzata da tre assiomi culturali: - ogni americano deve tendere al perseguimento delle mete ambiziose in quanto esse sono raggiungibili da tutti; - un eventuale insuccesso deve essere considerato soltanto come una tappa intermedia che prelude al raggiungimento di una meta; - il vero insuccesso consiste nell’abbassare le proprie ambizioni e nel rinunciare a perseguire mete ambiziose. I tipi di adattamento individuale. In una società caratterizzata da questa “tensione” tra le mete da raggiungere e le procedure istituzionalizzate, M., si chiede come reagiscono gli individui, giungendo, così, a descrivere cinque tipi di adattamento individuale: la conformità, l’innovazione, il ritualismo, la rinuncia, la ribellione (+ accettazione mete/mezzi; - rifiuto mete/mezzi). 1. La conformità (++) è l’adattamento più comune e diffuso quando una società è stabile. In questo caso, il sistema sociale si mantiene in equilibrio nella misura in cui i propri membri interagiscono conformandosi alle aspettative di ruolo collegate alla posizione sociale che ricoprono: gli individui perseguono le mete culturali utilizzando i mezzi istituzionalizzati a loro disposizione. 2. L’innovazione (+-) si verifica quando la struttura culturale, spinge i membri della società a perseguire la meta del successo (ricchezza e potere) con mezzi ritenuti istituzionalmente proibiti, ma sicuramente più efficaci di quelli che potrebbero essere utilizzati in modo legittimo. M. ritiene che le maggiori pressioni verso un comportamento deviante vengono esercitate sui membri delle classi sociali inferiori poiché essi, da un lato sono incentivati dalla struttura culturale a perseguire il successo economico, dall’altro, sono limitati nell’accesso ai mezzi istituzionalizzati per conseguire tale meta dalla struttura sociale stratificata in classi. Si tratta quindi di soggetti che hanno subito un processo di socializzazione imperfetto, nel senso che non hanno interiorizzato le norme istituzionali ma ambiscono a raggiungere la meta del successo economico pur non potendo disporre dei mezzi legittimi per fare ciò. 3. Il ritualismo (-+) è scelto prevalentemente dai membri della classe sociale media-inferiore, poiché i modelli di socializzazione di tale gruppo ne sono più predisposti: ad esempio i genitori che appartengono a questa classe sociale spingono i loro figli ad aderire al valore culturale del successo personale ma nello stesso tempo li educano al rispetto delle norme istituzionali. Questo atteggiamento viene considerato deviante perché gli uomini devono lottare attivamente, preferibilmente con i mezzi ammessi dalle istituzioni, per avanzare e salire nella gerarchia sociale. Il ritualista è un individuo che, avendo abbassato le proprie pretese, rinuncia a perseguire la meta culturale del successo economico e della rapida ascesa sociale. Facendo ciò , egli continua, però a rimanere vincolato, in modo quasi coercitivo, alle norme istituzionali. Il ridimensionamento delle proprie ambizioni e l’adozione di un comportamento routinizzato costituiscono un espediente che consente al soggetto di gestire l’ansia, che è uno stato emotivo che può maturare in una situazione in cui la competizione tra gli individui è molto forte. 4. La rinuncia (--) è il modo di adattamento (privato) meno comune e ha maggiori probabilità di verificarsi quando un individuo ha interiorizzato adeguatamente sia i valori finali, sia le norme istituzionali, ma la sua posizione sociale non gli consente l’accesso ai mezzi legittimi per raggiungere il successo economico. Egli potrebbe utilizzare mezzi illegittimi per perseguire la meta del successo, ma gli obblighi morali non gli consentono di avvalersi di vie illegali. Questa situazione conflittuale tra procedure illegittime e il dovere morale di utilizzare soltanto i mezzi istituzionali, scaturisce appunto, nella rinuncia a perseguire la meta del successo. Con questa scelta l’individuo diventa un disadattato: è nella società ma non è della società poiché non condivide il comune sistema di valori (visionari, mendicanti, vagabondi, reietti, ubriaconi, drogati). 5. La ribellione (-/+ -/+) è un tipo di adattamento collettivo tipico dei rivoluzionari. I ribelli sono coloro che rifiutano le mete e i mezzi istituzionali e si adoperano attraverso il ricorso all’azione collettiva per trasformare la struttura sociale. Nel corso degli anni la teoria dell’anomia elaborata di M. ha subito numerose riformulazioni. Una delle più significative è quella apportata da AGNEW, secondo il quale M. e i teorici della tensione strutturale, hanno identificato soltanto un tipo di tensione criminogena: quella che si genera quando un individuo si accorge di non essere in grado, ricorrendo alle vie istituzionali, di raggiungere la meta del successo economico. Esiste, invece, un altro tipo di tensione che può risultare dall’incapacità di sfuggire legalmente da situazioni dolorose. Queste situazioni possono includere l’aver subito un abuso sessuale, il lavorare in condizioni avverse, esperienze scolastiche negative, ecc. In queste condizioni le persone possono adottare un comportamento deviante per reagire a tali frustrazioni: fuggire da casa per evitare di vivere condizioni familiari negative, affrontare la situazione assumendo droga. Nonostante le varie riformulazione, però, le assunzioni principali della teoria dell’anomia sono rimaste costanti: • gli esseri umani sono socializzati a perseguire determinate mete culturali adottando specifici mezzi istituzionali; • in una società in equilibrio stabile, le persone adottano una condotta conforme alle aspettative di ruolo; • in una società caratterizzata dall’anomia, gli individui sono indotti ad una condotta non conformista; • il comportamento deviante è una “normale” risposta a particolari condizioni sociali poiché è il modo in cui la società è strutturata ed organizzata che determina le circostanze che inducono gli individui ad adottare un comportamento deviante. 1.2 La teoria della subcultura di Cohen: frustrazione di status e subculture delinquenti. La teoria di M. non è in grado di spiegare la devianza collettiva (quella delle bande), la violenza giovanile e la condotta deviante espressiva cioè non finalizzata all’acquisizione di un bene. I contributi teorici più importanti che spiegano tale fenomeno sono quelli di COHEN (subcultura delinquente giovanile) e di CLAWARD e OHLIN (bande delinquenti). Secondo questi autori la devianza è una soluzione collettiva (subcultura) a problemi di adattamento determinati dalle tensioni e frustrazioni che vivono i giovani appartenenti alla classe sociale inferiore nel tentativo di perseguire gli scopi prescritti dalla cultura dominante in condizioni che ne impediscono il conseguimento attraverso il ricorso a mezzi legittimi. COHEN in “Ragazzi delinquenti”, evidenzia come molti comportamenti criminali siano commessi da gruppi di ragazzi piuttosto che da singoli individui, che condividono una subcultura, cioè un insieme di norme e di valori che orienta le loro azioni e che si differenzia dalle norme e dai valori della cultura dominante. Egli ritiene necessario spiegare la genesi della subcultura delinquente giovanile, chiedendosi perché sorge e persiste entro certi quartieri delle città americane e perché si concentra soprattutto tra i giovani maschi della classe operaia. I contenuti della subcultura delinquente giovanile. Se si osservano i comportamenti dei giovani appartenenti alle bande, si può notare come essi non siano motivati da considerazioni razionali ispirati dalla ricerca dell’utile ma siano orientati dalla gratuità (nelle gangs essi rubano per ottenere un riconoscimento, evitare l’isolamento o la riprovazione dei compagni), dalla malignità (ricerca della provocazione e nella soddisfazione di battere il prossimo) e dalla distruttività (prende le proprie norme dalla più vasta cultura circostante e le capovolge). La subcultura come reazione collettiva a problemi di adattamento . Per spiegare la subcultura delinquente, C., parte da un postulato psicogenetico, ovvero: quando gli esseri umani si trovano di fronte ad un problema, mettono in atto strategie per affrontarlo. Egli sostiene che ogni individuo ambisce a raggiungere una posizione sociale di riguardo ma non tutti hanno le risorse e le capacità per raggiungere la meta (struttura legittima delle opportunità). Gli individui a cui mancano queste risorse e/o capacità richieste devono affrontare un tipico problema di adattamento. C. individua l’origine di tali problemi di adattamento nell’incapacità di raggiungere una posizione sociale di riguardo, cioè una condizione di rispetto agli occhi dei propri simili da parte dei ragazzi appartenenti alla classe operaia. Questa capacità di raggiungere un determinato status tra i propri pari dipende dai criteri di considerazione sociale (qualificazione o valutazione) che sono applicati per valutare la gente. La subcultura delinquente quindi rappresenta una soluzione collettiva ai problemi di “adattamento” determinati dalla distribuzione ineguale delle opportunità. Essa si forma quando un certo numero di individui con problemi di adattamento simili si trova in effettiva interazione e riescono a fissare nuove norme e nuovi criteri di considerazione sociale. I problemi di adattamento dei ragazzi della classe operaia. C. ritiene che l’origine della devianza sia strutturale poiché i giovani della classe operaia sono sottoposti a maggiori tensioni, rispetto ai giovani delle classi più elevate, nel raggiungimento di una posizione sociale di riguardo. A differenza di Merton, C. sostiene che la fonte principale di tensione non sia dovuta alla difficoltà che tali soggetti incontrano nel raggiungimento del successo economico, ma nel raggiungimento di uno status da cui derivi la considerazione sociale. I giovani della classe operaia faticano a raggiungere una condizione sociale di riguardo perché i criteri di qualificazione utilizzati nella società americana, sono quelli della classe media. I valori della classe media sono: l’ambizione, la fiducia in se stessi, la riluttanza a rivolgersi ad altri per chiedere aiuto, la partica delle buone maniere, il controllo dell’aggressività, l’occupazione costruttiva del proprio tempo libero, il rispetto della proprietà. I valori della classe operaia sono: l’etica della reciprocità; una maggiore quali è promossa da una specifica forma di organizzazione sociale degli slums (bassifondi). Essi utilizzano due variabili per classificare le forme di organizzazione sociale degli slums che tendono a promuovere subculture delinquenti distinte: • il grado di integrazione fra trasgressori di differenti livelli di età; • il grado di integrazione tra criminali e non criminali. 