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La donna romana di Francesca Cenerini, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto del libro "la donna romana"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 22/02/2021

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arianna_criscione 🇮🇹

4.7

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Scarica La donna romana di Francesca Cenerini e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! La donna romana 1. La donna ideale: moglie e madre casta, pia, laboriosa, frugale, obbediente, silenziosa Il cosiddetto “elogio di Claudia”, epigrafe sepolcrale di fine II secolo a.C., rappresenta il ritratto della donna ideale in età romana, il perfetto modello femminile romano, proprio della nobilitas, che si ripropone per tutta la storia romana. Ecco il testo dell’iscrizione: [Straniero, ho poco da dire: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello d’una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito. Va’ pure.] Questo testo vuole comunicare un messaggio specifico sulla condizione femminile in età romana e fornisce anche una serie di informazioni: - L’epigrafe ricorda la defunta: una donna naturalmente bella (pulcra femina), che non ha bisogno di un sepolcro sontuoso e dispendioso; - Segue la descrizione della vita della defunta che si snoda nelle tappe fondamentali: 1) La nascita, rappresentata dal nomen gentilizio, vale a dire il nome di famiglia (paragonabile al nostro cognome), che era però comune a tutte le donne della stessa famiglia. N.B. Il sistema onomastico romano classico differiva a seconda del genere: l’onomastica maschile prevedeva tre elementi, praenomen, nomen e cognomen; quella femminile, invece, prevedeva il solo nome della gens di appartenenza, unito al cosiddetto patronimico, o nome del padre, che ne attestava la nascita libera e non servile. Il praenomen non serviva perché la donna era esclusa dalla vita pubblica e ufficiale. Tuttavia, a livello privato le donne potevano possedere nomi personali, riservati all’uso domestico. A partire dalla fine dell’età repubblicana, anche per la donna si afferma l’uso del cognomen, cioè di elemento nominale individuale; 2) Il matrimonio romano, legalmente valido se avveniva fra titolari del diritto di matrimonio (conubium), aveva come scopo primario la procreazione di figli legittimi, destinati a diventare cittadini romani (cives). 3) La maternità, con un accenno a una vera e propria piaga sociale dell’antichità: l’alta mortalità infantile (200%). Questa era causata soprattutto dal parto, considerato pericoloso, e dalle sue conseguenze. Quindi, una donna avrebbe dovuto partorire almeno cinque bambini per avere la speranza che almeno uno o due potessero raggiungere l’età adulta. N.B. Eclatante è il caso di Faustina Minore, moglie dell’imperatore Marco Aurelio, che nel II secolo d.C. partorì dodici o tredici figli, di cui soltanto sei raggiunsero l’età adulta. Il dolore causato dalla morte prematura dei figli trovava spesso espressione nei carmina epigrafici, poesie su pietra, che potevano accompagnare le sepolture di giovani morti prematuramente. Questi giovani morti prematuramente potevano essere: o Delicati: giovanissimi schiavi, particolarmente apprezzati dai padroni per la loro bellezza e per la loro grazia, che godevano di un trattamento privilegiato; 1 o Alumni: bambini allevati in casa, il cui stato giuridico è spesso equiparato a quello degli schiavi nati in casa (vernae). Secondo la rappresentazione ideale della maternità, le matrone dovevano allattare personalmente i loro figli. N.B. Secondo il racconto di Plutarco, la moglie di Catone il Censore non solo non affidava i suoi figli a una balia, ma allattava anche i piccoli schiavi di casa, per introdurre in loro il senso di appartenenza e di devozione alla famiglia del dominus. Inoltre, si riteneva che il latte materno, così come il seme maschile, contribuisse a determinare l’aspetto fisico e il carattere del neonato e che, invece, l’allattamento di una schiava, o di una balia, introducesse un elemento estraneo, capace di allentare i legami naturali fra genitori e figli; 4) La morte, ultima tappa della vita di Claudia, è rappresentata dal sepolcro che parla in prima persona. Segue, poi, una breve descrizione fisica della persona, di cui viene ricordato il piacevole conversare, con un riferimento al fatto che il sermo femminile debba essere molto contenuto. Infatti, sappiamo dagli scrittori antichi che la matrona romana non poteva parlare in pubblico, perché “parlare è come denudarsi”, secondo una norma antica (pudicizia). Gli scrittori romani fanno anche spesso riferimento all’incapacità femminile di controllare il buon uso della parola. N.B. Tali stereotipi sul carattere femminile attraversarono immutati il corso dei secoli. Anche il comportamento femminile doveva essere conveniente e moderato. La matrona romana, infatti, era riconoscibile anche per gli abiti che indossava: tunica, stola (sopravveste lunga fino ai piedi), e palla (mantello che copriva il capo e che veniva indossato fuori di casa). L’abbigliamento matronale rappresentava una barriera fra il corpo della matrona e l’occhio estraneo, una vera e propria protezione. In altre parole, i vestiti, così come tutto l’ornatus femminile, avevano il compito di rappresentare lo stato giuridico-sociale della donna, intoccabile sessualmente in quanto matrona. La polemica maschile contro il luxus femminile attraversa tutta la storia romana, in particolare quella contro il desiderio delle donne di possedere beni sempre più costosi e stravaganti, a scapito delle finanze familiari e statali. Inoltre, soltanto la mater familias poteva indossare il tutulus, una sorta di bende di lana che si annodavano attorno al capo per trattenere i capelli. N.B. Tale acconciatura viene paragonata dagli scrittori classici al luogo più sicuro della città, inespugnabile come l’onore delle matrone (significato metaforico). Riguardo al modo di pettinare i capelli, fino alla metà del I secolo a.C. le donne si pettinavano con semplicità e tutti gli artifici erano considerati sconvenienti; a partire dalla fine dell’età repubblicana, si affermano tipi diversi di acconciature a seconda della moda; alla fine del I secolo a.C. si afferma la cosiddetta acconciatura all’Ottavia (dal nome della sorella di Augusto); successivamente, diventano di moda acconciature a riccioli sulla fronte, che richiedevano ore di preparazione e abilità tecnica da parte delle parrucchiere (ornatrices). Anche la cosmesi subì un’analoga evoluzione: depilazione, maschere di bellezza, creme, ombretti, matite per occhi e fard diventano il corredo normale di una matrona di rango elevato. N.B. Diventerà famoso il latte di asina usato da Poppea, seconda moglie di Nerone, per idratare la pelle del corpo, e miele e grassi animali usati contro le rughe. 2 Un esempio: la milanese Oppia Vera ha vissuto trentadue anni ed è stata sposata diciassette anni. Sul sepolcro il marito ne trascrive le doti: sanctissima, casta, incomparabilis (la donna ideale). Qui c’è però una cosa in più: al centro spiccano le parole maritus coniugi, cioè il marito alla moglie, che indicherebbero una sorta di parità fra i due coniugi. A partire dalla metà del I secolo d.C., si afferma un’idea di matrimonio basata sulla condivisione di uno stesso stile di vita, inteso in senso etico e intellettuale, dove la moglie è perfettamente in grado di essere all’altezza delle aspettative del marito. Secondo tale modello, la donna antica doveva godere del riconoscimento maschile, come unica forma di visibilità pubblica. Dal punto di vista storico-letterario la figura femminile che meglio corrisponde a questo ideale è quella di Cornelia, che visse nel II secolo a.C. e che divenne presto l’icona del modello femminile idealizzato dalla tradizione. N.B. Questa, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano, moglie del console Tiberio Sempronio Gracco, ebbe dodici figli, di cui soltanto tre vissuti in età adulta e tra questi Tiberio e Gaio Gracco. Cornelia apparteneva per nascita e per matrimonio all’élite aristocratica romana del tempo. L’episodio più famoso, raccontato da Valerio Massimo, è quello che la vede presentare i suoi figli come “i suoi gioielli”. Rimasta vedova del 154 a.C., rifiutò altre proposte di matrimonio, una addirittura regale da parte di Tolomeo VIII, re d’Egitto. Cornelia, fedele all’ideale di univira (donna che ha avuto un solo marito), si dedicò alla famiglia e all’educazione dei figli. N.B. Cicerone la ricorda per il suo doctissimus sermo, che influenzò le abilità retoriche dei figli. È qui evidente il risalto che viene dato al ruolo di educatore anche per la matrona romana, nella sua funzione di trasmissione del mos maiorum. Infatti, in età imperiale esisteva un certo numero di matrone e di donne che sapevano leggere e scrivere e che erano in grado di istruire le figlie. Si trattava, tuttavia, di un fenomeno circoscritto, limitato alle sole élite cittadine. In ogni caso, rimane valido il modello ideale di sermo femminile, contenuto e morigerato. L’educazione femminile non aveva lo scopo di preparare una donna a una carica o a un ruolo pubblico ufficiale e dipendeva dalle circostanze favorevoli e dalle attitudini familiari. Ci si può chiedere se le donne antiche abbiano sempre rispettato questa immagine idealo oppure no. 2. Lo status giuridico e le capacità patrimoniali femminili fra repubblica e impero A Roma il matrimonio doveva rispettare precise condizioni: - Era monogamico, anche se l’uomo poteva avere numerose concubine; - Era patrilocale: la coppia diventava parte integrante della famiglia del marito; - La discendenza era patrilineare, nel senso che i figli portavano il nome del padre o gentilizio. L’approvazione del matrimonio prevedeva un trasferimento di beni economici (dote) dalla famiglia della donna al marito o al padre di questo e alcuni riti che lo rendevano pubblico. Per la donna si trattava di un vero e proprio “rito di passaggio” che determinava il cambiamento di stato, fisiologico e anche giuridico di questa. Affinché un matrimonio fosse legalmente valido si dovevano rispettare ulteriori condizioni: - Gli aspiranti sposi dovevano possedere la capacità di contrarre matrimonio (conubium), che era determinata dalla loro età (12 anni per le femmine e 14 per i maschi) e dalle rispettive condizioni giuridiche; 5 - Il matrimonio era ammesso tra liberi