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La Legislatura Antimonopolistica: Concorrenza, Limitazioni e Concorrenza Sleale, Sintesi del corso di Diritto Commerciale

Una introduzione alla legislazione antimonopolistica italiana, discutendo il concetto di concorrenza perfetta, la limitazione di concorrenza e la concorrenza sleale. le intese limitative della concorrenza, le limitazioni negoziali e la repressione degli atti di concorrenza sleale. Viene inoltre illustrato il contesto europeo e il ruolo dell'Autorità nella regolazione della concorrenza.

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 14/08/2021

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Scarica La Legislatura Antimonopolistica: Concorrenza, Limitazioni e Concorrenza Sleale e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! CAPITOLO OTTAVO- La disciplina della concorrenza A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA Gli economisti hanno parlato di concorrenza perfetta, un modello ideale e teorico secondo cui la concorrenza spinge verso una riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita, viene stimolato il progresso tecnologico, l’efficienza produttiva delle imprese e si raggiunge un grado più elevato di benessere economico e sociale. Ma la realtà è ben diversa: vi è la concomitanza di situazioni soggettive e oggettive che ostacolano la libertà di iniziativa economica dei soggetti, la non omogenea distribuzione delle risorse, gli ingenti investimenti capitali richiesti dalla produzione industriale di massa e la scarsa mobilità della manodopera. Tutto ciò limita l’accesso al mercato di nuovi operatori e spinge le imprese già operanti ad accrescere le proprie dimensioni, a concentrarsi e a collegarsi: si creano così situazioni di oligopolio, con poche imprese ma sempre più grandi. Ed è così che gli imprenditori stipulano patti che limitino la concorrenza reciproca, intese sui prezzi da praticare, sulla quantità da produrre, sulla quota spettante a ciascuno. E il regime di concorrenza si restringe sempre più fino ad arrivare alla situazione in cui l'offerta di un prodotto sia controllata da una sola impresa o da poche imprese (monopolio di fatto). Di fronte a questa realtà, il riconoscimento della libertà di iniziativa economica dell’art. 41 cost. diventa presupposto necessario ma non sufficiente perché si instauri un regime di mercato caratterizzato da concorrenza. Male limitazioni di concorrenza non si pongono necessariamente in contrasto col funzionamento concorrenziale del mercato: - Ridurre il numero e accrescere le dimensioni delle imprese può essere indispensabile per diminuire i prezzi ed evitare eccessi di produzione che il mercato non è in grado di assorbire; - Frale intese limitative della concorrenza una visione realistica induce a distinguere le buone dalle cattive: la concorrenza sfrenata può provocare più danni di un accordo teso, ad esempio, a fronteggiare un periodo di crisi del settore. Quindi, il regime di concorrenza non può essere salvaguardato con una rigida preclusione delle limitazioni della concorrenza, tuttavia questi fenomeni vanno controllati per evitare la degenerazione in situazioni monopolistiche. Inoltre, non va trascurato che la libertà di iniziativa economica e il modello concorrenziale devono coincidere con l’interesse collettivo: solo così si possono imporre limitazioni della libertà di concorrenza. Il nostro ordinamento si muove secondo la disciplina della concorrenza sostenibile, cioè un punto di equilibrio fra modello teorico e utopico della perfetta concorrenza. Il legislatore italiano: a) Consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale ed anche la creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale; b) Ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza tra le parti, finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli interessi patrimoniali del beneficiario del divieto; c) Consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina la validità al rispetto di condizioni che non comportano un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica; d) Assicura il corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale. Tuttavia, rimaneva una lacuna: la mancanza di una normativa antimonopolistica, per controllare i fenomeni di prepotere economico. Questa esigenza è stata colmata in Italia tramite la disciplina antitrust dettata dai Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea, che però colpiva solo le pratiche che potessero pregiudicare la concorrenza del mercato comune europeo e non quelle che incidevano esclusivamente sul mercato italiano. Questo vuoto è stato finalmente colmato dalla legge 287/1990 che ha introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale. LA DISCIPLINA COMUNITARIA E ITALIANA È volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra gli Stati membri. Il controllo del rispetto di queste normative tramite provvedimenti e sanzioni è attribuito alla Commissione della Comunità Europea. Stessa disciplina è adottata in Italia. Inoltre, per le imprese operanti nei settori dell’editoria e in quello radiotelevisivo trova applicazione la disciplina volta a garantire il pluralismo dell’informazione di massa impedendo l’assunzione di posizioni di dominio nei mercati. La legge 287/1990 ha poi istituito un organo pubblico indipendente, 1’ Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che ha potere ispettivi, adotta provvedimenti antimonopolistici ed irroga sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge. Contro i suoi provvedimenti, si può ricorrere giudizialmente al Tar Lazio, mentre le azioni di nullità e di risarcimento danno vanno promossi dinanzi al tribunale delle imprese competente per territorio. La disciplina italiana ha carattere residuale, cioè è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario, nel quale è applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (principio della barriera unica), anche se la normativa comunitaria è sempre più sottoposta ad una applicazione decentrata da parte delle autorità nazionali. I soggetti cui è applicabile la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono le imprese private e pubbliche e nella nozione comunitaria rientrano, solo ai fini della normativa antitrust, anche gli esercenti professioni intellettuali, che invece per il nostro ordinamento non sono imprenditori. LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA I fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono tre: 1) Le intese restrittive: le intese sono comportamenti concordati tra le imprese per limitare la propria libertà di azione sul mercato. Esempi: ® Accordi tra imprese (non vincolanti); * Deliberazioni di consorzi, associazioni di imprese e altri organismi similari; ® Le pratiche concordate tra imprese, per evitare che comportamenti concertati che non derivano da accordi espressi sfuggano al divieto di intese restrittive della concorrenza. Sono vietate le imprese che abbiano per oggetto impedire o restringere in maniera consistente la concorrenza nel mercato o in una sua parte rilevante. Vi rientrano le: O Intese orizzontali: fra i produttori; O Intese verticali: fra produttori e consumatori che prevedono clausole efficaci a produrre la chiusura del mercato. Sono invece lecite le intese minori, cioè quelle che non incidono sull’assetto concorrenziale del mercato. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio per nullità, accertata con apposita istruttoria dalla Autorità, la quale prenderà poi provvedimenti per rimuovere gli effetti anticoncorrenziali già prodottisi ed irroga sanzioni pecuniarie. Eccezioni: = Si può chiudere l’istruttoria senza accertare l’infrazione, quando l’impresa si assuma la responsabilità di far cessare i profili anticoncorrenziali contestati; = Si può ridurre o non applicare la sanzione alle imprese che forniscano informazioni utili per scoprire l’intesa illecita di cui hanno fatto parte. I DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA Nel codice civile si rinvengono delle norme che pongono a carico di soggetti legati da particolari rapporti contrattuali l’obbligo di astenersi dal fare concorrenza alla controparte per assicura il corretto svolgimento del contratto. La loro durata coincide con quella del rapporto di collaborazione e hanno carattere dispositivo, cioè non è necessaria una espressa pattuizione, ma sono convenzionalmente derogabili dalle parti. Vi rientrano: - L’obbligo di fedeltà, cioè di trattare affari in concorrenza con l’imprenditore per tutta la durata del rapporto di lavoro; - Il divieto di esercitare attività concorrente, posto a carico dei soci a responsabilità illimitata di società di persone e degli amministratori di società di capitali e cooperative; - Diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia, secondo cui il proponente non può servirsi di più agenti per la stessa zona e stesso ramo di attività e l’agente non può assumere l’incarico in una stessa zona per più imprenditori concorrenti tra loro; - Divieto di concorrenza a carico di chi aliena un'azienda commerciale (massimo cinque anni). LIMITAZIONI CONVENZIONALI DELLA CONCORRENZA Il patto che limita la concorrenza (art. 2596 c.c.): ® Deve essere provato per iscritto, per esigenze di certezza giuridica; * È valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività (non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale); ® Dura al massimo cinque anni. Poiché la norma non si occupa di limitare la concorrenza e impedire i monopoli di fatto, si desume che, rispetto a questa norma, ogni