Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

LA FALSA INIMICIZIA. GUELFI E GHIBELLINI NELL'ITALIA DEL DUECENTO DI PAOLO GRILLO, Sintesi del corso di Storia Medievale

RIASSUNTO COMPLETO ED ESAURIENTE DEL LIBRO DEL PROF PAOLO GRILLO DI STORIA MEDIOEVALE

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 05/07/2019

elimontra
elimontra 🇮🇹

4.4

(64)

5 documenti

1 / 12

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica LA FALSA INIMICIZIA. GUELFI E GHIBELLINI NELL'ITALIA DEL DUECENTO DI PAOLO GRILLO e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! LA FALSA INIMICIZIA. GUELFI E GHIBELLINI NELL’ITALIA DEL DUCENTO. di PAOLO GRILLO INTRODUZIONE “Guelfi” e “ghibellini” sono due termini nati negli anni quaranta del duecento in Toscana e divennero di uso generale presso i cronisti di tutta Italia diversi decenni dopo. Prima di queste date si parlava con maggiore precisione di “parte della chiesa” e “parte dell’impero”. E’ probabile che i termini guelfi e ghibellini abbiano avuto origine dall’aspra contesa per il controllo della corona imperiale svoltasi tra il 1212 e il 1215 tra Federico II di Svevia, appoggiato da papa Innocenzo III, e Ottone di Brunswick, Ottone infatti discendeva dal duca Guelfo (welf) di Baviera; a sua volta Federico apparteneva alla casata di Svevia il cui castello era Weiblingen (ghibellino in italiano). Dobbiamo invece ai fiorentini il loro battesimo per definire proprio i membri della cittadinanza che parteggiavano per il papa o viceversa per l’imperatore. E quest’uso, per circa un ventennio, rimase un’esclusiva toscana. Finchè il cronista Andrea Ungaro nel raccontare la battaglia di Benevento del 1266 sdogana i due termini conferendo loro un valore generale valido per l’intera penisola. CAPITOLO 1 LA NASCITA DELLE PARTI (1236-1250) Nel marzo del 1239 papa Gregorio IX scomunicò l’imperatore e re di Sicilia Federico II accusato di tentare alla libertà della chiesa. Si era giunti alla rottura definitiva tra papa e imperatore in una escalation di violenze verbali e fisiche. Dopo la morte di Gregorio IX nel 1241 gli succedette Innocenzo IV che evitò di essere catturato dall’imperatore rifugiandosi a Lione da dove lo scomunicò nuovamente. Lo scontro, prevalentemente verbale tra papa e imperatore si intrecciava strettamente alla guerra che si combatteva negli stessi anni nell’Italia settentrionale tra Federico II e le citta a lui alleate contro i comuni che intendevano difendere la propria autonomia, raggruppati attorno a Milano e appoggiati dal pontefice. Il conflitto armato era iniziato nel 1236 quando Federico ottenne una grande vittoria a Cortenuova (BG). Per incoraggiare la resistenza milanese il papa Gregorio IX inviò a Milano un suo ambasciatore, Gregorio di Montelongo e grazie alle sue abilità fu possibile fermare altre offensive di Federico II contro Milano. Le due parti si trovarono ad affrontare una lunga guerra d’attrito destinata a prolungarsi altri 12 anni fino alla morte di Federico nel dicembre del 1250. Una guerra così lunga era destinata a portare profondi mutamenti anche all’ interno delle comunità urbane. La neutralità era impossibile: era necessario schierarsi con una parte o con l’altra. Le decisioni nelle città venivano prese dalla volontà popolare attraverso le assemblee, quindi la chiesa e l’impero cominciarono ad utilizzare tutte le loro risorse per influenzare tali decisioni. Una clamorosa novità veniva introdotta nella vita politica della città: opporsi al governo in carica, nel centri dello schieramento filofedericiano, diventava opporsi direttamente all’impero sicchè si cadeva nel reato capitale di alto tradimento, che comportava la morte e il sequestro dei beni. Non andava meglio ai prigionieri di guerra anch’essi visti come traditori da condannare. Negli anni successivi Federico divenne sempre più sospettoso e in molte città fece cacciare o uccidere molti persone sospettate di essere oppositori. Nel campo della chiesa invece l’attacco agli avversari politici avvenne in forme assai diverse anche se non meno efficaci. La chiesa cioè decise di agire all’interno e non al di sopra della società comunale, persuadendo più che obbligando i governi cittadini ad assumere un atteggiamento a lei favorevole; per far ciò essa disponeva di un efficace sistema di pressione, rappresentato dalla rete dei conventi dei frati Minori e dei frati Predicatori che giravano nelle città di Piemonte, Lombardia ed Emilia riuscendo a raggiungere anche gli strati più