cittadini e tale diritto poteva essere concesso anche agli stranieri o peregrini, rivelandosi un ottimo strumento di romanizzazione. Agli schiavi era consentito la sola coabitazione (contubernium), una sorta di riconoscimento dello stato di coppia, priva di validità giuridica e soggetta all’arbitrio del padrone; In origine, quando la donna romana si sposava (matrimonio cum manu) passava dal potere assoluto del proprio padre a quello del marito (manus), se costui era autonomo e indipendente (sui iuris), oppure del suocero se il marito era ancora sottoposto alla potestas del proprio padre (alieni iuris). N.B. Questa complessa normativa matrimoniale e le varie modalità di trasferimento di poteri e di beni da una famiglia all’altra non sono oggi ben chiare, sia per la difficoltà di interpretare le fonti e sia perché le varie tipologie di matrimonio romano rappresentano realtà politiche e sociali non omogenee. Del matrimonio cum manu, la più antica istituzione matrimoniale, sono attestate tre forme: - Confarreatio: è il più antico rito nuziale romano che prende nome da una focaccia di farro che gli sposi dividevano come simbolo della futura vita insieme. Si trattava di una cerimonia religiosa celebrata dal Pontefice Massimo e dal Flamine Diale davanti a dieci testimoni, in presenza dei quali gli sposi offrivano in sacrificio a Giove un animale. La sposa si copriva il capo con un velo color rosso-arancio (flammeum) e i suoi capelli erano intrecciati e annodati attorno alla testa e tenuti fermi dalla hasta caelibaris, una sorta di spillone, usata metaforicamente come simbolo di buon auspicio per un matrimonio prolifico, ma anche con chiaro riferimento alla sottomissione della donna al marito; - Coemptio: si tratta di una sorta di compravendita tra il padre della sposa e il marito, avente in oggetto la donna stessa; - Usus: derivava dall’usucapione e secondo tale tipologia, dopo un anno di convivenza e la dichiarazione da parte di entrambi i coniugi di voler convivere come marito e moglie, il marito acquisiva la manus sulla donna. Nel V secolo a.C. una delle leggi contenute all’interno delle XII Tavole stabiliva che, se una donna sposata senza confarreatio e senza coemptio si fosse allontanata ogni anno dalla casa del marito per tre notti consecutive, ella sarebbe rimasta sotto la patria potestas del padre, benché regolarmente sposata. N.B. Questa scelta non dipendeva dai due sposi ma dalle rispettive famiglie. A partire dal II secolo a.C. il matrimonio cum manu cadde in disuso e si affermò il matrimonio sine manu, in virtù del quale la donna e i suoi beni restavano all’interno della famiglia d’origine. I due sposi andavano a coabitare dopo aver dichiarato l’intenzione di essere marito e moglie e dopo aver ricevuto il consenso dei rispettivi patres familias, la cui volontà era vincolante per il matrimonio romano. N.B. Il nuovo matrimonio diventa un mezzo di crescita sociale e finanziaria per le famiglie coinvolte. Lo scioglimento del vincolo matrimoniale, il divortium, era ammesso a Roma in età classica, sia nel caso venisse meno il conubium per uno dei due sposi, sia che venisse a cessare la volontà di convivere come marito e moglie. Nelle fonti latine non è chiara la differenza fra i termini divortium e repudium: 1) Il divortium potrebbe indicare lo scioglimento del matrimonio di comune accordo e il repudium quello unilaterale; 6 2) Con il ripudio il marito scaccia di casa la moglie e con il divorzio, invece, la donna se ne va di propria volontà; 3) Con il ripudio si manifesterebbe la volontà di sciogliere il matrimonio e il divorzio sarebbe l’effettivo scioglimento del vincolo coniugale (causa ed effetto). Plutarco racconta dell’esistenza di una legge di Romolo che proibiva alle donne di divorziare e concedeva, invece, questa facoltà agli uomini, nel caso in cui le mogli avessero avvelenato i figli, avessero sostituito le chiavi di casa oppure commesso adulterio. A tali cause si aggiunge il bere vino da parte delle donne, la cui trasgressione era punita con severità (anche la morte), in quanto l’ubriachezza, allentando i freni inibitori, avrebbe potuto condurre all’adulterio e alla conseguente perdita dell’onore. Per questo motivo nella Roma arcaica esisteva la consuetudine che i parenti maschi baciassero una donna sulla bocca proprio per scoprire se la loro congiunta avesse bevuto e quindi disonorato la famiglia (ius osculi). Riguardo al divorzio, la prima separazione di cui storicamente si ha notizia è quella di Spurio Carvilio Ruga, causata dalla sterilità della coppia, che era considerata colpa esclusivamente femminile. N.B. Molto probabilmente non si tratta del primo divorzio a Roma, ma del primo in seguito al quale non era stata restituita alla moglie la dote. È ben noto l’uso violento che si fece del divorzio nell’ultimo secolo della repubblica, motivo per cui Augusto tenterà di normalizzare questa pratica, non vietandola, ma colpendone le cause e fornendo, insieme a Livia, il primo esempio di coppia imperiale stabile, unita e solidale fino alla morte. Riguardo alla successione testamentaria del patrimonio familiare, le donne romane erano equiparate ai figli maschi. Infatti, sin dagli inizi di Roma, le donne romane potevano ereditare i beni paterni, così come i loro fratelli. Secondo una legge contenuta nelle XII Tavole, le donne avevano la capacità di ricevere un’eredità nel caso in cui una persona fosse morta senza fare testamento (ab intestato). In questo caso, la capacità femminile di ricevere un’eredità per via testamentaria sarebbe presupposta e riconosciuta implicitamente. Queste donne succedevano come heredes suaes in qualità di figlie, di nipoti e di mogli in manu. Successivamente, tra la seconda metà del IV secolo e la prima del III secolo a.C., anche le donne potevano ereditare e fare testamento (capacità testamentaria). Secondo quest’ultima interpretazione delle capacità successorie e testamentarie femminili, in origine solo i maschi erano sui heredes e il pater familias ricorreva al testamento solo in mancanza di un erede maschio, per procurarsene uno, sempre maschio, al di fuori della famiglia. Coerentemente a quanto detto, si ritiene che la capacità successoria ab intestato della donna sia posteriore alle XII Tavole e che risalga alla prima metà del III secolo a.C. La capacità testamentaria, invece, sarebbe ancora successiva, da collocarsi fra la seconda metà del III secolo e i primi decenni del II secolo a.C. Tuttavia, ancora nel I secolo a.C. ci sono dei limiti: - Le donne potevano ereditare beni paterni o del marito, ma potevano succedere solo se consanguinee; - Le donne potevano avere propri beni, ma potevano testare solo per via indiretta. È evidente che nel pensiero giuridico romano la proprietà femminile era considerata “provvisoria”, in attesa di essere trasferita agli uomini della famiglia. Pertanto, i legislatori romani 7 In realtà bisogna fare riferimento al contesto storico, in quanto i romani dovevano fare i conti con la peste, necessitando quindi di un capo espiatorio. Infatti, secondo la mentalità romana gli avvenimenti negativi erano causati da un comportamento umano anomalo che aveva alterato la cosiddetta pax deorum. Pertanto, era necessario avviare una serie di pratiche per interpretare la volontà degli dei e ripristinare i giusti equilibri fra uomo e dio. Le conoscenze femminili delle erbe officinali, da sempre utilizzate dalle donne per preparare farmaci, potevano costituire un utile bersaglio. Infatti, si può pensare che anche in questa occasione le donne avranno cercato un qualche rimedio per la pestilenza, rivelatosi inefficace. N.B. La parola venena indica la dea romana della bellezza e dell’amore Venere e ha una storia lunga e complessa, che va ricollegata al suo originario significato magico-sacrale relativo alla magia. Il venus è una forza che “cattura e che la capacità di trascinare dietro di sé tutti gli esseri viventi”. Tale operatività magica può generare energie positive, venia, oppure negative, il venenum. Se i venena diventano dannosi e omicidi nelle mani delle donne, lo stato deve intervenire con precisi interventi giuridici, per mantenere in vita la civitas. Infine, questi episodi attestano una dimensione pubblica delle matrone, segno di un progressivo allargamento della dimensione domestica e della conquista di spazi maggiori da parte delle donne più abbienti. La donna, quindi, diventa perseguibile penalmente come gli uomini, giudicata davanti al popolo o negli appositi tribunali. La delinquenza femminile possedeva caratteristiche proprie, in quanto l’uomo concepiva la donna come naturalmente dedita all’inganno e alla manipolazione. I reati femminili più documentati erano gli illeciti di natura sessuale e l’avvelenamento. È comunque accertato un lungo processo di evoluzione della condizione femminile romana nel II secolo a.C., anche se il modello matronale ideale non viene mai abbandonato. 3. Modelli femminili e donne in carne e ossa Per alcune donne si para di un vero e proprio rovesciamento del modello ideale: - Sempronia, ritratta da Sallustio nella congiura di Catilina come modello paradigmatico di trasgressione: come matrona ideale è dotata di bellezza, fascino, ricchezza e fertilità, ma tali qualità sono utilizzate da lei per scopi perversi. N.B. Gli studi tendono a negare che Sempronia fosse figlia del tribuno Gaio Sempronio Gracco, perché troppo anziana. Moglie di Decimo Giunio Bruto e madre di Decimo Giunio Bruto Albino, che partecipò alla congiura cesariana, Sempronia ebbe un ruolo marginale nelle vicende di Catilina, ma il suo ritratto serve a Sallustio per costruire il corrispettivo femminile di quello maschile, totalmente negativo, di Catilina. Essi rappresentano due esempi paradigmatici della corruzione morale dell’aristocrazia dell’ultimo secolo della repubblica. Sallustio dice che tra i congiurati c’erano anche delle donne, che, per soddisfare il loro desiderio di lusso, si erano prostituite e poi si erano coperte di debiti. Riguardo a Sempronia, invece, i suoi nobili natali, la bellezza, il matrimonio, i figli, la cultura e la buona eduzione sono vanificati da una smodata lussuria e dal desiderio di denaro, a scapito della dignità e della pudicitia, parole chiave della rappresentazione dell’ideale matronale. 