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La falsa inimicizia (guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento), Grillo, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del volume "La falsa inimiciza, guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento"

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 16/08/2021

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Scarica La falsa inimicizia (guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento), Grillo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento - Paolo Grillo Introduzione 1212-1215 Contesa per il controllo della corona imperiale tra Federico Il di Svevia, appoggiato da papa Innocenzo III e Ottone IV di Brunswick. Ottone discendeva dal duca Guelfo (Welf) di Baviera; il castello avito della casata di Svevia era Weiblingen (ghibellino, in italiano). 1240 Non risulta che i due fronti abbiano mai utilizzato i termini guelfo e ghibellino per identificarsi. A partire dagli anni 40 del Duecento in Toscana sono nati questi termini, mentre prima si parlava di parte della Chiesa e di parte dell'Impero. 1272 Per poco più di vent'anni esse non valicarono il confine con la Toscana. Fu il cronista angioino Andrea Ungaro, nella sua narrazione della battaglia di Benevento, composta intorno al 1272, a conferire ai due termini un valore generale. - Non è vero che nel Duecento italiano tutta la vita si organizzasse intorno a tale polarizzazione. No artificiale bipolarismo politico: l’idea guelfa e quella ghibellina rappresentavano elementi identitari che andarono sempre più consolidandosi nella cultura politica del tempo, ma che non furono mai davvero cogenti nel determinare l'agire di chi vi aderiva. Ad esempio, nonostante le cronache definiscano guelfo o ghibellino questo o quel podestà, i podestà cambiavano spesso le città con cui parteggiavano per favorire l'interesse locale, la solidità della città, a seconda delle vicissitudini, del prevalere dell’una o dell'altra fazione. Inoltre, è falsa la continuità tra i conflitti precedenti e quelli accesisi nelle città italiane durante la guerra tra Federico Il e il papato. Prima vi erano appunti più di due poli o schieramenti. - Non è vero che le rivalità tra i centri vicini portassero necessariamente all'adesione a schieramenti opposti e che queste contrapposizioni permanessero immutabili. Ad esempio, Firenze divenne guelfa nel 1250 e si contrappose alla ghibellina Siena fino al 1260. Dal 1260 al 1266 Firenze e Siena appartennero entrambe allo schieramento filoimperiale e passarono a pochi anni di distanza alla pars ecclesiae. Le ambiguità e i mutamenti erano numerosi soprattutto in seno alla alleanza filoimperiale, dove non di rado la fedeltà delle comunità era dovuta al timore dell’esercito svevo e delle possibilità di rappresaglie. - Non è esatto parlare di città filoimperiali o antimperiali, ma piuttosto di gruppi dirigenti che orientavano in un senso o nell'altro la posizione politica comunale. Capitolo 1 La nascita delle parti (1236 - 1250) Il 20 marzo 1239 papa Gregorio IX scomunicò l’imperatore e re di Sicilia Federico II, accusato di attentare alla libertà della Chiesa. Si era così giunti alla rottura definitiva tra imperatore e papa. Dopo la morte di Gregorio IX, nell'agosto del 1241, e dopo il brevissimo pontificato di Celestino IV (17 giorni), fu eletto Innocenzo IV. Una squadra di navi genovesi riuscì a portare il pontefice in Francia, dove si pose sotto la protezione di re Luigi IX. L'imperatore reagì nel 1246 radunando in Piemonte un esercito destinato a valicare le Alpi e a marciare su Lione, ma il peggioramento della situazione militare in Lombardia gli impedì di distogliere quelle forze dal settore. Nell’Italia centro-settentrionale, infatti, c'era una guerra tra Federico Il e le città a lui alleate e i comuni che intendevano difendere la loro autonomia, raggruppati intorno a Milano e appoggiati dal pontefice. Il conflitto armato era iniziato nel 1236 quando Federico aveva arruolato alcune migliaia di cavalieri tedeschi ed era sceso in Italia conquistando Padova, Treviso, Vicenza, Mantova, ma