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“LA DIMENSIONE EMOZIONALE DEL CURRICOLO. L’EDUCAZIONE AFFETTIVA RAZIONALE NELLA SCUOLA”, Dispense di Pedagogia

IL LIBRO TRATTA IL MODO SI RAPPORTARSI DOCENTE ALUNNO CON EMPATIA

Tipologia: Dispense

2018/2019
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Caricato il 20/08/2019

Letizia.Barbieri
Letizia.Barbieri 🇮🇹

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Scarica “LA DIMENSIONE EMOZIONALE DEL CURRICOLO. L’EDUCAZIONE AFFETTIVA RAZIONALE NELLA SCUOLA” e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! 1 LIBRO: “LA DIMENSIONE EMOZIONALE DEL CURRICOLO. L’EDUCAZIONE AFFETTIVA RAZIONALE NELLA SCUOLA” DI MASSIMO BALDACCI INTRODUZIONE il problema che intendiamo affrontare nel presente volume è quello dell’educazione affettiva nella scuola. Si tratta di una questione che negli ultimi tempi ha ricevuto larga attenzione nel dibattito scolastico e nella discussione pubblica (stampa, televisione, ecc), soprattutto in relazione alla problematicità delle condotte mozionali dei giovani. La questione dell’esperienza emozionale nell’attuale società si caratterizza per la sua complessità e contraddittorietà, e non soltanto in relazione ai giovani. Analisi recenti rilevano infatti fenomeni diversificati, a prima vista perfino contrastanti (anche se come vedremo rientrano in una medesima cornice). Da un lato è stata evidenziata la crescente indifferenza emotiva che contraddistingue i nostri rapporti con gli altri, e fa di ognuno un passante frettoloso, disattento verso la sofferenza che lo circonda. Dall’altro, la presente stagione storica è stata definita come l’epoca delle passioni tristi, nella quale predomina l’ansia per un futuro che s presenta insicuro e perfino minaccioso. In questa situazione, estremamente problematica, la scuola subisce spinte contraddittorie, che le chiedono ora di tornare a garantire la società e la qualità degli studi assicurata dalla cultura classica, invece di nutrire gli insegnanti di “oppio pedagogico”, ora di dare priorità all’educazione rispetto all’istruzione, perché “l’istruzione è un evento possibile ad educazione avvenuta”. Inoltre, da una parte si reclama che la scuola ripristini una disciplina rigorosa, dall’altra le si chiede di farsi agenzia di contenimento del disagio giovanile. La società, in altre parole, pone alla scuola esigenze in contrasto, che la mettono in una situazione di “doppio vincolo”; qualsiasi cosa faccia, per qualche verso sbaglia, e viene sommersa da una pioggia di critiche. I “doppi vincoli”, com’è noto, causano disagio e confusione: si sta male, ci si sente in trappola e non si sa cosa fare. Il malessere e lo spaesamento di molti insegnanti sono probabilmente legati a questa condizione: si trovano di fronte a richieste contraddittorie, non capiscono cosa ci si aspetta da loro, su quali sostegni possono contare, non sono più sicuri di quale sia il loro compito. Da un “doppio vincolo” ci si libera solo con un salto logico e creativo; occorre conquistare un punto di vista più ampio ed inclusivo, grazie al quale richieste inizialmente incompatibili, liberate dall’estremismo, diventano conciliabili e complementari, permettendo così di trovare la coerenza interiore ed il senso del proprio compito. L’obiettivo che ci proponiamo è quello di tracciare, sia pure a titolo di mera ipotesi di lavoro, una prospettiva pedagogica che presenti le succitate caratteristiche di ampiezza ed inclusività, e permetta quindi di impostare 2 l’educazione affettiva in forme complementari all’istruzione scolastica e con essa integrabili, senza porre assurde alternative tra la società e la qualità degli studi ed un’esperienza emotivamente ricca ed articolata. Il punto di vista generale che adotteremo sarà quello del problematicismo pedagogico, ossia di una teoria dell’educazione in grado di assicurare il salto logico necessario per sfuggire alla trappola di posizione educative contrastanti ed indecidibili, quali: emozione vs ragione, educazione affettiva vs istruzione, e conquistare una prospettiva critica che promuova una loro razionale conciliazione. L’ipotesi generale che argomenteremo è articolata in due versanti. Da un lato presenteremo l’educazione affettiva come un aspetto di una più am-pia educazione alla ragione, secondo la prospettiva fondamentale del problematicismo, sostenendo l’esigenza d’integrare ragione ed emozione nelle due forme complementari di un’emozionalità ragionevole e di una ragione appassionata. D’altro, prospetteremo un’educazione affettiva integrata nei processi d’istruzione, anziché separata da essi. Occorre organizzare il contesto dell’apprendimento scolastico in forme tali da produrre abiti emozionali positivi e ragionevoli. Il percorso espositivo che seguiremo è articolato in due parti, suddivise in due capitoli ciascuna. Nella prima parte, affronteremo il rapporto tra il problematicismo e le teorie delle emozioni, nell’intento di individuare un quadro interpretativo dei fenomeni affettivi che sia in sintonia con questa teoria pedagogica. Di fatto ci occuperemo solo di due fondamentali teorie: la psicanalisi e l’approccio cognitivo neostoico. Sarà perciò su un paradigma cognitivo che fonderemo la nostra ipotesi di educazione affettiva razionale. Nella seconda parte, presenteremo invece una pedagogia delle emozioni di impostazione problematicista, basata su un paradigma cognitivo e tesa a realizzare un’educazione affettiva razionale. Dapprima (nel terzo capitolo), esamineremo le linee generali di questa impostazione: le finalità, le metodologie, i modelli e le scelte di fondo di un’educazione affettiva razionale. Poi (nel quarto ed ultimo capitolo) descriveremo l’integrazione di questa dimensione formativa nel contesto della vita scolastica, sia per quanto concerne la sua organizzazione complessiva, sia per quanto attiene all’apprendimento dei saperi curricolari. Quest’ultimo aspetto è secondo noi illuminante; ci porta a sostenere che nella scuola non si tratta tanto di aggiungere un curricolo di formazione affettiva accanto a quello destinato ai saperi, ma di cogliere e curare la dimensione emozionante del curricolo. 5 È pensabile piuttosto come limite di quella vasta ed indefinita zona psicologica, subconscia e preconscia, in cui impulsi, bisogni ed aspirazioni della personalità fluttuano e premono per precisarsi e definirsi, per costruirsi come problemi di fronte all’azione illuminatrice ed ordinatrice del pensiero. Esso può comprendere l’universalità dei contenuti irrazionali, presupposti dalla problematicità personale, e cioè l’infinito urgere di sollecitazioni, emozioni, alla base di ogni esperienza personale. In primo luogo, Bertin rifiuta un uso sistematico di questa nozione (che ne fa una regione dello spazio psichico) limitandone la portata ad un uso meramente descrittivo, utile per disegnare una qualità di alcuni contenuti psichici: “non essere ancora risolti nel divenire del pensiero”, non essere ancora pienamente consapevoli. In secondo luogo, Bertin tende a respingere la stessa idea dell’inconscio dinamico, costituito da materiali psichici inaccessibili alla coscienza perché attivamente rimossi, che rappresenta un aspetto fondamentale della psicanalisi. Il carattere inconscio di un dato contenuto è da lui ridefinito come preconscio (cioè, non ancora consapevole, poiché non ancora caduto sotto il raggio dell’attenzione) o subconscio (ossia, solo debolmente od oscuramente consapevole). In questa maniera, però, per Bertin non si hanno contenuti veramente inconsci in senso dinamico, il cui accesso alla coscienza è cioè impedito da meccanismi di difesa, ma solo materiali non ancora coscienti o debolmente tali, perché su di essi non si è ancora esercitata la funzione chiarificatrice della coscienza e la razionalizzazione del pensiero. In altri termini: se la coscienza è il momento per cui la relazione dell’individuo e del mondo si pone per l’attività del conoscere in funzione del processo di razionalizzazione, l’inconscio rappresenta il grado preliminare di tale processo corrispondente alla presenza di contenuti non ancora assunti nel processo di razionalizzazione, e perciò subconsci e preconsci. A sostegno della propria posizione, Bertin cita pensatori come Guzzo, che come lui riporta l’inconscio al preconscio e sottolinea la possibilità di azione della coscienza su di esso; e come Hamelin, il quale non ammette l’esistenza di un inconscio e formula una dottrina dei gradi di coscienza che distingue tra: una coscienza chiara e riflessa, ed una coscienza oscura e spontanea. Inoltre, Bertin fa riferimento alle correnti della psichiatria fenomenologica ed alla cosiddetta psicanalisi esistenziale. Per Sartre la vita psichica coincide con la coscienza; non vi è dunque posto per la nozione freudiana di inconscio. Egli distingue però tra la coscienza riflessiva (che concerne il conoscere qualcosa) e la coscienza preriflessiva, che non sta alla base del conosciuto, ma del vissuto, e corrisponde approssimativamente al preconscio (o, in termini bertiniani, al subconscio). In questo modo, egli compie una sorta di riduzione dell’inconscio al preconscio (od al subconscio) analoga a quella operata da Bertin. Il momento pre-riflessivo consiste in una valutazione implicita della situazione, ed in una scelta immediata, che fa da sfondo ed è presupposta da ogni nostro atto. 6 Tale valutazione-scelta spontanea è per noi implicitamente consapevole, ma al tempo stesso rimane nell’oscurità, sottraendosi ad una chiarificazione riflessiva che la renda del tutto esplicita. I contenuti preconsci sono semplicemente la forma preliminare di quelli coscienti. La vita psichica non è da lui ricondotta ad un gioco di forze, secondo il punto di vista dinamico della psicanalisi; e non si può parlare propriamente nemmeno di un conflitto tra il momento razionale e l’esperienza emotiva, secondo il modello platonico dell’anima (paragonata ad una biga alata), che vede il contrasto tra la ragione (l’auriga) e la passione (il cavallo nero, intemperante e ribelle). Se il momento subconscio è legato a giudizi istantanei ed irriflessivi, allora sono queste vaghe ed oscure valutazioni a diventare, nel momento della coscienza, materia di un processo di razionalizzazione che le rende esplicite, le chiarisce e le sottopone al vaglio della mediazione intellettuale. In altri termini, il carattere irriflessivo del primo momento porta alla formazione di pre-giudizi nel senso etimologico del termine: di giudizi anticipati, di valutazioni non ponderate razionalmente, e tali valutazioni diventano oggetto di un giudizio razionale meditato nel secondo momento. La differenza rispetto a Sartre è che mentre per il filosofo francese (il quale vede un rapporto di alterità tra coscienza pre-riflessiva e cogito riflessivo) queste valutazioni implicite tendono a restare nella sfera del vissuto, sottraendosi all’attività conoscitiva e quindi alla piena consapevolezza, per Bertin il momento preconscio-subconscio pare senz’altro accessibile alla riflessione razionale, ponendosi anzi come suo momento preliminare. L’affinità profonda tra Bertin e Sartre è invece legata alla concezione anti-determinista dell’uomo. In Freud la concezione determinista, di derivazione positivista, e la giustificazione del concetto di inconscio sono strettamente connesse. Per lui ogni evento psichico è determinato da altri eventi psichici, niente si compie per caso; poiché i dati della coscienza presentano molte discontinuità, in essa non sono sempre rintracciabili questi antecedenti; per rendere intelligibile la vita psichica, ricostituendone la continuità, non resta quindi che postulare l’esistenza di atti mentali inconsci con cui completare la catena di quelli consapevoli. Per Sartre, invece, la coscienza è libera dalla causalità: si autodetermina spontaneamente ad ogni suo atto, senza bisogno di antecedenti, rivelandosi radicalmente libera. Ma l’etica dell’adattamento non è l’etica della ragione, non ha il suo slancio, non ha la sua apertura; è un’etica statica, non un’etica dinamica. L’adattamento è un aspetto della vita etica che esige, a suo correlativo dialettico, l’aspetto del superamento. Senza tale correlazione etica dell’adattamento induce al conformismo, all’appiattimento della personalità. L’affinità tra certi aspetti del pensiero di Bertin e quello di Sartre emerge con maggiore chiarezza nell’ultima stagione teorica del pedagogista, nella dottrina della progettazione esistenziale, che riprende l’idea, già avanzata dal filosofo francese, del progetto come dimensione in cui si definisce l’uomo, come espressione della sua autodeterminazione. 7 È la prefigurazione e la scelta del futuro, dunque, e non il passato (come in Freud), che dà senso alle azioni dell’uomo e permette di comprenderle. Per Sartre il progetto originale (come scelta del modo di essere nel mondo) appartiene però al vissuto, alle strutture della coscienza pre-riflesiva, ed è pertanto espressione di una scelta implicita ed immediata (la sua variazione è legata ad un mutamento di atteggiamento verso il mondo), non un oggetto di giudizio razionale e di scelta meditata e consapevole. Per Bertin, invece, il progetto esistenziale è il frutto di una ragione che, pur ponendosi come creativa, si esprime sul piano del giudizio razionale e della scelta ponderata ed esplicita. In altre parole, dove per Sartre sta la coscienza pre-riflessiva, il vissuto, per Bertin sopravviene, almeno in parte, la ragione riflessiva. Se l’approssimativa identificazione di ciò che Bertin chiama subconscio (contenuti solo debolmente od oscuramente consapevoli) con la coscienza pre-riflessiva sartriana è accettabile, allora tutta la questione è riformulabile nei termini del rapporto tra il momento del vissuto pre-riflessivo e quello della ragione riflessiva. La ragione riflessiva assume questi contenuti come proprio oggetto, li sottopone ad un processo di chiarimento che li rende espliciti, e ne fa materia di giudizio meditato e consapevole. Se le emozioni sono legate al vissuto pre-riflessiva, la ragione diviene momento di autocomprensione emotiva e di giudizio razionale sugli eventi legati alle emozioni. E questo significa che la manifestazione e/o il controllo delle emozioni non è più concepito nei termini di un rapporto di forza tra ragione e passione, come se un cavaliere dovesse tenere a freno un cavallo intemperante, ma come un rapporto tra valutazioni implicite e giudizi riflessivi. Il momento pre-riflessivo sarà il momento in cui la valutazione è legata ad un’elaborazione dell’informazione di tipo tacito, che non si compie cioè nel formato dei codici verbali, ed è correlata a reazioni emotive; il momento razionale sarà invece connesso ad un giudizio che si avvale della riflessione verbale, nella forma del linguaggio interiore, ed è in grado di influire sulle emozioni stesse. Per esaminare la plausibilità di quest’impostazione dell’educazione affettiva dobbiamo attraversare tre tappe. In primo luogo, occorre analizzare la tesi della disomogeneità tra i presupposti paradigmatici della psicanalisi (legati essenzialmente ad un punto di vista dinamico) e del problematicismo (correlato ad un punto di vista cognitivo-razionale), che fa girare a vuoto il loro rapporto. A questo scopo, sarà necessaria una sommaria ricostruzione del programma di ricerca freudiano. In secondo luogo, dovremmo analizzare i fondamenti delle teorie cognitive dell’emozione, considerate come il quadro entro cui possono acquisire intellegibilità sia il momento pre-riflessivo dell’esperienza emotiva, sia il suo rapporto con la ragione riflessiva. Abbandoneremo perciò tanto i concetti psicanalitici di inconscio e preconscio, quanto la loro trascrizione in termini di “vissuto”, al modo di Sartre. 10 Per altro, proprio il ruolo forte attribuito all’adulto in un contesto di lavoro cooperativo è stato oggetto di critiche che rimarcano come l’impostazione complessiva rimanga adultista e direttiva. IL PROGRAMMA DI RICERCA PSICANALITICO: UNA RICOSTRUZIONE RAZIONALE Per analizzare la disomogeneità tra i presupposti paradigmatici del problematicismo razionalista e quelli della psicanalisi, è necessario esaminare la struttura teorica di quest’ultima. Considerata la complessità dell’edificio teorico psicoanalitico, ci limiteremo però ad una schematica ricostruzione di alcuni aspetti fondamentali del pensiero di Freud. Il paradigma epistemologico secondo cui cercheremo di compiere una sommaria ricostruzione della teoria freudiana non sarà né quello induttivista (non si può sostenere che la psicanalisi è progredita attraverso un accumularsi di fatti e di generalizzazioni derivate da questi), né quello falsificazionista (la psicanalisi non è cresciuta attraverso un gioco di congetture sempre più audaci e di confutazioni che hanno portato ad abbandonare quelle rivelatisi inadeguate); ricorreremo invece alla concezione della metodologia dei programmi di ricerca scientifica messa a punto da Lakatos. Secondo Lakatos, il progresso scientifico si può cogliere nella successione di una serie di teorie che conservano tra loro una certa continuità grazie alla condivisione di certi assunti fondamentali, inerenti al programma di ricerca da cui si sono sviluppate. La struttura di un programma di ricerca scientifico è articolata in un nucleo di assunti fondamentali (in genere, di natura metafisica) ed in una cintura protettiva di ipotesi ausiliari e di modelli di supporto; la sua processualità è guidata da regole euristiche che danno vita sia ad un’euristica negativa (i divieti metodologici), sia ad un’euristica positiva (i suggerimenti metodologici). Il nucleo è la parte caratterizzante di un programma scientifico: ne racchiude le idee e gli assunti basilari, i postulati che lo fondano, le metafore che contraddistinguono la sua visione. Si tratta, in genere, di assunti metafisici e perciò sintatticamente inconfutabili, ma anche quando non sono tali una decisione metodologica ne decreta l’intangibilità, almeno in via provvisoria. L’euristica negativa tutela tale nucleo, prescrivendo di deviare da esso eventuali prove sfavorevoli. Il nucleo rappresenta, dunque, l’elemento di continuità nella serie di teorie di teorie che prende origine da un programma; tuttavia, raramente tale nucleo si presenta nella sua versione definitiva fin dall’inizio, più comunemente esso è il risultato di ripetute messe a punto nelle successive formulazioni del programma. In pratica, è perciò solo come postulati, decretandone, di fatto, l’intangibilità. Questo significa che, a rigore, l’identificazione del nucleo dello sviluppo del programma. La cintura protettiva si sviluppa “intorno” al nucleo è costituita essenzialmente da ipotesi ausiliari e modelli di supporto (e da altre componenti: condizioni iniziali, teorie osservative, ecc) che hanno la funzione di mantenere un certo equilibrio tra la teoria e l’esperienza. In altre parole, le anomalie nel rapporto tra teoria e riscontri empirici porta a rettifiche soltanto a livello delle componenti della cintura protettiva. 11 Non basta, però, che tali rettifiche rimettano in sintonia l’apparato teorico con l’esperienza. Il riallineamento deve assicurare uno slittamento progressivo al programma, occorre cioè che ne aumenti le capacità esplicative e da luogo alla previsione di nuovi fatti. A questo progresso teorico, inoltre, deve far seguito nel tempo qualche conferma empirica, almeno parziale. Il tempo che intercorre tra la formulazione di una nuova versione del programma, che presenta un nuovo modello, per esempio e il raggiungimento di una qualche corroborazione empirica può essere però anche molto esteso; fino a che garantisce uno sviluppo progressivo, l’elaborazione teorica può procedere con una relativa autonomia rispetto al piano dell’esperienza. Se invece la rettifica della cintura non riesce ad assicurare un progresso teorico, se fornisce solo giustificazioni ad hoc, pretestuose e che si limitano a rattoppare la singola falla, allora determina uno slittamento regressivo e, qualora seguano altri slittamenti di questo genere, il programma entra in fase involutiva, e presto o tardi è probabile che sia abbandonato, anche se nessuna regola può stabilire se e quando ciò avverrà. Newton in un primo momento elaborò il suo programma per un sistema planetario con un sole fisso ed un unico pianeta, entrambi rappresentati da punti. Fu in questo modello che derivò la legge dell’inverso del quadrato per l’ellisse di Kepler. Ma questo modello era vietato dalla stessa terza legge della dinamica di Newton, perciò doveva essere sostituito da un altro in cui sia il sole sia il pianeta ruotassero intorno al loro comune centro di gravità. Questo cambiamento non era motivato da nessuna osservazione ma da una difficoltà teorica nello sviluppo del programma. In seguito egli elaborò il programma per il caso di più pianeti come se ci fossero solo forze eliocentriche, ma nessuna forza interplanetaria. Successivamente passò a trattare il caso in cui il sole ed i pianeti non erano punti-massa ma sfere-massa. Questo mutamento comportò considerevoli difficoltà matematiche, rallentò il lavoro di Newton, e ritardò la pubblicazione del Principia per più di dieci anni. Dopo aver risolto questo “rompicapo”, cominciò a lavorare su sfere ruotanti. La maggior parte dei rompicapo di Newton, se non tutti, che condussero ad una serie progressiva di nuove varianti, erano prevedibili al tempo del suo primo modello ingenuo e non c’è dubbio che lui ed i suoi colleghi li avevano previsti. Newton deve essere stato consapevole dell’evidente falsità delle sue prime varianti. Nulla mostra l’esistenza di un’euristica positiva in un programma di ricerca più chiaramente di questo fatto: è per questo che si parla di “modelli” nei programmi di ricerca. In questo percorso, ciò che resta intangibile, ed appare dunque inerente al nucleo inconfutabile del programma di ricerca newtoniano, sono le tre leggi della dinamica e la legge di gravitazione. Concludendo questa schematica di riepilogazione della nozione di programma di ricerca scientifica, si deve precisare che per Lakatos la dinamica dello sviluppo scientifico è vista come un gioco con almeno tre 12 giocatori: un certo campo di esperienza, ed almeno due programmi rivali che cercano di superarsi reciprocamente nel fornire quadri esplicativi migliori di tale esperienza. Ognuno di tali programmi, a questo scopo, cerca di sviluppare progressi teorici che garantiscano, nel contempo, la salvaguardia del proprio nucleo caratterizzante. Il termine “metapsicologia”, che letteralmente significa “oltre la psicologia”, rinvia a due diversi possibili significati, che probabilmente sono da ritenere compresenti nel suo spettro semantico. Da un lato, in analogia con la “metafisica”, può indicare un’elaborazione che va oltre la psicologia empirico- sperimentale, attingendo ad una dimensione speculativa relativa ai fondamenti teorici della psicanalisi; è questo il significato che porta ad identificare la metapsicologia come il terreno in cui cercare di rintracciare il nucleo metafisico del programma freudiano d’altro lato, Freud descrive la “metapsicologia” come una psicologia che va oltre la coscienza, e con ciò suggerisce con chiarezza qual è il proprio programma rivale: la psicologia “coscienzialista”, che identifica la vita psichica con il pensiero cosciente. La psicanalisi abolisce questo postulato, asserendo che l’io cosciente spesso s’inganna, innanzitutto sulle proprie motivazioni, che quella che percepiamo introspettivamente come la nostra “interiorità” è soltanto la punto dell’iceberg del mondo psichico, il quale resta in gran parte al di sotto del livello cosciente. Attraverso questa decostruzione del cogito cartesiano (dell’io penso) che domina la concezione moderna dell’uomo, la psicanalisi compie un ulteriore passo, dopo quelli di Copernico e di Darwin, sul cammino della relativizzazione dell’uomo e del ridimensionamento della sua immagine ideale. Nel “Progetto” (1895) Freud enuncia l’intento generale del suo programma di ricerca nella fase nascente: costruire una psicologia come scienza naturale, concettualizzando i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali”. I presupposti principali del progetto sono allora due: la concezione quantitativa dai fenomeni psichici, e quella dei neuroni come particelle materiali nei quali si compie il movimento della quantità di eccitazione. La cessazione di questi stimoli endogeni richiede azioni di tipo “specifico” (la fame implica la ricerca del cibo, per esempio) che devono essere sostenute con una certa dose di Qn, e di conseguenza questa, in realtà, non sarà veramente azzerata, bensì ne sarà conservata una certa riserva che l’organismo tenderà a mantenere costante (evitando, cioè, che se ne accumuli troppa). L’organizzazione delle azioni specifiche rappresenta così la funzione secondaria del sistema nervoso. A questo punto, per spiegare i vari aspetti della vita psichica (percezione, memoria, coscienza, ego, ecc) Freud è però costretto ad aggiungere progressivamente una serie di ipotesi ausiliari (per altro ben argomentate sotto il profilo teorico) ai due assunti iniziali. Egli ipotizza l’esistenza di due sistemi di neuroni che si distinguono sulla base della differente permeabilità delle loro barriere di contatto (poi denominate “sinapsi” da Sherrington) al passaggio della Qn, i neuroni Φ, che non offrono resistenza a questo passaggio e sono legati alla funzione percettiva, ed i neuroni Ψ = che 15 Se il raggiungimento della meta (legata alla rappresentazione) verso cui spinge la pulsione causa dispiacere, anziché piacere, allora il soggetto tende a difendersi automaticamente con il meccanismo della rimozione, che tiene lontano dalla coscienza la rappresentazione che cause-rebbe il dispiacere. Poiché il rappresentante pulsionale esercita una certa pressione per diventare cosciente, la rimozione si basa su una contropressione che richiede a sua volta una data quantità di forza. La vita psichica diviene, dunque, un gioco di forze. Il postulato topico riguarda la suddivisione dell’apparato psichico in sistemi funzionalmente differenziati e connessi tra loro secondo una certa logica, che sono metaforicamente raffigurati come spazi psichici diversi, ma collegati. Il postulato economico concerne l’interpretazione dei processi psichici nei termini della circolazione di energia (la libido), e come tale costituisce un punto di vista correlato e complementare a quello dinamico. La rimozione implica che alla carica della rappresentazione inconscia disturbante sia opposta una controcarica operante nel preconscio, di entità pari o superiore a quella, così da impedirne l’ingresso nella coscienza. Il modello delle pulsioni distingue tra pulsioni dell’io e pulsioni sessuali. La pulsione è descritta da Freud come uno stimolo interno all’organismo, ed è definita come un “concetto limite tra lo psichico ed il somatico”. Egli presenta esplicitamente come una mera ipotesi ausiliare la teoria che distingue le pulsioni tra pulsioni dell’io, che riguardano la fondamentale spinta all’autoconservazione, e pulsioni sessuali, tese al raggiungimento del soddisfacimento sessuale (da intendere, com’è noto, in senso molto più ampio dell’uso corrente del termine). La loro contrapposizione, nei termini delle forze loro connesse, è tuttavia rilevante per la spiegazione dei fenomeni della vita psichica. Il modello topografico dell’apparato psichico, lo suddivide in tre sistemi conscio, preconscio, inconscio concepiti come regioni funzionali differenti dello spazio” psichico. Se la coscienza corrisponde ai dati consapevoli, il preconscio è costituito da contenuti che possono diventare coscienti con uno sforzo d’attenzione, mentre l’inconscio è formato da elementi che, prima di poter accedere al sistema preconscio, sono assoggettati ad un dispositivo di censura (posto nel preconscio stesso), che li esamina e respinge attivamente quelli inaccettabili a livello cosciente. Freud provvide a formulare una propria specifica teoria osservativa, coerente con la specificità dei fenomeni che intendeva indagare. Identificò nella politica psicanalitica, così come essa si era venuta progressivamente costruendo sul metodo delle libere associazioni verbali compiute dai pazienti, la fonte del genere di prove che poteva sostenere o disconfermare le ipotesi avanzate in sede teorica. Il modello delle pulsioni basato sulla distinzione tra pulsioni dell’io e pulsioni sessuali entra in crisi con lo sviluppo del concetto di narcisismo (ritenuto necessario per spiegare la schizofrenia). 16 Questo viene interpretato come un rivolgimento della libido sessuale sull’io, cosicchè la libido viene a distinguersi tra libido oggettuale e libido narcisistica. A questo punto, il dualismo pulsionale tende però a venire meno; entrambe le pulsioni sono ricondotte entro la cornice della libido. Freud, probabilmente per motivi legati all’nterpretazione dei conflitti psichici, sembra però propenso a considerare valida solo una concezione duale delle pulsioni, tanto che a questo proposito si potrebbe parlare di un postulato dualista o conflittuale del suo programma. Questo postulato trova espressione in un nuovo modello delle pulsioni, che prende forma in Al di là del principio del piacere e trova formulazione compiuta in L’Io e l’Es. Il nuovo modello è basato sulla celebre contrapposizione tra Eros (l’istinto di vita) e Thanatos (l’istinto di morte). Eros comprende non solo le pulsioni sessuali propriamente dette, ma anche la pulsione di autoconservazione dell’io, e persegue lo scopo di conservare la vita. La pulsione di morte è invece avanzata a titolo d’ipotesi, come una tendenza che spinge il vivente verso lo stato inorganico. Questo modello è presentato come una “risposta dualistica” al problema delle finalità della vita. Freud aggiunge anche che in ogni parte della sostanza vivente sono attive le due pulsioni secondo impasti difficili da stabilire, ma che questo deve essere considerato come un “postulato irrinunciabile” della sua concezione. In termini di ricostruzione razionale, questa ultima affermazione si intende probabilmente meglio se la si connette al postulato duale delle pulsioni nella sua forma astratta, piuttosto che nella forma specifica Eros/Thanatos. Il modello topografico entra invece in crisi a causa di un’evidente contraddizione con i fenomeni osservabili nella pratica psicanalitica. Durante il trattamento di un paziente, l’esistenza di desideri rimossi è segnalata dalla comparsa di resistenze ad affrontare certi pensieri. Si tratta però di resistenze di carattere inconsapevole: l’individuo non si rende conto di opporsi al divenire cosciente di un certo contenuto psichico. In termini psicanalitici, l’impedimento dell’accesso alla coscienza è esercitato dal dispositivo di censura; tale dispositivo, secondo il modello topografico, è posto a livello del sistema preconscio, ma tale collocazione non spiega allora il fenomeno della resistenza. Infatti, ciò che è situato a livello del preconscio dovrebbe risultare facilmente accessibile alla coscienza. Il carattere inconsapevole delle resistenze opposte dal paziente segnala invece un’evidente difficoltà a rendersi conto di queste. 