1. La subcultura criminale, consiste in un tipo di banda i cui membri utilizzano mezzi illegali (furto, estorsione) per procurarsi il denaro. Il comportamento criminale è considerato un mezzo per raggiungere lo scopo del successo. Essa tende a nascere negli slums integrati in cui vi sono stretti legami tra i criminali di differenti livelli di età e fra soggetti criminali e soggetti non criminali . Il criminale adulto ed affermato, essendo una figura familiare nel quartiere, è stimato e ammirato dai membri giovani della subcultura criminale e rappresenta un modello da imitare. Il giovane membro di una subcultura criminale impara ad ammirare e a rispettare i criminali più anziani. Questa stratificazione dell’organizzazione criminale in base all’età, fa si, che gli adulti criminali esercitano un efficace controllo sociale sulla condotta dei giovani criminali, limitandone il comportamento espressivo e costringendo i giovani che vivono una tensione strutturale ad adottare comportamenti criminali strumentali. La pratica delinquenziale lo aiuta ad acquisire sia la padronanza delle tecniche, sia l’orientamento del mondo criminale e ad imparare a cooperare con altri durante imprese criminali. 2. La subcultura conflittuale è caratterizzata da un tipo di banda i cui membri ricorrono alla violenza per acquisire uno status e si sviluppa negli slums caratterizzati da un’organizzazione sociale precaria e instabile che produce sui giovani forti pressioni verso il comportamento violento. Ciò è reso possibile da vari fattori: l’elevata mobilità geografica della popolazione residente, l’implementazione di programmi di risanamento urbano con cui si allontanano i vecchi inquilini e al loro posto si inseriscono degli estranei, i cambiamenti di impiego del terreno (zone residenziali invase da zone commerciali o industriali). Questo tipo di comunità non organizzata non è in grado di fornire ai giovani l’accesso ai mezzi legittimi per perseguire lo scopo del successo economico. Non essendovi né un’organizzazione criminale stratificata sulla base dell’età, né un’integrazione tra criminali e non criminali, in tali comunità non si può sviluppare nemmeno una stabile struttura illegale delle opportunità, infatti, l’assenza di organizzazioni criminali di adulti in grado di esercitare un controllo sociale sulla condotta dei ragazzi delle diverse bande, rende il loro comportamento imprevedibile e distruttivo (Cohen). 3. La subcultura astensionista, è caratterizzata dal consumo di droghe, cioè dalla continua ricerca del piacere proibito. L’adattamento astensionista è spesso considerato la soluzione individuale alle tensioni strutturali attraverso cui le persone interrompono le loro relazioni con gli altri membri della società e rinunciano a perseguire gli scopo convenzionali. I membri di questa subcultura vivono una condizione di doppio fallimento in quanto hanno fallito nel tentativo di perseguire il successo sia con i mezzi legittimi, sia con quelli illegittimi. Le attività svolte dai membri della subcultura astensionista sono finalizzate ad ottenere il denaro necessario all’acquisto di droghe, differenziandosi sotto questo aspetto dai membri delle subculture criminali per i quali lo scopo dell’attività criminale è quello di fare soldi. 2. LE POLITICHE Se il comportamento deviante è sintomo della dissociazione tra le mete prescritte culturalmente e le procedure strutturate socialmente per realizzare tali mete, le politiche di controllo della devianza avranno l’obiettivo di rimuovere o ridurre tale dissociazione in due modi: • Da un punto di vista strutturale intervenendo sulla ineguale distribuzione delle opportunità per rendere più accessibili i mezzi legittimi a tutti i gruppi sociali, attraverso l’implementazione di politiche sociali che favoriscono una maggiore redistribuzione delle risorse in favore dei soggetti appartenenti alle categorie svantaggiate. • Da un punto di vista culturale, evitando di promuovere aspirazioni che enfatizzano il perseguimento del successo personale a “qualsiasi costo”. Da un punto di vista strutturale, sono coerenti con la prospettiva teorica della tensione (e delle subculture delinquenti), le politiche che non si pongono l’obiettivo di punire i devianti, quanto piuttosto quelle che contrastano le cause della criminalità intervenendo sulla struttura delle opportunità attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro, il miglioramento del rendimento scolastico dei ragazzi, offerta di servizi sociali agli individui, alle famiglie, nonché ai membri delle bande, ecc. I teorici delle subculture ritenevano, che la delinquenza giovanile si potesse prevenire ed eliminare soprattutto attraverso la riorganizzazione delle comunità di slums (programmi condotti dagli assistenti sociali). Gli autori evidenziano come la violenza delle bande tendesse ad essere abbandonata nella misura in cui i programmi condotti dagli assistenti sociali aprivano nuove strutture di possibilità. Secondo questa prospettiva teorica è, pertanto, inefficace ogni programma rieducativo dei devianti che non sia affiancato da interventi finalizzati a contrastare le cause strutturali che spingono gli individui a trovare una soluzione deviante ai loro problemi di adattamento. Da un punto di vista culturale, l’integrazione dei membri di una società nei ruoli socioeconomici può essere migliorata non soltanto modificando la struttura sociale, ma anche: - contrastando a livello culturale quei valori che inducono le persone ad attribuire molta importanza alle mete che non alle procedure istituzionalizzate che si dovrebbero seguire per raggiungerle; - modificando i valori sociali che una società deve perseguire. La prima finalità si può conseguire intervenendo nel processo di socializzazione degli individui che appartengono ai gruppi sociali meno avvantaggiati, aiutandoli a interiorizzare l’importanza dell’uso dei mezzi istituzionali nel perseguimento delle proprie mete (la scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi che il successo si deve raggiungere soltanto attraverso il ricorso ai mezzi legittimi). Nel favorire la dissociazione tra valori finali e valori strumentali, la pubblicità gioca un ruolo di primo piano poiché induce molte persone a desiderare stili di vita che non si potrebbero permettere ricorrendo ai mezzi legittimi in loro possesso. Per affrontare questo problema secondo alcuni autori si potrebbe esercitare un controllo sulla comunicazione pubblicitaria per limitare i messaggi che promuovono la desiderabilità di certi beni di lusso e di certi stili di consumo. La seconda finalità si può perseguire modificando le mete che la società prescrive: COHEN riteneva fosse possibile anche una soluzione culturale della delinquenza nella misura in cui i criteri di qualificazione sociale non facessero riferimento soltanto ai valori della classe media, ma accogliessero anche quelli della classe operaia affinché i ragazzi di tale classe non rimanessero relegati in una condizione sociale inferiore che era la causa della frustrazione di status. Per COHEN la soluzione al problema della delinquenza giovanile non poteva essere affidata soltanto a scelte fondate su considerazioni tecniche ma era opportuno individuare i valori sociali che si intendevano perseguire: per esempio, in quale misura si è disponibili ad abbandonare il sistema di competizione e di discriminazione su cui era fondata la scuola per evitare che, valorizzando o premiando l’alunno meritevole si discriminasse quello trattenuto da qualche handicap? Quale prezzo la classe media era disposta a pagare per promuovere il cambiamento? Adottando la prospettiva funzionalista, se i valori sociali fondamentali di una società devono mutare, il cambiamento dovrà avvenire attraverso un processo di riforma condiviso dai membri di tutti i gruppi sociali: se il cambiamento della competizione per l’acquisizione di status è criminogeno, il suo abbandono in favore di un altro sistema dovrà avvenire con il consenso di tutte le classi sociali. Tale prospettiva di cambiamento culturale è diversa da quella delle teorie radicali del conflitto, secondo le quali il cambiamento potrà avvenire soltanto se la classe inferiore, attualmente svantaggiata dal sistema di competizione vigente, sarà in grado di imporre il proprio sistema alle altre classi sociali. 3. APPLICAZIONI DELLE TEORIE AI CASI facendo riferimento alla teoria dell’anomia (teoria della tensione) di Merton e elle teorie delle subculture (Cohen e Cloward/Ohlin). 3.1 Il caso del tossicodipendente. Il caso di Mario: spiegazione e intervento. 