popolari della città.; inoltre un’attenzione speciale veniva riservata alle donne. La predicazione si rivelò molto efficace, tanto che nel 1239-40 Federico II si trovò obbligato a espellere tutti i frati dal regno di Sicilia. Nelle città del centro nord non era però possibile fare altrettanto e l’azione dei frati costituì un continuo fattore di instabilità per il potere imperiale. L’azione della chiesa però non si limitava all’attività dei predicatori ma agiva anche direttamente tramite i suoi delegati nelle città. A Milano ad esempio il già citato ambasciatore pontificio Gregorio di Montelongo fu molto attivo in ambito politico e militare: promosse anche una riforma fiscale volta a ripartire più equamente le tasse. Il più clamoroso successo di papa Gregorio IV fu il cambiamento di fronte del comune di Vercelli a cui venne promesso l’uso dei terreni che la chiesa possedeva nei dintorni. Un grande strumento di intervento nei comuni era la possibilità per il papa di condizionare le nomine dei vescovi. Come già accennato i 15 anni di guerra che imperversano in tutta l’Italia centro-settentrionale non permisero a nessuna città di restare neutrale. Rispetto al passato però i conflitti politici e sociali nella seconda metà del duecento divennero sempre più gravi a causa del legame con il conflitto fra chiesa e impero. Gli oppositori al governo in carica vennero sempre meno tollerati, chi non era d’accordo con le scelte politiche del comune dunque, veniva escluso dalla comunità civica e doveva lasciare la città e rifugiarsi altrove, per diventare un “fuoriuscito” o “bandito”. I nobili si rifugiavano su castelli a altri edifici fortificati dove accoglievano i loro seguaci e amici. I fuoriusciti di parte imperiale potevano aggregarsi all’esercito di Federico II e seguirlo nel suo peregrinare per l’Italia. Significativo è quanto avvenne quando Como prese posizione per l’impero nel 1239; allora molte famiglie di vertice legate a Milano (guelfa) da interessi politici e commerciali lasciarono la città e si attestarono presso Mendrisio (svizzera odierna) da dove cominciarono a molestare i comaschi rimasti in città. Col tempo l’uso del bando preventivo finì col diffondersi a tutte le città. I numeri dei fuoriusciti era sicuramente significativo, fino a parecchie migliaia. Per molti di loro in realtà vi fu poi la possibilità di rientrare in occasione di colpi di mano o pacificazioni, ma spesso la status acquisito prima della condanna non fu mai recuperato. Nonostante la crudezza degli scontri tra le due fazioni rivali non è possibile inquadrare in una griglia di appartenenze troppo rigida i comuni e le famiglie dell’epoca. Innanzitutto non è corretto parlare ci città “filoimperiali” o “antimperiali”, ma piuttosto di gruppi di dirigenti che orientavano in un senso o nell’altro la posizione politica comunale. Solo in alcuni centri gli schieramenti avevano una base più consolidata come nel caso di Milano (chiesa) e Pavia (impero), ma in nessun caso esistevano posizioni del tutto statiche. I mutamenti di campo erano frequenti e città come Vercelli passarono non meno di quattro volte da una posizione all’altra nel corso del conflitto. Le ambiguità insomma erano numerose soprattutto in seno alla vasta, ma estremamente composita alleanza filoimperiale dove non di rado la fedeltà della comunità era dovuta al timore dell’esercito svevo. Un caso significativo è rappresentato da Mantova. La città, inizialmente alleata con Milano, era stata obbligata a passare al fronte svevo da una dura campagna militare condotta da Federico; la scelta però non fu mai del tutto convinta finchè anni dopo la città aderì allo schieramento filopapale e prese le armi in difesa di Parma contro i suoi vecchi alleati. Nel frattempo in Veneto si estendeva sempre più il potere di Ezzelino da Romano che era diventato filoimperiale ma rivendicava una suo potere sempre più autonomo da Federico II che obtorto collo, dovette accettare e riconoscere l’autonomia del potere ezzeliniano sul Veneto: anzi per consolidare il loro rapporto gli diede in sposa una sua figlia illegittima, Selvaggia. I rapporti di forza tra i due vengono messi spietatamente il luce in una novella detta Il novellino. Se Ezzelino e Federico rimasero formalmente alleati, lo stesso non si può dire del fratello di Ezzelino, Alberico da Romano, ancora più opportunista e ondivago, tanto che dapprima si battè di fianco all’imperatore ma poi conquistò Treviso e si avvicinò allo schieramento filopapale, per