10 Secondo Sallustio, la causa primaria del degrado del costume matronale è proprio la brama di denaro, che stravolge gli antichi equilibri sociali e provoca la decadenza dell’antico mos maiorum; - Clodia, sorella del tribuno Clodio Pulcro, viene ricordata come una donna indipendente e spregiudicata, che ebbe numerosi amanti, tra cui il poeta Catullo, e numerosi nemici, tra cui Cicerone che la accusa di comportarsi come una prostituta. N.B. Di questa donna sappiamo solo quello che Cicerone e Catullo ci vogliono o possono dire. Clodia è figlia di Appio Claudio Pulcro e moglie di Quinto Cecilio Metello Celere. Catullo conosce Clodia nel 62 a.C. e ne rimane folgorato per via della sua bellezza, tanto da decidere di rendere di pubblico dominio la loro relazione, andando contro la morale tradizionale. Cicerone farà appello a questa morale tradizione, dipingendo Clodia come una prostituta. Nel 56 a.C. Clodia aveva accusato di veneficio il suo ex amante Celio Rufo, pupillo di Cicerone. Nell’orazione in difesa di Celio, Cicerone, quindi, attacca Clodia e il suo stile di vita, appellandosi alla relazione incestuosa con il fratello, al veneficio del marito e alla vendetta su Celio per essere stata abbandonata. N.B. Si diceva che Clodia fosse addirittura soprannominata quadrantaria, che vale un quadrante, cioè la tariffa minima che percepivano le prostitute di strada. Tuttavia, tanto accanimento suscita dei sospetti: infatti, è molto probabile che lo stesso Cicerone abbia subito il fascino di Clodia. Questa informazione deriverebbe da alcune lettere dello stesso Cicerone. Clodia seppe comunque coniugare bellezza e intelligenza, per vivere in maniera indipendente e in contrasto con il modello ideale matronale. La sua figura storica è, però, condizionata da questo ruolo di antagonista della tradizione, diventandone esempio paradigmatico. La storiografia romana è ricca di esempi di donne i cui comportamenti in ambito bellico si rivelarono positivi: - Clelia, esempio della vergine guerriera, era stata presa in ostaggio assieme ad altre donne dal re di Chiusi Porsenna, che tentava di restaurare la monarchia a Roma dopo che i re etruschi erano stati cacciati. Clelia, allora, sfuggì alla sorveglianza degli Etruschi e, emulando il gesto eroico di Muzio Scevola, attraversò a nuoto il Tevere, riuscendo a riportare le donne prigioniere a Roma. In tutte le fonti, infatti, Clelia dimostra il coraggio di un uomo (animus virilis). Il significato simbolico di tale racconto era quello di voler integrare, correttamente ed eroicamente, la componente femminile all’interno della comunità civica; - Fulvia, invece, viene descritta da Cicerone come crudele, avida e malvagia. Anche altre fonti affiancano alla sua figura attributi tipicamente maschili, quali l’ imperium e la militia, contrapposti al modello femminile. Questa tradizione è forse dovuta alla frequentazione, da parte della donna, degli ambienti militari. N.B. Si arrivò a dire che Fulvia non aveva nulla di femminile, se non l’aspetto fisico. Tuttavia, è evidente che questa tradizione su Fulvia rifletta quella ostile ai suoi mariti, Clodio e Antonio; infatti, sembra che Cicerone utilizzi la donna per condannare la politica popolare dei suoi mariti. Fulvia apparteneva alla nobilitas di origine plebea: era figlia di Fulvio Bambalione e di Sempronia, sorella della Sempronia implicata nella congiura di Catilina. Prima di sposare Antonio, era stata moglie e poi vedova di Pulcro Clodio e di Scribonio Curione. Questa tradizione rappresenta Fulvia in diversi modi: 11 o vedova devota quando testimonia in lacrime al processo contro Milone, suscitando la generale commozione; o vedova devota durante la guerra di Modena, dove Fulvia, con la suocera Giulia e il figlio ancora bambino, si presentò a supplicare presso le loro case i personaggi più influenti per evitare che Antonio fosse dichiarato nemico pubblico. Secondo le fonti, Fulvia aveva una buona posizione economica ed era in grado di fare affari, anche approfittando delle sue frequentazioni politiche personale. Tutte le fonti concordano sul fatto che di tale denaro si sarebbe servita per finanziare i suoi progetti politici, anche illecitamente. Si tratta, tuttavia, di un momento di grave crisi politica, in seguito alla morte di Cesare, quando la repubblica è gestita da accordi personali e privati e quando possono trovare spazio anche autonome capacità politiche e finanziarie femminili. Sembra però eccessivo il ruolo attivo che le fonti attribuiscono a Fulvia nelle proscrizioni, che lei avrebbe favorito al solo scopo di arricchirsi. Fulvia, descritta come insensibile e crudele, è la protagonista anche di un altro famoso episodio relativo alla contribuzione fiscale straordinaria imposta a millequattrocento matrone a opera dei triumviri. Secondo la vicenda, le matrone, sotto la guida di Ortensia, si sarebbero rivolte a Fulvia, la quale, si dice, si rifiutò anche di riceverle. L’episodio culminante della vicenda di Fulvia è rappresentato dalla guerra di Perugia. Secondo Marziale, tale guerra sarebbe scoppiata perché Ottaviano non aveva voluto avere rapporti sessuali con Fulvia. Il conflitto, che vede contrapposti Lucio Antonio, console, e Fulvia da un lato, e Ottaviano dall’altro, nasce in occasione dei contrasti nati durante l’assegnazione ai veterani di Filippi delle terre, curata da quest’ultimo. Il ruolo di Fulvia, impegnata ad arruolare militari da inviare come rinforzo ad Antonio, assediato a Perugia, è condizionato dalla sua gelosia nei confronti di Cleopatra . Infatti, secondo Appiano e Plutarco, fu lei la causa della guerra, spingendo Antonio al contrasto per paura del suo ritorno in Egitto. Dunque, la figura di Fulvia racchiuse gli stereotipi tradizionali e la loro negazione, che vanno contestualizzati nel tempo che Fulvia si trova a vivere: moglie e vedova devota, esperta nella gestione del suo patrimonio e desiderosa di arricchirlo, femmina gelosa fino ad arrivare al vero e proprio rovesciamento del modello tradizionale. N.B. Un ritratto femminile negativo può servire, allo storico romano, a mettere in cattiva luce un comportamento politico maschiale. Si ritiene che la vicenda di Fulvia favorisca una riflessione sull’ammissione delle donne nella sfera della vita pubblica e della politica romana. Al culmine di questa vicenda, Fulvia non può che morire, cosa che accade nel 40 a.C. La sua morte viene rappresentata come l’evento che consente un riavvicinamento delle parti in causa, suggellati dal matrimonio di Antonio con la sorella di Ottaviano, Ottavia. - Ottavia incarna il modello tradizionale femminile, adattato alle circostanze dei tempi. N.B. Le fonti che la riguardano risentono, però, della propaganda augustea e tendono a enfatizzarne le qualità, fisiche e intellettuali. Plutarco la definisce bella dentro e fuori e la ricorda per il suo ruolo intermediario fra il fratello e il marito in occasione degli accordi di Taranto. Come è noto, l’accordo tra i due uomini non è destinato a durare. La storiografia insiste sull’amore di Antonio per Cleopatra e nello stesso tempo dipinge Ottavia come l’unica moglie legittima e devota. Tale nobile comportamento è riconosciuto da Ottaviano, che concesse a Ottavia e a Livia, sua moglie, onori particolari, tra cui l’esenzione dalla tutela e la conseguente gestione personale 12 Verso la fine dell’iscrizione, il marito racconta il loro dramma più intimo e doloroso: la sterilità della coppia. Secondo la prassi tradizionale, Turia propone il divorzio perché il marito possa avere un figlio con un’altra donna. Tuttavia, il marito rifiuta, in quanto la condivisione di tante avversità non gli consente di ripudiare la moglie. Emerge qui un elemento che caratterizzerà la morale della coppia nella nuova società imperiale: la condivisione, da parte di marito e moglie, di comuni responsabilità, da affrontare con fermezza d’animo da parte di entrambi. Siamo di fronte al rovesciamento di uno dei ruoli tradizionali della donna romana, la sua subordinazione all’uomo. Tale situazione è presente anche nel racconto del suicidio di Porzia, figlia di Porzio Catone e moglie del cesaricida Giunio Bruto. Secondo il racconto di Plutarco, Porzia, in un drammatico confronto con il marito, rivendica il diritto di essere messa a parte dei suoi progetti politici , proprio perché moglie legittima e non concubina. Secondo Porzia, una moglie deve sostenere il marito nel bene e nel male, fornendogli consigli utili e appoggi. Coerentemente al suo pensiero, quando scopre della morte del marito, Porzia si suicida ingoiando carboni ardenti, definiti “castissimi”, in quanto esaltano la suprema virtù femminile, quella della salvaguardia della castitas. Il suo drammatico suicidio rimarrà nell’immaginario romano come esempio di coraggio femminile. L’ambizione femminile di raggiungere “pari opportunità” deve passare sempre e comunque attraverso l’imitazione di comportamenti maschili. Infatti, è noto che la donna romana non può esistere se non in relazione a un familiare di sesso maschile, cioè è sempre moglie, madre, figlia o sorella di un uomo. Lo stesso vale per le liberte, sempre legate ai propri padroni di sesso maschile. Questo conferma il permanere nella società romana dell’ideologia patriarcale tradizionale. Anche se la donna ha conquistato nuovi spazi e può comportarsi con fermezza d’animo, non è però mai ammessa una specificità del genere femminile ma solo l’adeguamento a quello maschile. Ogni comportamento deviante è anomale e fuori dalla norma. Un caso emblematico è quello di: - Terenzia, moglie di Cicerone, a noi nota attraverso le lettere scritte dal marito durante l’esilio e la guerra civile. All’inizio Terenzia è moglie fedelissima e ottima, sostegno anche economico per la famiglia. Successivamente i rapporti tra i due si deteriorano, fino ad arrivare al divorzio, con le solite spiacevoli accuse, anche di carattere finanziario e patrimoniale. Nell’epistolario di Cicerone Terenzia appare come una matrona preoccupata di sopperire in assenza del marito alle necessità dei figli. Il suo ritratto è però condizionato da Cicerone: se all’inizio, infatti, Terenzia è una donna energica e coraggiosa, ma ambiziosa, tanto da interessarsi ai problemi politici del marito, successivamente viene accusata di disonestà e di aver causato le difficoltà finanziare dello stesso Cicerone. Terenzia respinge queste accuse, sostenendo che sono un pretesto del marito per poter divorziare da una donna vecchia, per sposarne una giovane. Tuttavia, il ritratto dipende dalle fonti posseduto, piene di pettegolezzi e insinuazioni, motivo per cui della vera Terenzia ci rimane ben poco. 15 La sterilità di coppia, come abbiamo già visto, poteva essere un dramma, a tal punto che certe forme di “utero in affitto” non erano insolite nei comportamenti dell’aristocrazia romana alla fine del I secolo a.C. Secondo Plutarco, il famoso oratore Ortalo chiese a Porzio Catone, suo amico, di “prestargli” la moglie Marzia per poter avere un figlio con lei. Catone accetta, Marzia divorzia da lui, sposa Ortensio e gli dà due figli. Quando Ortensio muore, lasciandola giovane e vedova, risposa Catone, il quale viene accusato dagli avversari politici di avidità: egli aveva solo bisogno di qualcuno che si occupasse delle case e delle figlie. È stato inoltre notato che Marzia, al momento delle nozze con Ortensio, era già incinta di Catone (come Livia). In tale contesto emerge il concetto di corpus: il corpo ha necessità di alimentarsi per non morire e la donna fertile, indipendentemente dai suoi legami personali, è intesa come contenitore privo di identità, strumento funzionale all’autoconservazione dell’aristocrazia, in grado di fornire cittadini alle persone che ne hanno bisogno per non estinguersi. N.B. Questo è il dovere morale e civico della donna a fine età repubblicana. 