1. Secondo la teoria della tensione, gli individui (Mario classe media) consumano droghe perché essendo incapaci di raggiungere la meta dell’ascesa sociale con mezzi legittimi, risolvono il conflitto “evadendo” dalla situazione sociale in cui si trovano. La modalità di adattamento del tossicodipendente è quella della rinuncia. Secondo questa prospettiva per evitare l’uso di droghe come forma di evasione dalla società, si deve ridurre lo squilibrio tra i due elementi costitutivi che generano il conflitto : la struttura culturale e quella sociale. Da un punto di vista strutturale, implementando programmi che ridistribuiscono le opportunità istituzionalizzate fra tutti i membri della società. Da un punto di vista culturale, evitando di promuovere aspirazioni che enfatizzano il perseguimento del successo personale “a qualsiasi costo”. Per quanto riguarda il trattamento individuale (Mario), da un punto di vista strutturale, bisogna intervenire sulla condizione di “frustrazione” del singolo consumatore (Mario), individuando un percorso di aiuto che renda a lui più accessibili determinati mezzi istituzionali. Per esempio, utilizzando eventuali programmi finalizzati a ridurre l’abbandono scolastico ai vari livelli, si potrebbe metterlo nella condizione (attraverso l’erogazione di una borsa di studio) di terminare il suo percorso universitario e di acquisire, quindi, la laurea che gli consentirà di fare scelte professionali che attualmente gli sono precluse, rendendo concretamente possibile un miglioramento della sua posizione sociale . Sul versante culturale, invece, attraverso un percorso educativo che lo aiuti a ridefinire le proprie ambizioni in modo tale che esse siano realizzabili utilizzando risorse a lui concretamente accessibili in virtù della posizione sociale che ricopre e delle sue capacità. 2. Secondo la teoria delle subculture delinquenti elaborata da CLOWARD e OHLIN, i giovani maschi delle classi sociali inferiori, che vivono nei quartieri degradati delle grandi città, farebbero uso di droghe avendo fallito nel tentativo di acquisire uno status sia con i mezzi legittimi sia con quelli illegittimi (doppio fallimento). Analizzando il caso del singolo tossicodipendente (Mario) si deve, innanzitutto, verificare l’ipotesi del doppio fallimento e successivamente verificare se egli appartiene ad un gruppo che esprime una subcultura legata al consumo di droghe illegali. Se il tossicodipendente (Mario) abbia condotto uno stile di vita per molti aspetti convenzionale (maturità scientifica, iscrizione all’università, attività lavorativa saltuaria presso aziende, ecc.) vuol dire che non appartiene ad una subcultura astensionista: non è un tossicodipendente di strada la cui vita sociale e relazionale ruota intorno al mondo della droga. Inoltre, se non ha precedenti penali, vuol dire che non abbia alle spalle una carriera criminale fallita. Per queste ragioni, il consumo di droga (di Mario) potrebbe essere spiegato ricorrendo al meccanismo della tensione descritto da EHRENBER ma non può essere spiegato facendo riferimento a quello del doppio fallimento. 3.1.Il caso del criminale dal colletto bianco 1. La teoria della tensione è stata utilizzata per spiegare sia il comportamento deviante dei membri delle classi sociali superiori nell’esercizio della propria funzione (colletti bianchi); sia per l’adozione di comportamenti criminali da parte delle imprese (corporate crime). Per quanto riguarda i membri delle classi superiori (colletti bianchi) possono adottare comportamenti devianti nella misura in cui sperimentano una tensione tra l’aspettativa di conseguire la meta del successo economico e la difficoltà ad accedere ai mezzi istituzionalizzati. La scelta dell’innovazione è possibile nel momento in cui i tentativi di migliorare la propria posizione sociale, utilizzando le vie istituzionali, sono inficiati dalla scarsità dei mezzi legittimi di cui si può disporre per il perseguimento delle mete indotte dalla struttura culturale: per esempio, il funzionario di un Comune il cui status non gli consente di arricchirsi, può essere indotto a utilizzare mezzi illegittimi, a lui però accessibili, per perseguire tale meta, richiedendo somme di denaro ai cittadini per evadere con celerità dalle pratiche amministrative. Per quanto riguarda le organizzazioni (corporate crime), ciò che rende un’impresa “criminogena” è il fatto che essa operi in un ambiente incerto e imprevedibile tale per cui, a volte, le opportunità legittime per il conseguimento dei fini sono limitate e poco accessibili. Conseguentemente, i dirigenti prendono in considerazione mezzi alternativi, illegali, e li adottano se sono ritenuti più efficaci delle strategie legittime. Adottando questa prospettiva teorica, il comportamento socialmente irresponsabile delle imprese può essere spiegato facendo riferimento alle condizioni strutturali delle economie dei paesi occidentali che sono caratterizzate dalla centralità del capitale finanziario. In questo contesto sociale e culturale dove l’unico scopo è la crescita del valore di mercato dell’impresa, si viene a creare, come sostiene MERTON, una situazione di anomia: le norme perdono il loro potere di regolare il comportamento e ogni mezzo può diventare ammissibile per raggiungere i propri obiettivi (imporre salari e orari di lavoro che violano i diritti dei propri dipendenti, sfruttare i bambini, inquinare l’ambiente, evadere il fisco, falsificare i bilanci, ecc.). Il caso di Luca: spiegazione e intervento. In riferimento al caso specifico, si dovrà verificare se un dirigente legittimi attraverso politiche che promuovono l’integrazione sociale ed economica di tali membri (politiche del lavoro, della casa, della salute, della scuola, ecc.). I membri di una subcultura delinquente, una volta assunte le norme di condotta della subcultura di appartenenza, allentano il legame sociale con i membri della società convenzionale e consolidano il legame con i propri simili. Questa condizione di isolamento dalla società convenzionale può richiedere l’adozione di particolari strategie di intervento per “avvicinare” tali soggetti nel loro contesto territoriale. Sono pertanto coerenti con questa prospettiva teorica i progetti che, utilizzando le modalità di intervento tipiche del lavoro sociale di strada, abbiano lo scopo di favorire il contatto dei membri delle gangs con i rappresentanti (assistenti sociali, educatori professionali, ecc.) di quelle istituzioni che realizzano programmi di integrazione sociale. CAP. 4 L’APPRENDIMENTO DEL COMPORTAMENTO DEVIANTE 1. LE TEORIE Per quanto riguarda l’apprendimento del comportamento deviante, possiamo distinguere due diverse teorie: una teoria generale (ass. differenziale) della criminalità elaborata da SUTHERLAND, che considera il crimine un comportamento appreso attraverso l’interazione con altre persone in un processo di comunicazione sociale, attraverso cui gli individui situati all’interno di gruppi in stretto rapporto tra loro, acquisiscono le tecniche per mettere in atto il comportamento deviante (commettere il reato) e le motivazioni, le razionalizzazioni e gli atteggiamenti per giustificare tale comportamento; e la teoria della neutralizzazione di MATZA e SYKES, secondo la quale le persone possono mettere in atto un comportamento deviante senza contrapporsi radicalmente alle norme e ai valori della cultura dominante, quando sono in grado di neutralizzare la forza regolativa di tali norme e valori attraverso il ricorso a scuse e giustificazioni. - Sutherland elabora una teoria sociologica del comportamento criminale rifiutando ogni tipo di spiegazione della criminalità centrato sull’inferiorità psicologica e biologica del crimine. Egli propone una teoria che tenta di spiegare sia le variazioni nei tassi di reato per gruppi e comunità, sia il comportamento criminale individuale. Più precisamente, la sua prospettiva è basata su tre concetti: conflitto normativo (intera società), organizzazione sociale differenziale (gruppi), associazione differenziale (singoli individui). 1. Conflitto normativo. Le società contemporanee sono caratterizzate dalla presenza di gruppi sociali che esprimono differenti tradizioni culturali. Più una società è socialmente differenziata, più numerosi sono i modelli di comportamento che influenzano gli individui, tanto maggiore è la possibilità che si verifichino conflitti normativi in merito al giusto atteggiamento da tenere nei confronti della legge. Rifacendosi alla teoria del conflitto culturale , S. ritiene che il crimine sia un fenomeno connotato politicamente: il gruppo che detiene il potere, per tutelare i propri valori e i propri interessi, determina quali comportamenti sociali debbano essere considerati criminali e quali no. Di conseguenza, i gruppi che adottano stili di vita regolati da valori e interessi difformi da quelli tutelati dalla legge (subculture delinquenti) hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti devianti, collocandosi, così, in una condizione di conflitto normativo. 