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La drammaturgia del primo cinquecento, Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

storia del teatro e dello spettacolo, la drammaturgia nei primi del cinquecento

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 16/09/2019

chiara-de-cesare
chiara-de-cesare 🇮🇹

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Scarica La drammaturgia del primo cinquecento e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! LA DRAMMATURGIA DEL PRIMO CINQUECENTO La scena cortigiana è riempita in prima istanza dalla ritrovata drammaturgia classica e le commedie latine, allestite talvolta in lingua originale, si alternano con le traduzioni in italiano. La commedia italiana del Cinquecento si pone al punto di incontro tra la tradizione dei commediografi latini e della tradizione boccacciana, percepita come uno straordinario serbatoio di vicende drammaturgiche. La cultura cortigiana non è però caratterizzata da una scelta stilistica di elaborata letterarietà, ma all’interno dell’ambiente di corte domina il gusto della varietà, del contrasto. A fianco di rappresentazioni di commedie latine e di commedie italiane, troviamo anche la diversa spettacolarità mimico-gestuale di buffoni, giocolieri, mimi, danzatori e performers che agiscono in gruppo o come solisti, inventando talvolta dei personaggi, delle vere maschere teatrali. Niccolò Campani, detto lo Strascino, è la figura più nota di una realtà senese diffusa nel primo trentennio del secolo, fatta di piccoli intellettuali di modesto livello culturale che amano scrivere e recitare tutta una ricca gamma di testi teatrali: commedie rusticane, commedie cittadine e commedie pastorali. In questi autori senesi c’è un’ampia velleità di scrittura e di sperimentazione linguistica, ma la novità più significativa è nella direzione della commedia rusticana o commedia alla villanesca. Nel Medioevo nasce e si prolunga fino al Cinquecento, una violenta polemica contro i contadini, i villani (abitanti della villa, del contado), che ha radici economiche, che affonda nel contrasto città-campagna, da cui deriva una ricca produzione letteraria, cui si da il nome di satira antivillanesca. L’area senese del primo trentennio del Cinquecento si specializza nella definizione del personaggio teatrale del villano, presentato come grossolano, bestiale e maligno. Il Campani impone con grande successo nella scena cortigiana proprio questo personaggio, che viene molto apprezzato. La diffusione di questo genere conferma il pieno apprezzamento che al corte ha anche della spettacolarità bassa, accanto a quella alta. Fuori dalla rete delle corti centro- settentrionali, il gusto del teatro si diffonde con un certo ritardo e a Venezia, dove appunto non c’è una corte ma un sistema oligarchico, il teatro è percepito come una potenzialità trasgressiva. Il motore trainante è rappresentato dalle Compagnie della Calza, che si preoccupava di organizzare eventi ludici e festivi, per le ricorrenze del carnevale o per onorare l’arrivo di personaggi illustri a Venezia. Spesso sono gli stessi patrizi che recitano da dilettanti e accanto a loro troviamo giocolieri, buffoni e professionisti del teatro. L’ambiente veneziano si apre, sia pur lentamente, all’intera gamma della spettacolarità primo-cinquecentesca: alle pastorali, alle commedia alla villanesca della tradizione senese. Si consuma teatro, su invito, nelle case patrizie della Compagnia della Calza, ma anche, a pagamento, in altre sale aperte a un pubblico più variegato. In questo ambiente di varietà di stili spettacolari rappresentato dalla Venezia degli anni Venti si impone l’astro del padovano Angelo Beolco, detto Ruzante, il quale scrive in dialetto padovano e recita i suoi testi che presenta spesso a Venezia. Secondo le ricerche biografiche più recenti, il Ruzante era un agiato borghese, dotato di una certa cultura, operante come uomo di fiducia del ricco latifondista Cornaro. Nella sua prima commedia, la “Pastoral” (1517/1518), non troviamo troppa differenza rispetto alle molte pastorali del tempo, nelle quali il contadino è inserito come elemento di disturbo degli amori fra pastori e ninfe, con effetti puramente comici. Il Beolco tende a creare una commedia contadina accanto alla commedia dei pastori, ma il processo non è portato sino in fondo e il personaggio contadino non riesce ancora ad affermarsi come tale. Molti tratti in cui è rappresentato il Ruzante della “Pastoral” ricordano la satira antivillanesca, a cominciare dalla scelta del nome per finire con il motivo della fame: ingordigia che suscita il riso, anziché la comprensione e il compatimento. Lo stesso discorso può ripetersi in parte per la seconda opera, la “Betìa” (1524 circa), che affonda le sue radici nella tradizione pavana quattrocentesca dei “mariazi” (componimenti dialogati corrispondenti ai “contrasti”, combinati però con l’occasione esterna di una cerimonia nuziale). Anche qui manca una profonda adesione al mondo contadino, e c’è un interesse di tipo folclorico. Il contadino vale come mezzo di una polemica che lo travalica e che si colloca propriamente nel mondo colto. La “Betìa” sta comunque al termine della prima stagione del Beolco. Sia essa sia la “Pastoral” sono ancora scritte in versi, mentre tutta la restante produzione sarà in prosa. C’è insomma una certa partenza del Beolco in termini sostanzialmente letterari, anche se con tendenza a fare una letteratura antiletteraria e antiaccademica. Con i due dialoghi “Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo” e “Bilora” e la commedia “Moschetta”, che sono degli anni 1529-1530, si ha invece veramente un superamento di questo contegno inizialmente parodistico nei confronti della realtà contadina. L’esperienza della carestia fece precipitare e condensare quegli spunti di simpatia filo contadina emergenti, al di sotto della caricatura, nelle prime due opere. Il contadino non è più uno strumento per una polemica che lo travalica, ma diventa personaggio autonomo, protagonista. Beolco mette allo scoperto le contraddizioni del quadro sociale, il rapporto di sfruttamento e di alienazione chela città ha nei confronti della campagna. Il “Parlamento” consiste quasi interamente nella parlata del villano Ruzante reduce dal campo militare. È la tragedia del villano che va in guerra per arricchire, per sfuggire al suo destino di miseria e di fame, e ritorna più miserabile e stracciato di prima, pieno di pidocchi e di paura per l’esperienza vissuta. La stessa impostazione è nel dialogo “Bilora”, in cui il contadino eponimo arriva in città per riprendersi la moglie, Dina, che gli è stata portata via da un vecchio mercante veneziano, messer Andronico. La tensione teatrale si accende nel contrasto fra i due uomini. Il villano beolchiano è in continuo stato di eccitazione, necessaria per superare gli scacchi della vita; il suo “parlamento” è costantemente saturo di immagini di violenza e di vendetta contro tutto e tutti. La “Moschetta” segna invece già un certo qual superamento della fase di maggiore adesione al mondo contadino, rappresentata appunto dai due dialoghi. Il Ruzante della “Moschetta” è già in qualche modo integrato nella realtà cittadina, anche se rigettato ai margini della vita associata, a livello di sottoproletariato che vive di espedienti. La “Moschetta”, con i suoi 5 atti e il suo taglio da commedia regolare, segna indubbiamente il passaggio all’ultima fase della produzione beolchiana, quella dichiaratamente classicheggiante. Il villano perde la sua carica e la sua pienezza umana e sociale, e tende a trasformarsi nella figura tradizionale del servo astuto. In questo presagire la Commedia dell’Arte, il teatro del Beolco non potrebbe terminare meglio: il villano ha ormai perso per sempre la propria vitalità umana e sociale e si è irrigidito nella maschera del personaggio dell’Arte. Se Angelo Beolco è l’esempio più alto di commedia villanesca, la commedia villanesca non è però solo Beolco. A Siena sin dai primi anni del Cinquecento si coagula e si solidifica una tradizione che utilizza, sia pure all’interno di un’offerta drammaturgico-attoriale più ampia e diversificata, proprio la figura del personaggio contadino, svolto ovviamente in chiave di satira antivillanesca. E a Siena, nel 1531, si ha la costituzione di una precisa associazione di attori-autori dilettanti che incentra il proprio lavoro entro questo stesso orizzonte rusticano: la Congrega dei Rozzi. Il villano, che nei Pre-Rozzi deve dividere il palcoscenico con pastori e cittadini, conquista qui centralità scenica, autonomia di rappresentazione. Il che non significa affatto che ci sia, da parte dei Rozzi, uno sguardo di simpatia verso il mondo contadino. Per Pre-Rozzi e Rozzi, il punto di partenza è sempre la tradizionale satira antivillanesca (a Siena c’è una peculiarità di situazione che aggrava la consueta contrapposizione città-campagna), ma l’aver assunto il mondo contadino come centro unico del proprio interesse drammaturgico porta a esiti divergenti rispetto ai Pre-Rozzi. Nei Rozzi il senso dell’associazione artigiana guida a una polemica differenziazione rispetto all’alta borghesia proprietaria di terre nel contado. Sicché il villano è suscettibile di farsi portavoce delle insofferenze dell’artigianato urbano verso la classe dirigente. Anche a Firenze il teatro si diffonde relativamente tardi. La storia di Firenze non presenta la realtà forte di un’istituzione principesca, l’istituzione repubblicana si alterna con la presenza dei Medici e non è possibile parlare di una “corte medicea”, simile a quelle che troviamo a Ferrara, Mantova, Urbino, Roma. Dove manca un’organizzazione principesca dello Stato, non si apre la scena cortigiana e più resistente è il legame con l’associazionismo cittadino di impianto consortile e corporativo. La spettacolarità fiorentina del primo trentennio del secolo appare innestata nelle consuetudini municipalesche, societarie e conviviali, di cui figura emblematica è l’”araldo”: attore-autore di un teatro ancora informe, fatto di cantari, di frottole, di esposizioni di novelle, prima ancora che di veri e propri testi drammaturgici, dove il segno prevalente non è quello della scrittura bensì quello dell’oralità. Le “compagnie di piacere” sono sodalizi che riuniscono artigiani, artisti e ricchi popolani, ma anche esponenti dell’oligarchia politico-culturale fiorentina e i più rinomati intrattenitori e attori del tempo. Queste compagnie svolsero a Firenze una fondamentale opera di organizzazione e promozione teatrale, sostituendosi al vuoto di iniziative provocato dall’assenza di una corte medicea. Se a Venezia è la scena villanesca che si impone grazie alla fervida originalità linguistica e attorica di Angelo Beolco, a Firenze, sotto la spinta travolgente di quell’autentico capolavoro che è la “Mandragola”, sembra piuttosto affiorare il motivo di una “scena cittadina”. Machiavelli, con il suo teatro, interviene sulla contemporaneità. Le due commedie (“Mandragola” e “Clizia”) sono due maniere
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