non riuscendo a prendere Milano, con cui iniziò un'interminabile guerra. UFFICIALI vs FRATI L'Impero considerava i fuoriusciti e i prigionieri di guerra come traditori da condannare (non come avversari politici o nemici militari). A prendere l'iniziativa e, la maggior parte delle volte, a mandarli a morte erano gli ufficiali nominati da Federico alla guida delle città, mentre la Chiesa decise di agire dall'interno (non al di sopra della società comunale), persuadendo, più che obbligando. Essa disponeva di un efficiente apparato di pressione formato dai frati domenicani e francescani. SCRITTURA vs ORALITA' La propaganda imperiale, affidata all'eccellente penna di Pier delle Vigne si affidava quasi esclusivamente alla parola scritta e di conseguenza si rivolgeva alle elites italiane e europee. AI contrario la Chiesa, da un lato replicava con altrettanta verve retorica grazie ai letterati della Curia, dall'altro i frati predicavano nelle chiese e nelle piazze arrivando alla massa della popolazione urbana. Nelle parole dei frati l'imperatore era parificato al capo di una setta e i suoi seguaci erano trattati come eretici. La predicazione si rivelò particolarmente efficace tanto che Federico fu costretto ad espellere tutti i francescani dal Regno di Sicilia. | pontefici agivano anche direttamente, tramite i loro delegati, per indurre i comuni a schierarsi nel loro campo. Per esempio, nel 1238 papa Gregoria IX aveva inviato in Lombardia Gregorio da Montelongo, plenipotenziario che fu capo militare, rappresentante diplomatico e ispiratore religioso. > Grazie a abilità retorica, uso spregiudicato dei temi religiosi, azione diplomatica alternata alle campagne di guerra, la chiesa e i suoi alleati sconfissero la forza militare di Federico. Capitolo 2 Fra pace e guerra (1250-1257) La morte di Federico nel 1250 seguì a ripetute sconfitte e defezioni. Molti passarono al fronte vincente. La fine della guerra però, come talvolta accade, portò conseguenze più favorevoli ai vinti che ai vincitori: quasi tutte le città imperiali rimasero, volenti o nolenti, sotto il controllo dei vecchi rettori imposti dallo Svevo; mentre quelle da parte della Chiesa conobbero una drammatica stagione di turbolenze, durante la quale, venuto a mancare il collante della lotta contro Federico, i terribili costi delle guerre sostenute finirono col creare una grave instabilità interna ed esterna. Il pontefice, a seguito di tali conflitti sociali e politici, dopo la morte di Federico, interruppe la precedente politica di intransigente opposizione e si adoperò per la riconciliazione tra le fazioni. Il caso fiorentino (in cui la politica di tolleranza verso i ghibellini non limitava la convinta adesione di Firenze al fronte antimperiale su larga scala) mostra che in queste operazioni di pacificazione non si cercava il superamento della divisione frazionaria (ancora forte), ma un modus vivendi il più possibil pacifico tra le parti, comunque segnato dalla prevalenza di una. In tale situazione si rendeva necessario un garante che potesse tutelare e imporre il rispetto degli accordi. In alcuni casi, come a Firenze, fu il Popolo in prima persona ad assumersi tale responsabilità, ma più spesso si andò alla ricerca di una figura autorevole, a cui spesso venivano attribuiti poteri straordinari. Di conseguenza, forse paradossalmente, la pace ancor più della guerra finiva col favorire le ambizioni di potere di singoli personaggi. | progetti di pacificazione promossi dal papa, dalle organizzazioni popolari e dai vicari imperiali ebbero nella maggior parte dei casi vita breve, dati i 15 anni di feroci conflitti ed esili. Spesso la forza esterna garante fu attirata nell'orbita di uno dei due fronti, che approfittò del fatto per riconquistare il potere. Nell’Italia settentrionale la parte imperiale, benché sconfitta sul campo, fu quella che si mostrò maggiormente compatta e si creò così consenso nei riguardi dei signori (Oberto Pelavicino o Ezzelino da Romano) che si proclamavano in qualche forma continuatori dell'esperienza sveva. In questo contesto, Corrado IV, figlio e erede di Federico II, dalla