2. L'organizzazione sociale differenziale. Secondo S. è possibile formulare teorie sociologiche del comportamento criminale che spieghino la criminalità di una comunità, di una nazione o di un altro gruppo, dando conto delle variazioni nei tassi di reato tra i diversi gruppi. Un tasso di reato alto è dovuto all’organizzazione sociale differenziale poiché il tasso di criminalità non è il prodotto di un qualche deficit sociale (disoccupazione), ma è funzione dell’organizzazione sociale dei diversi gruppi. Secondo S., i criminali non si distinguono dai non criminali per le doti intellettive e per le caratteristiche di personalità, poiché gli individui apprendono il comportamento criminale attraverso lo stesso processo con cui apprendono i comportamenti convenzionali. Il tentativo di S. è quello di individuare quelle condizioni che sono sempre presenti quando il reato è presente e assenti quando il reato è assente. Tale tentativo spinge l’autore a confutare le spiegazioni della criminalità che assegnano un potere causale alla povertà, alla malattia mentale, alla razza, confondendo a suo avviso una correlazione statistica tra variabili con un rapporto causale. Secondo S. tali spiegazioni si basano sull’erronea convinzione che mala causa male, che un risultato cattivo (il reato) debba avere dei cattivi antecedenti. Ma è evidente che non tutti coloro che sono poveri commettono reati, così come non lo fanno tutti i malati di mente, i neri, i residenti di un ghetto; viceversa, persone appartenenti alle classi sociali superiori violano frequentemente la legge. Egli crede che si possa giungere a formulare una generalizzazione, riguardante il reato ed il comportamento criminale, astraendo logicamente le condizioni ed i processi che sono comuni agli abitanti ed ai poveri, ai maschi ed alle femmine, agli abitanti delle zone urbane e a quelli rurali ecc.. Per S., il comportamento criminale può essere individuato attraverso due tipi di spiegazione: la spiegazione situazionale o dinamica che fa riferimento ai processi che agiscono nel momento in cui il reato si verifica (un ladro ad esempio può decidere di rubare all’interno di un alloggio quando esso è incustodito ed evitare di compiere tale reato quando il proprietario è in casa); e la spiegazione storica o evolutiva, che fa riferimento ai processi che agiscono nella storia antecedente dell’autore del reato, poiché le sue esperienze di vita avranno avuto un ruolo fondamentale nel determinare il modo in cui egli ha definito la situazione. 3. La teoria dell'associazione differenziale (nove asserzioni). Vi sono due elementi fondamentali che caratterizzano la teoria dell’associazione differenziale: il processo attraverso cui avviene l’apprendimento del comportamento criminale e il contenuto di che cosa si apprende. Secondo il “principio” dell’associazione differenziale, le persone diventano criminali quando le definizioni favorevoli alla violazione della legge prevalgono sulle definizioni che promuovono modelli di comportamento conformi alla legge: le persone commettono un reato, non soltanto a causa dei contatti con modelli di comportamento criminali ma anche a causa dell’isolamento da modelli di comportamento anticriminali. Questa teoria non si concentra sulle caratteristiche delle persone che si associano, ma sui modelli di comportamento che tali associazioni forniscono agli individui. Per valutare il tipo di esposizione di un individuo alle definizioni sfavorevoli ai codici della legge, S. indica quattro modalità che descrivono accuratamente il comportamento criminale di una persona: la frequenza, cioè il tempo che una persona trascorre interagendo con gruppi che incoraggiano il comportamento criminale o non criminale; la durata, cioè la sua esposizione a tali modelli di comportamento; la priorità ovvero il momento in cui, nella storia individuale della persona, si è verificata l’associazione con tali modelli; l’intensità emozionale dell’associazione, cioè il prestigio di coloro che manifestano il comportamento osservato. Nel suo libro The pofessional thief, S. descrive lo sviluppo della carriera del ladro di professione, sostenendo, che nessuno può diventare un ladro professionista senza entrare in contatto con altri ladri professionisti, poiché il mestiere si impara attraverso un addestramento specifico che può essere ottenuto soltanto nell’associazione differenziale con ladri di professione. Sulla falsariga di S., nel suo studio sui condannati per appropriazione indebita, CRESSEY sviluppa la tematica relativa al “che cosa” si apprende nell’associazione differenziale. Egli evidenzia come il criminale, per poter compiere un reato, deve apprendere oltre alla tecnica, anche quelle razionalizzazioni che gli consentono di violare la norma, poiché gli forniscono reali ragioni per agire (oltre a rappresentare successivamente delle giustificazioni del proprio comportamento deviante). La criminalità dei colletti bianchi. La teoria dell’associazione differenziale fornisce a S. gli strumenti teorici per spiegare la criminalità dei colletti bianchi. Egli mette in discussione l’approccio tradizionale alla criminalità, dimostrando, da un lato, che non esistono gruppi sociali immuni al fenomeno criminale; dall’altro, che le spiegazioni del comportamento criminale fondate sulle patologie e sulla povertà, non essendo in grado di spiegare questo tipo di reati, non individuano fattori essenziali del crimine in generale. Con l’espressione criminalità dei colletti bianchi, S., definisce tutti i reati commessi da persone rispettabili e di elevata condizione sociale nel corso della propria occupazione. Non sono quindi reati dei colletti bianchi i crimini commessi dai membri delle classi superiori al di fuori della loro occupazione. S. dimostra come gli individui appartenenti alla classe sociale superiore commettano numerosi reati e violino la legge molto frequentemente. I reati dei colletti bianchi non sono modeste e involontarie violazioni di norme e tecniche, ma si tratta di comportamenti premeditati e organizzati. Secondo S., il criminale dal colletto bianco è il tipico uomo pecuniario, privo di scrupoli, disposto ad usare beni e persone per raggiungere i propri scopi, incurante dei sentimenti e desideri altrui e delle conseguenze ultime delle proprie azioni. Questo tipo di uomo è simile al tipico delinquente, al ladro professionista: è recidivo, prova disprezzo per la legge, lo Stato e i funzionari pubblici. Le uniche due differenze tra il criminale del colletto bianco e il ladro professionista riguardano il concetto che il reo ha di sé e l’opinione che la collettività ha di lui. Il ladro professionista si considera un criminale e non diverso è il giudizio della collettività nei suoi confronti. L’uomo d’affari invece si considera un cittadino rispettabile e questa è anche l’opinione della collettività. Secondo la teoria dell’associazione differenziale il criminale dal colletto bianco apprende il proprio comportamento interagendo con soggetti che definiscono tale comportamento favorevolmente ed è isolato dalle definizioni sfavorevoli di esso. Le definizioni favorevoli alla violazione della legge gli forniranno anche le razionalizzazioni che lo aiuteranno a infrangere le norme e ad accettare nell’ambito della propria prassi lavorativa le pratiche illegali senza arrivare a definire se stesso come un criminale. Il fatto, infine, che egli, per la propria appartenenza di classe, sia in grado di frapporre una serie di ostacoli all’azione delle agenzie deputate al controllo sociale, gli consente di conservare la propria reputazione anche agli occhi di coloro che non appartengano alla sua organizzazione. - Matza e Sykes, studiando la delinquenza giovanile, criticano quelle teorie, in particolare le teorie delle subculture delinquenti, che raffigurano il ragazzo delinquente come un soggetto il cui comportamento è regolato da un sistema di norme e di valori opposto a quello che osservano gli adolescenti che rispettano la legge. Poiché i membri delle subculture delinquenti hanno contatti frequenti con i membri della società convenzionale (insegnanti, membri di associazioni di volontariato, membri delle istituzioni, ecc.), è difficile pensare ad un loro totale isolamento dal mondo convenzionale. È per questa ragione, secondo MATZA, che l’adolescente delinquente non può essere considerato un soggetto completamente socializzato ad uno stile di vita alternativo. Tutto ciò dimostra l’esistenza di una subcultura della delinquenza, che consiste in precetti e costumi che sono in delicato equilibrio tra convenzione e crimine. Essa pone obiettivi ai propri membri che possono essere raggiunti non soltanto attraverso la delinquenza ma anche usando mezzi convenzionali come: • La neutralizzazione delle norme che si intendono violare mantenendo contemporaneamente l’adesione al sistema normativo e valoriale della società; • La convergenza sotterranea tra i valori della subcultura della delinquenza e quelli della cultura dominante. Per quanto riguarda il primo aspetto, i due autori individuano cinque tecniche di neutralizzazione, che consentono al deviante di neutralizzare le norme che dovrebbero essere violate, liberandolo in questo modo dal suo legame morale con la legge: • Negazione della responsabilità: l’individuo non si ritiene responsabile delle proprie azioni devianti poiché esse sono il prodotto di forze che egli non può controllare (non è colpa mia perché ero sotto l’effetto di sostanze stupefacenti); • Negazione del danno: l’individuo è convinto che le proprie azioni devianti non arrechino danno a nessuno (non ho fatto male a nessuno); • Negazione della vittima: pur non negando la propria responsabilità, l’individuo ritiene che non ci sia nessuna vittima, perché la vittima, considerando le circostanze, meritava di subire il danno S., i programmi che si pongono l’obiettivo di introdurre a livello aziendale un codice etico a cui i dirigenti devono conformarsi. Per quel che attiene alla prevenzione della devianza giovanile, i programmi di prevenzione non dovrebbero rivolgersi soltanto ai ragazzi che appartengono alle classi inferiori e che vivono in contesti sociali deprivati. 