4. Donne di potere o il potere delle donne - Livia Drusilla, moglie dell’imperatore Augusto, madre del suo successore Tiberio, bisnonna di Caligola, nonna di Claudio e trisavola di Nerone, è la vera fondatrice della dinastia giulio- claudia. È figlia di Livio Druso Claudiano, entrando nella gens Livia per adozione. Il primo marito è Tiberio Claudio Nerone, che nella guerra di Perugia si schiera dalla parte di Antonio e fugge in Grecia insieme alla moglie e al primo figlio Tiberio, dopo la vittoria di Ottaviano. Dopo la politica di alleanza con le più importanti famiglie di Roma, Ottaviano sposa Livia, anche se era incinta del precedente marito. Entrambi i figli, Tiberio e Druso, saranno accolti e allevati nella casa di Augusto e Tiberio succederà ad Augusto, al termine di una complicata lotta dinastica all’interno della domus imperiale, lotta che vedrà Livia protagonista. La posizione ambigua di Livia determinò un duplice ritratto di questa, uno positivo e uno negativo: moglie irreprensibile o spietata donna di potere. N.B. Il primo risale alla propaganda augustea, che tendeva a rappresentare la coppia Augusto- Livia come l’esempio del matrimonio perfetto. L’imperatore Augusto, una volta giunto al potere, fu l’ispiratore di una serie di leggi nel campo del diritto di famiglia, il cui scopo era quello di porre un freno alla denatalità dei ceti elevati. Secondo questo nuovo codice morale augusteo, le matrone romane devono tornare a essere sessualmente attive soltanto con i propri mariti allo scopo di procreare figli legittimi . Di conseguenza, ogni rapporto adultero deve essere represso duramente. La legislazione augustea obbligava gli uomini tra i venticinque e i sessant’anni di età e le donne tra i venti e i cinquanta a sposarsi. Tali leggi riconoscevano la validità dei matrimoni fra uomini liberi, non appartenenti all’ordine senatorio, e liberte, non malfamate (donne di spettacolo, prostitute o adultere condannate). Prevedevano anche alcuni vantaggi per i matrimoni prolifici. Infine, le leggi augustee stabilivano sanzioni ereditarie e patrimoniali per i celibi e le nubili, per i vedovi e i divorziati che non si risposavano, per le coppie senza figli, e condanne penali per gli adulteri, con lo scopo di moralizzare il costume sessuale così da ricostruire la società romana a partire dalla famiglia. 16 Augusto istituisce una nuova corte giudicante, la cosiddetta quaestio de adulteriis, cui affida la pubblica sanzione criminale dell’adulterio, cioè il rapporto sessuale con donne sposate o anche non sposate di elevata condizione. N.B. La legislazione augustea intente perseguire sia l’adulterio che lo stupro, illeciti di natura sessuale. Augusto, restauratore del mos maiorum, tende a considerare la trasgressione sessuale e il mancato rispetto dei ruoli di genere e di condizione giuridica e sociale come causa primaria della corruzione dei comportamenti umani. Infatti, l’amore con le libertine e con le donne “facili” appartenenti ai ceti inferiori era stato cantato ed elevato a stile di vita dai poeti elegiaci come Tibullo e Properzio. Si tratta della rivendicazione da parte di questi poeti di una ben precisa scelta individuale, che non pretende di essere assunta come noma di comportamento generale. N.B. L’esaltazione del “libero amore”, cioè del piacere sessuale fine a sé stesso, cantato da Ovidio, fece scandalo e causò al poeta l’esilio. Quindi, l’assolutizzazione dell’eros extraconiugale, a scapito di quello coniugale, non può essere tollerata da Augusto, che parte dalla rivalorizzazione del matrimonio a scopo procreativo, per riformare la repubblica. Tuttavia, in questa produzione poetica non c’è nessuna traccia di una valutazione positiva della condizione femminile. Va comunque detto che se a livello ideale la rappresentazione della matrona è sempre finalizzata al matrimonio, anche in campo sessuale la donna romana conquista una maggiore libertà e, di conseguenza, diventa necessaria l’adozione di pratiche per regolamentare le nascite, anche se in realtà queste spesso si limitavano all’aborto. In ogni caso, esistevano forme di contraccezione usate dalle prostitute e dalle cortigiane (diaframmi e irrigazioni vaginali). N.B. Il coito interrotto dipendeva dall’uomo ed era sconsigliato dai medici. D’altra parte, l’aborto era praticato da tutte le donne che si trovavano nella condizione di non potere partorire figli per motivi morali o economici. L’aborto poteva essere praticato con mezzi meccanici, come sonde metalliche e pozioni che potevano avere effetti mortali anche per la donna. N.B. Chi aveva preparato la pozione abortiva era accusato di avvelenamento (veneficium). Nonostante questa insistenza sulla maternità e sul ritorno al casalingo modello ideale femminile, in realtà, con l’avvento del principato, anche il ruolo femminile cambia, perché cambia il centro del potere. D’ora in poi governa un solo uomo, il princeps o imperatore, che ha bisogno di una moglie legittima che gli assicuri un erede al trono. Si crea quindi una sostanziale ambiguità fra pubblico e privato, dove la dimensione femminile viene ad assumere connotazioni pubbliche che non possono non esserle riconosciute. Nonostante tale evoluzione, non bisogna dimenticare che le donne non hanno mai ricoperto in età romana cariche politiche e militari, nonostante l’influenza politica di molti patrimoni femminili. Riguardo a questo, a partire dal II secolo a.C., a molte donne facoltose fu permesso di esercitare una sorta di patronato nei confronti di singole persone o di intere comunità dello stato romano. Tale possibilità si svilupperà in età imperiale, soprattutto per le donne che facevano parte della domus Augusta e che vivevano a stretto contatto con il “centro del potere”. Alcune “imperatrici”, tra cui Livia, infatti, avranno una posizione privilegiata. Coerentemente con la politica sociale di Augusto, la condotta di Livia appare moralmente corretta e in sintonia con la volontà dell’imperatore. 17 Nella società imperiale comincia ad affermarci un’ideologia che invita alla continenza e alla moderazione, per il doppio influsso del pensiero stoico e della predicazione cristiana. Vengono criticati quei comportamenti coniugali, sia maschili sia femminili, che sono caratterizzati da una sorta di “rovesciamento dei ruoli”. Qualsiasi variazione è considerata aberrante, in particolare un ruolo femminile attivo va condannato come immorale, in quanto frutto di una libidine non controllata. In linea con la ripresa dei modelli tradizionali, la moglie va amata senza passione, soprattutto sessuale, ma con la ragione. Rispetto alla tradizione, però, la buona moglie deve essere solidale con il marito, condividerne gli interessi intellettuali e i valori morali. Nella produzione letteraria di Quintiliano, Stazio e Plinio il Giovane, la moglie è fedele e partecipa ai successi del marito, intellettuali, politici e militari, e li fa propri, in quanto non ha l’opportunità di agire in prima persona. In particolare, Plinio, crea modelli di comportamento secondo i valori consueti, riattualizza cioè la tradizione. Per questi motivi, la filosofia stoica rivendica anche per la donna il diritto alla cultura. Infatti, un buon matrimonio si basa sulla condivisione degli interessi e degli affetti. Secondo Plutarco, lo scopo del matrimonio è la fusione completa fra due esseri, l’uomo e la donna, in un’ideale di condivisione di tutto: corpo, beni, amici e relazioni. Si tratta, però, di una fusione a senso unico: la moglie deve comunque adeguarsi al marito, di cui riconosce l’autorevolezza morale e la funzione educativa, rinunciando quindi alla propria personalità. In età imperiale, un certo sentimentalismo sembra estendersi anche all’amicitia degli uomini nei confronti delle donne. N.B. Il termine amicus o amica, presente nelle iscrizioni sepolcrali, spesso allude a un rapporto maturato all’interno del mondo del lavoro, soprattutto libertino. L’amicitia interpersonale in età romana è un rapporto complesso, che presuppone anche implicanze di carattere politico e clientelare. Riguardo al rapporto fra patrono e liberta, il matrimonio fra i due rappresenta la base della condizione sociale femminile, come il caso di Sabinia Myrtale, liberta e moglie di Sabinius Ursus, che decide di erigere due monumenti sepolcrali distinti, uno per sé e uno per il marito. Anche il matrimonio romano può avere avuto dei risvolti passionali, come il caso di Elia Filete, che ricorda il marito con parole che lasciano pensare a un matrimonio d’amore. Anche se in età imperiale lo spazio domestico e la famiglia sono e restano sempre l’ambito primario della collocazione femminile, è vero che le fonti antiche attestano ampi spazi per la gestione di ricchezze e attività femminili, anche in ambito pubblico. N.B. Ad esempio, il sarcofago di Cesidia Ionis, ritrovato a Voghenza, fu dedicato alla defunta grazie all’intervento di Strabonia Euphrosyne. Tale intervento dovette consistere nella concessione del terreno adibito alla sepoltura, inteso come aiuto economico. Sulla stele funeraria di Ulpia Athenais, liberta imperiale, invece, ella è raffigurata semisdraiata, secondo un modello iconografico di tradizione urbana e aristocratica. Da questi modelli di autorappresentazione si evince che i liberti e le liberte imperiali potevano permettersi manufatti di pregio. Questo aspetto ha una sua precisa attestazione letteraria, che presuppone una sorta di “legittimazione etica del lusso privato”, in contrato con l’ideale matronale classico. Questa celebrazione della vita mondana in età imperiale è testimoniata dall’epitalamo, componimento poetico di Stazio, scritto in occasione delle nozze di Violentilla e del poeta Lucio Arrunzio Stella. La sposa rappresenta il massimo di tutte le virtù tradizionali, è lussuosamente vestita, ingioiellata e pettinata, e abita in una casa da sogno. Si nota come questo tenore di vita non era insolito nell’alta società romana del tempo. 