Germania poté organizzarsi e scendere in Italia. La reazione pontificia alla ripresa della parte imperiale prese la forma di una serie di iniziative armate, novità di grande rilievo in quanto fino ad allora nella penisola (non ovviamente nello stato della Chiesa) la guerra contro i fautori degli Svevi era stata lasciata a forze laiche. Nel testamento Federico Il aveva stabilito una linea di successione che privilegiava il figlio maggiore, Corrado IV, seguito da Enrico “Carlotto”, allora dodicenne e dal diciottenne Manfredi, figlio dell'amante dell’imperatore, Bianca Lancia, e tardivamente legittimato. Dato che Conrado viveva in Germania, Manfredi ottenne il governo del Regno di Sicilia come vicario. Questo privilegio gli fu concesso in quanto era l’unico dei figli ad aver stabilito un rapporto di affetto col padre. Conrado IV, il quale aveva diligentemente amministrato la Germania per conto del padre, non gradì affatto e scese in Sicilia via mare con un esercito. Sconfisse Manfredi, ma nel 1254 morì, lasciando quale erede un bimbo di due anni in Germania, tale Corradino. Dopo anni di lotta tra Manfredi e la Chiesa, Manfredi fu incoronato, ma doveva legittimare l'atto data la presenza ancora di Corradino. Inventò che il piccolo era morto, lasciando vacante il trono. Mentre Federico II, oltre che re di Sicilia era anche imperatore e in questa veste agiva contro le città centro-settentrionali, Manfredi invece aveva solo la corona siciliana e a rigore non aveva alcun interesse nei territori lui si allearono Asti, Pavia e Genova e riuscirono nel 1276 ad infliggere una dura sconfitta all'esercito angioino nella battaglia di Roccavione, presso Cuneo. In pochi mesi le località soggette a Carlo nel Piemonte meridionale si riballarono una dopo l’altra. Nel frattempo l'offensiva ghibellina si estese anche in Lombardia, dove, dopo la battaglia di Desio i della Torre (guelfi) furono imprigionati. La crisi angioina si estese anche in Toscana. Carlo, sconfitto ormai su troppi fronti non fu in grado di opporsi alla rivolta in Sicilia. | cosiddetti Vespri ani furono una serie di rivoluzioni urbane scoppiate nel 1282 che portarono alla completa cacciata degli angioini dall'isola. La Sicilia aveva accolta male che l'’Angiò risiedesse quasi esclusivamente nel continente e avesse fatto di Napoli la sua capitale, a danno di Palermo, che era stato il centro del regno normanno ed era stata oggetto di grandi attenzioni anche da parte di Federico Il e Manfredi. Le città ribelli si costituirono in comune e si sottomisero alla Chiesa, nella speranza che essa garantisse loro gli stessi ampi margini di libertà di cui godevano i centri dell’Italia centrale. Purtroppo per i rivoltosi, era papa una figura legatissima agli Angiò che rifiutò la proposta dei siciliani. Questi allora chiesero appoggio ai re iberici di Aragona che 1) in quegli anni stavano conducendo una politica di espansione nel mediterraneo centrale 2) presso la cui corte si erano rifugiati gli ultimi seguaci di Manfredi e Corradino 3) avevano un legame familiare con gli Svevi in virtù del matrimonio fra la figlia di Manfredi, Costanza, e Pietro III di Aragona. Scoppiò un conflitto tra regno iberico e angioino destinato a protrarsi per circa un ventennio, fino alla pace di Caltabellotta nel 1302. Capitolo V Il collasso degli schieramenti (1282-1295) Agli inizi degli anni Ottanta del Duecento, una serie di circostanze fece sì che i due schieramenti, guelfo e ghibellino, rimanessero privi di punti di riferimento politici e militari sovralocali. Era minato il peso politico di Carlo d'Angiò; Alfonso X era impegnato nella guerra civile scoppiata in Castiglia contro il figlio; l'emergenza del Vespro assorbì il papato distogliendolo dagli interventi in Italia settentrionale e Rodolfo non riuscì a influenzare a suo favore la Lombardia. Le alleanze, rimaste prive di un centro intorno al quale organizzarsi, finirono col destrutturarsi in una serie di rapporti di natura prevalentemente locale o regionale, spesso abbandonando le vecchie denominazioni “parte della Chiesa” e “parte dell’Impero Emblema di ciò furono i podestà. Questi