2. Secondo la teoria della neutralizzazione, i devianti non sono soggetti con una personalità antisociale o con problemi familiari ma sono individui che neutralizzano temporaneamente le norme che violano, considerandole come inapplicabili e irrilevanti, quindi, le strategie di prevenzione devono intervenire soprattutto sui meccanismi di razionalizzazione, rendendoli inefficaci, attraverso la promozione di processi di comunicazione che veicolano i messaggi. Secondo MATZA, l’irresponsabilità personale, che è la condizione immediata della deriva (drift), si può prevenire intervenendo a livello legislativo oppure attraverso politiche culturali ed educative. Esempio: le ideologie che tendono a presentare spiegazioni della delinquenza che attribuiscono la responsabilità ai genitori, alla comunità, alla società, possono facilitare la condizione della deriva. 3. APPLICAZIONI DELLE TEORIE AI CASI facendo riferimento alle teorie dell’associazione differenziale e della neutralizzazione. 3.1 Il caso del tossico dipendente - Secondo la teoria dell’associazione differenziale, il consumo di droghe illegali può essere considerato un comportamento sociale che viene appreso attraverso l’interazione con altre persone in un processo di comunicazione nel corso del quale, il soggetto apprende sia le tecniche, sia i moventi e le razionalizzazioni dell’azione stessa. Il principio dell’associazione differenziale riesce a spiegare sia l’uso di eroina di un giovane emarginato che vive in un quartiere degradato di una grande città, sia quello di cocaina di un “uomo d’affari” che risiede nel quartiere residenziale della stessa città, poiché entrambi sono esposti ad un eccesso di definizioni favorevoli all’assunzione di droga rispetto a quelle sfavorevoli. Per tale ragione, l’assunzione di droga illegale, non deve essere considerata né come espressione di un deficit di sviluppo della personalità, né come “sintomo” di disorganizzazione sociale. Piuttosto, tanto i tassi di prevalenza del consumo (percentuale di consumatori in una determinata popolazione) nelle diverse aree di una città, quanto i modelli di consumo adottati dai consumatori, possono essere considerati funzioni dell’organizzazione sociale differenziale che caratterizza i diversi gruppi sociali. Il modello di consumo (quale sostanza, frequenza, uso della sostanza) è influenzato dall’ambiente del consumatore in cui tale contesto consente determinate associazioni piuttosto che altre. È probabile, per esempio, che siano maggiormente esposti al consumo ricreativo di droghe coloro che frequentano determinati luoghi quali le discoteche piuttosto che quelli che frequentano le attività ricreative organizzate dalla parrocchia. Il caso di Mario: spiegazione e intervento. Se si prende il caso del singolo consumatore (Mario) : - Si dovrà ricostruire il processo di apprendimento attraverso cui è diventato consumatore di droghe illegali con lo scopo di individuare i modelli normativi favorevoli all’uso di droghe ai quali è stato esposto; - Analizzare il contenuto di tale apprendimento attraverso le tecniche che orientano l’azione strumentale del consumatore (come ci si procura le sostanze, come si usa, ecc.), i moventi, le razionalizzazioni e le giustificazioni dell’azione stessa; - Analizzare le fasi della carriera di consumo per vedere se c’è stato un passaggio da un droga a un’altra. Per esempio, nel caso di Mario possiamo scomporre la carriera in tre fasi: la fase del consumo di droghe leggere, la fase del consumo non dipendente di eroina, la fase del consumo dipendente da oppiacei. - Si dovrà valutare se le associazioni differenziali siano rimaste in tutte le fasi o se siano cambiate. Per quanto riguarda le tecniche di consumo, cambiano se si passa da una droga all’altra (dalla cannabis all’eroina come nel caso di Mario) ma non cambia il modo con cui ci si procura le sostanze (stesso spacciatore); è probabile, invece, che i moventi e le razionalizzazioni dell’uso di droghe illegali siano passati dall’uso non dipendente all’uso dipendente. Per quanto riguarda le politiche, possiamo individuare tre tipi di intervento: la prevenzione primaria, interventi rieducativi nei confronti del singolo consumatore (astinenza) e interventi che mirano alla strategia della riduzione dei danni. 1. La prevenzione. Poiché il consumo di droga è determinato dal contesto sociale in cui si vive, si devono realizzare programmi di comunità che promuovono forme di organizzazione sociale che favoriscono il contatto dei membri di tale comunità con modelli normativi sfavorevoli al consumo di droghe. In questa prospettiva, le attività ricreative e sportive per giovani, quelle di contrasto alla dispersione scolastica, di formazione professionale e avviamento al lavoro svolgono una duplice funzione: di prevenzione e reinserimento sociale poiché dovrebbero isolare e allontanare i consumatori dai modelli normativi non convenzionali facendoli entrare in contatto con gruppi rispettosi della legge. 2. Il trattamento individuale. Secondo la teoria dell’associazione differenziale, il trattamento individuale è inefficace se non modifica le associazioni del soggetto. Ciò significa che il consumatore di droghe non modificherà il proprio comportamento semplicemente interiorizzando, attraverso il trattamento, nuove norme di condotta; è efficace nella misura in cui l’acquisizione delle nuove norme di condotta consentiranno al soggetto di frequentare persone, che in quanto non consumatori, siano in grado di convertirlo ad una condotta non deviante. Se si ritiene che il singolo individuo (Mario) possa trovare nel proprio ambiente gruppi di riferimento nei quali non si consumano droghe illegali, potrebbe essere efficace un intervento educativo che non lo allontani dal suo contesto di vita (un lavoro). Se si ritiene, che il singolo individuo (Mario) non possa trovare nel proprio ambiente gruppi di riferimento non devianti, l’intervento dovrà prevedere l’allontanamento del soggetto dal suo ambiente e il suo reinserimento in un nuovo contesto sociale dove prevalgono modelli normativi conformi (strutture). Secondo il principio dell’associazione differenziale, pertanto, i trattamenti drug free di carattere psicologico (psicoterapia, colloqui con l’assistenza sociale, ecc.), saranno efficaci soltanto nella misura in cui, da un lato, consentiranno al soggetto (Mario) di entrare in contatto con persone che promuovono modelli di comportamento astinenti (operatori, volontari), dall’altro lato, lo renderanno psicologicamente meglio equipaggiato per cambiare le proprie associazioni. 3. La riduzione dei danni. Secondo i fautori della riduzione del danno, privilegiando le finalità drug free, si è compromesso il diritto alla salute dei cittadini consumatori di droghe in nome di un principio morale e di un modello normativo di salute individuale e pubblica. Le politiche che si ispirano a questa teoria cercano di estendere anche ai consumatori di droghe illegali i diritti fondamentali di cittadinanza. La filosofia della riduzione del danno si basa sul presupposto che il comportamento di assunzione di droghe può essere controllato attraverso pratiche sociali che preservino la qualità della vita dei consumatori, evitando che essi compromettano i propri funzionamento sociali. Secondo la teoria elaborata da SUTHERLAND, si può ipotizzare che i consumatori di droghe siano stati esposti ai modelli di consumo “dannosi” e isolati dai modelli di consumo “meno dannosi”. Per tale ragione, l’intervento dovrebbe avere lo scopo di promuovere una sua affiliazione con gruppi di persone (unità mobili) che siano in grado di indurre il consumatore ad un comportamento di consumo di droghe illegali non dannoso per sé e per gli altri. - Secondo la teoria della neutralizzazione i consumatori di droghe illegali non devono essere considerati soggetti che abbracciano un sistema normativo e valoriale differente da quello dei non consumatori. Essi sono attori sociali che neutralizzano le norme che vietano e/o stigmatizzano l’uso di determinate sostanze psicoattive. Come evidenzia BECKER nel suo studio sui consumatori di marijuana, per diventare un consumatore regolare, il soggetto deve neutralizzare quelle norme che definiscono il consumo di droghe come un comportamento rischioso per la salute e un comportamento immorale. Utilizzando il concetto dei valori sotterranei, il consumo di droghe illegali può essere considerato un comportamento sociale regolato da valori presenti anche nella cultura dominante: sono milioni, infatti, i consumatori di psicofarmaci, cioè soggetti considerati normali che ricorrono ad una sostanza psicoattiva per migliorare le proprie prestazioni o alleviare una condizione di malessere. Molti giovani che assumono droghe illegali convivono, quindi, con adulti (genitori, nonni, vicini) che a loro volta fanno uso di droghe legali. Il caso di Mario: spiegazione e intervento. Adottando la teoria della neutralizzazione: - Si devono individuare le tecniche di neutralizzazione che stigmatizzano l’uso di determinate sostanze psicoattive; - Facendo riferimento ai valori sotterranei, si dovrà valutare se e in quale misura il suo comportamento di consumo sia stato influenzato da norme di condotta, caratterizzanti la cultura dominante, secondo le quali non è un atto deviante ricorrere alla droga per divertirsi, migliorare le proprie prestazioni, curare il proprio malessere. Anche la neutralizzazione prevede tre forme di intervento: la prevenzione primaria, il trattamento del singolo consumatore e la riduzione del danno. 1. La prevenzione primaria. Si può prevenire il consumo di droghe illegali convincendo i potenziali consumatori che l’uso di stupefacenti è un comportamento rischioso. Per fare ciò si devono “smontare” quelle tecniche che sono adottate per negare rischi sociali connessi al consumo delle sostanze psicoattive. Non si tratta, quindi, di informare semplicemente i destinatari dell’intervento di prevenzione sui rischi del consumo, ma di rendere inefficaci determinate tecniche di neutralizzazione apprese e utilizzate dai consumatori per allentare il loro legame morale con la società e rendere possibile l’uso di droghe illegali. 