poi tornare alleato col fratello dopo la morte di Federico II. Anche molti altri aristocratici italiani mantennero un atteggiamento ambiguo, cambiando schieramento anche più volte, solo per perseguire una propria coerente affermazione regionale : un atteggiamento molto pragmatico totalmente privo di riferimenti ideali o basato su grandi principi morali. CAPITOLO 2 TRA PACE E GUERRA (1250-1257) Federico II di Svevia mori il 23 dicembre del 1250, prima di compiere 56 anni. L’imperatore si spegneva da sconfitto: nel 1249-50 il fronte imperiale si sfaldò in tutta l’Italia: insofferenti verso il controllo sempre più soffocante imposto dall’imperatore, molte città fino a quel momento filosveve mordevano il freno. In molti casi i gruppi dirigenti scelsero di cambiare schieramento e di aderire all’ormai vittoriosa parte della chiesa. Come talvolta accadde, però’, la fine della guerra portò conseguenze più favorevoli ai vinti che ai vincitori. Negli anni successivi al 1250, infatti, quasi tutte le città filoimperiali rimasero, volente o nolente, sotto il controllo dei vecchi rettori voluti dall’imperatore, mentre quelle della parte della chiesa conobbero una drammatica stagione di turbolenze, durante la quale, venuto a mancare il collante della lotta contro Federico, per due-tre anni. Anche l’Italia fu colpita gravemente e il prezzo dei cereali aumentò dappertutto. Questa situazione difficile portò alla nascita dei “flagellanti” o ”battuti”. Si trattava di un movimento religioso dai forti contenuti escatologici che predicava l’imminente abbattersi dell’ira divina sul mondo e invitava gli uomini alla penitenza e al pentimento. Segno visibile della penitenza era la mortificazione del proprio corpo tramite l’autoflagellazione pubblica. L’esperienza dei flagellanti ebbe inizio a Perugia nel 1260 dove riuscì ad imporre una pace che durò a lungo, e poi si diffuse nell’Italia centro-settentrionale, dove però non si ripetè la felice esperienza di Perugia, ma anzi i flagellanti furono manipolati dalle due fazioni. Dopo di loro in molte città si formarono delle associazioni laiche che intendevano proseguire nella ricerca della pace e che vennero chiamate “ confraternite dei Disciplinati” o dei battuti. Dal canto suo Manfredi non sembrava avesse mai preso iniziative per obbligare i suoi seguaci a trovare forme di convivenza con gli avversari politici. E anche all’interno del suo schieramento le città erano sempre profondamente divise da rivalità e interessi contrastanti. CAPITOLO 4 RE GUELFI E PAPI GHIBELLINI (1266-1282) Intanto per proteggersi da Manfredi il papa Urbano IV era alla ricerca di un appoggio esterno; nel 1263 lo trovò in Carlo d’Angiò, fratello minore del re di Francia. Personaggio ambizioso quanto coraggioso, Carlo acconsentì ad assumere il ruolo di senatore di Roma. Prima di partire volle prepararsi la strada intessendo una rete di alleanze in Lombardia e avendo già conquistato piccole città in Piemonte. Al nord intanto il fronte ghibellino era in fibrillazione: la politica espansiva di Oberto Pelacivino causava acute tensioni in tutto il settentrione. Particolarmente grave era la frattura con Milano dove Filippo della Torre era succeduto al fratello Martino; esso temeva la politica espansiva di Oberto e cercava di contrastarlo. Di questa crisi approfittò con abilità Carlo d’Angiò appoggiato prima da Urbano IV e poi, dopo la sua morte, dal suo successore Clemente IV. Nel maggio del 1265 l’Angiò arrivò a Roma via mare alla testa di alcune centinaia di uomini mentre il grosso del suo esercito procedette via terra attraverso la Lombardia, la Romagna e l’Umbria incontrando una debole resistenza: il fronte ghibellino si sfaldò senza opporre alcuna valida resistenza: Oberto Pelavicino non osò dare battaglia in campo aperto in Lombardia e lasciò passare l’esercito nemico. Nel febbraio 1266 l’esercito di Manfredi fu disastrosamente sconfitto a Benevento e il re di Sicilia in persona cadde mentre guidava i suoi uomini in un ultimo disperato assalto. Con questo trionfo Carlo d’Angiò rimaneva padrone del regno di Sicilia. Almeno per il momento. La vittoria di Carlo risolleva alcuni problemi per il papato ma ne poneva altri. Il nuovo re di Sicilia aveva grandi ambizioni e fin dall’inizio si era scontrato con papa Clemente IV. Dopo la battaglia di Benevento l’esercito angioino a corto di viveri e di denaro si era dato al saccheggio sistematico delle campagne e Clemente rimproverò con toni aspri Carlo. Soprattutto il