17 Il modello strutturale suddivide l’apparato psichico in Ego, Es e Super-ego, concepibili come “personaggi” dello scenario interiore, oltre che come semplici regioni funzionali. L’Es costituisce il serbatoio delle pulsioni, e dunque dell’energia psichica (della libido); i suoi contenuti, soggetti ad entrare in conflitto con le istanze dell’Io e del Super-io, sono inconsci ed in parte rimossi. L’Io rappresenta l’istanza di mediazione tra l’Es ed il mondo: provvede ad organizzare gli impulsi del primo in funzione della realtà esterna, sotto la pressione del Super-io. Quest’ultimo, in arte inconscio, rappresenta le istanze morali cui soggiace l’Io; i suoi automatismi inconsapevoli sono responsabili di sensi di colpa e bisogni autopunitivi. Il nuovo modello non si limita a risolvere la contraddizione segnalata, ma dimostra anche una valenza euristica: porta a riformulare l’obiettivo della pratica psicanalitica. La ricostruzione razionale della parabola del pensiero di Freud ha dunque portato alla decantazione del nucleo metafisico del suo programma di ricerca, al nocciolo teorico che si conserva stabile lungo tale parabola. I suoi componenti sono all’incirca i seguenti: la concezione determinista dei fenomeni psichici, l’anti-coscienzialismo, dualismo pulsionale, i postulati biologico, topico, economico, dinamico. Il postulato economico considera i processi psichici in base alla circolazione della libido, od energia psichica. È stato osservato che la libido è pensata sul modello dell’Eros platonico, e Freud stesso, in vari passi della propria opera, richiama questo accostamento. Il concetto di libido, infatti, riguarda un’energia connessa all’ “amore” inteso secondo un’accezione allargata della sessualità che lo rende simile a ciò che Platone chiamava Eros. Freud vede la libido come un fluido di cui l’Es è il “serbatoio”, e che da qui può “affluire nell’Io. Anche questa immagine, per altro, non è estranea a Platone, che nella Repubblica parla del desiderio come un “fiume” che può essere “canalizzato” verso una meta. L’idea dell’energia erotica come un liquido in movimento, alla luce della quale Freud sembra concepire la libido. Il postulato dinamico vede i fenomeni psichici come l’esito di una composizione e di un conflitto tra forze. Il rapporto tra ragione e passione, tra l’io razionale e l’anima irrazionale, resta configurato in termini di rapporti di forza: se l’io è debole (e questo per Freud avviene spesso), la passione ed il desiderio prendono il sopravvento e riducono la razionalità ad un proprio strumento. Studiosi come Lakoff e Pinker hanno mostrato che il ruolo delle metafore per il pensiero astratto non è circoscritto al campo scientifico, nel quale assolve la funzione di una deliberata strategia euristica. Il nostro comune sistema concettuale quotidiano ed il nostro modo di pensare fanno largo uso di metafore e procedure analogiche. L’evoluzione della nostra mente è almeno in parte legato alla conquista del ragionamento metaforico, grazie al quale abbiamo imparato ad utilizzare in chiave astratta i concetti che ci sono più familiari, perché legati alla nostra esperienza fisica (sensomotoria): il concetto di spazio, di movimento, di forza, ecc. 20 Secondo gli stoici, le passioni (il desiderio od il timore di qualcosa di esterno a noi) sono connesse a cose indipendenti da noi, che perciò non possono essere né beni né mali; di conseguenza, il nostro animo dovrebbe restare indifferente verso di esse. Le passioni sono pertanto da considerare come errori, e come tali sono da estirpare, così da raggiungere una vita saggia, priva di sofferenza (apatia) e di turbamenti (atarassia). Posto in questi termini, il problema delle passioni risulta connesso con tutte e tre le parti in cui gli stoici dividevano la filosofia: la logica, la fisica e l’etica. Per quanto riguarda la logica, e più precisamente la teoria della conoscenza, sono strettamente connessi al problema delle passioni i concetti di “rappresentazione” e di “assenso”. La “rappresentazione” (phantasia) è intesa come “un’impronta nell’anima, cioè una (sua) alterazione”, dovuta ad un oggetto reale; come tale essa è distinta dalla “fantasia” (fantasma) che è invece “pura apparenza della mente, del tipo di quelle che si hanno nei sogni”. Le rappresentazioni si distinguono in catalettiche, che sono intense e vere, ed in quanto evidenti spingono all’assenso, e acatalettiche, che non sono conformi alla realtà o sono prive di chiarezza. Le rappresentazioni catalettiche sono il fondamento della conoscenza ed il criterio della verità. L’ “assenso” è la facoltà razionale di accettare o respingere la rappresentazione; infatti, in ogni caso “la rappresentazione non è causa sufficiente dell’assenso”, è l’uomo che decide se accogliere o meno l’impressione che prova il suo animo. L’assenso dato alla rappresentazione catalettica costituisce la “comprensione”, con la quale tale rappresentazione viene integrata nell’anima. La libertà dell’uomo, che è questione concernente la fisica, risiede in buona misura nella potestà di assenso che egli ha sulle proprie rappresentazioni. Il problema delle passioni concerne in modo specifico l’etica. Negli animali determinate rappresentazioni suscitano “impulsi”. “L’impulso è un movimento della mente verso un qualche oggetto” a no esterno, nel senso dell’attrazione o della repulsione. Allora: “la passione è un impulso eccessivo che infrange i imiti della ragione, oppure è un impulso deviante che sfugge al controllo della ragione” e produce turbamento dell’animo. La passione sembra perciò contrassegnata da tre caratteristiche: l’esagerata intensità dell’impulso verso un oggetto esterno, e che perciò non dipende da noi; la sua estraneità a ciò che è conforme alla ragione (alla ragionevolezza), che consegue dal carattere eccessivo dell’impulso; ed infine, il turbamento dell’anima, ossia un senso di sofferenza o disagio. Tuttavia, le passioni sono presentate come giudizi, o conseguenze di giudizi, della parte razionale dell’anima; come recita un celebre passaggio di Epitteto “Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose”; gli stoici precisano che si tratta di giudizi errati e di opinioni inconsistenti. 21 È cioè la parte razionale stessa dell’anima che, giudicando in modo erroneo la rappresentazione, subisce una deviazione che la mette in balia della passione. L’errore del giudizio consiste propriamente nel valutare come oggettivo quanto non lo è, o come un bene od un male una cosa che non dipende da noi, e dunque, da considerare come indifferente, perché il bene ed il male, come si è visto, sono relativi solo a ciò che è in nostro potere: la rettitudine nel giudizio e nell’azione. Il piacere è il godimento di un bene presente; mentre il patire un male presente costituisce il dolore; il desiderio è l’impulso verso qualcosa che è giudicato anticipatamente come un bene; ed, infine, la paura è l’aspettativa di un male futuro. La cura delle passioni sembra perciò connessa a tre aspetti: la disciplina della rappresentazione, il cambiamento di abitudini errate, e l’eliminazione di “principi contraddittori”. In primo luogo, s’impone una disciplina della rappresentazione: la rappresentazione così come si dà immediatamente al nostro animo deve essere vagliata prima di darle assenso; infatti “Zenone non concedeva la fiducia a tutte le rappresentazioni, ma solo a quelle che portavano, per così dire, le credenziali proprie degli oggetti visti”, ossia non dava l’assenso a tutte le rappresentazioni, ma solo a quelle catalettiche, eliminando così quelle frutto di giudizio erroneo o di opinione infondata, che lo avrebbero reso preda della passione. Dal momento che la passione è legata ad opinioni e giudizi inconsistenti, che fanno scambiare nostre fantasie con dati reali o deformano questi aggiungendovi tali fantasie, o confondono ciò che non dipende da noi con quanto è in nostro poter, una valutazione razionale che porta alla rettifica di tali giudizi ed all’eliminazione di opinioni inconsistenti ha il potere di bloccare l’insorgere della passione stessa; in altre parole, cambia la natura della rappresentazione, il modo di vedere la cosa, e con esso il nostro stato d’animo. In secondo luogo, la cura delle passioni richiede un vero e proprio allenamento dell’anima, affidato ad opportuni esercizi spirituali, volto a fortificarla contro abitudini di giudizio irragionevoli. Infine, se i giudizi sono legati a “principi contraddittori”, ossia a convinzioni infondate od irragionevoli, si deve cercare di eliminare questi principi; a questo proposito è attribuita a Zenone un’importante precisazione: “la tristezza è la convinzione della presenza di un male, nella quale convinzione è compresa anche l’idea che questa tristezza vada fatta propria”; si avrebbe perciò un doppio giudizio: che una certa cosa è un male, e che sia giusto od appropriato patire per questo male. In ultima analisi, la seconda e la terza misura sono riconducibili alla prima, alla disciplina delle rappresentazioni (o del giudizio, se si preferisce). Infatti, allenare l’anima ha lo scopo di modificare abitudini che ostacolerebbero il retto giudizio; ed il medesimo fine può essere riscontrato nell’esigenza di eliminare “principi contraddittori” (rispetto a quanto è ragionevole), che sono responsabili di errori di giudizio. Se le passioni sono perturbazioni dell’anima connesse ad errori di giudizio, la terapia stoica delle passioni è perciò riassumibile nella disciplina del giudizio, nell’acquisizione della capacità di valutare le cose secondo ragione. 22 Se il giudizio è conforme alla ragione, l’impulsivo verso un oggetto non diventa smodato e non dà dunque luogo ad un turbamento dell’anima, ma si mantiene misurato e genera uno stato d’animo fermo. Questo vuol dire che la cura delle passioni irragionevoli, al di là delle intenzioni degli stoici, non richiede necessariamente la conquista di uno stato di apatia, ma può mirare ad una condizione di eupatia: alla sostituzione di passioni eccessive con altre più ragionevoli e moderate. L’indubbio interesse della concezione stoica delle passioni non la rende immune da limiti e da aporie; ne vediamo alcune tra le più rilevanti ai fini di un discorso pedagogico. Un primo limite è connesso al logocentrismo su cui si fonda questa concezione. Le passioni sono giudizi errati, ed il giudizio, anche quando è sbagliato, è una funzione del logos: del discorso razionale. Per gli stoici gli animali ed i bambini sono pertanto privi di emozione, i primi perché non razionali, i secondi perché in essi la ragione non si è ancora sviluppata. Si tratta ovviamente, di una posizione che non risulta plausibile. Bambini ed animali sono dotati di una vita emotiva; quindi il logocentrismo deve essere in qualche modo rettificato (il che, come vedremo, avviene nel modello neostoico). Un secondo limite è connesso al rigorismo che caratterizza la concezione stoica. Le passioni sono errori che turbano l’anima; il saggio, grazie alla propria capacità di giudizio, ne è immune: è impassibile. Come si è visto, le passioni, dunque, non devono essere moderate: devono essere estirpate. Ma oggi sappiamo che una vita priva di emozioni non è propria dell’uomo sano e normale, appartiene piuttosto ad individui affetti da stati patologici, come quelli che riscontrano nelle lesioni alle aree prefrontali del cervello. Un’esperienza emotiva ricca ed articolata fa parte della pienezza della vita; le emozioni sono parte del nostro essere-nel-mondo e costituiscono, anzi, informazioni fondamentali per orientarci ed agire nel nostro ambiente. Il problema è semmai rappresentato dalle emozioni eccessive, dai turbamenti che possono creare disagio o sofferenza al soggetto ed agli altri. Una pedagogia delle emozioni ispirata alla ragione non può pertanto far proprio l’ideale dell’apatia, della cancellazione delle passioni, e si orienta piuttosto verso l’eupatia (che come abbiamo visto, non era del tutto estranea agli stoici), verso la ragionevolezza e la misura degli stati emotivi; il che, come vedremo, non esclude anche manifestazioni emozionali intense, quando è ragionevole che sia così (di fronte ad un grave lutto, per esempio, un intenso dolore è del tutto naturale e ragionevole). Un terzo limite è connesso alle insufficienze esplicative della teoria stoica; per esempio, all’incapacità di spiegare il progressivo scemare dell’intensità della passione con il passare del tempo: “lo stesso Crisippo ha 25 benessere, perciò ha un certo margine di soggettività, è una valutazione compiuta dalla nostra prospettiva personale, piuttosto che da un punto di vista impersonale (il quale porterebbe a giudizi “freddi”, privi di coinvolgimento emotivo). La Nussbaum va più avanti. Un dato modo di “vedere” un certo oggetto implica a sua volta determinate credenze. Innanzitutto, credenze relative a tale oggetto, al fatto che abbia proprietà tali da renderlo rilevante per il proprio benessere. In secondo luogo, credenze relative all’adeguatezza dell’emozione che si prova, al percepirla come “giusta” o meno; così, non soltanto si prova un senso di lutto per la scomparsa di una persona creduta importante per noi, ma si crede anche che sia giusto essere addolorati (come si è visto questo era già stato rilevato dagli stoici). Tutto questo ha varie conseguenze. Le credenze implicate nelle emozioni possono essere vere o false, o meglio ancora: ragionevoli od irragionevoli, questo comporta che le stesse emozioni possono essere più o meno ragionevoli e possono fornire tanto una buona quanto una cattiva guida per il nostro agire. La credenza che un certo oggetto abbia qualcosa che lo rende importante per noi susciterà però l’emozione, indipendentemente dal fatto che tale credenza sia ragionevole od irragionevole. Se le emozioni sono legate a valutazioni che dipendono da credenze, allora le emozioni tendono a mutare o svanire qualora tali credenze subiscano un cambiamento; si tratta di un corollario di enorme importanza pedagogica, perché le credenze, di principio, sono costrutti cognitivi modificabili, e dunque si apre la possibilità di un’educazione affettiva razionale che non si riduca ad una lotta della ragione e della volontà contro le passioni, ma agisca sulle credenze attraverso il ragionamento. Tuttavia, come evidenzia la stessa Nussbaum, di fatto può essere molto difficile cambiare le credenze implicate nelle emozioni. In primo luogo, esse possono essere connesse alla cultura antropologica appresa nell’infanzia, durante il processo di socializzazione, e dunque essere legate a quadri di valori più ampi e pregnanti, condivisi da una certa comunità o da un dato gruppo sociale. In secondo luogo, al di là della loro pregnanza socio-antropologica, tali credenze possono essere divenute abituali, e dunque molto difficili da mutare. Infatti, se l’emozione è legata ad un atto di assenso che decreta implicitamente: “sì, le cose stanno così”, con la ripetuta accettazione di questa affermazione, tale valutazione e le credenze ad essa legata divengono vere e proprie abitudini mentali, progressivamente sempre più difficili da modificare. Secondo la Nussbaum, l’emozione ha natura intenzionale, in quanto è diretta verso un oggetto esterno. Le emozioni, in altre parole, sono ritenute “intenzionali” non nel senso che siano “volontarie”, suscitabili di proposito ed a piacimento, perché l’emozione autentica costituisce una risposta spontanea alle situazioni ed agli eventi. 