2. Il trattamento del singolo consumatore. Se il consumatore di droghe illegali è un individuo che ha neutralizzato determinate norme sociali, lo scopo del trattamento sarò quello di modificare la sua struttura motivazionale rendendo inefficaci le tecniche di neutralizzazione che ha appreso e che sta utilizzando. 3. La riduzione dei danni. Le agenzie deputate al controllo sociale propongono modelli interpretativi del consumo di droghe illegali che condizionano i modi in cui i consumatori giustificano i loro comportamenti. Tali rappresentazioni sociali del consumo di droghe divengono vocabolari motivazionali che, nella misura in cui servono a neutralizzare determinate norme sociali, possono favorire l’adozione da parte dei consumatori di particolari comportamenti devianti o di particolari comportamenti di consumo: per esempio, chi ritiene di essere “agito dalla droga” si potrà comportare in modo irresponsabile (commettere un reato per procurarsi la droga). Gli operatori di un SERT per ragioni istituzionali devono proporre al soggetto (Mario) un trattamento di tipo drug free. Nel caso, invece, di utenti che si siano spontaneamente presentati al SERT, si possono prevenire determinati modelli di consumo dannosi e determinati comportamenti devianti, collegati all’uso di droghe illegali, promuovendo rappresentazioni sociali del fenomeno che veicolino credenze le quali, modificando la struttura motivazionale dei consumatori, li inducano ad agire in modo responsabile (per sé e per gli altri). 3.2 Il caso del criminale dal colletto bianco (vedi parte precedente) - Secondo la teoria dell’associazione differenziale, i crimini dei colletti bianchi e quelli commessi dai membri delle classi inferiori possono essere spiegati facendo riferimento allo stesso meccanismo esplicativo, poiché i processi attraverso cui si apprende a falsificare un bilancio oppure a commettere una rapina in banca sono minimi. La differenza tra i due crimini riguardano, invece, il modo in cui la società reagisce ad essi. I criminali dal colletto bianco sono stati esposti ad eccesso di definizioni favorevoli alla violazione della legge su quelle non favorevoli. Essi hanno appreso le tecniche, le motivazioni e le razionalizzazioni necessarie per commettere il crimine all’interno dell’organizzazione in cui lavorano interagendo con i propri colleghi/dirigenti. È indubbio, inoltre, che nel corporate crime, cioè un reato commesso da coloro che occupano una posizione strutturale all’interno di un’impresa per l’ottenimento di benefici per l’impresa stessa, quanto più gli individui esibiscono una forte lealtà alle loro organizzazioni tanto più le norme di condotta promosse dall’organizzazione avranno un’importante influenza sul loro comportamento. Il caso di Luca: spiegazione e intervento. Facendo riferimento al caso specifico (Luca): - Si dovrà ricostruire il processo di apprendimento attraverso cui egli è arrivato alla decisione di violare determinate norme del codice penale, con lo scopo di individuare i modelli normativi criminali ai quali è stato esposto; - Analizzare il contenuto dell’apprendimento, che consiste nel verificare se l’azienda commetteva già da prima il reato per vedere se il dirigente (Luca) abbia appreso dai colleghi le tecniche per commetterlo eludendo i controlli esterni (nel caso di Luca, il PM, dimostra che l’azienda smaltiva illegalmente i rifiuti già da prima dell’arrivo del suo arrivo). Secondo questa prospettiva si possono individuare tre tipi di intervento: quelli che agiscono sulle variabili strutturali della criminalità dei colletti bianchi (disorganizzazione sociale), quelli che incidono sulle culture organizzative che favoriscono l’adozione di condotte criminali e quelli rieducativi nei confronti del singolo autore del reato con il fine di promuovere una loro affiliazione con gruppi di persone che siano in grado di convertirli ad una condotta non criminale. neutralizzazione che egli ha appreso, che ha utilizzato e che sta utilizzando. CAP. 5 LA TEORIA DELLA RELAZIONE SOCIALE E DELL’ETICHETTAMENTO 1. LA TEORIA Quando una persona adotta un comportamento non conforme alla legge o alle norme sociali si ritiene che debba essere sanzionata poiché la società deve proteggere se stessa dalle conseguenze dannose della devianza. La reazione sociale dello Stato contribuisce a proteggere la società perché: • riduce i comportamenti criminali: scoraggia il criminale dall’infrangere nuovamente la legge (deterrenza speciale); scoraggia i rei potenziali dall’imitare i criminali (deterrenza generale); rieduca i criminali segregandoli in determinati istituti (carcere) in modo tale che non possano mettere in atto comportamenti dannosi per la collettività; • rafforza la coesione sociale perché favorisce il sorgere di sentimenti collettivi contro la trasgressione della norma, consolidando indirettamente il consenso normativo circa il bene comune. I teorici della reazione sociale e dell’etichettamento ribaltano questo ragionamento secondo il quale, il controllo sociale sarebbe utile per prevenire, contrastare e ridurre i comportamenti devianti nell’ambito di ogni società e spostano l’attenzione sul ruolo del controllo sociale come fattore criminogeno che causa la devianza e il crimine: il controllo sociale diventa una variabile indipendente, che spiega il comportamento deviante stesso. I teorici dell’etichettamento spostano l’analisi dai comportamenti e dalle caratteristiche di quelli che infrangono le norme ai processi attraverso i quali certi individui finiscono con l’essere etichettati come devianti da altri. L’attenzione si focalizza, pertanto, sulla costruzione sociale della devianza, che diventa, il prodotto del processo interattivo tra coloro che creano e fanno applicare le norme e coloro che le infrangono e che vengono etichettati e trattati come devianti. Adottando questa prospettiva teorica – devianza come fenomeno socialmente costruito – il focus dell’analisi si concentra su tre importanti aree tematiche: la formazione e l’applicazione delle norme; le conseguenze dell’etichettamento sugli individui. 1.1 La formazione delle norme. Le norme sono il prodotto dell’azione sociale di attori collettivi di cui riflettono gli interessi e le visioni del mondo. Le spiegazioni sociologiche che fanno riferimento ai comportamenti di chi trasgredisce determinate norme, possono essere classificate in due gruppi: quelle che sottolineano la natura consensuale delle norme e quelle che ne evidenziano l’origine conflittuale. 1. Per quanto riguarda quelle di natura consensuale (teoria del consenso), considerano la devianza come un fenomeno oggettivamente dato: la società è considerata un insieme di parti relativamente integrate, il cui equilibrio si fonda su aspettative normative condivise da quasi tutti i membri della società; in questa visione è relativamente facile identificare la devianza, essendo un comportamento che si discosta da tali aspettative normative. Secondo questa prospettiva, il compito del sociologo è quello di studiare, da un lato, le caratteristiche individuali di coloro che non si conformano alle norme, dall’altro, le caratteristiche della società che promuovono stabilità (funzionali) e quelle che rompono la stabilità (disfunzionali). 2. Per quanto riguarda quelle di origine conflittuale (teoria del conflitto), fondandosi sull’assunto che è il conflitto a caratterizzare le società, evidenziano la natura politica della devianza e del crimine: le definizioni di ciò che è deviante e di ciò che non lo è riflettono gli interessi dei gruppi sociali dominanti. Secondo questa prospettiva, il diritto non è uno strumento che serve a garantire l’integrazione sociale, ma è un mezzo che i gruppi dominanti utilizzano per mantenere i propri privilegi e il controllo sui gruppi antagonisti. Secondo BECKER, ovunque vengano create e applicate delle norme è molto probabile che sia riscontrabile la presenza di un individuo o di un gruppo attivo, le cui attività possono essere definite imprese morali, in quanto ciò che essi intraprendono porta alla creazione di un nuovo frammento della costituzione morale della società, del suo codice di giusto e sbagliato. Per realizzare la loro impresa, tali soggetti devono assicurarsi il sostegno di altri gruppi e utilizzare i mezzi di comunicazione per sviluppare un clima favorevole. Egli ricostruisce in modo emblematico la vicenda del Marijuana Tax Act approvato nel 1937 dal Congresso degli Stati Uniti, descrivendo il processo attraverso cui un comportamento sociale tollerato (il consumo di marijuana) divenne un crimine, evidenziando, soprattutto il ruolo che alcuni dirigenti del Bureau of Narcotis del ministero del tesoro giocarono, come imprenditori morali. Egli nota che specifici “valori” caratterizzanti l’etica protestante secondo cui nessun individuo dovrebbe mai perdere il controllo di sé, né dovrebbe assumere comportamenti finalizzati ad ottenere stati di estasi e “valori” caratterizzanti uno spirito umanista secondo cui le persone dipendenti dall’uso di alcol e oppio avrebbero tratto beneficio da una legge che non avrebbe consentito loro di accedere in modo legale a sostanze che erano dannose per la salute, hanno fornito le basi del Marijuana Tax Act. La loro azione si orientò su due fronti: da un lato si assicurarono l’appoggio di altre organizzazioni interessate per ragioni morali, sociali, religiose alle promulgazione di una legge proibizionista; dall’altro indussero nell’opinione pubblica un atteggiamento favorevole alla norma