esercitavano il potere esecutivo nei vari comuni ed erano chiamati sempre podestà stranieri. Con il consolidarsi dei due schieramenti si erano venuti a creare un “circuito guelfo” e un “circuito ghibellino”. Col venir meno dei punti di riferimento esterni, negli anni Ottanta questa divisione saltò e molti podestà che appartenevano a uno dei due circuiti svolsero il loro ruolo in città che erano da sempre della fazione opposta. Altro esempio di ciò fu la battaglia nel 1283 sulle secche della Meloria, tra Genova e Pisa, entrambe di fatto ghibelline, in guerra per questioni commerciali. Si creò inoltre un'alleanza tra Genova, Firenze, Lucca e altri centri minori che prevedeva un attacco contro Pisa. Paradossalmente, proprio mentre il ruolo delle ideologie guelfa e ghibellina come strumenti di coordinamento sovralocale mostrava tutti i suoi limiti, la contrapposizione interna alle città raggiungeva livelli di sistematicità e di esasperazione prima sconosciuti. Una delle ragioni della crisi delle istituzioni comunali a fine Duecento fu l'affermarsi, fallimentare, dell’idea che i conflitti, invece di venir moderati e regolati dalle autorità pubbliche, andassero eliminati alla radice, imponendo alla popolazione un assoluto conformismo politico, etico e religioso. In questo senso, il comune si rispecchiava nel fuoriuscitismo. Il quadro fu ulteriormente complicato dal dilagare delle lotte sociali tra aristocratici e popolari, che in alcuni centri emarginarono dalla vita pubblica quelle famiglie eccessivamente potenti (identificate col termine fiorentino magnati). Quindi, la crisi degli schieramenti di dimensione nazionale non portava alla tranquillità interna alle città, dato che la contrapposizione tra chi controllava il governo del comune e chi era stato costretto all'esilio non veniva per questo meno. Anzi, le case dei fuoriusciti venivano simbolicamente distrutte (come monito) e i loro beni fondiari espropriati e riutilizzati, spesso rivenduti. Una parte della cittadinanza quindi si avvantaggiava dai conflitti ed era intenzionata a conservare le ricchezze e i privilegi da essi ottenuti. Capitolo VI Il papa e il poeta Mancavano leader esterni attorno ai quali le due forze potessero organizzarsi: l'Impero era assente al panorama politico italiano, i re angioini e aragonesi erano impegnati nella lunghissima e sfibrante guerra del Vespro, il papato 5 sembrava disinteressarsi della politica nell'Italia comunale. Nel 1294 venne eletto papa Celestino V, un mistico eremita strappato alla guida della sua congregazione da un conclave paralizzato da oltre due anni dalle divisioni interne. Quando questo abdicò venne eletto papa Benedetto Caetani con il nome di Bonifacio VIII. Bonifacio decise di sostenere le fazioni a lui fedeli nelle singole città perché essere potessero costituire governi stabili. L'iniziativa però non si risolveva nel sostegno ai guelfi contro i ghibellini. Il papa mirava piuttosto a costituire una rete di sostenitori, che solo in minima parte coincideva con gli schieramenti esistenti (unico discrimine: vicinanza alle posizioni del pontefice). Ad esempio istituì un rapporto con Guido da Montefeltro, comandante dei ghibellini romagnoli. Nelle regioni del Patrimonio di San Pietro (quello che poi si chiamerà lo Stato Pontificio) il papa attribuì cariche come quella dei podestà a garanti stretti o a membri della famiglia; fuori dai confini invece utilizzò l’altra risorsa a sua disposizione, cioè la possibilità di nominare i vescovi. Fra il 1297 e il 1298 scoppiò un duro conflitto tra il papa e la stirpe romana dei Colonna. Questa era molto potente nel Lazio e nella Curia, dove esprimeva due cardinali, e probabilmente non aveva gradito la rapida occupazione di grandi spazi di potere da parte di Bonifacio. Lo scontro divenne armato e Bonifacio giunse addirittura a proclamare contro di loro una crociata, ai suoi occhi utile per valutare l'affidabilità delle potenze italiane a seconda della loro risposta in partecipazione alla guerra. | Colonna vennero sbaragliati e Bonifacio celebrò il suo trionfo nel 1300 con l'indizione del primo giubileo. Poco dopo