20 In altre parole, anche in lusso femmine, in età imperiale, diventa manifestazione di prestigio e consolidamento della pubblica immagine di patrona e benefattrice. D’altro canto, invece, nell’epicedio, canto funebre di Stazio, si elogia la pudicizia senza fronzoli, tipica dei liberti che “fanno carriera” per meriti personali. Nei loro ritratti, infatti, questi liberti si gloriano della loro nobiltà d’animo e della loro lealtà verso l’imperatore. Le ricchezze materiali, invece, non vengono manifestate in vita ma in morte, come testimoniamo i lussuosi funerali. Questi liberti usano un linguaggio figurativo aristocratico, come attestano alcune statue-ritratto di matrone romane, rappresentate nude come le divinità femminili della bellezza e dell’amore. La nudità ideale rappresentata nel sepolcro, invece, diventa bellezza pura del corpo e simbolo di fertilità. Giovenale, nostalgico del tempo, scritte una satira contro le donne, interpretata come il “manifesto” della misoginia antica. Si tratta di una critica al rapporto di coppia intesto come quel rapporto paritario che si stava delineando nella società romana, in linea con il pensiero stoico. Più in generale, la polemica di Giovenale si rivolge a quella corrente di pensiero che rivendica per la donna un’educazione, affinché fosse compagna paritaria per il marito. Le donne oneste appartengono ormai a un passato irrecuperabile. Inoltre, secondo Giovenale, la rottura dell’equilibrio nella coppia è causata dall’eccessiva erotizzazione del rapporto uomo-donna, dalla non controllabile libido femminile e dall’eccessiva ricchezza. Vicenda emblematica di indipendenza d’azione femminile è quella di Aemilia Pudentilla, ricca vedova libica, della metà del II secolo d.C. Conosciamo la sua storia da un’orazione giudiziaria di Apuleio, in cui lo scrittore si difende dall’accusa di aver indotto con arti magiche Emilia Pudentilla a sposarlo. Il matrimonio era stato “combinato” da uno dei due figli della vedova, Sicinio Ponziano. Infatti, il suocero di Pudentilla aveva disposto che la donna sposasse suo cognato e per ottenere il suo scopo la minacciò di diseredare i due figli. Emilia, che non gradiva le interferenze del suocero, riuscì a tergiversare finché questo morì. Per evitare che altri aspiranti mariti potessero impossessarsi del patrimonio della donna, Ponziano indusse Apuleio a trasferirsi nella casa della madre, proponendogli di sposarla. Tuttavia, i parenti della donna, che avevano sperato di arricchirsi alle sue spalle, non gradivano di certo Apuleio. Così, inventarono una vera e propria causa, che si chiuse con una parziale assoluzione di Apuleio. È giusto sottolineare che Apuleio, nella sua tesi difensiva, doveva far emergere l’ indipendenza della moglie e, nello stesso tempo, minimizzare il loro divario economico. Nonostante questo, emerge chiaramente l’autonomia decisionale di Emilia Pudentilla nello scegliere marito. La figura della vedova (vidua) sarà rivalutata dagli Apologisti cristiani e dai Padri della Chiesa. Infatti, fra il III e il IV secolo d.C. si afferma l’ideale della castità intesa come pratica di vita. Questo deriva sia dall’influenza cristiana ma anche da una certa riflessione filosofica pagana che vedeva nella castità una sorta di affermazione della ragione. La mulier virilis rappresenta il modello di perfezione nel cristianesimo delle origini, impersonato soprattutto dalla martire e dalla vergine. Nell’ambito di questa ricchezza femminile nelle varie città dell’impero, le sacerdotesse costituiscono una categoria privilegiata all’interno della “borghesia” municipale. Riguardo le donne “imperiali” del II secolo d.C., le fonti non ci parlano di un loro effettivo potere politico o di una loro ricchezza particolare, ma del loro status di Auguste come legittimazione della dinastia al potere. Il merito di queste donne, attestato soprattutto dai marchi di fabbrica, è quello di essere state un modello per la promozione e l’affermazione sociale di molte donne della media borghesia italica e 21 provinciale. Lo sviluppo dell’evergetismo, donazioni private a scopi pubblici, ha permesso alle donne romane ricche di mettere in pratica le loro capacità economiche e di promuovere la loro famiglia. Grazie a queste azioni le donne hanno acquisito pubblici merita, come è attestato sui monumenti eretti in loro onore, entrando in campo di dominio maschile. - Questo ritratto emerge dalle orazioni funebri pronunciate da Adriano per la suocera Matidia e per Plotina, la quale viene lodata per la sua fedeltà, modestia e cultura, qualità di una moglie invidiabile. N.B. Secondo un’altra ipotesi, invece, l’orazione di Adriano per Matidia non è quella funebre, ma un discorso tenuto dall’imperatore stesso in occasione della costruzione di una statua per la suocera da parte della città di Tivoli. Matidia viene rappresentata come la matrona perfetta: bella e casta, figlia obbediente e madre indulgente, corretta in tutti i suoi rapporti umani. La novità, sintomo del fatto che i tempi sono mutati, è rappresentata dal fatto che la suocera non ha mai approfittato della sua posizione per chiedergli qualcosa. Questo, infatti, diventa un nuovo titolo di merito nella rappresentazione della donna in età imperiale. La vicinanza al centro del potere non deve suscitare smodati appetiti: la temperanza deve essere utilizzata anche in ambito politico. Nel II secolo d.C. alle donne dell’imperatore è riconosciuto un nuovo ruolo di legittimazione, che però non si deve tradurre in un potere politico effettivo. Questa legittimazione non è in funzione ereditaria ma si realizza nel ruolo svolto dalle “imperatrici” delle pubbliche istituzioni municipali. Le numerose statue e iscrizioni dedicate a Plotina (moglie di Traiano), Marciana, Matidia Maggiore e a Sabina (moglie di Adriano) attestano la pubblica manifestazione di rispetto nei confronti dell’imperatore da parte dei sudditi, sparsi per tutta l’impero. Queste dediche vengono fatte nella sola consapevolezza che la lealtà nei confronti del potere imperiale poteva consentire ai singoli o alle comunità un riconoscimento, un consolidamento o un avanzamento della propria posizione sociale. La divinizzazione post mortem di Plotina, di Marciana, di Matidia Maggiore e di Sabina, il fatto che il loro nome venga utilizzato nella denominazione di nuovi insediamenti coloniari o di nuovi edifici, e altri privilegi, contribuiscono all’immagine propagandistica del potere imperiale. In ambito municipale, il culto imperiale femminile diventa compenso di donne ricche che godono di un riconoscimento nella classificazione sociale delle comunità di appartenenza. Tuttavia, c’è una differenza sostanziale fra la parte occidentale e quella orientale dell’impero. - In Occidente l’intervento femminile nella vita pubblica è confinato alla sfera della gestione del sacro, attraverso i pubblici sacerdozi, che non presuppongono l’assunzione di uno status particolare; - In Oriente, invece, sono aperte alle donne anche cariche civiche più istituzionali. N.B. Questa condizione è documentabile in Asia Minore e nelle isole dell’Egeo: eredità, istruzione di buon livello anche per le ragazze e la presenza nelle antiche corti ellenistiche di un certo numero di donne, modello di “emancipazione” femminile. o La famosa Archippe di Cuma, della seconda metà del II secolo a.C., completa a sue spese la sede del consiglio cittadino e offre un banchetto e denaro ai suoi concittadini. 22 Nelle comunità municipali l’evegetismo femminile si afferma e si consolida proprio nell’ambito del sacerdozio. - Caso eclatante è quello di Eumachia di Pompei, sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Eumachia, figlia di Lucio, nel suo ruolo di sacerdotessa pubblica, fece costruire nel foro a sue spese un edificio, dedicandolo alla Concordia Augusta e alla Pietas, a nome suo e del figlio, magistrato supremo di Pompei. Probabilmente questo atto evergetico va inquadrato nel contesto della campagna elettorale del figlio ed è interessante notare che è la madre a finanziare e a sponsorizzare la sua carriera politica. Inoltre, a Eumachia viene dedicata una statua dal potente collegio dei follatori, che la onorano e la rappresentano nel suo ruolo di sacerdotessa pubblica. Si pensa che Eumachia fosse il datore di lavoro di questo collegio e che l’edificio da lei fatto costruire fosse la borsa della lana di Pompei. Quest’edificio è una strana combinazione di strutture diverse: un portico esterno, destinato a ospitare una galleria di statue di illustri personaggi romani; una grande corte porticata che ospitava nell’abside la statua di culto di Concordia Augusta; una galleria coperta che si apriva su dei giardini. Questi spazi avevano funzione di carattere commerciale e potevano fungere anche da luogo di ritrovo e svago per la cittadinanza. Eumachia ha la capacità culturale ed economica di aderire al tema augusteo della publica magnificentia, ispirandosi alla porticus di Livia a Roma, dedicato anch’esso alla Concordia Augusta. Lo scopo di Eumachia non è quello di imitare l’architettura celebrativa romana, ma quello di allinearsi alle nuove parole d’ordine imperiali, concordia e pietas, al fine di favorire il benessere dei cittadini, il tutto nell’ambito di un’autopromozione familiare e personale. Questa struttura ha un preciso significato ideologico e anche una chiara valenza funzionale, come mercato della lana o degli schiavi. N.B. Non c’è dubbio che Livia dovette rappresentare un modello da imitare per le donne appartenenti all’élite aristocratiche dei municipi italici. Anche in provincia le donne si danno da fare per imitare le azioni delle signore della domus imperiale. N.B. È il caso di Suphunibal, donna che costruisce a sue spese un sacello nel teatro di Leptis Magna, dedicato a Cerere Augusta. Probabilmente si tratta di un omaggio a Livia. Suphunibal si autodefinisce nell’iscrizione dedicatoria ornatrix patriae, cioè che rende bella la sua patria, espressione che è un unicum nel lessico epigrafico latino. Sono le sacerdotesse del culto imperiale, vale a dire le donne della famiglia imperiale divinizzate, che godono di una particolare posizione di preminenza nelle loro città di origine o di residenza. Il sacerdozio imperiale, grazie al legame con il principe o con la sua domus, è fondamentale per rafforzare il prestigio delle persone originarie dei municipi italici o provinciali e prepararne l’ascesa politica e sociale al di fuori della città natale. In questo contesto il ruolo svolto dalle donne può essere determinante perché la nobiltà locale vede accrescere il proprio prestigio proprio attraverso la mediazione femminile. Nell’antichità le donne hanno dovuto combattere una lunga battaglia contro l’invisibilità. Infatti, uno dei pochi onori concessi alle donne era l’erezione di una statua in un luogo pubblico. Di conseguenza, la maggior parte delle statue erano dedicate a sacerdotesse, ma anche a patronae o matres delle città. Le donne sono onorate per azioni da loro promosse per il benessere della comunità oppure perché sono parenti di un uomo importante. 