accordo limitativo della concorrenza è valido quando non ricorrano i presupposti per l’applicazione delle norme antimonopolistiche comunitarie. L’accordo limitativo della concorrenza può essere: - Patto autonomo: il contratto ha come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza e può comportare: O Restrizioni unilaterali: obblighi di non concorrenza a capo di una sola delle parti. Esse ricadono nell’ambito dell’art. 2596, perciò la loro durata non può superare i cinque anni; O Restrizioni reciproche: obblighi di non concorrenza a capo di tutti gli imprenditori partecipanti all’intesa. Questi contratti si definiscono cartelli o intese e possono prevedere vari impegni reciproci: ** Cartelli di contingentamento: es. più fabbricanti di tessuti concordati la quantità globale da produrre e la quota spettante a ciascuno di essi; ** Cartelli di zona: si ripartiscono le zone di distribuzione; ** Cartelli di prezzo: predeterminano i prezzi di vendita da praticare. Per questo tipo di restrizioni, la durata di cinque anni è applicabile solo qualora esse non prevedano la costituzione di un’organizzazione comune (es. consorzio) per la realizzazione del progetto. In caso di creazione di un consorzio (che non ha limiti di durata, tranne se le parti non prevedono nulla e allora sarà valido per dieci anni) le restrizioni saranno sottratte alla durata quinquennale. - Patto accessorio: il contratto ha oggetto diverso e può comportare restrizioni sia unilaterali sia reciproche e inoltre possono essere: O Restrizioni orizzontali: intercorrono fra imprenditori in diretta concorrenza tra loro in quanto operano allo stesso livello del processo produttivo o commerciale; O Restrizioni verticali: intercorrono fra imprenditori fra i quali manca un rapporto diverso in quanto operano a livelli diversi (es. uno produttore l’altro rivenditore). Il codice regola poi distintamente alcuni patti accessori, detti patti nominati: a) La clausola di esclusiva: unilaterale o reciproca, convenzionalmente inserita in contratti di somministrazione, con durata corrispondente al contratto di base; b) Il patto di preferenza: il somministrato di obbliga a preferire, a parità di condizioni, lo stesso somministrante qualora intenda stipulare un successivo contratto di somministrazione per lo stesso oggetto (durata massima di cinque anni); c) Il patto di non concorrenza: limita l’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto. Deve risultare da atto scritto e prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore (durata massima di cinque anni peri dirigenti, di tre per i lavoratori); d) Patto con cui si limita la concorrenza dell’agente, dopo lo scioglimento del contratto di agenzia. Deve risultare da atto scritto, riguardare stessa zona, clientela e genere del bene o servizio e prevedere un’indennità a favore dell’agente. L’ambito di applicazione del 2596 invece riguarda solo i patti accessori innominati, cioè patti di esclusiva e preferenza inseriti in contratti come la vendita, l'appalto, la commissione. L’art. 2596 conduce poi all’opinione per cui le limitazioni si applichino solo alle restrizioni orizzontali, cioè tra produttori e rivenditori della stessa merce (es. esclusiva di vendita o le clausole gemellate cioè di subordinazione della fornitura di una merce all’accettazione di ulteriori prestazioni; mentre per le restrizioni verticali si ritiene applicarsi l’art. 1379 (divieto convenzionale di alienazione): il patto non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e non corrisponde all’interesse delle parti. In realtà, anche le restrizioni verticali ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 2596, in quanto un patto di esclusiva fra produttore e rivenditore non limita la concorrenza solo verso i terzi, ma anche tra le parti e più specificatamente verso il rivenditore stesso che si preclude la possibilità di rifornirsi da altri produttori. C. LA CONCORRENZA SLEALE La necessità di distogliere tra comportamenti concorrenziali leciti e illeciti è stata soddisfatta in via legislativa dalla disciplina della concorrenza sleale: è vietato agli imprenditori concorrenti servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale; gli atti che violano tale regola (es. atti di confusione, denigrazione, vanteria) costituiscono illecito concorrenziale. Tali atti sono repressi anche se compiuti senza dolo o colpa e anche se non hanno arrecato un danno ai concorrenti: è sufficiente il danno potenziale, cioè che l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Da qui scatta l’inibitoria, la rimozione degli effetti e il risarcimento dei danni in presenza dell’elemento psicologico o di un danno patrimoniale. La concorrenza si distingue dall’illecito civile per la specificità del tipo di illecito da reprimere, comportando delle differenze rispetto a quello: - È svincolata dall’elemento soggettivo di dolo o colpa; - È svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale; - È attuata tramite sanzioni tipiche che non si esauriscono nell’eventuale risarcimento dei danni. Mala tutela della disciplina della concorrenza sleale non sta solo nell’interesse degli imprenditori a non vedere alterate le probabilità di guadagno per effetto di comportamenti sleali, ma anche nell’interesse dei consumatori a non essere tratti in inganno. Tuttavia, questo interesse non è interesse direttamente tutelato dalla disciplina, in quanto elemento necessario e sufficiente per aversi concorrenza sleale è l’idoneità dell’atto a provocare danni ai concorrenti, anche se non arreca danno ai consumatori o se addirittura questi ne traggono vantaggio (es. dumping: vendite sottocosto per annientare la concorrenza). Inoltre, legittimati ad agire contro gli atti di concorrenza sleale sono solo gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria, non i consumatori e le loro associazioni peri quali quindi la tutela è solo mediata è riflessa. Dunque, ad eccezione della repressione penale della frode in commercio, essi sono esposti agli inganni pubblicitari, anche se dal 1942 in poi sono stati fatti dei passi in avanti: è stato adottato il codice di autodisciplina pubblicitaria affiancato da una disciplina statale della pubblicità ingannevole e dal 2007 nel codice di consumo vi sono norme di tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali scorrette. AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE Tale disciplina ha due presupposti: 1. La qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza vietato sia del soggetto che ne subisce le conseguenze: mentre è fuori dubbio che soggetto passivo dell’atto può essere solo l’imprenditore, qualche incertezza sussiste sulla necessaria qualità di imprenditore dell’autore dell’atto. Dottrina e giurisprudenza propendono per una visione restrittiva, dal momento che concorrente di un imprenditore non può che essere un altro imprenditore, anche qualora compia atti indirettamente, cioè tramite ausiliari autonomi o subordinati; 2. L’esistenza di un rapporto di concorrenza economica prossima o effettiva fra i medesimi: soggetto attivo e soggetto passivo devono offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori. Per aversi rapporto di concorrenza, si deve, però, valutare anche la concorrenza potenziale, ovvero la prevedibile espansione territoriale e il prevedibile sviluppo merceologico in prodotti affini all’attività dell’imprenditore che subisce atti di concorrenza sleale. Se non ci sono questi due presupposti, ci si potrà avvalere solo della disciplina dell’illecito civile se ci sono i presupposti di dolo o colpa e di danno attuale. La concorrenza sleale si estende anche nell’ambito di operatori che agiscono a livelli economici diversi (es. produttore-rivenditore), purché il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori anche se è diversa la cerchia di clientela servita (c.d. concorrenza verticale). GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE L’art. 2598 c.c. individua tre fattispecie tipiche: 1. Atti di confusione coni prodotti o con l’attività di un concorrente: non è lecito attrarre a sé l’altrui clientela avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull’identità personale dell’imprenditore. Il legislatore individua due tecniche che l'imprenditore può utilizzare per realizzare la confondibilità della propria attività con quella di un concorrente: a) Uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione coni nomi o coni segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti. Quindi, chi adotta un marchio privo di capacità distintiva non tutelato dalla disciplina dei marchi non potrà pretendere che un concorrente si astenga dall’usare lo stesso segno sulla base della concorrenza sleale; b) Imitazione servile dei prodotti di un concorrente, cioè la riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui (es. involucro, confezione), attuata per indurre il pubblico a supporre che i prodotti vengono dalla stessa impresa. L’imitazione deve riguardare però elementi formali non necessari e allo stesso tempo caratterizzanti, non le forme comuni ormai standardizzate. Vi rientra anche l’imitazione di mezzi pubblicitari, listini, cataloghi, ecc. 2. - Atti di denigrazione, cioè diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti di un concorrente per discreditarli e danneggiare la loro reputazione commerciale. - Appropriazione di pregi altrui, cioè incrementare il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti pregi e qualità che in realtà appartengono a uno o più concorrenti.
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