proposta, tramite l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Il punto di vista dei consumatori di marijuana non trovò spazio né nel dibattito pubblico né in quello parlamentare poiché erano sprovvisti di argomenti socialmente accettabili con cui giustificare il loro comportamento di consumo. Le teorie del conflitto. Secondo i criminologi che adottano la prospettiva teorica del conflitto, il compito principale della criminologia non deve essere quello di spiegare le cause del comportamento criminale, ma il processo attraverso cui cono selezionati i comportamenti che verranno sanzionati dalla legge penale (processo di criminalizzazione primaria) e il processo attraverso cui, tra tutti coloro che infrangono le norme penali, sono perseguiti prevalentemente soltanto alcuni tipi di criminali (processo di criminalizzazione secondaria). Contemporaneamente alla teoria dell’etichettamento si svilupparono altre due teorie: - Le teorie pluraliste (di ispirazione conservatrice), secondo le quali, in ogni società vi sono gruppi sociali che confliggono per controllare le risorse e tutelare i propri interessi. Gli individui che occupano una posizione sociale più elevata, disponendo di più risorse e di più potere rispetto ai membri dei gruppi sociali che sono collocati ai livelli più bassi della scala sociale, sono in grado di imporre i propri valori e la propria visione del mondo. La legge è uno strumento attraverso cui i gruppi dominanti tutelano i propri interessi sanzionando i comportamenti di coloro che minacciano tali interessi. Secondo questa prospettiva teorica la criminalità è espressione del conflitto tra i diversi gruppi e si verifica quando la condotta delle persone, che agiscono facendo riferimento alle norme e ai valori del proprio gruppo, viola quelli del gruppo dominante che sono tutelati dalla legge. - Le teorie radicali (di matrice marxista), secondo le quali, il conflitto avviene tra la classe dei proprietari dei mezzi di produzione (i capitalisti) e la classe di coloro che dispongono soltanto della loro forza lavoro (il proletariato). Tale conflitto potrà essere superato soltanto quando sarà realizzata la società comunista. Anche per i criminologi radicali la legge è uno strumento attraverso cui i capitalisti tutelano i propri interessi, cosi come il sistema penale non opera per proteggere la società contro il crimine, ma come le altre istituzioni dello stato capitalista, per reprimere gli antagonisti di classe. Le teorie radicali del conflitto considerano il capitalismo un sistema economico e sociale criminogeno poiché può essere considerato la causa tanto dei crimini che sono una conseguenza dello sfruttamento e dell’oppressione della classe operaia, quanto dei crimini economici che sono commessi dai capitalisti per proteggere i propri interessi. 1.2 L’applicazione delle norme . L’applicazione richiederà l’individuazione delle organizzazioni che avranno il compito di rilevare i comportamenti devianti, di etichettare gli individui che si comportano in modo deviante e di riservare loro il trattamento considerato appropriato per tali casi di devianza. Il soggetto che adotta un comportamento deviante può subire due tipi di reazione sociale: quella informale che deriva direttamente dalle persone che vivono intorno a lui (familiari, amici, colleghi, vicini, ecc.); quella formale, espressa dai membri delle agenzie deputate al controllo sociale e al trattamento (poliziotti, giudici, ecc.). La reazione sociale, inoltre, è selettiva, poiché non è orientata da criteri oggettivi ma è espressione delle scelte e degli interessi di coloro che hanno il potere di etichettamento, infatti, non tutti coloro che violano le norme sono etichettati come devianti, cosi come occasionalmente possono essere etichettate come devianti persone che non hanno violato le norme. Poiché la devianza è il prodotto del processo interattivo tra coloro che creano e fanno applicare le norme e coloro che le infrangono e che vengono etichettati e trattati come devianti, la relazione tra coloro che sono etichettatiti e gli agenti del controllo sociale si configura come una relazione di dominio: le differenze nell’abilità di creare e applicare le norme, che si possono riscontrare tra i diversi gruppi sociali, sono essenzialmente differenze di potere. I gruppi che dispongono di più potere di altri sono in grado di perseguire i propri interessi controllando i modi con cui le persone definiscono ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e di stabilire quali comportamenti debbano essere stigmatizzati. Numerosi studi evidenziano come la probabilità di essere stigmatizzati e di subire la reazione sociale è maggiore per gli individui che appartengono a quei gruppi sociali che sono dotati di minore potere nella società per ragioni di razza, di genere, età, classe sociale, livello di istruzione, ecc.; per soggetti che risiedono in zone ritenute criminogene; per gli individui dal cui aspetto e comportamento si può definire che sono portatori diversi da quelli dominanti; per le persone già stigmatizzati (ex detenuti). CHAMBLISS esamina la reazione sociale di una comunità nei confronti di due bande di ragazzi che frequentano la stessa scuola media superiore: i the saints che appartengono alla classe sociale media; i the roughnecks che appartengono alla classe sociale operaia. Sebbene entrambi i gruppi adottino frequentemente comportamenti devianti, soltanto i membri dei Roughnecks, ricevono attenzione da parte della scuola e delle agenzie di controllo sociale. semplicemente, la definizione della situazione proposta dagli agenti della reazione sociale. Gli sviluppi delle carriere devianti sono, pertanto, condizionati dalla capacità dei soggetti di contrastare i processi di criminalizzazione primaria e secondaria (appartenenza di classe). In primo luogo, gli individui si differenziano per la loro capacità di evitare che determinati comportamenti sociali siano etichettati come devianti: orientando la relazione sociale verso alcuni comportamenti (immigrazione clandestina piuttosto che corruzione politica), influenzando il processo di formazione delle norme, disattivando o rendendo meno efficace il controllo sociale formale. In secondo luogo, quando adottano comportamenti devianti, si differenziano per la loro capacità di evitare di essere scoperti e di controllare le impressioni degli altri. Tale capacità richiede il possesso di determinate risorse sociali. Per esempio, i consumatori di sostanze psicoattive, che dispongono delle risorse e delle conoscenze per procurarsi la sostanza, non ricorrendo alla rete degli spacciatori di strada, sono in grado di nascondere il loro comportamento riducendo il rischio di essere sorpresi dalla polizia e di essere stigmatizzati dagli altri significativi come “drogati”. Essi evitano, pertanto, che lo status deviante diventi quello egemone. In terzo luogo, se scoperti, si differenziano per il loro potere di contrastare l’etichettamento attraverso l’occultamento dei propri reati, la neutralizzazione della disapprovazione sociale e l’adozione di strategie finalizzate alla conservazione del prestigio e della rispettabilità sociale. Infine, se etichettati e trattati come devianti, si differenziano per la loro capacità di dimostrare pubblicamente di aver acquisito un’identità sociale non deviante. La carriera deviante può essere rappresentata come un lungo corridoio, dove ogni segmento rappresenta una fase di una carriera deviante, con porte che consentono alle persone di entrare direttamente o di uscire da quella fase. La struttura ha una parte anteriore ed una parte posteriore, su entrambi i lati ci sono delle stanze e ciascun settore della galleria presenta delle aperture che fungono da entrate o uscite, situate all’inizio, alla fine e lungo entrambi i lati. Vi sono confini simbolici che marcano il procedere di una persona attraverso il corridoio. All’altezza di ognuno di questi confini simbolici ci sono degli agenti che impongono definizioni (etichette) e facendo ciò spingono alcuni lungo il corridoio, altri fuori dal corridoio, altri ancora avanti o dietro. La direzione del cammino di una persona lungo il corridoio è condizionata dal suo status sociale e dalle sue risposte alle definizioni simboliche con cui gli altri definiscono la sua situazione. I membri della subcultura deviante possono avere un’importante influenza nel rafforzare la carriera deviante di una persona: però non tutte le persone a cui è stata assegnata l’etichetta di deviante entrano a far parte di una subcultura deviante. Un individuo acquisisce, pertanto, un’identità deviante sulla base di sequenze d’interazione ordinate in modo contingente ma niente affatto casuale. Per i teorici della reazione sociale e dell’etichettamento, la direzione delle carriere devianti non è necessariamente di tipo discendente. Ciò che pero viene evidenziato è che le sequenze di interazione possono segnare delle vere e proprie soglie, dei luoghi cioè valicati i quali il ritorno si rivela, di volta in volta, tendenzialmente più difficile. SCHWARTZ e SKOLNICK realizzarono un esperimento con lo scopo di verificare le possibilità di occupazione di un lavoratore che era stato coinvolto in attività criminali. L’esperimento ha dimostrato che l’esistenza di una condanna penale, riduce la possibilità di trovare lavoro. Secondo la prospettiva della reazione sociale, le opportunità convenzionali di vita delle persone etichettate si riducono perché la stigmatizzazione innesca processi di inclusione sociale. Il criminologo BRAITHWAITE ha descritto un tipo positivo di stigmatizzazione, la vergogna reintegrativa. Essa si basa su pratiche sociali che, esprimendo sentimenti di disapprovazione sociale per il comportamento deviante ma non per il soggetto deviante, “reintegrano” il reo nella comunità attraverso cerimonie riparative di “de-etichettamento” in cui l’etichetta stigmatizzante viene sostituita da una socialmente accettabile. 