papa non voleva che alla minaccia sveva si sostituisse quella angioina e cercò in tutti i modi di stemperare il potere di Carlo. Per questo motivo lanciò una poderosa offensiva diplomatica nell’Italia centro-settentrionale. In seguito però Clemente, venuto a sapere che dalla Germania Corradino stava pensando di scendere in Italia, cessò di opporsi al re affidandogli l’incarico di pacificare la Toscana. Poco dopo l’Angiò si autoproclamò vicario di tutta la Toscana e Clemente IV dovette obtorto collo riconoscerne il dominio sulla regione. Nel settentrione invece l’iniziativa pontificia ebbe invece risultati migliori, anche perché Oberto non era più una era minaccia: ormai aveva settant’anni, il suo unico erede legittimo maschio era ancora un bambino; non oppose quindi resistenza al papa e si ritirò nei suoi castelli dove morì. Insomma fallimentare in toscana l’offensiva diplomatica ebbe pieno successo al nord dove molte città si schierarono dalla parte della chiesa senza accettare il dominio di Carlo d’Angiò. Questo ebbe una grandissima importanza nell’impedire il pieno consolidamento del potere angioino su tutta la penisola. Ma prima il papa e il re di Sicilia dovevano tornare ad allearsi per affrontare una nuova minaccia, quello di Corradino di Svevia, intenzionato a scendere in Italia, per rivendicare la corona del padre Corrado. Alcune città ghibelline come Pisa e Siena cercavano un nuovo punto di riferimento e guardarono a Corradino di Svevia, l’ultimo discendente maschio di Federico II ancora in vita. Corradino accettò il loro richiamo e scese in Italia con il suo esercito. E come era successo a Carlo d’Angiò anche il giovane principe non incontrò alcuna resistenza da parte delle città del nord Italia. Conquistò Verona, la Lombardia, e arrivò fino a Roma. Mentre rivolte a lui favorevoli scoppiavano nel sud Italia. Il papa Clemente IV lo scomunicò ma non fu in grado di opporsi alla sua avanzata. L’avventura di Corradino però si concluse tragicamente: nell’ agosto del 1268 l’esercito di Carlo d’Angiò intercettò a Tagliacozzo quello del giovane svevo che venne catturato, condannato a morte e decapitato. La vittoria di Tagliacozzo segnò la definitiva affermazione del potere di Carlo d’Angiò anche oltre il meridione .Nel nord Italia estese il proprio controllo anche in Piemonte e parte della Lombardia. La sua politica era molto spregiudicata: dove prevaleva l’aristocrazia Carlo la appoggiava, dove invece predominava il popolo, Carlo ne riconosceva l’organizzazione e le rivendicazioni. Nell ‘Italia centro- settentrionale Carlo si presentava dunque come il vero erede di Federico II e proponeva alle città un disegno politico monarchico che a prezzo di una limitazione degli spazi di autogoverno locali offriva maggior stabilità politica. Anche perché l’Italia dei comuni era un eccezione in mondo di re e imperatori, ed esisteva nelle mente dei cittadini un immaginario cavalleresco e monarchico assai diffuso che non faceva fatica a trasformarsi in un possibile modello politico; e davanti all’aumento della violenza e della radicalità dei conflitti interni e esterni alle città nel corso del duecento divenne sempre più attraente l’idea di un potere superiore che garantisse sicurezza e ordine. Carlo, comunque, a differenza del papa, non si presentò quasi mai nelle vesti di pacificatore ma sostenne la parte guelfa più intransigente e favorì la nascita di organizzazioni politico-militari di matrice guelfa e aristocratica, che presero il nome di “parti guelfe”. Soprattutto a Firenze la parte guelfa ottenne ampi poteri. In generale in tutta l’Italia comunale le tensioni tra le fazioni tornarono ad esplodere in maniera violenta. Clamoroso è ciò che accadde a Bologna nel 1274. Fino ad allora la comunità era rimasta compatta nella sua fedeltà alla chiesa; in quegli anni però iniziarono gravi contrasti tra famiglie guelfe e ghibelline. Dopo il prevalere della parte guelfa moltissimi cittadini, si parla di oltre il 20% della popolazione di parte ghibellina che fu costretta ad abbandonare la città. Una parte di questa, sotto la guida della famiglia dei Lambertazzi, riuscì a sconfiggere pesantemente la parte guelfa; alla fine di tutto ciò il dominio di Bologna sulla regione ne uscì distrutto e il comune si assoggettò a Carlo d’Angiò. Insomma Carlo d’Angiò sembra aver perseguito una strategia politica volta a mantenere una continua tensione sulle città centro-settentrionali, favorendo solo una parte della cittadinanza. Questo suo