25 Tuttavia, queste donne avevano soltanto un potere informale e un’autorità privata, che non hanno mai aperto la possibilità di una carriera politica femminile. La scelta di queste donne come patronae da parte delle comunità cittadine è sempre dovuta alla loro ricchezza e all’influenza della loro famiglia. In età giulio-claudia il maggior numero di dediche di carattere onorario in Italia viene posto a Livia, primo simbolo della continuità imperiale. Ella domina fino a Caligola e viene affiancata da Agrippina Minore nell’età di Claudio. N.B. Di Agrippina Augusta è nota una flaminica, cioè una sacerdotessa, Crittia Priscilla, figlia di un magistrato equestre. Si tratta di una prova di come queste cariche fossero rivestite da un numero ristretto di famiglie aristocratiche, che se le tramandavano garantendosi le possibilità di un’ottima carriera. In ogni caso, tutte le donne dei Giulio-Claudi sono oggetto di dediche, da sole o in compagnia dei loro familiari. Questa pratica sembra diminuire in età flavia, a causa della minore visibilità delle donne, per poi riprendere nel II secolo d.C. - A Eclano è nota Cantria Longina, sacerdotessa della Magna Mater e di Iside Regine e flaminica della diva Iulia Pia Augusta, probabilmente figlia dell’imperatore Tito. N.B. Ella fu divinizzata dall’imperatore Domiziano, di cui era stata l’amante. Cantria Longina aveva donato a Eclano cinquantamila sesterzi, somma notevole. Di conseguenza, i decurioni della città le dedicano un monumento onorario, giunto fino a noi. Cantria Longina era moglie di Pomponius Bassulus, poeta e duoviro di Eclano, e madre di Pomponius Bassalus Longinianus, asceso all’ordine equestre. Il figlio porta un secondo cognome, Longiniano, che richiama quello della madre, secondo un costume che viene in uso tra i notabili a partire dalla piena età imperiale, significato per l’importanza dell’ascendenza matrilineare. La sacerdotessa dedica l’ara funeraria al marito, sulla quale fa incidere un carme sepolcrale composto dal marito stesso, che descrive la sua vita e la sua attività letteraria. - A Rimini è ricordata una Lepidia Procula, con ogni probabilità Plotina, moglie di Traino, morta e divinizzata. La sua famiglia è nota nella città ed è economicamente abbiente e impegnata finanziariamente in ambito cittadino. Le attività economiche degli esponenti di questa famiglia sono conosciute da due iscrizioni, poste in onore di Lepidio Pruculo, padre di Lepidia Procula e di Lepidia Settimina (sorella). Tali iscrizioni furono ricollocate a Rimini per volontà di Lepidia Settimina, custode delle memorie e dei beni familiari. Secondo l’iscrizione posta dagli abitanti di Rimini, Lepidia Settimina, nipote di Settimio Liberale, sacerdote addetto al culto imperiale, ha il compito di curare gli affari di famiglia e gli interventi a favore della comunità. Per quanto riguarda l’evoluzione della condizione giuridica femminile in ambito patrimoniale ed ereditario, è interessante notare che Lepidia Settimina agisce in prima persona. Infatti, la legislazione di età traianea e adrianea tendeva a un allargamento delle capacità successorie femminili. Il senatoconsulto Tertulliano e il senatoconsulto Orfiziano arrivano a riconoscere i diritti sull’eredità dei figli premorti alle donne libere e alle liberte dotate di ius liberorum; il secondo, in particolare, instaura una successione legittima dei figli alle madri. - Cetrania Severina decide di fare in prima persona una donazione testamentaria, istituendo una fondazione funeraria per fornire beni di consumo ai suoi concittadini. Cetrania è sacerdotessa della diva Marciana, la sorella maggiore di Traiano, madre di Matidia, ed è ricordata da una base funeraria postale dal marito. 26 Sul lato destro del monumento è raffigurata la defunta nella sua funzione pubblica di addetta al culto imperiale. Sul lato sinistro, invece, è riportato il testamento, che istituisce una fondazione funeraria, a cui la donna dona circa 18.000 sesterzi. Cetrania Severina dispone liberamente del proprio denaro ed è ben radicata nella realtà economica e sociale della sua città. - Del tutto autonoma e senza menzione di tutela appare la gestione del patrimonio della liberta Sextilia Homulla. La dedica è posta a Iside, Signora e Vittoriosa, da parte del liberto della donna, che dichiara di agire sulla base delle volontà testamentarie della sua patrona. Ella, infatti, aveva disposto che parte del suo patrimonio fosse impiegato nella costruzione di un tempio, dedicato a Iside, divinità di origine egiziana, che godeva di diffusa devozione tra il ceto libertino. Queste donne “emancipate”, economicamente abbienti e dotate di visibilità pubblica, godono di un rilievo particolare a livello municipale, attraverso la concessione del titolo di mater coloniae o municipii. N.B. A Rimini è onorata una Cantia Saturnina, mater coloniae, flaminica e sacerdos divae Plotinae hic. Tali appellativi vengono tributati a quelle donne emancipate, economicamente abbienti e svincolate da forme di tutela, e potrebbero essere posti in relazione con il loro impegno a favore dell’applicazione del programma degli alimenta imperiali, con eventuali fondazioni private in ambito municipale. Queste sacerdotesse si impegnavano in prima persona a favore della diffusione degli alimenta. Si tratta di sacerdotesse delle divae Plotina, Marciana e Sabina, che ricevevano una sorta di legittimazione attraverso il sacerdozio del culto imperiale. La concessione del titolo di “madre della città”, in grado di provvedere al fabbisogno alimentare dei suoi concittadini, valorizzava questa funzione che consentiva loro pubblica visibilità. N.B. Gli alimenta di età traianea sono operazioni di credito agrario con garanzia ipotecaria su fondi rustici, che prevedevano prestiti a basso tasso d’interesse concessi dall’imperatore agli stessi proprietari dei fondi rustici che venivano ipotecati. Gli interessi di tali prestiti alimentavano una cassa che elargiva somme per il mantenimento di ragazzi e ragazze indigenti. Per le donne che godono di una particolare posizione pubblica si configura una tradizionale rappresentazione materna per il loro impegno nel mantenimento di pueri e puellae. L’incremento delle puellae alimentarie in età antonina ci induce a riflettere: le bambine, secondo la documentazione, sono inferiori per numero e per l’ammontare del sussidio. Resta da capire se il mantenimento delle figlie femmine fosse insostenibile per le famiglie meno abbienti e se le bambine potessero essere frequentemente abbandonate alla nascita, sicuramente più dei maschi, con gravi danni per l’equilibrio demografico. Il conferimento del titolo di mater coloniae legittima la rappresentazione femminile da un punto di vista sociale, il suo inserimento e la sua accettazione in ambito civico. Così la donna può lasciare il suo ambito domestico ed essere integrata in quello pubblico della civitas. Un discorso analogo può essere fatto anche per il mondo romano orientale, più aperto al riconoscimento di pubblici ruoli femminili. N.B. Ad esempio, Plancia Magna, donna eminente della città di Perge, ha il titolo di “figlia della città”, grazie alle sue molteplici attività evergetiche in favore della città. È stato di recente sottolineato che le donne appartenenti agli ordini superiori , anche di origine provinciale, non risiedevano a Roma, ma preferivano rimanere nelle città di origine, per curare gli interessi dei padri, dei fratelli o dei mariti, allo scopo di promuoverne la carriera. Tale situazione è giustificata dal fatto che, nel II secolo d.C., quasi tutti gli imperatori erano di origine provinciale. 27 romano. I romani, infatti, reprimevano l’irregolare sessualità matronale con lo scopo di salvaguardare la famiglia, cellula primaria dello stato romano. Il governo romano non può tollerare che giovani uomini siano iniziati da donne durante questi culti orgiastici, andando contro ai tradizionali riti di iniziazione civica. Nello stesso tempo, gli strati inferiori della società romana vedeva in questi culti la possibilità di riscattare la propria condizione e l’occasione per mettere in atto forme di aggregazione organizzate, pericolose per l’ordine pubblico romano. Di conseguenza, il senatoconsulto vietava la partecipazione al sacrificio di un numero di persone superiore a cinque, le subordinava alla giurisdizione del pretore urbane e, infine, vietava la formazione di una cassa comune e di una gerarchia sacerdotale. - Il privato: è nel culto privato che si realizza la religiosità femminile, testimoniato dalle numerose iscrizioni in cui le donne compaiono come dedicanti. Queste dediche ci permettono di conoscere divinità non note. È il caso del santuario di Minerva Medica Memor Cabardiacensis, che era stato edificato lungo la valle del fiume Trebbia. Siamo di fronte a un caso di romanizzazione di una divinità indigena. È interessante la dedica Minervae Memori da parte di Celia Giuliana, posta in segno di ringraziamento, dopo essere guarita da una grave malattia, grazie all’efficacia delle medicine donate dalla dea. Molto probabilmente si tratta di un santuario comprendente una farmacia, dove le sacerdotesse del culto potevano preparare e somministrare le medicine a chi non poteva permettersi assistenza medica. Le magistrea e le ministrae del culto sono attestate dalle iscrizioni. Le prime sono a capo di determinate associazioni religiose; le seconde, invece, di condizione servile, sembrano godere di una relativa autonomia che le rende simili alle magistrae. Le divinità in questione sono quelle più vicine alla sensibilità popolare. Tra questi dei occupa una posizione di primo piano Iside, divinità di origine egiziana, nel campo della devozione femminile. Dea epifanica e soccorrevole, Iside è disponibile alla comunicazione oracolare e ha notevoli capacità medicali. Nell’antichità si era soliti attribuire alle donne capacità divinatorie. Infatti, l’Italia ha conosciuto un’ampia tradizione di maghe e fattucchiere che sono sempre state considerate negativamente e poste ai margini della società, quali abbindolatrici ignoranti, accecate dalla loro vana superstitio. Queste fattucchiere, chiamate sagae, predicevano il futuro, mettendosi in contatto con il mondo dei morti, attraverso la cosiddetta magia “nera”. Tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale questa magia di tradizione italica entra in crisi, sostituita dalle pratiche magiche di derivazione straniera, per lo più orientali. Eritto è una maga tessala a cui si rivolge il figlio di Pompeo per farsi predire l’esito finale della battaglia di Farsalo fra Pompeiani e Cesariani. N.B. Secondo la descrizione di Lucano, Eritto pratica la negromanzia, si ciba di carne umana ed è una figura molto simile a una belva che a una donna. Questa rappresentazione della femminilità, in balia di forze incontrollabili e sconosciute, spiega l’ampio spazio concesso alle donne oracolari, quali Sibille e Pizie, considerate come tramite ideale tra il mondo naturale e quello soprannaturale. N.B. Tuttavia, le profezie delle Sibille, pronunciate in stato di trance, necessitavano dei codici interpretativi dei colleghi sacerdotali maschili. Quindi, da un lato la donna possiede maggiori poteri degli uomini nel campo della divinazione, cioè nella possibilità di stabilire un contatto diretto con le divinità, dall’altro, non hanno la capacità 30 di interpretare correttamente questi contatti. Queste capacità, infatti, furono riservate agli uomini, riuniti in appositi collegi sacerdotali. La donna è anche lo strumento privilegiato usato dagli dei per inviare segnali negativi, segno della rottura della pax deorum. Le donne possono generare esseri con gravi malformazioni fisiche e tali nascite, contrarie all’ordine naturale delle cose, andavano espiate con appositi riti, così da ristabilire il corretto rapporto con la divinità. In questo contesto non va dimentico il sangue mestruale che è prodigioso, nel senso che provoca prodigia, avvenimenti che sovvertono in negativo il naturale andamento delle cose. Secondo Plinio il Vecchio, la donna mestruata fa inacidire il vino, insterilire i campi, cadere i frutti dagli alberi ecc. Il mestruo, inoltre, provocherebbe la morte dell’uomo in caso di rapporto sessuale e può essere utilizzato per preparare pozioni abortive. Infine, secondo studi recenti, l’intervento femminile in favore del popolo romano non dipende dalle donne in quanto tali, ma si lega a un intervento del soprannaturale. N.B. Nelle opere degli storici antichi, quando gli uomini sono paralizzati di fronte agli eventi negativi, intervengono le donne, facendo quello che gli uomini non sono in grado di fare. Il ruolo femminile e quindi complementare a quello maschile. In altre parole, le donne possono agire per il bene dello stato, ma non dispongono di nessuna autorità. 6. Donne ricche, lavoratrici e schiave Il ruolo della donna è confinato all’ambito domestico e all’allevamento dei bambini. Di conseguenza, il problema del lavoro femminile esterno alla casa risulta di difficile indagine, dato il numero scarso delle fonti. Il problema diventa cruciale in relazione al lavoro agricolo femminile, in quanto non abbiamo nessun documento di tale attività. Tuttavia, questo può essere visto come spia di estrema povertà, oppure praticato da popolazioni non civilizzate. Esso può essere però rivitalizzato nell’ambito della visione idealizzata della poesia bucolica. Varrone scrisse un’opera, Res rustica, per la moglie Fundania, proprietaria di un podere. In questo trattato si raccomanda che il personale addetto alla conduzione della proprietà forma una famiglia. Tale esortazione si riferisce indubbiamente al lavoro femminile e minorile e al valore commerciale dei figli. Questa etica, quindi, corrisponde al tradizionale ruolo femminile domestico e alla costruzione gerarchica dei ruoli sociali. Per esempio, Columella va nella stessa direzione quando dice di essere disposto a premiare quelle schiave che abbiano generato e si siano prese cura di molti figli. Egli ritiene che le matrone, rinunciando al loro ruolo tradizionale, rendono indispensabile il lavoro del vilicus e della vilica, amministratori delle proprietà, di condizione servile o meno. Le donne abbienti ereditavano e gestivano i loro patrimoni. N.B. Ad esempio, sappiamo che a Ostia una certa Iunia Libertas possedeva interi isolati con botteghe al piano terra, che dava in affitto. Secondo l’iscrizione la donna aveva lasciato degli immobili ai suoi liberti e liberte, affinché provvedessero al suo culto funebre. Possiamo ricevere qualche indizio nel caso in cui le donne sono onorate da corporazioni professionali, oppure fanno nelle loro scritture epigrafiche o funerarie accenni ad attività produttive. Le più importanti attestazioni di patronato femminile sui colleghi professionali si collocano nel III secolo d.C. Per quanto riguarda il mondo del lavoro, la manifattura e il commercio erano disprezzati, motivo per cui la partecipazione delle élite aristocratiche erano camuffate attraverso l’utilizzo di 31 prestanome e agenti, spesso di condizione servile o libertina, fenomeno che interessa anche le donne. Sono documentati casi di lavoro servile femminile in età ellenistica in Asia Minore. Le schiave svolgevano alcune professioni topiche, quali tessitrice, nutrice, prostituta, ma anche altre meno femminili, come nell’agricoltura o nella pastorizia, nelle fabbriche o laboratori. In ogni caso, le donne sono raramente raffigurate nella loro veste di imprenditrici, ma la loro immagine tende a essere mediata dai tradizionali ruoli familiari. Viceversa, si nota che le donne operavano in transazioni commerciali e private come gli uomini. Inoltre, alcuni contratti di apprendistato attestato che anche le donne imparavano un mestiere al di fuori dell’ambito domestico, sia pure in misura minore rispetto agli uomini. La presenza femminile nel mondo del lavoro e degli affari è attestata anche dalle frequenti richieste, da parte di donne, di rescritti alla cancelleria imperiale sui temi in materia di gestione patrimoniale, segno della loro libera attività economica e commerciale. Per quanto riguarda la documentazione relativa ai marchi di fabbrica dei prodotti laterizi, le donne appaiono come proprietarie sia di cave di argilla sia di officine, come commercianti, come artigiane o come operaie. N.B. Un caso emblematico è rappresentato da Caedicia Victrix, il cui nome appare su alcuni bolli di anfore ritrovati in Italia, Spagna, Africa, Gallia e Grecia. Riguardo alla sua identificazione, c’è chi ha pensato che fosse la moglie del console Flavius Scaevinus, che fu esiliata dall’Italia per volontà di Nerone all’epoca della congiura dei Pisoni, proprietaria di tabernae. Questa matrona sarebbe stata anche la proprietaria di vigneti, il cui vino veniva esportato in tutto il mondo romano. Le tabernae diventavano luoghi di vendita e di commercializzazione dei prodotti di una azienda agricola. Altri studiosi, invece, sono contrari a tale ipotesi identificativa. N.B. Del tutto eccezionale è il tegolone di Pietrabbondante, dove due donne, che lavoravano nell’officina che produceva queste tegole, hanno impresso sull’argilla le impronte dei loro sandali come firma, accompagnando questo gesto con una doppia iscrizione, una in osco e una in latino, che ricorda il nome delle donne, probabilmente schiave, e che spiega il loro gesto. Si tratta di un documento importante che attesta la diffusione del bilinguismo e una discreta acculturazione anche tra persone di modesta estrazione sociale. Sono le iscrizioni che documentano i mestieri più umili della popolazione femminile. Le lavoratrici possono ricevere una qualche forma di rappresentazione dalle loro iscrizioni funerarie, anche se si limita alla sola citazione del nome e del mestiere. Il ricordo dell’attività lavorativa va inteso anche come strumento di affermazione personale. La condizione servile o libertina relativa all’attività lavorativa è più documentata nei columbaria, i grandi luoghi di sepoltura collettiva utilizzati dai membri dello staff a servizio della famiglia imperiale o delle grandi famiglie aristocratiche romane. N.B. Tra i più famosi vi è quello di Livia, lungo la via Appia. All’interno di queste famiglie la gerarchia si basava sulle funzioni esercitate, riportate sulla pietra. Si noti che questi schiavi o schiave e liberti o liberte potevano svolgere anche mansioni intellettuali, legate alla scrittura o alla lettura. Nelle singole sepolture, invece, le donne lavoratrici compaiono per lo più da sole e il monumento viene commissionato in vita da loro stesse. Altre volte i mestieri femminili sono rappresentati iconograficamente. Su questi rilievi le donne sono raffigurate come soggetti “indipendenti” nell’esercizio della loro professione. Un caso a parte è rappresentato dalle nutrici, dalle ostetriche e dalle donne medico, non facili da distinguere le une con le altre. In ogni caso, le donne medico non potevano aspirare a una brillante 32 Secondo la mentalità antica, il parto gemellare era interpretabile in due modi diversi: come indicatore di straordinaria fecondità della famiglia o, al contrario, come un’infiltrazione di sangue alieno nella purezza della stirpe attraverso l’adulterio. N.B. Secondo Tacito, Tiberio si era rallegrato del parto gemellare di Livia Giulia, interpretandolo come motivo di gloria per la sua discendenza. Secondo Svetonio, invece, Tiberio riteneva che il nipote Tiberio Gemello non fosse “sangue del suo sangue”, in quanto concepito in seguito a un rapporto adulterino. La