2. LE POLITICHE I teorici dell’etichettamento, focalizzando l’attenzione sui processi di costruzione sociale della devianza (devianza secondaria), svilupparono una forte critica non soltanto dell’intervento repressivo dello Stato ma anche di quello assistenziale, cioè di ciò che viene definito il modello penale assistenziale, caratterizzato da pratiche e istituzioni che erano parte integrante delle politiche di welfare state (tribunale dei minori). Il loro funzionamento si fondava sul principio che lo Stato non avrebbe dovuto limitare il proprio intervento alla semplice punizione dei criminali, ma avrebbe anche dovuto prevenire il crimine, rieducare i criminali e reintegrarli nel tessuto sociale. Facendo cosi, lo Stato aveva esteso gli ambiti in cui esercitava il proprio controllo, infatti, non erano sottoposti al controllo sociale solo coloro che avevano infranto le norme, ma anche i loro familiari. Secondo la prospettiva teorica della reazione sociale anche gli interventi di prevenzione, nella misura in cui individuano soggetti potenzialmente devianti che si differenziano dai soggetti “non a rischio”, possono generare quei processi di etichettamento e di stigmatizzazione che sono ritenuti essere fattori di radicamento delle carriere devianti. La teoria dell’etichettamento ha ispirato tre tipi di politiche che sono state implementate per ridurre l’impatto della reazione sociale sulla vita dei soggetti etichettati come devianti : la depenalizzazione; la diversion (misure alternative alla detenzione); la deistituzionalizzazione. 2.1 La depenalizzazione. Per i teorici dell’etichettamento , le norme penali sono il prodotto storicamente determinato dall’azione sociale di attori collettivi, di cui riflettono gli interessi e le visioni del mondo. Alcune di esse tutelano determinati “beni” e interessi (proprietà privata) e proibiscono e sanzionano determinati comportamenti sociali (violenza sessuale, omicidio, rapina, ecc.). Altre norme, invece, proibiscono e sanzionano comportamenti con lo scopo di proteggere i “beni”, “interessi” che sono ritenuti degni di tutela nell’ambito del sistema penale soltanto da alcuni gruppi sociali, i quali pero hanno il potere di imporre la propria visione del mondo a tutti i membri di una determinata collettività, criminalizzando comportamenti relativamente diffusi: appartengono a questa categoria i reati senza vittima (consumo di sostanze psicoattive illegali, prostituzione, gioco d’azzardo, ecc.). Pur non essendoci un consenso diffuso sull’immoralità di tali comportamenti e sull’opportunità di proibirli, la criminalizzazione dei “reati senza vittima” produce il crimine in vari modi. In primo luogo, tutti coloro che adottano un comportamento proibito dalla legge rischiano di subire la reazione sociale formale. In secondo luogo, la criminalizzazione spinge coloro che adottano il comportamento proibito a commettere reati che sono collegati a tale comportamento: è il caso di quei tossicodipendenti che si procurano illegalmente il denaro per sostenere la loro dipendenza (furto, rapina, ecc.). In terzo luogo, la criminalizzazione, proibendo l’acquisizione legale di beni e prestazioni che sono desiderati da un numero consistente di membri di una determinata collettività, promuove le condizioni per lo sviluppo di mercati illegali molto lucrativi che sono gestiti dalla criminalità organizzata e dai quali tale criminalità attinge ingenti risorse per la propria sopravvivenza. In quarto luogo, l’esistenza di tali mercati illegali rappresenta un forte incentivo per la corruzione degli agenti deputati al controllo sociale, i quali possono essere pagati per guadare da un’altra parte. Infine, le persone, entrando nel circuito penale, subiscono un processo di stigmatizzazione che può avere un impatto negativo sulla loro vita sociale e relazionale. I teorici della reazione sociale sostengono, pertanto, che si dovrebbero depenalizzare alcuni reati, soprattutto quelli senza vittima, in modo tale da ridurre, limitando il grado di estensione del controllo sociale, l’etichettamento delle persone. Tale orientamento ha avuto impatto sulle politiche penali e sociali del nostro paese duranti gli anni ‘70, favorendo alcuni cambiamenti: l’aborto e il divorzio sono stati legalizzati, la prostituzione è stata depenalizzata, il possesso di piccole quantità di droghe per uso personale è stato sottoposto a sanzioni amministrative. 2.2 La diversion. Le leggi esistono e non tutti i reati possono essere depenalizzati sia perché in alcuni casi vi è un consenso unanime sulla necessità di sanzionare penalmente determinate forme di condotta, sia perché in altre circostanze i fautori della depenalizzazione di alcuni reati non sono in grado di incidere sull’orientamento delle politiche penali. Per evitare l’etichettamento, secondo i teorici della reazione sociale, le persone dovrebbero essere allontanate dal sistema penale, facendo in modo che non vivano l’esperienza stigmatizzante del procedimento penale o, qualora siano state giudicate e condannate, evitare che vivano l’esperienza negativa della detenzione. Queste finalità, si sono perseguite soprattutto nel sistema penale minorile, nel quale, per evitare che i minori vengano etichettati dal sistema giudiziario, è prevista la possibilità che il processo sia sospeso e il minore messo alla prova: si tratta di un istituto con cui lo Stato rinuncia alla sua pretesa punitiva sottoponendo il minore ad una serie di prescrizioni che hanno lo scopo di far mutare nel ragazzo la consapevolezza di avere adottato un comportamento sbagliato e la volontà di non reiterarlo. La finalità che dovrebbe orientare il procedimento penale minorile è quella della rieducazione del minore: per questa ragione l’applicazione delle norme del procedimento penale deve essere adeguata alla personalità e alle esigenze educative del minore. Nel caso in cui il minore sia processato, uno dei principi cardine del procedimento penale minori stabilisce che la detenzione debba configurarsi come una misura residuale: la legge prevede forme di intervento alternative alla custodia detentiva quali la liberazione condizionale, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà. Il principio della diversion orienta anche il procedimento penale degli adulti quando i membri di determinate categorie di soggetti sono “allontanati” dalla sanzione penale per essere collocati in programmi di reinserimento sociale, di trattamento riabilitativo (detenuti tossicodipendenti). Numerosi studi hanno evidenziato due effetti delle politiche della diversion: l’allargamento della rete del controllo sociale e il carattere selettivo delle misure di diversion. 1. Per quanto riguarda l’allargamento della rete del controllo sociale, le politiche della diversion non hanno ridotto le carcerazioni e l’etichettamento ma hanno esteso le maglie del controllo sociale anche verso quei soggetti sui quali precedentemente non veniva applicata alcuna sanzione. Nel nostro paese il consumo di droghe illegali è punito attraverso il ricorso a sanzioni amministrative (ritiro della patente, del porto d’armi, ecc.) mentre viene sanzionato penalmente soltanto lo “spaccio”. La regolamentazione del consumo di droghe illegali attraverso il ricorso alle sanzioni amministrative non ha ridotto il numero di tossicodipendenti che entrano in carcere, ma ha esteso il controllo sociale verso i consumatori, poiché chiunque sia sorpreso dalle forze dell’ordine con una certa quantità di droga, che si presume sia detenuta per uso personale, è segnalato al prefetto e inviato successivamente ai servizi per le tossicodipendenze. 2. Per quanto riguarda il carattere selettivo delle misure di diversion, si è osservato che le misure della diversion sono utilizzate tendenzialmente nei confronti di coloro che sono meno deprivati da un punto di vista sociale, familiare ed economico, mentre si ricorre maggiormente al carcere per sanzionare i soggetti appartenenti ai gruppi sociali più svantaggiati. Questo fenomeno appare evidente se si guarda la giustizia minorile nel nostro paese, caratterizzata da un doppio processo penale minorile: uno per i minori italiani e uno per quelli stranieri e nomadi. Le misure alternative alla detenzione finalizzate al reinserimento sociale e alla rieducazione del minore richiedono la presenza di risorse che siano attivabili nell’ambito del contesto sociale e familiare del minore stesso. Il minore che sia privo di tale capitale sociale difficilmente potrà beneficiare delle misure di diversion. Per esempio per poter usufruire dell’istituto della probation processuale (sospensione del processo penale e messa alla prova), il minore deve avere intorno a sé degli adulti (genitori, insegnanti) in grado di sostenerlo nel suo percorso educativo. Il fatto che le misure della diversion richiedano per la loro applicazione il possesso di determinate risorse fa sì che il controllo sociale venga esercitato in modo selettivo attraverso pratiche istituzionali differenziate che si fondano sulle disuguaglianze sociali che a loro volta contribuiscono a riprodurre. 2.3 La deistituzionalizzazione. Le istituzioni totali sono luoghi in cui le persone rinchiuse sono impossibilitate allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno. Tutte le attività quotidiane si svolgono nello stesso luogo, sono organizzate per adempiere allo scopo dell’istituzione e sono
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