atteggiamento però, benchè vantaggioso nel breve termine, finì per isolarlo diplomaticamente e soprattutto con il rivolgergli contro il papa stesso che non vedeva di buon occhio che una potenza esterna potesse controllare tutta la penisola e condizionare le scelte della santa sede. Dopo la morte di Clemente IV venne nominato dopo un lungo periodo Gregorio X, che cercò di pacificare la situazione nelle città italiane, ma Carlo stesso fece fallire le sue iniziative. Il papa, molto adirato, reagì facendo eleggere alla corona imperiale un suo uomo di fiducia: Rodolfo, duca di Asburgo. La morte però colse improvvisamente il papa, impedendo la realizzazione del suo piano. Gregorio X ha ottenuto la fama di papa “ghibellino” dato che ad un certo punto preferì allearsi con l’imperatore Rodolfo, piuttosto che con il re di Sicilia. Ma se guardiamo dal punto di vista opposto, era piuttosto Rodolfo ad essere un aspirante imperatore “guelfo” dato che era stato eletto con l’esplicito appoggio e la benedizione del pontefice, mentre avverso al papa era Carlo d’Angiò. Ancora una volta le nostre etichette preconfezionate si rivelano inutili per comprendere il reale svolgimento della lotta politica nell’Italia duecentesca. Nel 1275 il quadrò politico precipitò a causa dell’intervento militare di Alfonso X di Castiglia, che continuava a rivendicare la corona imperiale ed era intenzionato a proporsi come referente politico degli oppositori di Carlo. Sbarcò quindi a Genova e con un proprio esercito conquistò gran parte delle città piemontesi e sconfisse i Della Torre, i signori di Milano, nella battagli di Desio (!). Il collasso del predominio angioino in Piemonte e Lombardia non sono di solito presi in considerazione dai biografi di Carlo d’Angiò, ma rappresentarono sicuramente una premessa importante alla rivolta dei Vespri, dato che rivelarono la debolezza del re e lo privarono di importanti appoggi nel settentrione. La crisi angioina si estese anche alla toscana: a Firenze scoppiò un conflitto aperto fra i guelfi fedeli al papa e quelli fedeli a re. Carlo, ormai sconfitto su troppi fronti, non fu dunque in grado di opporsi efficacemente alla rivolta della Sicilia. I cosiddetti “Vespri siciliani” furono una serie di rivoluzioni urbane che iniziate a Palermo e conclusesi a Messina nel 1282, portarono alla completa cacciata degli angioini dall’isola. Una delle cause fu che la Sicilia aveva preso male il fatto che il re risiedesse quasi sempre nel continente e avesse fatto di Napoli la sua capitale a danno di Palermo. Le città siciliane cercarono l’appoggio del papa che rifiutò di intervenire; allora per reazione si rivolsero ai re iberici di Aragona che risposero prontamente all’appello facendo intervenire l’esercito. L’intervento di Pietro di Aragona (spagnolo) portò alla scoppio di un durissimo conflitto fra il regno iberico e quello angioino, destinato a protrarsi per un intero ventennio. Nell’Italia settentrionale però, il loro intervento fu praticamente ininfluente. La guerra ventennale che seguì la rivolta e che si prolungò fino alla pace di Caltabellotta assorbì tutte le risorse del regno angioino da un lato e della Sicilia aragonese dall’altro. E per la prima volta da decenni la parte della chiesa si trovò priva di un punto di riferimento esterno. Così come di fatto era anche la parte dell’impero almeno dai tempi della morte di Corradino. CAPITOLO 5 IL COLLASSO DEGLI SCHIERAMENTI (1282-1295) Come accennato sopra, agli inizi degli anni ottanta del duecento, i due schieramenti guelfo e ghibellino rimasero privi di punti di riferimento politici e militari sovralocali. Anche il valore intrinseco del nominarsi guelfi o ghibellini per accedere ad alleanze su scala internazionale, era venuto meno. U primo riscontro del rimescolamenti dei fronti avvenne a Milano. Qui si scontrarono per il controllo della città Guglielmo VII di Monferrato che si era affermato quale vero leader della schieramento ghibellino nell’Italia nord occidentale, e l’arcivescovo Ottone Visconti che alla fine ebbe la meglio. Il conflitto fra i due, entrambi teoricamente ghibellini, causò un generale rimescolamento delle alleanze in tutta la Lombardia. Nel 1285 si erano formati due schieramenti sulla base delle ambizioni di supremazia locale che andavano al di là delle posizioni ideologiche. Contro un possibile ritorno a Milano del marchese di Monferrato l’arcivescovo Ottone aveva ribaltato la sua precedente politica di alleanze e si era riavvicinato alle