giunee in Italia il principe francese Carlo di Valois, detto il Senzaterra, alla testa di 500 cavalieri pesanti, che il pontefice voleva destinare alla guerra contro la Sicilia di Federico d'Aragona e a consolidare il controllo pontificio sull'Italia centrale. Bonifacio disponeva ora così anche di un braccio armato. Carlo d'Angiò entro a Firenze e cacciò i filoimperiali quando Dante aveva due anni. Non era ghibellino, in quanto la sua famiglia era guelfa, ma si convinse sempre di più nella sua vita della necessità e dell'opportunità di un forte potere imperiale. Nel 1301 si interruppe così la prevalenza dei bianchi, legati alla famiglia dei Cerchi: il principe avrebbe dovuto pacificare le due fazioni, ma di fatto si alleò con i neri, i Donati, permettendo loro di aggredire gli avversari e saccheggiare le case. Dante fu tra i bianchi costretti all'esilio e condannati per corruzione. AI momento della condanna Dante non era a Firenze. Il governo fiorentino lo aveva mandato a Roma come ambasciatore, in un ultimo disperato tentativo di convincere il papa a fermare Carlo. Sulla via del ritorno egli apprese che i suoi compagni erano stati cacciati e si erano dispersi per la Toscana. La Toscana quindi divenne nera. Il papa non tardò a trovare nei Della Torre, antichi signori di Milano esuli in Friuli, lo strumento con cui portare Milano nel fronte a lui amico, volgendo a favore gli equilibri politici in Lombardia. Qui governavano i Visconti che non avevano risposto all'appello per la crociata contro i Colonna. Matteo Visconti e suo figlio Galeazzo furono mandati in esilio e i della Torre furono invitati a rientrare. La caduta di Milano segnò il trionfo del progetto di Bonifacio VIII: tutta l’Italia settentrionale era alleata a lui e gli resistevano solo Verona, Mantova e Brescia. A cavallo tra 1302 e 1303 la situazione del fronte avverso migliorò: ci fu una frattura tra i della Torre e Alberto Scotti, signore di Piacenza; Carlo di Valois, di ritorno da una fallimentare spedizione in Sicilia, fu inviato in Romagna quale legato pontificio e il governo di Bologna, temendo che tentasse un colpo di mano sulla città creò un fonte bianco con Piacenza. Anche a Firenze il blocco bianco riaprì le ostilità. Inoltre, nel 1303 il messo del re di Francia Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna, esponente della famiglia contro cui Bonifacio aveva bandito la crociata, piombarono a sorpresa su Anagni e con un piccolo reparto di armati catturarono il papa, che vi risiedeva. La popolazione di Anagni prese le armi e mise in fuga gli aggressori, liberando il pontefice, che però, ormai ottantenne, morì un mese dopo. Seguì la cosiddetta battaglia della Lastra (che in realtà fu solo la località in cui gli attaccanti si radunarono prima di avanzare) tra i neri fiorenti e gli esuli bianchi, alleati con la guelfa Bologna e la ghibellina Arezzo. Le truppe alleate operarono in maniera totalmente scoordinata e alla fine l'operazione si risolse in un disastro. | neri continuarono a prevalere nonostante il tentativo di pacificazione di Niccolò da Prato, mandato da Benedetto XI e quello di Napoleone Orsini, mandato da Clemente V. Di fronte al rifiuto dei neri di riammettere in città i fuoriusciti Orsini radunò un esercito ad Arezzo per conquistare Firenze con le armi. La spedizione fallì, ma che un rappresentante del papa muovesse guerra ad una città che si proclamava ideologicamente guelfa dà ancora una volta l’idea della sostanziale inanità di tali denominazioni. Conclusioì Aree di egemonia signorile o cittadine spesso non avevano interessi che coincidevano in toto con quelli della fazione guelfa o ghibellina cui la città si associava soprattutto per inserirsi in un quadro di potenze esteme al mondo comunale. La scelta di rendere le comunità ideologicamente omogenee, riconoscendo come buon cittadino soltanto chi accettasse di adeguarsi con pieno conformismo alle posizioni del gruppo al potere e escludendo l'opposizione fu la conseguenza più dura delle fratture originatesi durante le guerre fra i comuni e Federico Il.
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