stessa notizia sarebbe confermata da Cassio Dione, secondo il quale Tiberio non aveva preso in considerazione il nipote per la successione. La politica di Seiano si scontra con una parte della corte imperiale che trova il suo portavoce nella figura di Antonia Minore. La matrona è molto potente e rispettata e gode di un apparato di liberti e schiavi fidati e sull’amicizia di alcuni principi orientali, fedeli alla memoria del padre Marco Antonio. Pertanto, Antonia Minore fa recapitare una lettera al cognato Tiberio, in cui accusa esplicitamente Seiano di aspirare al potere, segnando la sua condanna a morte e quella di Livia Giulia. N.B. Livia Giulia muore per volontà di Tiberio o della stessa madre Antonia Minore, la cui brama per il potere è più forte di qualsiasi legame familiare. Tacito descrive le manovre di Seiano che si finge innamorato di Livia Giulia, quando è ancora in vita il marito. Seiano induce Livia Giulia ad avere una relazione con lui, perdendo l’onore, e Livia Giulia, invece, uccide il marito per compiacere Seiano, spinta dalla brama di potere. Tacito sembra essere maggiormente sdegnato per il fatto che una donna nobile si accompagni a un uomo non nobile, la cui unione è innaturale. In realtà, noi non sappiamo se Livia Giulia abbia veramente ucciso il marito oppure no. Per gli storici antichi, le Augustae saranno tutte donne da condannare perché hanno occupato uno spazio a loro precluso dalla tradizione: quello politico. Tuttavia, il vero ruolo femminile, cioè quello di garantire la legittimità dinastica, non può essere messo in discussione, così come il loro impatto sulla popolazione grazie ad attività edilizie, fondazioni benefiche e attività culturali. - Calvia Crispinilla è definita da Tacito magistra libidinum di Nerone e viene descritta anche a fianco di Clodio Macro come agiata proprietaria terriera e imprenditrice. Riguardo alla sua origine esistono diverse ipotesi: può essere figlia di due liberti, ipotesi esclusa dal titolo di nobildonna che, secondo Cassio Dione, deriverebbe dal suo matrimonio con un personaggio di rango consolare; si ritiene che possa avere origine triestina, figlia di liberi agiati proprietari di fabbriche; infine, si pensa che discende da coloni romani. Senza dubbio, Calvia Crispinilla arriva alla corte di Nerone grazie alla sua condizione di ricca proprietaria di impianti produttivi. Tacito la dipinge come magistra libidinum di Nerone per il fatto che deve occuparsi dell’eunuco dell’imperatore, mentre Cassio Dione parla del suo incarico di provvedere al guardaroba di corte dell’eunuco. Calvia Crispinilla accompagna Nerone nel suo viaggio in Grecia ed è durante questa occasione che Cassio Dione l’accusa di rubare. Successivamente viene accusata da Tacito di occuparsi di politica. In particolare, Calvia incita il comandante Clodio Macro alla lotta armata in Africa e alla sospensione degli approvvigionamenti di grano. L’imperatore Galba mette a morte Clodio Macro, ma Calvia riesce a lasciare l’Africa in tempo e a rifugiarsi in un luogo sicuro. Sicuramente il matrimonio con un personaggio di rango consolare l’ha aiutata ad attraversare il lungo anno in cui si sono avvicendati quattro imperatore. 35 Tuttavia, riguardo al marito di Calvia Crispinilla, sono state fatte varie ipotesi. La più verosimile è quella che identifica il marito con il console Laecanius Bassus, uno degli uomini più ricchi e più conosciuti del suo tempo. La donna possedeva notevoli beni: gli impianti produttivi in Istria, la sontuosa villa presso Trieste, terreni in Puglia e alcune proprietà anche in Tunisia e in Egitto. Ricapitolando, Calvia Crispinilla è una donna ricca, intelligente e dotata di fascino. Ha saputo sfruttare ciò che il nuovo ambiente della corte le offriva per incrementare al massimo le sue ricchezze. Ha avuto un marito importante e ha dimorato in bellissime residenze e ha avuto una famiglia di schiavi e liberti al suo servizio. Forse ha avuto un unico dispiacere, quello di non aver avuto figli che le siano sopravvissuti. - La vicenda della liberta Claudia Acte è ambientata in età neroniana. Agrippina Minore, madre di Nerone, preme affinché il figlio e Ottavia abbiano un figlio, così da garantire la legittimità della discendenza. N.B. Ottavia era figlia dell’imperatore Claudio e della moglie Messalina. Agrippina Minore aveva sposato in terze nozze lo zio Claudio ed era riuscita a ottenere che il marito adottasse il figlio di lei, Domizio Enobarbo (poi divenuto Nerone), avuto dal primo marito. Tutto questo a scapito di Britannico, il secondo figlio di Claudio e Messalina, che morirà avvelenato nel 55 d.C. Nerone, invece di assecondare la politica dinastica della madre, inizia una relazione con una concubina, la liberta Claudia Acte, di probabile origine asiatica, che gli rimarrà fedele per tutta la vita. N.B. Bisogna però ricordare che, sulla base della legislazione augustea, i matrimoni fra i senatori e le liberte erano proibiti. Questa relazione è contrastata da Agrippina Minore, ma Nerone non desiste. Tacito spiega questo attaccamento di Nerone ad Atte con l’eccessiva libidine dello stesso imperatore, che la donna era evidentemente in grado di soddisfare (a dispetto di Ottavia). N.B. Nerone si garantisce anche la complicità di Seneca che induce Anneo Sereno, un suo parente, a fingersi innamorato di Atte e a dichiararsi l’autore dei regali che Nerone faceva di nascosto alla liberta. Probabilmente Nerone è veramente innamorato di Atte. Egli le dona vasti latifondi in Lazio, in Campania e in Sardegna, comportamento anomalo per un imperatore. Il ritrovamento di marchi di fabbrica e di iscrizioni funerarie di liberti e di schiavi di Atte documenta la proprietà e l’attività delle officine della donna. Inoltre, Atte possedeva anche alcune residenza a Roma, in cui prestavano servizio schiavi e liberti. Tacito ricorda Atte anche quando descrive il deteriorarsi dei rapporti fra Nerone e la madre . Secondo i fatti, madre e figlio sono a un passo dall’incesto e Seneca ricorre all’aiuto di Atte che riesce a convincere Nerone che i soldati non avrebbero tollerato il governo di un principe incestuoso. In realtà, lo scopo di Tacito è evidente: egli considera sia Agrippina Minore che Nerone due mostri, da cui non possono che originarsi azioni mostruose. Nel 65 d.C. viene sventata da Nerone la congiura organizzata da Calpurnio Pisone. Il piano dei congiurati prevedeva di uccidere Nerone durante le feste in onore alla dea Cerere. Un piccolo tempietto a Olbia, in Sardegna, è dedicato alla dea Cerere da parte di Claudia Atte. Tale tempietto è stato interpretato come segno di ringraziamento a Cerere, perché Nerone era riuscito a scampare a questa congiura. Infine, sarà Atte a seppellire Nerone nel 68 d.C. - Riguardo alla storia di Postumulena Sabina, dobbiamo affidarci a due attestazioni diverse: i ritrovamenti epigrafici e un carme di Marziale. 36 Infatti, Marziale affida a un amico l’incarico di portare a Sabina il decimo libro delle sue poesie. Questa Sabina è stata identificata con Postumulena Sabina, attestata in un sepolcreto prediale, destinato a un unico nucleo familiare. Nella seconda metà del I secolo d.C. Postumulena Sabina fece innalzare una stele in calcare rosato alla propria liberta Postumulena Vitalis. Ella fece tanto altro. Riguardo alla gens Postumulena, questa non è nota in Transpadana, ma è attestata a Roma, a Ostia e in Italia centro-meridionale. Si può quindi ipotizzare che Postumulena Sabina si sia trasferita nel “nord-est” in seguito al matrimonio con Vassidio Severo e che abbia potuto conoscere Marziale in terra sabina. Postumulena Sabina molto probabilmente amava l’arte e la poesia. Il suo gusto raffinato è testimoniato dalla scelta dei monumenti funerari. Nella lussuosa residenza del marito poteva essere promotrice di incontri culturali e di pubbliche letture di poesia. Ecco perché Marziale chiede a un amico di portare il suo libro a Sabina, nella speranza che lei accetti di buon grado questo omaggio e ricambi il poeta con il dono della sua ospitalità. Questa storia documenta che la cultura femminile era divenuta un valore accettato e riconosciuto dagli intellettuali del tempo. - Le due liberte, Vetilia Egloge e Varia Chreste, possono avere avuto uno stile di vita simile, ma modalità di rappresentazione funeraria diverse. o Vetilia Egloge ha fatto erigere l’ara funeraria che ricorda la sua famiglia. Si tratta di un altare ritrovato ai margini della via Emilia. L’ara funeraria poggiava su un basamento, formato da tre gradoni, per un’altezza complessiva di quattro metri. In tutta l’area sono stati rinvenuto i resti di quattro sepolture. Il monumento si data entro la prima metà del I secolo d.C. La famiglia di Vetilia Egloge è composta da lei, dal marito e dal figlio. Molto probabilmente Vetilia Egloge è una ex schiava, liberata da una donna appartenente alla gens Vetilia. Questo dimostra che la società augustea promuoveva l’integrazione sociale dei suoi membri più capaci ed economicamente più attivi. Questo tipo di monumento può anche rappresentare il nuovo ruolo che la donna andava assumendo nella società e nell’economia romana, a patto che assolvesse alla sua funzione materna, che rimane sempre primaria. N.B. Bisogna ricordare che in diritto romano la ricchezza delle donne non implica la loro emancipazione sociale. Noi non conosciamo l’indubbia ricchezza di Vetilia Egloge e nemmeno la sua origine. Il cognomen Egloge viene comunemente collegato all’Oriente, ma la sua diffusione a Roma è molto ampia nel I secolo. Secondo la mentalità matronale tradizionale, sposa un uomo libero e, ancora schiava, portorisce un figlio liberto. Il marito lo ha acquistato e liberato. o L’ara funeraria di Varia Chreste, invece, è una stele con ritratti e iscrizioni. Le misure dell’area sepolcrale sono le più ampie attestate in Emilia-Romagna. Nella fascia superiore sono ricordati due personaggi, C. Varius C. l. Dio e Varia Chreste, liberta. Il suo ritratto, accanto a quello di Varius Dio, ne attesta una condizione more uxorio. Nella nicchia inferiore si trova il figlio, Euripus, raffigurato in toga, con in mano una tavoletta scrittoria, dimostrazione del fatto che si potrebbe trattare di un cittadino romano, anche se non è certo. Le ipotesi sono, infatti, due: il simplex nomen ci attesta che non è nato da un iustum matrimonium, oppure la rappresentazione della toga e 37
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