città guelfe della Lombardia orientale. Si crearono così due blocchi geograficamente compatti: uno a ovest di Milano, capeggiato da Guglielmo VII che includeva città come Como, Pavia, Novara, Vercelli; e uno a est che vedeva affiancate Milano, Brescia, Cremona e Piacenza. Quindi Ottone e Guglielmo che erano stati i due capi del partito ghibellino in Lombardia, ora si combattevano alleandosi l’uno agli oppositori guelfi dell’altro. Alla fine in modo inatteso, i milanesi si rifiutarono di restarsi al gioco delle alleanze, rendendo impossibile la battaglia e obbligando i loro leader a trovare un accordo! Al di fuori della Lombardia, nel corso del duecento il potere nelle città era stato conferito ad una persona esterna, il” podestà forestiero” che doveva garantire imparzialità; alcuni cominciarono a distinguersi per abilità e competenza e furono ripetutamente chiamati da un gran numero di centri urbani; si creò un circuito dei podestà guelfo e un circuito ghibellino separati tra di loro. Col venir meno dei punti di riferimento esterni negli anni ottanta del secolo, come dicevamo prima, anche questa divisione saltò, come ci può ben mostrare la vita del comasco Giovanni Lucini. Egli si era creato un eccezionale carriera come podestà, nel corso della quale fu a capo di importanti città come Milano, Firenze, Genova. Inizialmente aveva un chiaro schieramento, quello ghibellino. In seguito però ebbe un nuovo incarico a Brescia, città guelfa, e a Bologna. Ora dunque Giovanni poteva considerarsi più vicino a quello che tradizionalmente si considera il campo della chiesa. Finì addirittura a governare l’indiscussa roccaforte guelfa d’Italia, Firenze, da dove però fu cacciato pochi mesi dopo dal popolo. La ricostruzione della carriera del Lucini mette in evidenza come egli si fosse mosso con relativa indifferenza fra l’uno e l’altro dei due circuiti di alleanze, guelfo e ghibellino. Se fra Lombardia ed Emilia le identità politiche si facevano sempre più incerte, in Toscana le suddivisioni sembravano nettissime: le guelfe Firenze, Lucca, Prato, Siena si contrapponevano con forze soverchianti all’asse ghibellino composto da Pisa e Arezzo. Ancora oggi in queste città ci sono divisioni nette e ben definite che hanno origine in quell’epoca. Nonostante ciò anche qui i contorni netti finiscono per sfumare. La storia di due grandi battaglie ci aiuterà a capire. 1) Partiamo dal mar tirreno: qui da decenni Genova e Pisa si contendevano il controllo di Sardegna e Corsica. Entrambi i comuni erano ghibellini, ma rivali in ambito economico. La guerra fra Angiò e Aragona sconvolse tutto il quadro geopolitico del mediterraneo occidentale e portarono allo scoppio della guerra fra Genova e Pisa. I genovesi più numerosi e meglio schierati ottennero una schiacciante vittoria nella battaglia di Melora; Pisa sconfitta però non volle accettare le condizioni dei vincitori e continuò la guerra, A questo punto il quadro diplomatico si complicò: pur teoricamente ghibellino ,il governo genovese non ebbe scrupoli ad aprire trattative con le città guelfe nemiche di Pisa, come Firenze e Lucca, al fine di aggredire la rivale da tutti i lati; Pisa a sua volta nominò come podestà il guelfo Ugolino della Gherardesca da tempo alleato di Firenze che non tardò ad intavolare trattative con i suoi vecchi amici. Il risultato fu che Firenze si smarcò immediatamente dall’alleanza contro Pisa. Solo qualche anno dopo Ugolino fu deposto e la guerra riprese. regime “nero” era però ancora fragile all’inizio, e di questa debolezza oltre ai guelfi bianchi cercarono di approfittarne anche gli esuli ghibellini che si erano attestate alla periferia di Firenze aspettando il momento della rivincita. Ma alla fine il governo nero ebbe la meglio su tutti gli avversari. Dopo aver rafforzato le proprie posizioni in toscana ed Emilia ,il pontefice si concentrò sull’Italia padana, soprattutto su Milano. Egli non tardò a trovare un alleato nella famiglia dei della Torre, gli antichi signori di Milano, ora esuli. A Milano alla fine del duecento governava Matteo Visconti, nipote dell’arcivescovo Ottone. Matteo fece diventare vitalizia la sua carica, predisponendo la successione del figlio Galeazzo. Aveva anche accolto a Milano lo stesso Carlo di Valois. Utilizzando le categorie tradizionali Matteo Visconti avrebbe potuto essere considerato tranquillamente un alleato per il pontefice, non certo un leader imperiale. Ma le categorie tradizionali, alla fine del duecento non contavano più. Una