26 Le emozioni sono “intenzionali” nel senso che si riferiscono ad un oggetto esterno da sé: un atto d’amore, od un atto di odio, è intenzionale in quanto si riferisce alla cosa amata, od odiata. Questo riferimento dell’emozione ad un oggetto che, essendo esterno, non è in nostro potere ha una grande rilevanza teorica. Come si è visto, secondo gli stoici antichi, l passioni sono errori di giudizio proprio perché sono connesse a cose che non dipendono da noi, e ci dovrebbero dunque lasciare indifferenti, perché il bene ed il male risiedono solo in ciò che dipende da noi, nelle nostre azioni. Si potrebbe dire che l’intenzionalità dell’emozione è quindi cruciale per l’innesto del programma neostoico su quello stoico, per il mantenimento della coerenza tra i loro fondamenti. Al tempo stesso, la Nussbaum nega però che il riferimento a qualcosa al di fuori del nostro controllo implichi necessariamente l’erroneità delle emozioni: in assenza di un’adeguata crescita emotiva le nostre stesse capacità di ragionare come creature umane politiche, in base a valori sociali, risulterebbero compromesse, dunque, le emozioni ci possono dare informazioni importanti sui nostri valori, su ciò che conta per noi e per i nostri simili, anche se questo non impedisce che talvolta le credenze in esse racchiuse possano essere false od irragionevoli, e possano quindi fornire una cattiva guida per il nostro agire. Tuttavia il carattere intenzionale dell’emozione non è privo di problemi, poiché se per alcune emozioni è semplice identificare l’oggetto verso cui sono dirette in altri casi l’individuazione del riferimento oggettuale può essere meno chiaro e diretto: accade di sentirsi arrabbiati senza sapere di preciso con chi ce l’abbiamo. La Nussbaum cerca di risolvere questo problema attraverso la distinzione tra “emozioni”, che hanno sempre un oggetto, e “stati d’animo”, i quali non possiedono questa intenzionalità. E pur ammettendo la difficoltà di distinguere realmente questi due tipi di affetti, asserisce che ciò non rappresenta una vera debolezza della propria teoria, perché si tratta di una distinzione legata ad oggetti particolarmente vaghi, ma non meno reali. Tuttavia, per quanto ci riguarda, questa difficoltà nel distinguere tra emozioni e stati d’animo è una ragione sufficiente per optare per una versione debole dell’intenzionalità dell’emozione, che veda tale intenzionalità dell’emozione, che veda tale intenzionalità in termini molto generali e flessibili, riassumibili dicendo che in linea di principio l’emozione è diretta ad un oggetto esterno, mentre uno stato d’animo si riferisce, per così dire, al mondo intero. Secondo la Nussbaum, infine, nell’emozione è racchiuso un atteggiamento eudaimonista, che porta a vedere le cose in relazione ai nostri scopi ed al nostro benessere. Le emozioni sono giudizi di valore di una categoria particolare, poiché il valore in questione è riferito alla propria prosperità; in altri termini, l’oggetto dell’emozione è percepito come importante per il proprio benessere personale, per i propri fini e progetti. Questa caratteristica, secondo l’autrice, si può esprimere anche dicendo che le emozioni sono eudaimonistiche. 27 La Nussbaum critica l’abitudine di tradurre “eudaimonia” con “felicità”, ascrivendola alla tradizione dell’utilitarismo, ed asserisce: “Uso questo termine perché voglio direttamente ricollegarmi all’antico concetto greco di eudaimonia, che è compatibile con qualsiasi concezione del bene che si voglia proporre. In altre parole, la concezione che una persona ha dell’eudaimonia corrisponde alla sua personale risposta alla domanda su come dovrebbe vivere un essere umano. In questa maniera, anche se grosso modo il termine può essere reso con “benessere interiore”, non si deve ritenere che il suo nucleo concettuale implichi necessariamente una qualche forma di egoismo morale, un riportare qualsiasi scopo esclusivamente a ciò che è vantaggioso per se stessi. Se le emozioni sono giudizi di valore eudaimonistici, e se tali valori possono essere in contesa tra loro, allora è possibile sperimentare emozioni contrastanti, che ci fanno percepire il nostro benessere come legato a scopi o progetti incompatibili, gettandoci nel dissidio interiore, perché ci sembrerà che qualsiasi scelta facciamo porterà a sacrificare qualcosa di importante per noi, e dunque una parte del nostro benessere. L’intensità è considerata nella sua qualità d’informazione, mentre la condotta del soggetto dipende dalla sua scelta, compiuta sulla base di tale informazione. La Nussbaum cerca di risolvere questa difficoltà attraverso la distinzione tra emozioni situazionali ed emozioni di fondo. Le emozioni situazionali sono legate a giudizi ed a scopi relativi ad una situazione particolare e determinata; hanno perciò un carattere contingente, connesso alle circostanze specifiche. Le emozioni di fondo sono invece legate a credenze durevoli ed a progetti stabili, e tendono dunque a persistere al variare delle situazioni. La concezione cognitiva delle emozioni vede le emozioni come giudizi della parte razionale dell’anima, compiuti attraverso la ragione discorsiva, l’autrice lega le emozioni a valutazioni implicite di ordine cognitivo che non sono però necessariamente formulate nel formato del pensiero verbale. In questo modo, l’emozione ha carattere cognitivo, ma non necessariamente razionale (secondo l’uso del termine “razionale” in senso restrittivo rispetto a “cognitivo”); questa soluzione trova maggiore consonanza con l’esperienza privata che ciascuno di noi ha delle proprie emozioni. Infatti, la nostra esperienza non è quella di esprimere un giudizio mentale esplicito ed in seguito a questo di provare un’emozione: non mi dico interiormente che qualcosa è orribile ed in seguito a questo pensiero verbale provo paura. Il giudizio è implicito nel modo stesso di darsi dell’oggetto: la tal cosa mi appare come spaventosa, e questo suo modo di presentarsi fa tutt’uno con la sensazione di paura che provo. Quando arrivo a dirmi “è veramente orribile!”, la paura è già insorta, e questo, in termini stoici, costituisce piuttosto la seconda fase dell’emozione: l’assenso. L’importanza della storia emotiva del soggetto, è in parte legato al primo. 30 Emozioni, cognizione e corporeità. Definite le emozioni come giudizi eudamonistici, la Nussbaum si domanda se in esse “ci sono elementi non cognitivi necessari”. È in questo quadro che la sua teoria affronta il problema degli aspetti corporei e fisiologici delle emozioni, partendo dall’assunto (discutibile, come vedremo) che tali aspetti siano estranei al processo cognitivo. Secondo lei, ogni emozione ha come condizione la presenza di qualche sensazione corporea, ma questo non implica che tale sensazione sia parte intrinseca dell’emozione stessa. L’elemento costruttivo dell’emozione è la valutazione dell’importanza dell’oggetto per il soggetto; i fenomeni “fisici” e le sensazioni corporee che l’accompagnano non sono elementi necessari dell’emozione in quanto tale: il dolore per un lutto può essere accompagnato dall’accelerazione del battito cardiaco o da un’elevazione della pressione sanguigna, ma non diremmo che il battito è un elemento costitutivo di tale dolore, e l’assenza di ipertensione non implica la mancanza di sofferenza. Secondo la Nussbaum, le configurazioni corporee fisiologiche sono dunque emotivamente aspecifiche; sarebbe perciò errato asserire che identifichiamo un’emozione sulla base di una certa configurazione ad essa tipica: è il contenuto cognitivo delle emozioni che ci permette di dare loro un nome. Per Damasio, a differenza della Nussbaum, il ruolo del corpo è essenziale. Egli compie una distinzione di principio tra “emozioni” e “sentimenti”. Le emozioni propriamente dette sono fenomeni “pubblici”, che si possono cogliere dall’esterno, ed anche quando non sono direttamente osservabili, sono rilevabili empiricamente con strumentazioni scientifiche (dosaggi ormonali, registrazioni di parametri elettrofisiologici). I sentimenti, invece, costituiscono i corrispondenti fenomeni privati, di carattere mentale, e sono perciò direttamente accessibili solo al loro “proprietario”. In altre parole, i fenomeni affettivi si esibiscono su un doppio palcoscenico: “Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i sentimenti in quello della mente”. Entrando nei particolari, le emozioni sono complesse risposte chimiche e neurali a stimoli emozionali adeguati, ed il risultato immediato di tali risposte è una temporanea modificazione dello stato del corpo e delle mappe neurali del corpo stesso; il processo emozionale ha però inizio da una fase di stima – valutazione dello stimolo emozionale che non può essere trascurata, poiché “Senza una fase di stima la descrizione biologica dei fenomeni dell’emozione diverrebbe suscettibile di una rappresentazione caricaturale, nella quale le emozioni sarebbero eventi privi di significato”. I sentimenti sono il corrispettivo mentale delle emozioni e, dunque, consistono in una rappresentazione mentale dello stato del corpo, unita a pensieri consoni al contenuto dell’emozione. In altre parole, l’idea è che “un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una certa modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti”. 31 Da questa definizione, risulta immediatamente evidente che, a differenza della posizione della Nussbaum, in questo caso i fenomeni corporei (le emozioni in senso stretto) non sono semplicemente un “correlato” dell’emozione, bensì una sua componente costitutiva ed essenziale. A questo proposito Damasio asserisce molto nettamente che non è possibile ridurre i sentimenti a pensieri con contenuti consoni a certe situazioni (la tristezza a pensieri di perdita, per esempio), altrimenti non potrebbero essere distinti da altri pensieri: “i sentimenti sono funzionalmente distinti perché la loro essenza consiste nei pensieri che rappresentano il corpo nel suo coinvolgimento in un processo reattivo”. Si deve considerare l’obiezione della Nussbaum contro l’individuazione del corpo come “oggetto” di tutte le emozioni, mentre tale oggetto è esterno: consiste nella persona o nella cosa vista come importante per il proprio benessere. In realtà, anche se è vero che Damasio pone il corpo come oggetto all’origine del sentimento (“nel caso dei sentimenti gli oggetti e gli eventi all’origine del processo si trovano all’interno del corpo, e non all’esterno”), egli chiarisce che, oltre al corpo, i sentimenti sono legati ad un oggetto esterno emozionalmente adeguato su cui si appunta la stima che innesca il processo emozionale. In altre parole, l’oggetto esterno induce l’emozione nel corpo, e questa determina lo stato del corpo come oggetto del sentimento. Perciò, l’oggetto esterno, espressione di quella che la Nussbaum definisce come l’intenzionalità dell’emozione, non viene sostituito dal corpo; l’oggetto esterno rimane l’oggetto della valutazione cognitiva implicita. Ma mentre per la Nussbaum questa valutazione è l’emozione, per Damasio, che distingue tra emozione come fenomeno corporeo e sentimento come esperienza mentale, la valutazione provoca l’insorgere di uno stato emozionale del corpo. Il corpo, perciò, non è “oggetto” dell’emozione – sentimento nel solito modo dell’oggetto esterno, e non solo perché a differenza di questo è “interno”, ma in quanto non possiede carattere intenzionale. Quando si avverte un sentimento di paura per la comparsa di un volto minaccioso alla finestra è possibile asserire sensatamente (anche se la Nussbaum non sarebbe d’accordo) che di questo sentimento fa parte integrante la percezione dell’improvvisa accelerazione dei battiti cardiaci (l’emozione secondo Damasio) e della contrazione di tutte le muscolature del corpo; ma sarebbe senza senso dire che si sta provando paura di queste alterazioni corporee: si ha paura dell’individuo dal volto minaccioso. Damasio non attribuisce ai sentimenti un’intenzionalità specifica nei riguardi dei diversi stati del corpo, non dice che si ha un sentimento di paura (od altro) di un certo stato del corpo; scrive invece che il corpo è l’ingrediente costante dei sentimenti, che qualsiasi sentimento implica la percezione di uno stato del corpo, senza per questo compromettere l’intenzionalità verso gli oggetti esterni, che si situa ad un altro livello. Damasio non chiarisce cosa vi sia di essenziale per le emozioni nella percezione del corpo, non spiega cioè 32 perché per “sentirsi felici”, invece di limitarsi a pensare pensieri felici, è fondamentale che sia presente che la percezione di un certo stato corporeo, sia pure vago e molto variabile. Una convincente ipotesi di soluzione di questo problema era già stata individuata da Sartre. Sartre interpreta l’emozione come una maniera d’essere della coscienza, e stabilisce che il compito di una psicologia fenomenologica non è quello di descrivere l’emozione come un fatto, ma come un fenomeno di cui occorre comprendere il significato. Il senso che egli attribuisce all’emozione è quello di un modo di cogliere l mondo, di una condotta volta a cambiare una situazione che appare “spaventosa” o “triste”, non in modo fattivo, ma con una sorta di atto “magico”: lo svenimento o l’isolamento, per esempio; sentendosi d’un tratto impotenti a trasformare realmente lo stato delle cose, lo si modifica con una specie d’incanto. Similmente a quanto asserito dalla Nussbaum, anche per Sartre nell’emozione è fondamentale la credenza in certe qualità dell’oggetto (la spaventosità di un volto, per esempio), così come le si coglie immediatamente, in maniera riflessiva. Ma qui Sartre aggiunge un’osservazione decisiva: “Comprendiamo a questo punto la funzione dei fenomeni fisiologici: essi rappresentano il serio dell’emozione, sono dei fenomeni di credenza”, e poco dopo aggiunge: “Ci troviamo di fronte una forma sintetica: per credere ai modi di condotta magici, ci devono essere turbe corporali”; ed ancora, nell’emozione: “noi viviamo e subiamo il suo (dell’oggetto) significato ed è con la nostra stessa carne che costituiamo questo significato. La coscienza immersa in questo mondo magico vi trascina il corpo, proprio perché il corpo è credenza. In altre parole, Sartre, come la Nussbaum, ci dice che l’emozione consiste nel credere che l’oggetto intenzionato abbia veramente una certa qualità (sia spaventoso, per esempio), ma per lui tale credenza non è solo un giudizio mentale: è con il corpo, con il suo turbamento, che crediamo e diamo autenticità al giudizio. Damasio ha ragione nel considerare la percezione dello stato del corpo come una parte sostitutiva dell’emozione, perché “sentirsi felici” è diverso dal “pensare pensieri felici”; secondo noi, le cose stanno così in quanto l’emozione è una valutazione implicita convalidata (od autenticata) dalla presenza di certe sensazioni corporee, è una credenza eudaimonistica avvertita in maniera praticamente simultanea con la mente e con il corpo (non sapremmo dire se avvertiamo prima il pensiero o la sensazione somatica), ed in modo sintetico, indiscernibile su questi due piani (non sapremmo distinguere dove comincia l’uno e finisce l’altro). Come fa notare la Nussbaum, la sensazione di un mero turbamento corporeo non costituisce un’emozione identificabile; posso dare un nome al turbamento solo in funzione di una valutazione intenzionata verso un oggetto; solo allora potrò dire “sono felice di”, “ho paura di”, ecc, altrimenti potrò soltanto dire di sentirmi agitato, senza sapere bene cosa provo. La seconda annotazione riguarda, per l’appunto, un esempio di corroborazione indipendente dell’ipotesi stoica circa le due fasi dell’emozione attraverso alcune recenti acquisizioni neurobiologiche. 35 A questo proposito, Karmiloff – Smith ha formulato un modello che prevede l’esistenza di livelli di rappresentazione intermedi tra questi due estremi, e di un meccanismo di ridescrizione rappresentazionale (RR) che permette la ricodifica dell’informazione da un livello all’altro. Il modello prevede in tutto quattro livelli, ognuno dei quali costituisce una versione condensata di quello precedente. Il primo livello, detto Implicito (I), corrisponde al know – how, all’informazione codificata in modo meramente procedurale; il secondo livello, denominato Esplicito 1 (E1), ridescrive in modo compresso l’informazione livello precedente, trasformandola in rappresentazioni disponibili per il sistema, ma non in un formato verbale e neppure cosciente; il livello successivo, detto Esplicito 2 (E2), fornisce una ridescrizione dell’informazione a livello consapevole, ma non ancora codificata nel formato del linguaggio verbale; l’ultimo livello, denominato (E3), corrisponde a quello della conoscenza dichiarativa (know – what), cosciente ed espressa nel codice verbale, od in un formato a questo vicino e, dunque, facilmente traducibile. Di questo modello ci interessano due assunti: il primo è l’esistenza di livelli rappresentazionali di tipo inconsapevole o di carattere cosciente ma non verbale, che supera sia il logocentrismo stoico sia la troppo netta dicotomia immediato/riflessivo; il secondo è l’individuazione di un processo, la ridescrizione rappresentazionale, che permette di spiegare il modo in cui le rappresentazioni implicite divengono consapevoli ed esprimibili in forma proposizionale, e, dunque manipolabili a livello verbale. Un’altra concezione che può risultare utile a questo scopo, è quella dell’esistenza di un “linguaggio del pensiero”, avanzata da Fodor. Questo studioso ipotizza che le rappresentazioni mentali secondo cui è codificata l’informazione abbaino una struttura analoga a quella di un linguaggio naturale, che ne farebbe una sorta di “linguaggio del pensiero”. Tale linguaggio, detto anche “mentalese”, sarebbe il codice in cui vengono elaborate le informazioni senza bisogno dell’intervento della coscienza (secondo la concezione computazionale, infatti la maggior parte dei processi cognitivi non sono consapevoli). Il fatto che il mentalese abbia la struttura di un linguaggio naturale renderebbe conto della produttività del pensiero, anche di quello non verbale, la cui sintassi composizionale permetterebbe di articolare un gran numero di rappresentazioni mentali differenti, in maniera analoga a come possiamo produrre un’elevata quantità di frasi a partire dalle parole. Questi assunti prevedono l’esistenza di uno o più livelli cognitivi intermedi tra la cognizione codificata a livello meramente procedurale e la conoscenza dichiarativa, tra il vissuto cognitivo immediato ed il pensiero verbale. Questi livelli intermedi non sono codificati nel formato del codice verbale, ma, almeno a partire da un certo livello, possiedono una struttura analoga a quella di un linguaggio naturale, e si riflettono in un qualche genere di consapevolezza. 36 In altre parole, grazie a questi livelli intermedi di rappresentazione, è come se il soggetto si dicesse qualcosa, formulasse una valutazione proposizionale, anche se tale rappresentazione resta di carattere subverbale. L’esistenza di un meccanismo di transcodifica, la ridescrizione rappresentazionale, rende possibile il trasferimento dell’informazione da un livello all’altro, e dunque la sua traduzione in forma verbale. In questo modo si dispone di una spiegazione di principio che permette sia d superare il logocentrismo stoico, poiché i processi di rappresentazione e di assenso implicati nell’emozione non necessitano del pensiero verbale, sia di rendere conto del passaggio dall’esperienza cognitiva – corporea irriflessiva alla sua appropriazione da parte del soggetto in forma di significati espressi verbalmente e suscettibili di riflessione razionale. Emozione, cognizione e credenze. Come si è visto, per la Nussbaum l’emozione è legata a credenze circa l’oggetto che valutiamo come rilevante in rapporto al nostro benessere; Sartre, da parte sua, ha concepito le perturbazioni fisiologiche che accompagnano l’emozione come fenomeni di credenza, portandoci ad affermare che le emozioni sono valutazioni implicite autenticate da sensazioni corporee (in assenza delle quali si avrebbe un giudizio “freddo”, non un’emozione). Nella psicologia di senso comune, le credenze vengono comunemente impiegate come fattori esplicativi della condotta. Secondo la Karmiloff – Smith gli atteggiamenti proposizionali costituiscono perciò un dominio specifico di elaborazione di particolare rilevanza per la gestione dei rapporti interpersonali, e, si dovrebbe aggiungere, per la nostra stessa autocomprensione; la nostra “naturale” competenza psicologica è basata sul dare ragioni (e fare previsioni) del proprio e dell’altrui comportamento in termini di atteggiamenti proposizionali (credenze, attese, desideri, ecc). Nelle emozioni sono dunque coinvolti atteggiamenti proposizionali impliciti che, almeno in prima approssimazione, vertono sull’oggetto emozionalmente appropriato. In altre parole, spaventarsi per un volto minaccioso equivale a porre l’atteggiamento proposizionale “credi che questo volto sia spaventoso”, anche se tale credenza non viene espressa in termini verbali, ma in maniera implicita. McGinn osserva che il concetto di credenza ha due aspetti: da un lato è uno stato mentale che svolge un ruolo nei processi psichici del soggetto (per i nostri scopi: nell’emozione); dall’altro ha un contenuto proposizionale per il quale valgono condizioni di verità referenziali, che può essere cioè vero o falso in rapporto alle caratteristiche dell’oggetto rappresentato. È importante capire che una credenza svolge una funzione nella psicologia del soggetto in quanto stato mentale ed in virtù del contenuto intrinseco della rappresentazione, indipendentemente che questa soddisfi o meno le condizioni di verità referenziali. McGinn precisa pure che nella psicologia di senso comune si ha una sovrapposizione di queste due componenti: nella nostra intuizione ingenua della credenza non distinguiamo tra la credenza come stato mentale e le sue proprietà referenziali; “credere che P” equivale ad asserire P, ossia a porre P come vera. 37 Supponiamo che “S crede che P” equivalga a: “Credo che quel volto è spaventoso”; il correlato di questa credenza sarà l’emozione della paura per l’uomo in questione, probabilmente accompagnata dal timore che un tizio dal volto così spaventoso sia un individuo malvagio e pericoloso. A questo proposito si possono fare alcune osservazioni. Primo: il tipo di emozione provata, la paura, è legato al contenuto della clausola proposizionale (la spaventosità del volto), ossia alla natura intrinseca della rappresentazione mentale (a come vedo quel volto). Secondo: l’emozione della paura è connessa solo con lo stato mentale in cui si esprime la credenza, non con il fatto che il volto sia “realmente” spaventoso e/o il suo possessore veramente malvagio e pericoloso; l’individuo in questione potrebbe essere uno sconosciuto d’animo mite, rimasto deturpato in un incidente; una volta saputo che è solo un mendicante, con ogni probabilità, la paura lascerebbe il posto alla compassione, ed il suo volto ci sembrerebbe soltanto penoso. Terzo: adesso siamo in grado di capire in che senso l’emozione è una valutazione autenticata dal corpo, o, detto alla maniera di Varela, un vissuto cognitivo incorporato. Valutare un volto come spaventoso a credere che quel volto sia spaventoso, e viceversa. Ciò premesso, nell’emozione della paura, l’apparizione del volto che vediamo come spaventoso sarà accompagnata da alcune perturbazioni fisiologiche: il respiro si potrebbe bloccare per un momento, il cuore accelerare, le muscolature irrigidirsi, ecc. Queste sensazioni sono essenziali per l’autenticità dello stato mentale in cui si esprime la credenza che quel volto sia spaventoso. Il genere di credenza emozionalmente efficace è uno stato mentale che non consiste solo in un pensiero con un particolare contenuto proporzionale, appropriato all’emozione, ma anche nella percezione di un certo stato del corpo. Quest’ultimo elemento funziona da fattore di autenticazione emozionale dell’atteggiamento verso il contenuto proposizionale, cioè, convalida la relazione d’accettazione verso tale contenuto. Vedere un volto come spaventoso equivale all’essere in uno stato mentale che, in via di principio, è creato dal concorso i due componenti: mi dico implicitamente che “quel volto è spaventoso”, mentre la percezione di uno stato corporeo perturbato mi conferma che credo “veramente” che sia tale. La sensazione corporea, cioè, convalida la credenza in quanto atteggiamento di credenza. Come ha visto McGinn, il nostro senso comune tende a sovrapporre i due aspetti della credenza: lo stato mentale e la relazione referenziale con l’oggetto. Se l’apparizione del volto deturpato dello sconosciuto non fosse accompagnato da una certa sensazione di perturbazione del corpo, non si proverebbe veramente un’emozione. Il giudizio “quel volto è spaventoso” si ridurrebbe ad una perizia tecnica, in cui “spaventoso” sarebbe solo un sinonimo di “sfigurato”. È il coinvolgimento del corpo che fa della cognizione immediata un’emozione. 40 La forma del “chiodo schiaccia chiodo” è solo una delle modalità di questo processo, e non spiega perché talora la ragione, come volevano gli stoici, riesce ad essere efficace nel controllare le passioni. Spinoza suggerisce che l’emozione può essere vinta non solo da un’emozione del medesimo livello (quello dell’immaginazione), ma anche e soprattutto da un affetto di livello superiore, situato sul piano della ragione. È un processo di questo secondo tipo, basato su un giudizio razionale innervato di passione, che può spiegare sia la possibilità di ricondurre ad un livello di ragionevolezza emozioni troppo ardenti, sia la scarsa efficacia di un giudizio freddo e distaccato. Ellis, a tal proposito, suggerisce una critica enfatica delle credenze legate alle emozioni negative, rilevando la scarsa efficacia di una loro messa in discussione di carattere pacato, ma poiché non fornisce vere giustificazioni teoriche, si tratta di un mero principio empirico desunto dalla pratica clinica. Spinoza, come abbiamo visto, propone invece uno schema teorico atto ad indicare almeno una spiegazione di principio, basata sulla tassonomia dei livelli di potenza della mente. I motivi di maggiore efficacia del giudizio razionale appassionato nel controllare emozioni eccessive restano però ad acclarare, e non è nostro compito provvedere in questo senso. Giudizio razionale, emozioni ed abiti mentali. Abbiamo visto che l’enfatizzazione del rifiuto dell’assenso all’impressione emotiva negativa rende più probabile la moderazione di questa. Non si tratta però di una “ricetta” garantita: nonostante il calore con cui si respinge una certa rappresentazione delle cose, si può si può restare vittime di una passione eccessiva, di cui sperimentiamo tutta la tenacia. È in questi casi che risulta pertinente la congettura della Nussbaum: è plausibile che il giudizio razionale, sia pure appassionato, risulti poco o per nulla efficace di fronte a credenze ormai divenute abituali. Se sono abitualmente pavido e/o credo che ci sia da aver paura degli individui sfigurati, in quanto malvagi, è probabile che il dissenso enfatico sia meno efficace. Parlare genericamente di disposizioni caratteriali o di credenze abituali è però scarsamente utile; come si è visto analizzando la teoria della Nussbaum, la questione chiama in causa la storia emotiva del soggetto da un lato, e la costruzione sociale delle emozioni dall’altro. Laporta non distingue i diversi tipi d’apprendimento ed il senso che ciascuno di essi riveste, cosicchè la sua ipotesi di riduzione rimane generica e non manca di suscitare alcune perplessità (anche gli animali apprendono, ma per loro non si parla d’educazione, ma di addestramento). Un’importante tesi circa i tipi logici dell’apprendimento è stata avanzata da Bateson, che distingue tra protoapprendimento e deuteroapprendimento. In termini astratti, se il protoapprendimento è una modificazione del comportamento e/o dell’organizzazione mentale del soggetto, il deuteroapprendimento è un cambiamento di questa modificazione. Per Bateson un contesto è una struttura che definisce il significato di una situazione e/o di un evento; ciò che ci accade acquista un senso solo in quanto lo vediamo come parte di un contesto. 41 Per dare significato alla nostra esperienza dobbiamo suddividerne il flusso continuo in unità discrete, ognuna delle quali è identificata da uno specifico senso; queste unità sono denominate “contesti”, e la loro identificazione è detta appercezione. Il contesto non è né un concetto puramente oggettivo (è la nostra appercezione che dà senso alla situazione), né meramente soggettivo (l’interpretazione del significato, infatti, è condizionata dalle caratteristiche della situazione), ma implica un’interazione tra questi due ordini di realtà. L’appercezione appare analoga alla valutazione cognitiva immediata già posta alla base del processo emozionale: si tratta di una variante del “vedere x come y”; più precisamente, in questo caso, si ha un “vedere la situazione x come dotata del significato y”. Il contesto rappresenta perciò una struttura di significato temporalmente invariante, che si può trasferire da una situazione all’altra. Se un soggetto, nel corso della propria storia, apprende ad appercepire certi tipi di contesti, questo apprendimento tenderà a trasferirsi alle sue esperienze successive, e quindi egli sarà propenso ad attribuire con regolarità certi significati a certi eventi. In questo processo, tendono a fissarsi ed a divenire abituali anche le credenze che controllano l’attribuzione di questi significati. In altri termini, data la tendenza all’implicazione reciproca che abbiamo evidenziato, abitudini di appercezione del significato e fissazione di credenze abituali fanno parte del medesimo processo. Tale processo si svolge nel corso della storia personale del soggetto, e, particolarmente, della sua socializzazione; è cioè durante la propria educazione che l’individuo sviluppa, in maniera collaterale, certi tipi di abitudini. Questo spiega anche la pertinacia di tali abiti mentali, la loro scarsa elasticità. Nel corso della propria infanzia, il soggetto assimila vari tipi di credenze, in parte in modo indiretto e (semi) inconsapevole (per esposizione alle pratiche sociali), in parte in maniera diretta ed esplicita: gli viene detto come occorre comportarsi, qual è il significato delle varie situazioni, quali emozioni è appropriato provare e come è legittimo esprimerle ecc. Queste comunicazioni interpersonali tendono inoltre ad essere interiorizzate ed a diventare una forma di linguaggio interiore, spesso telegrafico, con il quale il soggetto si può ripetere i giudizi assimilati, ed evocare i relativi contesti. Bateson ci ha offerto uno schema di spiegazione del cambiamento degli abiti mentali deuteroappresi che prevede due forme di mutamento. Una prima forma è quella della sostituzione delle premesse acquisite a livello del deuteroapprendimento. Dal momento che, nel caso delle emozioni negative, tali promesse consistono per lo più in credenze che influenzano le nostre valutazioni eudaimonistiche, si può tentare di cambiare queste credenze attraverso il loro esame critico ed il confronto con credenze alternative; dal momento che si tratta di credenze abituali 42 occorrerà mantenere per un certo tempo questo atteggiamento critico, per riuscire a cambiarle veramente ed ottenere mutamenti nel nostro modo di sentire. Questa è precisamente la strategia suggerita dalle terapie cognitive dei disturbi emotivi. Bateson prevede però anche una seconda e fondamentale strada. Se il deuteroapprendimento è il processo di cambiamento del protoapprendimento, il cambiamento del deuteroapprendimento postula un terzo livello logico dell’apprendimento, detto apprendimento 3. Con l’apprendimento 3 si impara a cambiare le abitudini acquisite al livello precedente, si conquista una certa indipendenza dalla loro costrizione. Secondo Bateson, l’apprendimento 3 è innescato dalle contraddizioni (dette anche “doppi vincoli”) che possiamo sperimentare nella nostra esperienza. Quando viviamo una lacerazione della coerenza del significato della nostra esperienza, del suo tessuto contestuale, il disagio che ne deriva ci spinge a cercare di ritrovare la nostra coerenza interiore. Se il deuteroapprendimento si fonda sull’apprendere un certo contesto, ossia sul vedere in un certo modo certi tipi di situazione, allora l’apprendimento 3 consiste nell’apprendere un contesto di livello logico più elevato (il contesto di tali contesti), che dà uno sguardo radicalmente diverso sulle cose, permettendo di ritrovare il senso di coerenza, come avviene nei processi di “conversione” religiosa o scientifica. Gli stoici miravano ad ottenere un apprendimento di questo tipo, quando cercavano di portare i propri adepti a vedere le cose della vita in base alla distinzione tra cose che dipendono da noi e cose che non dipendono da noi, a percepire solo le prime come legate al bene ed al male, ed a considerare come indifferenti le seconde. Apprendere e vedere il mondo in questa maniera, vuol dire ristrutturare radicalmente il modo di concepire il nostro rapporto con l’esistenza, fino a raggiungere una condizione in cui le passioni non hanno più ragione d’essere: l’apatia. Anche il tentativo di Spinoza, di prefigurare una decantazione delle passioni nell’ascesa all’amore intellettuale, sembra richiedere un apprendimento di questo genere; anzi, da come Bateson descrive il processo di apprendimento 3, pare di capire che esso sia di natura essenzialmente intuitiva, simile, in questo, alla conoscenza intuitiva che Spinoza considera correlata al raggiungimento dell’amore intellettuale. CONCLUSIONI: UN PARADIGMA COGNITIVO DELLE EMOZIONI Ai fini di un discorso pedagogico sulle emozioni, non è indispensabile cercare di convertire questo insieme in una teoria compiuta ed organica; ci può essere più utile un “paradigma” cognitivo delle emozioni. Per “paradigma” intendiamo un insieme di credenze, di assunti e di quadri concettuali. A differenza di quanto dovrebbe avvenire idealmente in una teoria compiuta ed organica, in un paradigma questi elementi cognitivi non sono connessi in una struttura nomologica ben delineata ed ordinata in forma 45 In questa parte del volume, ci proponiamo di formulare alcuni tratti di un’educazione affettiva razionale, nutrita degli assunti del paradigma cognitivo da un lato, e dei principi del problematicismo pedagogico dall’altro. In senso generale, la ragione indica l’esigenza d’integrazione razionale dell’esperienza, e come tale implica il superamento di impoverimento e un restringimento dell’esperienza stessa. Un’educazione orientata alla ragione ricercherà perciò l’integrazione tra l’esperienza intellettiva e quella affettiva, promovendo il loro sviluppo armonico ed equilibrato. L’affettività non sarà perciò trattata come una forza cieca, mero ricettacolo di passioni irrazionali da domare od estirpare affinchè non offuschino la razionalità, ma come una dimensione fondamentale dell’essere – nel – mondo, e come un aspetto cruciale della vitalità esistenziale, della pienezza della vita e della sua ricchezza di significati umani. Le valenze educative ed esistenziali della dimensione affettiva trovano però equilibrio ed armonia solo nella loro integrazione con la dimensione intellettiva, da concepire non come il dominio di quest’ultima, ma come un processo di compenetrazione reciproca. Il senso specifico, la ragione è identificabile nella facoltà generale di guidare il proprio pensiero in maniera autonoma, secondo criteri razionali e/o ragionevoli; essa si pone perciò come un principio sovraordinato alle diverse attività intellettive, che si confrontano con la problematicità dei vari campi dell’esperienza. In questa prospettiva, educare alla ragione significa formare la capacità di pensare con la propria testa, in modo riflessivo, coerente e ragionevole, liberandosi da pregiudizi, credenze dogmatiche, ragionamenti illogici, impulsi eccessivi, e da tutto ciò che può essere considerato irragionevole. Nel senso più ampio, l’educazione alla ragione consiste nella sintesi di queste due posizioni ed implica l’educare a pensare in modo riflessivo e ragionevole nel quadro di un’integrazione tra l’ambito intellettivo e quello affettivo. In altre parole, la ragione deve pervadere anche l’esperienza affettiva e la passione deve innervare la ragione. Non è pensabile un essere umano ridotto solo a gelida razionalità o solo al mero ribollire delle passioni. La separazione di ragione ed emozione e/o il loro squilibrio impoverisce l’umanità dell’uomo ed è talvolta responsabile di vere tragedie morali. Per Bertin il ruolo della ragione consiste nell’esercitare la funzione chiarificatrice del pensiero sui contenuti irriflessivi dell’esperienza affettiva: tali contenuti devono essere resi consapevoli e sottoposti ad un’adeguata riflessione razionale. Tuttavia, se si concepisce l’emozionalità come una forza, il suo rapporto con la ragione rischia di essere visto come una sorta di braccio di ferro, ed allora l’educazione non può che essere pensata come una sottomissione delle passioni alla razionalità, come un predominio autoritario di questa su quelle. Un paradigma cognitivo delle emozioni, che le vede come valutazioni immediate, rappresenta allora un presupposto necessario per un’educazione affettiva razionale. 46 Infatti, i giudizi impliciti nelle emozioni possono essere resi consapevoli attraverso la loro ridescrizione nel linguaggio verbale, e su di essi (e sulle credenze che stanno a loro fondamento) può essere esercitato l’esame critico della ragione. I modi di vedere le cose legati alle emozioni (vedere x come y) potranno essere chiariti e meditati; se ne potrà considerare il grado di ragionevolezza; si potranno correggere parziali o affrettate; si potrà rifiutare di accettare credenze irragionevoli o pensieri incoerenti. L’analisi riflessiva permetterà così di moderare o spegnere emozioni eccessive ed ingiustificate, che provocano malessere a se stessi e/o agli altri. L’emozione appartiene in primo luogo all’ambito del know – how, del processo vissuto, non si tratta di sovrapporle costantemente il filtro del know – what, della conoscenza di come ci si deve sentire o di come si deve esprimere quello che si sente; la vitalità affettiva ne sarebbe mortificata. Con soggetti in età evolutiva, ci sembra opinabile anche la promozione di pratiche di riflessione quotidiana sistematica, tipo esame di coscienza, che pure stoici come Seneca suggerivano. La questione è dunque d’integrare la riflessione razionale nell’esperienza affettiva, senza impoverire o deformare la ricchezza e le potenzialità formative del vissuto. In linea generale, si tratta di un problema di dosaggio e collocazione. In primo luogo, occorre che l’analisi critica sia attentamente dosata: l’eccesso può produrre ipervigilanza, l’incapacità di “lasciarsi andare”; mentre il difetto può portare alla carenza di autocontrollo, all’impulsività, al cadere preda delle passioni. In secondo luogo, l’esame razionale deve essere opportunamente situato: quando la corrente emozionale scorre fluidamente, accompagnando (come una sorta di “basso continuo”) il decorso dell’esperienza e contribuendo a conferirle significati e connotazioni, allora la riflessione pare inessenziale; viceversa, quando si producono turbamenti negativi eccessivi, che creano disagio o malessere, allora è il momento di promuovere la riflessione critica, per favorire il rifiuto dell’assenso a valutazioni irragionevoli. Le emozioni che definiamo “sane”, pure quando sono spiacevoli, ci informano sul nostro modo di sentire una certa situazione (anche se possiamo rifiutare loro l’assenso), e ci aiutano a decidere come agire (con la partecipazione della ragione, ovviamente); le emozioni inappropriate, invece, oltre a dare un’informazione distorta che rischia di portare a decisioni irragionevoli, creano malessere interiore, e tendono a determinare uno stato d’animo a lungo disturbato. Il dispiacere o l’irritazione che provo sono legate alla mia valutazione delle ragioni dell’altro, la confermano, mi aiutano a calibrare la relazione e danno autenticità alla mia condotta; inoltre, si può dire che sono reazioni appropriate e sane alla critica ricevuta. Da un punto di vista pedagogico, questa distinzione tra emozioni sane ed insane può essere connessa a quella tra esperienze educative e diseducative. 47 Un’esperienza è educativa se dilata ed arricchisce le possibilità e la qualità delle esperienze successive, mentre è diseducativa se le restringe e le impoverisce. Possiamo allora asserire che un’esperienza emotiva “sana”, positiva o negativa che sia, è educativa poiché tende a migliorare la qualità delle esperienze che seguiranno (permette di conoscersi più profondamente, affina la capacità di calibrare la relazione dell’altro, ecc). Viceversa, un’esperienza emotiva “tossica” è diseducativa, perché tende ad impoverire le esperienze successive: a bloccare il rapporto con se stessi nella forma di una ruminazione sui propri malesseri, ad ostacolare la crescita della relazione con gli altri, irrigidendola secondo prospettive di sopravvalutazione o di sottovalutazione del proprio io ecc. Educare alla ragione significa, pertanto, cercare di promuovere esperienze emotive sane, lasciando loro libero corso, e favorire una riflessione critica volta a spegnere od a moderare quelle “tossiche”, che se lasciate a se stesse potrebbero avere effetti diseducativi. La finalità generale di questo ambito educativo è individuabile nell’espansione dell’esperienza emotiva e nella promozione della vitalità affettiva in forme integrate con la ragione, volte a contrastare quanto impoverisce ed irrigidisce la sfera affettiva del soggetto (a partire da emozioni negative eccessive e persistenti), ed a favorire la compenetrazione tra un’affettività imbevuta di ragione ed una razionalità innervata di passione. Sul piano personale questa finalità può essere articolata: nella capacità di vivere le proprie emozioni nella loro immediatezza; nel riconoscere le proprie emozioni ed i propri stati d’animo e nel comprenderne il grado di ragionevolezza; nella capacità di riflettere criticamente sulle proprie emozioni, sentimenti e stati d’animo. Sul piano interpersonale, invece, comporta: la capacità di esprimersi con autenticità nel rapporto con l’altro; comprendere le sue emozioni ed i suoi sentimenti, saperne ragionare con disponibilità ecc. Simili capacità hanno cominciato ad essere riunite sotto l’etichetta di intelligenza emotiva. La legittimità di questa denominazione è ancora in discussione e dipende, ovviamente da cosa s’intende per “intelligenza”. L’intelligenza emotiva può essere definita come la capacità di risolvere (e prevenire) i problemi di rapporto con sé e con gli altri, e considerata come l’esito di un’educazione affettiva razionale che struttura tale capacità in un complesso di abiti mentali. Questo significa che si tratta essenzialmente di acquisizioni di lungo termine, legate ad un processo di deuteroapprendimento che si sviluppa collateralmente ad altre attività, e che richiede perciò una cura costante e protratta nel tempo. LE INDICAZIONI METODOLOGICHE PER L’EDUCAZIONE AFFETTIVA Le emozioni “tossiche” sono spesso legate a credenze irragionevoli, di tenore categorico ed assoluto, relative ai valori ed alle norme che regolano e danno significato alla condotta del soggetto. 50 Inoltre, se il ragionamento costituisce una sorta di dialogo con se stesso, è ipotizzabile che il suo sviluppo sia dovuto all’interiorizzazione del dialogo interpersonale, e che quest’ultimo sia perciò una misura che favorisce la capacità di ragionare. L’educatore o l’insegnante, sia pure nel contesto di attività che hanno altre finalità, quando si accorge che il soggetto ha problemi, che il suo stato d’animo è perturbato, po' offrire o rendersi disponibile ad una forma d’aiuto di questo primo livello, semplicemente ispirato alla ragione. La presenza di forme d’attenzione di questa natura per le persone è connaturata alla stessa idea di “comunità”, che include la messa in comune delle reciproche esperienze – anche emotive – attraverso la comunicazione, ed è un indicatore della qualità umana di qualsiasi contesto di lavoro. I principi di Rogers di accettazione incondizionata, autenticità personale ed atteggiamento empatico, come pure le tecniche relazionali che ne ha ricavato Gordon (l’ascolto attivo, il messaggio – io ecc), sono ipotesi ormai ben conosciute in ambito educativo e scolastico. I principi di Ellis (e di Beck), che hanno una vasta risonanza nel campo delle psicoterapie cognitive, sono invece meno conosciuti in ambito educativo; si tratta però di impostazioni in forte sintonia con una pedagogia delle emozioni espirata alla ragione. Le prospettive di Ellis e Beck (molto simili tra loro) sono basate su una concezione cognitiva delle emozioni e ne adottano i suoi postulati fondamentali: le emozioni sono legate a valutazioni implicite, e tali valutazioni sono influenzate dal sistema di credenze dell’individuo. Secondo questi autori, il mantenimento prolungato di stati d’animo perturbati è sempre mediato da pensieri, anche se spesso questi non si danno in forma esplicita. Si tratta di pensieri automatici e molesti che si ripresentano frequentemente; è come se l’individuo si tormentasse continuando a ripetersi qualche valutazione negativa basata su credenze irragionevoli (categoriche e totalizzanti), diventate abituali a causa di un’educazione inappropriata. In questo modo, un’emozione negativa, che avrebbe potuto essere passeggera, si può stabilizzare in uno stato d’animo “tossico”, che causa malessere al soggetto. Ellis propone uno schema di trattamento di questi stati d’animo che può essere pedagogicamente pertinente, a patto – come si è già detto – di non trasformarlo in un metodo od in un programma standard, ma di considerarlo solo uno schema di riferimento a cui ispirarsi flessibilmente. La pertinenza pedagogica di tale schema può essere ricondotta a due motivi fondamentali: la sintonia con l’idea di Bertin di una riflessione razionale sul vissuto preriflessivo; e l’adozione di una griglia concettuale basata semplicemente su concezioni di senso comune, sia pure opportunamente raffinate, che non richiedono di riferirsi ad una teoria psicologica particolare e determinata. 51 In estrema sintesi, lo schema di Ellis prevede tre punti che riflettono la struttura del processo emotivo secondo la concezione cognitiva, e due ulteriori punti che riguardano il modo di trattare le emozioni “tossiche”. Lo schema completo è il seguente: - Evento avverso (adversity) - Credenze (belief) - Conseguenze emotive (consequences) - Discussione (discussion) - Energizzazione (energization) Evento avverso. Si tratta della situazione che fornisce l’occasione per la nascita di un’emozione negativa (che può essere scatenata anche dalla mera anticipazione di tale situazione). Come sappiamo, si tratta di fatti che mettono in gioco qualche “oggetto” che consideriamo importante per il nostro benessere. Credenze. Come si è detto, l’emozione è legata alla valutazione del significato dell’evento per il nostro benessere; e tale valutazione è regolata dal sistema di credenze del soggetto. Si tratta di credenze abituali, la cui guida è in larga parte inconsapevole; in altri termini l’individuo valuta secondo le proprie credenze, più che mediante esse. Tali credenze sono state assimilate nel corso del processo di socializzazione e rispecchiano spesso idee e valori del proprio gruppo sociale. Non sempre queste credenze sono ragionevoli e suffragate; talvolta l’educazione trasmette credenze prive di fondamento o irragionevoli, che hanno una forma categorica ed assoluta. Conseguenze emotive. Credenze irragionevoli possono portare a valutazioni negative di tenore eccessivo e catastrofico (“è terribile che mi sia accaduto questo” o “sarebbe terribile se mi accadesse” e simili), che possono generare tristezza, ansia, timori, ecc. Dato che queste valutazioni sono regolate da credenze abituali, hanno la tendenza a presentarsi sotto forma di pensieri “automatici”, di carattere tacito ed irriflessivo. Quando per un motivo o per l’altro questi pensieri diventano molesti ripresentandosi ripetutamente, allora invece di un singolo evento emotivo spiacevole si genera uno stato d’animo perturbato, che può permanere per varie ore o giorni e, se non viene estinto, si può consolidare in un vero e proprio disturbo. Veniamo adesso ai due punto che riguardano ‘l’approccio alle emozioni tossiche. 52 Discussioni. Il cuore della strategia di Ellis e di Beck è rappresentato dalla messa in discussione delle valutazioni e delle credenze irragionevoli. I pensieri automatici sono simili all’attività subconscia di cui parla Bertin: corrispondono ad impressioni immediate, scarsamente consapevoli, hanno forma telegrafica. Tali contenuti automatici possono però essere portati sotto il raggio dell’attenzione, resi espliciti, trasformati in espressioni verbali. La sintonia tra pedagogia della ragione di Bertin e l’impostazione razionale – emotiva di Ellis, al di là delle differenze di linguaggio, è dunque notevole. Una volta che un pensiero automatico è stato chiarito attraverso la sua ridescrizione in termini verbali, su di esso si può esercitare l’attività di critica (Ellis, Beck) e la razionalizzazione (Bertin); si tratta di un esercizio simile alla disciplina dell’assenso degli stoici. Sia Ellis che Beck assumono la riflessione scientifica come modello di questo esame critico delle valutazioni e delle credenze. Occorre prendere le distanze da tali credenze, esaminare se sono realistiche, se vi sono modi alternativi – più plausibili – di vedere le cose, e cercare di sostituire le credenze irragionevoli con altre più sensate, riformulando di conseguenza le proprie valutazioni. Energizzazione. Secondo Ellis, anche se la critica delle credenze irragionevoli costituisce la strategia fondamentale di un approccio razionale alle emozioni tossiche, essa può risultare insufficiente; tali credenze possono essere diventate così abituali da risultare rigide: si conclude razionalmente che le cose dovrebbero essere viste in un certo modo, ma si continua a sentirle nella consueta irragionevole maniera. La critica non deve perciò avere il carattere di una fredda analisi logica, per essere efficace deve essere una critica appassionata; occorre una constatazione attiva ed energica delle credenze errate, ed una propaganda autolesionista praticata abitualmente dal soggetto. Occorre, inoltre, insistere tenacemente in questa vigorosa messa in discussione, fino a spezzare la crosta dell’abitudine e rendere possibile il cambiamento. Beck sembra prediligere un atteggiamento che potremmo definire “socratico”, teso a favorire una ridefinizione delle credenze attraverso un processo “maieutico”, che sia di supporto ad un ripensamento autonomo del soggetto. Va da sé che su questo punto una pedagogia delle emozioni ispirata alla ragione si trova in maggiore sintonia con la posizione di Beck, piuttosto con quella di Ellis. Il ruolo che questi assegna alla 55 In linea di massima, questo percorso dovrebbe partire dalla coltivazione generale della ragione prima dell’uso di esercizi codificati (più appropriati all’educazione degli adulti), e da un rapporto d’immanenza della ragione all’emozione, prima di inoltrarsi sui sentieri della trascendenza. Il modello della ragione critica costituisce per certi versi il modello educativo di base, quello a cui ci siamo più volte richiamati del corso della trattazione. Raccoglie l’ispirazione ideale di Bertin per un’educazione affettiva capace di rischiarare i vissuti emotivi con il lume della ragione, e la collega alle indicazioni di Ellis e Beck: all’uso della ragione per criticare credenze irragionevoli e pensieri automatici negativi che creano emozioni “tossiche” e disagio interiore. Nella sua forma di “minima” corrisponde alla formazione del “buon senso”, della “ragionevolezza” nelle cose della vita quotidiana. Il modello delle tecnologie del sé rappresenta un raffinamento del lavoro su di sé, basato su tecniche ed esercizi codificati: l’esame di coscienza, il diario personale, la scrittura autobiografica, il colloquio confidenziale, la meditazione; può rientrare in questo ambito anche la disciplina dell’assenso, se è praticata secondo uno schema fisso del tipo di Ellis. Il modello dell’amore intellettuale costituisce un cambiamento del rapporto ragione/emozione, perché la ragione non rappresenta solo un dispositivo che radicandosi nell’immanenza della vita affettiva ne espunge gli aspetti tossici ed irragionevoli, ma fondendosi con l’emozione stessa la porta ad un grado spirituale superiore che modifica la natura degli oggetti d’amore. In questa prospettiva, solo la rilevanza di un oggetto d’amore interno, che dipende da noi, può diminuire la nostra dipendenza da oggetti esterni e permetterci di trasfigurare la passione nell’amore intellettuale; categoria affettiva, questa, che può assumere un’importanza fondamentale per il curricolo d’istruzione scolastica, nelle varie forme dell’emozione della conoscenza, della passione intellettuale, dell’amore per la cultura: la curiosità, l’interesse, il senso, la voglia di competenza. Il modello degli esercizi di elevazione spirituale rappresenta anch’esso un perfezionamento del lavoro su di sé attraverso un esercizio sistematico, in vista non del mero benessere interiore, ma di un’armonia personale di grado superiore, basata su una trasformazione del modo di vedere le cose, e dunque della stessa vita affettiva. LA PEDAGOGIA RAZIONALE DELLE EMOZIONI IN SITUAZIONE 56 Secondo la teoria del problematicismo, la costruzione di una sistematica di modelli educativi costituisce solo il primo passo della pedagogia. Si tratta della fase di carattere teoretico, che ha la funzione di promuovere la consapevolezza della pluralità delle possibili opzioni educative, senza riferimento ad una situazione storico – sociale particolare. Il secondo passo della pedagogia è rappresentato dalla scelta educativa maggiormente valida in rapporto ad una certa congiuntura storicogeografica. Una scelta che se da un lato si deve mantenere coerente con il principio di ragione, dall’altro deve possedere aderenza alla realtà concreta delle cose. Benasayag e Schmit imputano l’avvento dell’epoca delle “passioni tristi” a due fenomeni dell’odierna situazione socio – culturale. Da un lato il predominio dell’ideologia neoliberista e del conseguente economicismo, che induce a mettere il denaro davanti a tutto. Dall’altro alla fine della modernità e, con essa, delle filosofie della storia che configuravano il futuro nei termini di una promessa, della speranza in un mondo migliore. Questo duplice fenomeno ha reso il futuro incerto ed insicuro; anzi, da premessa lo ha trasformato in una minaccia che incombe sugli uomini. L’intelligenza emotiva propugnata da Goleman sembra piuttosto vicino ad un’impostazione utilitarista; si lascia capire che si tratta di un insieme di abilità che migliorano le possibilità di successo personale, o quanto meno le chance di sopravvivenza nella competizione sociale e professionale. IL CURRICOLO E LA DIMENSIONE EMOZIONALE L’EDUCAZIONE AFFETTIVA ED IL CONTESTO SCOLASTICO Come istituzione educativa “formale”, la scuola ha una duplice finalità: l’istruzione, che attiene alla formazione intellettuale mediata dai saperi, e la socializzazione, che riguarda invece l’educazione sociale ed affettiva. La scuola cerca di realizzare queste finalità attraverso il proprio percorso formativo, il cui disegno complessivo è detto curricolo. Il curricolo 1 è basato sull’apprendimento di conoscenze ed abilità, per lo più legate ai saperi disciplinari, ma anche di tipo trasversale; il curricolo 2 riguarda invece la strutturazione di abiti mentali, che contraddistinguono il funzionamento cognitivo di un soggetto. 57 Il protocurricolo è l’oggetto diretto del lavoro scolastico; il deuterocurricolo è un prodotto collaterale delle pratiche formative attuate in funzione di un protocurricolo. A livello del primo si possono formulare veri e propri obiettivi formativi specifici; per il secondo invece più appropriato il riferimento a finalità educative generali. Il curricolo 1 è relativo all’acquisizione di abilità emozionali quali: comprendere i propri stati d’animo e quelli degli altri, esprimere i propri sentimenti, controllare le proprie reazioni emotive, saper influire sulle proprie emozioni e su quelle altrui, ecc. Il curricolo 2 riguarda lo sviluppo di abiti emozionali che si strutturano parallelamente ad altre esperienze di primo livello (cognitive ed emotive); si acquisiscono cioè determinati tratti di carattere o qualità personali. Nel caso dell’educazione affettiva, e particolarmente in ambito scolastico, non sarebbe però appropriato legare il primo livello (il protoapprednimento) ad una dimensione diretta e dil secondo livello a quella indiretta. La scuola, pur avendo una duplice finalità di istruzione e di socializzazione, ha un compito formativo specifico che attiene all’istruzione ed all’educazione intellettuale. A scuola è l’istruzione che è educativa, sia tramite il suo contenuto, sia attraverso le sue forme organizzative e didattiche. Le finalità esprimono preoccupazioni educative che devono informare costantemente l’agire scolastico, ed hanno perciò il valore di criteri educativi generali a cui ispirarsi, indipendentemente dal traguardo specifico che si persegue in un certo momento. Da un punto di vista progettuale, le finalità educative hanno la funzione di agire da vincoli circa le modalità complessive di raggiungimento degli obiettivi d’istruzione, e da criteri d’organizzazione generale dei contesti educativi. In altre parole, i modi d’insegnamento ed il clima del contesto educativo devono risultare complessivamente coerenti con i significati espressi dalle finalità; se si pone una finalità come l’educazione allo spirito democratico, questo dovrà informare costantemente l’attività scolastica: l’insegnamento e la relazione dovranno essere complessivamente ispirati a significati democratici. Le cose stanno in maniera analoga se si pone una finalità come l’educazione alla ragionevolezza: la riflessività, il buon senso, la pacatezza, dovranno diventare i criteri a cui rifarsi costantemente. Se le modalità d’istruzione ed il suo contesto di svolgimento sono coerenti con le finalità, a lungo andare tenderanno a svilupparsi abiti mentali corrispondenti. 60 Nel primo caso, la ripresa di un problema avuto con l’alunno, lo scopo è di regolare il rapporto riportandolo allo stato consueto, lo scopo è di regolare il rapporto riportandolo allo stato consueto, risultato che spesso si può conseguire meglio in un chiarimento a “quattr’occhi”, dove non è in gioco l’immagine del docente e dell’alunno di fronte alla classe. Un buon riferimento è rappresentato dalle strategie di Gordon: il messaggio – io, l’ascolto attivo e la negoziazione volta alla conciliazione delle rispettive esigenze, sembrano orientare il rapporto interpersonale nella direzione dell’autenticità e della ragione, soprattutto se si innestano su un atteggiamento ispirato contemporaneamente alla disponibilità ed alla fermezza. Un buon riferimento può essere rappresentato da una combinazione tra l’ascolto attivo e la strategia di critica socratica di Beck, che stimolando la ricerca d’interpretazioni alternative dell’evento all’origine dello stato emozionale “tossico”, può aiutare a ridefinire il significato in forme che causano minore perturbazione, o addirittura l’estinguono. Ciò non esclude che se si riscontrano disturbi emotivi o stati di sofferenza acuta, si possa consigliare l’alunno o la famiglia di ricorrere allo sportello d’ascolto od ad altre forme d’aiuto. L’ambiente – scuola può essere visto come un contesto di contesti: se vi è un certo grado di coerenza a questo livello, ossia se i diversi contesti che si susseguono nel corso dell’attività formativa riecheggiano un medesimo insieme di significati, a lungo andare tali significati tenderanno a strutturare gli abiti mentali degli allievi. In altre parole, se al variare delle diverse materie ed attività didattiche le relazioni educative rimangono costantemente improntate alla ragione, all’equilibrio tra autenticità e pacatezza, disponibilità e fermezza, ecc, è maggiormente probabile che nel lungo termine la forma mentis dell’alunno risulti incline alla ragionevolezza ed all’equilibrio emozionale. Per promuovere un’educazione affettiva razionale è dunque auspicabile che il clima relazionale della comunità scolastica si mantenga “temperato” dalla ragione. Questo è ben più impegnativo che relegare la questione in un corso d’alfabetizzazione emotiva, ma a lungo andare è probabilmente più efficace, e non costituisce un’abdicazione dalle responsabilità educative dell’insegnante. LA DIMENSIONE DEL CURRICOLO EMOZIONI, CREDENZE E SENTIMENTI COME OGGETTI CULTURALI La natura collaterale e pervasiva dell’educazione affettiva scolastica la rende incline a legarsi anche agli apprendimenti curricolari in senso stretto. L’acquisizione dei vari saperi disciplinari ha cioè 61 anche implicazioni di natura emozionale: in primo luogo, perché – in un certo senso – gli stessi sentimenti possono diventare oggetti culturali del curricolo; in secondo luogo, perché l’istruzione implica la motivazione ad apprendere. Il corredo di credenze e di valori dell’individuo si forma durante tutto il suo processo di socializzazione, e quindi è un prodotto dell’intero sistema formativo, non solo della scuola. La scuola, però, può partecipare in modo peculiare a questo processo: non solo contribuendo anch’essa a trasmettere la propria parte generali ed in parte specifici, ma soprattutto elevando queste e questi valori ad oggetti culturali su cui esercitare il pensiero riflessivo, l’intelligenza critica. Secondo la Nussbaum, una componente fondamentale della coltivazione dell’umanità risiede proprio nel ripensare i valori, esaminare criticamente le credenze, sfidare gli stereotipi culturali e le abitudini mentali inveterate. Si tratta, secondo questa studiosa, di una forma di educazione socratica volta ad insegnare a pensare in maniera autonoma, che dà la capacità di autoesame del pensiero e della condotta, e rende così la vita veramente umana e degna di essere vissuta. Il fulcro di questo genere d’educazione è l’allenamento della ragione critica, la capacità di argomentare razionalmente e di sottoporre argomentazioni e valutazioni al vaglio della riflessione razionale. Questo allenamento rafforza la razionalità e rende più liberi, e questa libertà significa anche maggiore indipendenza dalle passioni, nella misura in cui le credenze e le valutazioni che stanno alla base delle emozioni sono rese suscettibili di riflessione critica. Ovviamente, le credenze ed i valori si cui riflettere possono scaturire anche dalla vita scolastica stessa, dalle dinamiche interpersonali di cui è pervasa; tuttavia, l’alunno potrebbe avere resistenze, e manifestare perfino rivestimenti, ad una messa in discussione pubblica – con tutta la classe – delle proprie convinzioni. La letteratura può fornire casi esemplari di situazioni od eventi relazionali e/o sentimentali sui quali la riflessione critica ed il ragionamento si possono esercitare in forme pienamente adeguate; ma anche dalle altre discipline possono scaturire tematiche feconde; dalla storia, dall’educazione civica, dalle scienze, ed altro ancora. Rispetto ai valori relativi a tutto quest’arco di tematiche, non si tratta di persuadere gli alunni della loro maggiore o minore bontà, ma di guidarli e stimolarli a riflettere autonomamente su di essi, invece che accettarli passivamente o respingerli in maniera pregiudiziale. 62 Una strategia interessante per far emergere i nuclei cruciali su cui portare la discussione può essere quella della comparazione interculturale, che attraverso il contrasto tra i valori, credenze e costumi diversi può permettere agli alunni di comprendere il ruolo giocato da questi costrutti mentali e li può motivare adeguatamente alla ricerca critica, che ovviamente dovrà essere spassionata ed esercitarsi tanto sulle tradizioni della propria cultura quanto su quelle di antropologie diverse. In questa prospettiva, dunque, l’educazione alla ragione, la riflessione critica sui pregiudizi, e la formazione affettiva razionale tendono a convergere in un complesso unitario. ASPETTI MOTIVAZIONALI DEI MODELLI CURRICOLARI L’impegno nell’apprendimento richiede un adeguato grado di motivazione: l’alunno deve sentirsi attratto dal compito, od almeno spinto ad affrontarlo; dato che il grado di apprendimento che l’alunno realizza dipende anche dal tempo che vi dedica, si tratta di un aspetto cruciale per il successo formativo. La motivazione viene ritenuta un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono vari aspetti di natura cognitiva ed emotiva. L’insegnante deve curare particolarmente la prevenzione dell’impotenza appresa, la condizione psichica che subentra quando il soggetto si persuade che i propri ripetuti insuccessi dipendono da cause a lui imputabili, ma che sono immutabili e sfuggono perciò al suo controllo. Una percezione di questo genere fa sentire l’alunno impotente a modificare le cose, e gli fa quindi prevedere di essere destinato permanentemente all’insuccesso, da ciò tende a scaturire uno stato d’animo avvilito, legato a pensieri d’autosvalutazione che, oltre a ripercuotersi negativamente sulla motivazione scolastica, possono precipitare il soggetto nella depressione. L’insegnante dovrà perciò aiutare l’alunno a contrastare una percezione di questo genere attraverso la critica e l’offerta di interpretazioni alternative- Il modello delle competenze di base è caratterizzato dalla predominanza del “prodotto” e dell’ “oggetto” culturale. Lo scopo principale è costituito dal raggiungimento di risultati concernenti i vari saperi, e riguarda in particolare l’apprendimento delle conoscenze fondamentali e delle competenze di base, considerate irrinunciabili per la formazione dell’uomo e del cittadino. Di conseguenza, l’insegnamento tende ad utilizzare strategie individualizzate, nel tentativo di garantire ad ogni alunno la piena padronanza di tali competenze. 65 La curiosità così configurata è basata su una dipendenza del soggetto dalla strutturazione dell’ambiente, e non sembra perciò in grado di stabilizzare l’impegno a di là della fase dello stimolo iniziale. Occorre perciò passare d questa forma, per così dire “passiva” di curiosità a forme maggiormente attive e stabili; ciò si verifica quando la discrepanza dalle aspettative si lega al bisogno di superare l’incertezza della situazione; la situazione si presenta allora come un problema da risolvere, e se tale problema viene percepito come una sfida ottimale rispetto alle proprie capacità, allora la curiosità acquista una fisionomia più stabile ed attiva, necessaria a mantenere l’impegno fino alla soluzione del problema. Al tempo stesso, è evidente che questa forma attiva di curiosità tende ad implicare anche forme di motivazione alla competenza; la valutazione del tenore della sfida è compiuta in relazione alla percezione delle proprie capacità. L’intervento pedagogico razionale consisterà nel richiamare sempre il valore della ricerca per la ricerca, il piacere dell’avventura intellettuale al di là dei suoi risultati immediati, la necessità di un impegno prolungato per avere ragione di un problema. L’interesse ed il modello dei talenti. La coltivazione del talento per un certo campo, ossia della forma d’intelligenza specifica ad un certo dominio culturale, è un processo che richiede molto tempo ed implica dunque un impegno costante e prolungato. L’interesse per quel dato campo pare quindi una motivazione particolarmente rilevante; l’interesse pare infatti connesso ad un atteggiamento solido e durevole. L’etimologia del termine inter - esse: essere fra, essere in mezzo, suggerisce l’idea di un coinvolgimento personale in qualcosa; a conferma di ciò, Dewey presenta inizialmente l’interesse come “l’assorbimento dell’io in un oggetto”. In connessione con questo coinvolgimento, l’interesse implica un senso di soddisfazione intima che deriva dal dedicarsi all’oggetto in questione. Questo non richiede che l’attività che ne deriva sia meramente piacevole, nel senso di gratuita e disimpegnata; al contrario, l’interesse rappresenta una molla che è in grado di mobilitare lo sforzo, anche intenso e prolungato; tuttavia, grazie all’interesse provato, lo sforzo non sarà una mera imposizione della volontà, ma una tendenza sentita come spontanea. Questo connubio di interesse e sforzo prolungato sembra legato al carattere elettivo del campo di attività, che fa sentire l’impegno come un’espressione della propria autodeterminazione; non si può provare interesse per imposizione, si sceglie di interessarsi a qualcosa. 66 La fenomenologia dell’interesse suggerisce, inoltre, la distinzione tra interesse immediato e mediato. Il primo, l’interesse immediato, riguarda il caso in cui il fine dell’attività è l’attività stessa; ossia, nei termini della teoria cognitiva delle emozioni, l’oggetto percepito come importante per il proprio benessere è rappresentato dal campo di interesse stesso. Il secondo, l’interesse mediato, riguarda il caso in cui “l’essere in mezzo” concerne propriamente la posizione intermedia dell’oggetto a cui ci si interessa rispetto ad un oggetto – meta ulteriore, la sua funzione di mezzo in vista di un certo fine. Secondo Dewey “Questo legame di un oggetto e di un argomento con il promovimento di un’attività che ha una ragione, è la prima e l’ultima parola di una teoria genuina dell’interesse nell’educazione”. Il desiderio di competenza e l’interesse sono connessi, nel senso che difficilmente una bassa percezione di competenza in un campo d’attività si lega con un interesse duraturo; anche quando vi è un interesse od una curiosità iniziale, se il soggetto non ricava dall’attività un adeguato senso di competenza tale interesse è più probabilmente destinato ad esaurirsi; viceversa, anche se l’interesse iniziale non è particolarmente marcato, un’adeguata esperienza di riuscita e di progresso può accrescere e stabilizzare l’interesse. In relazione a questo modello, stiamo però parlano di un interesse di tenore tale da promuovere un impegno ed uno sforzo capaci di sviluppare talento; la motivazione alla competenza tende perciò ad assumere la forma del desiderio d’eccellenza: non si tratta più solo di sentirsi adeguati ma di percepirsi come eminenti, superiori alla maggior parte degli altri nel campo prescelto. Questo desiderio di primeggiare, probabilmente, gioca un ruolo importante per lo sviluppo del talento; tuttavia, quando non trova riscontro si può accompagnare ad un ridimensionamento della motivazione. La cura pedagogica razionale consisterà perciò nell’evitare che il desiderio d’eccellenza diventi la motivazione prevalente per la coltivazione di un certo campo d’attività; l’insegnante criticherà l’idea che si debba essere i più bravi per essere dotati di valore, e sottolineerà piuttosto la soddisfazione personale che il soggetto ricava da tale attività, la sua competenza, le ulteriori valide esperienze che gli può aprire ecc. L’esigenza di senso ed il modello dell’arricchimento culturale. L’arricchimento dell’interiorità del soggetto consiste nell’assimilazione del patrimonio di significati proprio di una certa cultura. In questa prospettiva, l’educazione è vista come un processo d’apprendimento di significati e, dunque, come una modificazione del senso che il soggetto è capace di dare alla propria esperienza. 67 Questi significati hanno origine e rilevanza entro una determinata cultura; perciò è solo entro una cultura che si compie l’educazione. La cultura scolastica, per altro, non è solo la cultura antropologica della comunità locale e della nazione a cui appartiene la scuola; è quella tramandata dalle opere inerenti i diversi campi d’attività culturale. I significati concernenti i differenti contenuti culturali della scuola sono un oggetto privilegiato dell’insegnamento scolastico; essi, pur implicando un processo di comprensione, possiedono anche peculiari connotazioni affettive che s’imprimono nella memoria dell’individuo. Sul piano analitico, si possono distinguere significati di tipo concettuale e di tipo storico – narrativo, e di conseguenza una memoria semantica ed una memoria episodica. In generale, gli esseri umani hanno un’esigenza di senso, di costruirsi una propria immagine del mondo, nella quale abbiano uno spazio; in altre parole, sentiamo il bisogno di dare significato alle nostre esperienze, di connetterle in una storia che abbia un senso. L’assimilazione dei significati contenuti nelle opere culturali fornisce al soggetto le risorse e gli strumenti per costruire un senso coerente delle proprie esperienze e della propria storia. A questo proposito, anche se non si deve sottovalutare il ruolo dei significati concettuali, il significato di genere storico – narrativo sembra possedere una particolare valenza. Il dialogo personale che l’alunno costruisce con le opere della cultura gli consente di collocarsi nel mondo e nella storia, di elaborare il proprio atteggiamento verso il mondo, di evitare una percezione di vuoto esistenziale, di sfuggire alla banalità ed all’indifferenza. L’assimilazione dei significati delle opere culturali richiede però la presenza di idee di appoggio nella struttura cognitiva dell’alunno ed una strategia d’insegnamento che evidenzi i collegamenti tra gli uni e le altre; solo a queste condizioni l’apprendimento potrà essere realmente significativo e si potrà generare la motivazione. La cura pedagogica razionale consisterà perciò nel cercare di garantire questa prossimità tra i nuovi significati culturali e quelli posseduti dall’alunno e nell’evidenziare adeguatamente il loro nesso, nonché il valore delle nuove idee per interpretare la propria esperienza ed il mondo in generale.
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