serie di prese di posizioni politiche avevano infatti posto Matteo Visconti nel campo degli avversari del papa: ad esempio non aveva risposto all’appello del papa per la crociata contro i Colonna. Insomma il pontefice mosse contro la Milano viscontea creando nel 1302 una grande alleanza che comprendeva i della Torre e le città di Piacenza, Cremona, Lodi e Novara, quindi famiglie di tradizione sia guelfa che ghibellina, rimescolando ancor auna volta le alleanze. Di fianco a Milano rimase solo la guelfissima Parma. L’esercito alleato entrò a Milano, dove il popolo si ribellò a Matteo, rendendo impossibile qualsiasi resistenza. Matteo e suo figlio Galeazzo presero la via dell’esilio, a Milano si ricostruì un comune autonomo e i della Torre furono invitati a rientrare. La caduta di Milano sembrò così segnare il trionfo di Bonifacio: quasi tutta l’Italia settentrionale si era allineata sulle sue posizioni e gli resistevano solo poche città, come Verona, Mantova e Brescia. I banchieri toscani e i della Torre cominciarono a collaborare tra di loro scambiandosi favori e finanziamenti, cementando così la stretta alleanza fra il blocco nero toscano e lombardo. Nel 1203 però la drammatica situazione del fronte avverso a Bonifacio migliorò, soprattutto grazie ai cambiamenti del quadro internazionale. I rapporti fra il pontefice e re Filippo il Bello di Francia andavano infatti rapidamente peggiorando. Nel nord Italia intanto si consumò la frattura fra Piacenza e i della Torre. Anche in altre città dell’Emilia il fronte “bianco” rialzò la testa e cerco di organizzare un contrattacco: a Milano Matteo Visconti con un gruppo di fuoriusciti tentò un colpo di mano. Anche nel centro Italia ci furono scontri fra Bologna e Firenze. A questi eventi Dante non partecipò. Quasi certamente infatti nei primi mesi del 1303 egli si era recato a Verona quale ambasciatore del fronte avverso a Bonifacio. L’Alighieri era un ottimo candidato per compiere la missione anche perché poteva contare su conoscenze in grado di intercedere a suo favore. Non conosciamo gli esiti finali della missione diplomatica, Dante però in seguito si dedicò ai suoi nuovi progetti letterari. Nel frattempo un messo de re di Francia con piccolo drappello di armati scese ad Agnani e catturò il papa; l’episodio è tanto noto quanto sopravvalutato, perché in meno di tre giorni la situazione si ribaltò, quando la popolazione di Agnani prese le armi e mise in fuga gli aggressori, liberando il pontefice che fu portato in trionfo a Roma. Ma un mese dopo, a ottant’anni, Bonifacio VIII mori. Il suo successore Benedetto XI non ne condivideva le scelte nella politica italiana. La scomparsa di Bonifacio sembrò aprire un periodo di grave crisi per il governo di Firenze, e fra gli stessi “neri” scoppiò un grave conflitto intestino; in questo contesto sembrava ormai possibile un crollo del regime “nero”, cosicchè Dante si affrettò a ricongiungersi agli altri esuli “bianchi” al servizio dei quali si pose come cancelliere. Benedetto XI nel frattempo si era legato strettamente ai Cerchi, il cui aiuto aveva richiesto per gestire le finanze della Curia, e cercava quindi di farti tornare a Firenze, a danno dei vecchi alleati di Bonifacio VIII. Insomma ancora una volta le scelte pratiche ignoravano la coerenza ideologica: Benedetto XI era stato eletto per proseguire la politica di Bonifacio VIII, ma in realtà operava per rovesciare il governo fiorentino imposto da quest’ultimo. Per abbattere il regime guelfo “nero”, il rappresentante pontificio favoriva in teoria i “bianchi”, ma questi si erano ormai da due anni legati così strettamente ai ghibellini che alle fine erano come un gruppo unico. Un esercito di 10.000 uomini avanzò verso Firenze ma la spedizione si risolse in una disfatta (battaglia della Lastra). Dante non partecipò alla battaglia e nei mesi seguenti prese atto che orami le speranze dei “bianchi” di rientrare a Firenze con le armi erano scomparse. Nel 1310, dopo sessant’anni d’assenza, un imperatore eletto si affacciava di nuovo sulla penisola, con l’ambizione di riportarla sotto il suo dominio. Alla discesa di Enrico VII che giungeva con l’appoggio del papa Clemente V le carte si rimescolarono ancora. Contro l’imperatore, rivendicando a tal fine l’etichetta di “guelfi”, si schierarono quei centri dove ancora prevaleva il partito fedele alla memoria di Bonifacio, come Firenze, Bologna e Padova, ostili a Clemente ed Enrico. Con quest’ultimo, in una composita alleanza ghibellina, stavano famiglie e città di antica fedeltà imperiale, come Verona, guelfi bianchi e addirittura anche guelfi del campo “nero”. La partizione della società fra “guelfi” e ghibellini perdurò almeno fino alle guerre d’Italia, ma si trattava ormai di nomi tradizionali, che non avevano più nessun significato ideologico. I “guelfi” e i “ghibellini” del Tre e del quattrocento non avevano più nulla da spartire con le originarie “parte della chiesa” e “parte dell’impero”. CONCLUSIONI Come abbiamo visto le dichiarazioni di fedeltà all’impero o alla chiesa coprivano una realtà politica e una prassi diplomatica assai più elastiche e duttili, e alleanze venivano motivate da situazioni particolari. Il guelfismo e il ghibellismo prendevano consistenza quando qualcuno aveva interesse ad alimentarne la contrapposizione. In particolare le due fazioni erano utili a creare e giustificare ampi coordinamenti su scala nazionale; proprio l’importanza dei legami sovracittadini fece si che la quasi totalità dei comuni finisse con l’aderire almeno formalmente, all’uno o all’altro degli schieramenti, che prendevano concretezza anche attraverso lo scambio di podestà fra i centri che aderivano a uno stesso “circuito”. Si tratta dunque non di blocchi monolitici, ma di assemblaggi spesso fluttuanti e dai labili confini. Il collasso degli schieramenti dopo il 1282 ne dimostra la fragilità e che essi dipendevano dalla presenza di potenze esterne al mondo comunale attorno alle quali dovevano coagularsi alleanze più ampie e stabili. L’adesione ad una parte rappresentava per le famiglie dirigenti una fonte di legittimazione. Ad esempio a Verona, i signori locali della Scala giustificarono il loro potere presentandosi come i più coerenti rappresentanti della tradizione imperiale e costruendosi attorno una coorte in seno alla quale veniva esaltati i valori cortesi e cavallereschi attraverso tornei e opere letterarie. A Pisa si costruì una continuità ghibellina della città che passava da Federico II a Corradino e culminava nell’essere la tomba di Enrico VII. Specularmente a Firenze non fu possibile essere un bravo cittadino senza essere un buon guelfo, in base alla piena adesione della comunità ad una ideologia concretamente cementata dai rapporti economici fra le grandi società bancarie locali e la curia romana. Si trattava però di eccezioni: la maggior parte dei centri urbani oscillò tra i due schieramenti, senza connotarsi in maniera univoca. La divisione in parti servì dunque soprattutto alle forze politiche interne. Come abbiamo visto non esisteva una solo maniera di pacificare una città, ma almeno tre: si potevano infatti sopprimere le fazioni, cercare di farle convivere, oppure farne prevaler una eliminando le altre. Proprio la terza fu quella più frequentemente ricercata dai partiti popolari. In molti comuni oltre all’adesione al partito dominante si chiedeva anche una giusta collocazione sociale, che escludeva i nobili troppo ricchi e potenti ma anche i troppo poveri e coloro che non avevano un’occupazione stabile. Nei decenni a cavallo fra Due e Trecento i comuni a regie popolare organizzavano grandi repulisti allontanando a forza vagabondi, prostitute, giocatori d’azzardo e più raramente, ebrei. La piena cittadinanza divenne così un privilegio che i gruppi dirigenti urbani potevano arbitrariamente concedere o ritirare. E evidente però il rovescio della medaglia: se il comune finiva con l’identificarsi con una fazione politica omogenea, il senso di appartenenza a uno schieramento poteva finire col prevalere su quello di fedeltà alla propria città per chi si trovava ad essere membro della parte sconfitta. Questo portò ad una crescente asprezza degli scontri, ad un aumento della violenza. I fuoriusciti erano parificati ai traditori, sicchè quando si giungeva allo scontro aperto, spesso non vi era pietà per gli sconfitti, uccisi direttamente sul campo. Questa opposizione rigida tra gli schieramenti fu probabilmente la conseguenza delle fratture originatesi durante la guerra fra i comuni e Federico II. La conseguenza fu che le città italiane dell’epoca si avviavano ad essere sempre più chiuse, meno libere e meno accoglienti. CITTA’ GHIBELLINE: PARMA, PAVIA, PISA, VERONA, CREMONA CITTA’ GUELFE: MILANO, FIRENZE, BOLOGNA, PIACENZA SEQUENZA DI PAPI: GREGORIO XI, INNOCENZO IV, ALESSANDRO IV, URBANO IV CLEMENTE IV GREGORIO X CLELESTINO (dimesso) BONIFACIO VIII BENEDETTO XI CLEMENTE V
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved