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la famiglia operaia nella storia, Appunti di Storia Contemporanea

la famiglia operaia nella storia

Tipologia: Appunti

2015/2016

Caricato il 16/12/2016

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Scarica la famiglia operaia nella storia e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 4. La famiglia operaia. Il lavoro delle donne e dei giovani L’emergere e il consolidarsi della norma del “maschio che mantiene la famiglia” Il brano che segue è tratto dal volume di Wally Seccombe, Famiglie nella tempesta. Classe operaia e forme familiari dalla Rivoluzione industriale al declino della fertilità, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 204-211. L’ideale del “maschio che mantiene la famiglia” è il concetto secondo cui il salario guadagnato da un marito dovrebbe essere sufficiente a mantenere la sua famiglia senza che la moglie e i figli piccoli debbano compiere un lavoro retribuito1. Nel XIX secolo, soltanto gli strati più alti dei lavoratori più qualificati erano in grado di guadagnare abbastanza e in modo sufficientemente costante per tutto l’anno da costituire l’unica fonte di reddito monetario delle rispettive famiglie. Che cosa avrebbe compensato la differenza nelle famiglie meno fortunate? Normalmente toccava ai figli, dopo aver lasciato la scuola in tenera età (ammesso che andassero davvero a scuola), fare dei lavori a tempo pieno e consegnare il salario alle madri2. 1 L’espressione “salario familiare” viene spesso usata con riferimento al salario “del maschio che mantiene la famiglia” ,che si presume sufficiente al mantenimento della famiglia 2 E. Roberts, A Woman’s Place: An Oral History of Working-Class Women, 1890-1940, Oxford 1984, pp. 136-137;]. Lewis, The Working-Class Wife and Mother and State Intervention, 1870- 1918, in Lewis (a cura di), Labour and Love, cit., p. 102; R. Dasey, Women’s Work and the Family: Women Garment Workers in Berlin and Hamburg before the First World War, in R. 1 L’impiego lavorativo dei figli maschi e femmine di un uomo non scalzava il suo prestigio di “colui che mantiene la famiglia” nella stessa misura, o quasi, del caso in cui a lavorare fosse la moglie. Il posto di costei era tra le mura domestiche; e il marito subiva un certo disonore se lei era obbligata ad andare a lavorare fuori3. Come forma specifica relativa alla classe dei salariati, l’ideale del “maschio che mantiene la famiglia” era nuovo, ed era diventato predominante in Gran Bretagna nei decenni centrali del XIX secolo, e un po’ più tardi sul continente4 . Ma quell’ideale non nasceva dal nulla. Il proletario “che mantiene la famiglia” rappresenta una versione moderna dell’’’uomo che provvede alla famiglia”, cioè dell’immagine venerabile che presiede all’orgoglio maschile in tutte le epoche storiche. L’onere di provvedere alla famiglia è antichissimo, una pietra angolare delle ideologie patriarcali in una grande varietà di culture. Un buon capofamiglia, nel momento in cui adempie all’obbligo di provvedere ai bisogni della moglie e dei figli, si fa carico di assicurare la sussistenza della propria famiglia. L’adempimento coscienzioso di questa responsabilità (insieme al dovere strettamente connesso di proteggere i membri “più deboli” della famiglia dai pericoli fisici e morali) legittima la sua autorità domestica come capo della famiglia5. Non esisteva dunque nulla di nuovo per quanto concerne la manifestazione di questa ideologia all’interno di tutte le classi sociali nel XIX secolo. Tuttavia (per ragioni che esploreremo tra poco), essa troverà una nuova articolazione nella formulazione dei sindacalisti maschi, i quali collegheranno l’ideale del “provvedere alla famiglia” direttamente al concetto del “salario sufficiente per vivere” da richiedere per gli uomini6. I proletari di entrambi i sessi si convinsero dell’idea che se un operaio maschio era disposto a lavorare in modo costante, egli avrebbe meritato di guadagnare un salario che fosse sufficiente di per sé a offrire alla sua famiglia una vita decente, conforme al tenore raggiunto dai membri rispettabili appartenenti alle comunità operaie. E se un uomo sposato fosse stato in grado di guadagnare un salario così definito, allora sua moglie non avrebbe avuto la necessità di andare a lavorare fuori casa; questo era il corollario, sul versante femminile, della norma salariale Evans, W. Lee (a cura di), The Cerman Family, London 1981, p. 224. 3 S. Lewenhak, Women and Trade Unions: An Outline History of Women in the British Trade- Union Movement, London 1977, p. 41; P. Stearns, WorkingClass Women in Brtitain, 1890- 1914, in Vicinus (a cura di), Suffer and Be Still: Women in the Victorian Age, cit., p. 113. 4 Quataert ha identificato negli anni Ottanta del XX secolo uno spartiacque cruciale nella Germania imperiale: A Source Analysis in Cerman Women’s History: Factory Inspectors’ Reports and the Shaping of Working-Class Lives, 1878-1914, «Central European History», voI. 16, n. 2,1983, pp. 112-113. 5 Nei codici giuridici la relazione tra onere e titolo d’autorità era invertita: ai mariti veniva dato il possesso del patrimonio delle mogli al momento del matrimonio, affinché potessero adempiere al loro compito di provvedere alla famiglia. Questo diritto di common law non cesserà in Gran Bretagna fino alla promulgazione dei Married Women’s Property Acts del 1870 e del 1882; in Francia, mutamenti dello stesso tenore nel codice civile francese saranno finalmente introdotti nel 1907. 6 Eleanor Rathbone portava avanti una critica distruttiva del sistema del salario privato e della norma del “maschio che mantiene la famiglia” nel suo studio del 1924 The Disinherited Family, Bristol 1986 [1924]. Tutti gli studiosi successivi di questi argomenti sono grandemente debitori nei riguardi di quest’analisi pionieristica. 2 sviluppo capitalistico, il trionfo della norma del “maschio che mantiene la famiglia” non lo era affatto. Piuttosto, il suo consolidarsi rappresentava il risultato di una lotta di lunga durata nella quale la corrente principale del movimento sindacale reagiva con modalità di ristretto esclusivismo. alla minaccia, realmente esistente, che l’impiego di massa delle donne come forza lavoro a buon mercato rappresentava nei riguardi della sicurezza del posto di lavoro e dei livelli salariali dei lavoratori qualificati. Altre risposte sarebbero state possibili secondo linee di tipo integrazionistico; in questo caso, le ipotesi e le congetture di tipo speculativo possono non avere nulla di fantasioso. Esistevano delle correnti minoritarie nel movimento operaio britannico e francese, ad esempio, le quali cercavano di spingere i sindacati ad assumere un atteggiamento più progressista nella lotta contro un tipo di concorrenza interna al mercato del lavoro che creava divisioni in base al genere, con la rivendicazione di una piena integrazione delle donne in un programma di eguaglianza nei salari e nell’ accesso al lavoro. In Gran Bretagna già nelle discussioni relative al Factory Bill del 1833 furono espressi i primi timori che l’industrializzazione avrebbe finito col dare lavoro alle donne e ai bambini «a esclusione di coloro cui spettava in realtà di lavorare: gli uomini». Si andò diffondendo ampiamente l’opinione secondo cui gli uomini dovessero avere il primo diritto di scelta nell’ambito del mercato del lavoro; alle donne sarebbero spettati tutti quei lavori che restavano dopo che le necessità di occupazioni degli uomini fossero state soddisfatte. Era assai breve il passo da questa idea di considerare prioritario il diritto di occupazione per gli uomini alle argomentazioni a favore dell’esclusione delle donne in quei settori dove la loro assunzione avrebbe minacciato la sicurezza del lavoro e il salario degli uomini. 5 Bruna Bianchi, Vita quotidiana - familiare e lavorativa - della gioventù lavoratrice in Europa (1880-1920) in Giovani e generazioni in Italia. Lo stato della ricerca, a cura di Patrizia Dogliani, CLUEB, Bologna, pp. 11-22. Questo breve saggio si sofferma sulle ricerche apparse negli anni recenti a livello europeo sulla vita quotidiana, famigliare e lavorativa, della gioventù operaia. In questo arco temporale i giovani operai nei paesi europei industrializzati sono un gruppo relativamente facile da identificare: non vanno più a scuola, lavorano, non sono sposati e vivono ancora con i genitori e, in parte, sotto il loro controllo. Tra l’infanzia e la gioventù lo stacco è netto, almeno nei paesi, come Francia, Germania e Gran Bretagna, in cui a partire dal decennio ‘70 e ‘80 dell’800 la legislazione sull’obbligo scolastico è in gran parte osservata. Non così in Italia dove il lavoro dei bambini al di sotto dei 12 anni è ancora molto diffuso, soprattutto nei numerosi piccoli laboratori e botteghe artigianali. Il tema della gioventù operaia fino a tempi molto recenti ha ricevuto scarsa attenzione. A differenza dei giovani di origine borghese infatti, i giovani di estrazione operaia non sono stati considerati una presenza storica significativa; quando essi fanno la loro apparizione negli studi sulla storia della famiglia, dell’educazione o del lavoro, restano sullo sfondo. Esclusi dalla scuola, dominati dal sapere e dall’autorità degli adulti nei luoghi di lavoro e 6 nella famiglia, i giovani lavoratori raramente sono riusciti a far sentire la propria voce. Se infatti gli industriali consideravano i ragazzi una mano d’opera docile e a basso costo, gli operai vedevano in loro degli assistenti e degli aiutanti dai quali pretendevano rispetto, obbedienza e paziente sopportazione della fatica e in definitiva silenzio. L’ingresso precoce nel mondo del lavoro assorbe tutte le loro energie senza che possano godere dei diritti degli adulti. Più che descritta, ha scritto Michelle Perrot, la gioventù operaia viene rappresentata e tali rappresentazioni, recando il segno dei timori collettivi, sono assai eloquenti di una condizione sociale (Perrot 1994). Scrivere la storia della gioventù lavoratrice inoltre si scontra con problemi di fonti, spesso insormontabili. Le rilevazioni statistiche rendono conto del lavoro infantile (dai 9 ai 14 anni), mentre il lavoratore nell’età dell’adolescenza e della prima giovinezza (15-19 anni) è assimilato all’adulto e resta totalmente in ombra. Le fonti ufficiali (dibattiti parlamentari, inchieste ministeriali, rapporti consolari) spesso propongono rigidi stereotipi: l’immagine della “vittima innocente” o del ribelle indisciplinato e irresponsabile. Mettere a fuoco le esperienze di vita e di lavoro dei giovani delle classi popolari, ricomporre un quadro complessivo dalla frammentarietà di informazioni e testimonianze richiede quindi l’analisi di un gran numero di fonti e la capacità di leggerle in controluce. Si aggiunga che raramente i giovani delle classi popolari raccontano o scrivono le loro storie di vita o semplicemente annotano le loro esperienze, se non in situazioni estreme (guerra, profuganza, persecuzione). Manca loro la consuetudine con la scrittura e soprattutto quel senso del passare del tempo che induce l’adulto a ripiegarsi su se stesso e riflettere sul significato della propria esistenza. “I giovani si esprimono poco, e quando lo fanno le loro voci vengono soffocate”. Le memorie scritte nell’età adulta, le testimonianze, gli scritti autobiografici, le interviste raccolte negli anni Settanta si sono rivelate preziose (Revelli 1977, 1985; Guidetti Serra 1977; Emmerich 1975; Roberts 1976; Humphries 1981; Seabrook 1982; Wegs 1989; Childs 1992). Negli ultimi decenni, inoltre, sono sorti importanti archivi di storia orale, in primo luogo in Gran Bretagna (University of Essex, Department of Sociology, Oral History Archive on Family, Work and Community Life Before 1918; Manchester Polytechnic, Manchester Studies Collection of Tapes and Trsnscripts). Per l’Italia segnalo l’archivio della scrittura popolare di Genova e l’Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano. Su queste fonti si sono fondati gli studi più innovativi (Humphries 1981; Wegs 1989; Childs 1992) nonché sulle numerose inchieste di riformatori, assistenti sociali e sociologi. Esse hanno permesso di riflettere sulla soggettività della gioventù operaia: il senso di orgoglio per aver resistito alla fatica, la pena per le umiliazioni e i maltrattamenti, la condizione di subordinazione agli adulti, ma anche la prontezza e la capacità di afferrare nuove opportunità e per quanto riguarda le ragazze la ribellione alle condizioni durissime del lavoro della terra, il trauma dell’abbandono del proprio paese per emigrare in città o all’estero, il rammarico per non aver continuato gli studi, la difficoltà di acquisire una qualificazione professionale. Le recenti ricostruzioni storiche dell’esperienza di vita delle donne, con la loro attenzione al ciclo della vita, al lavoro, alla famiglia e all’educazione, hanno gettato le basi per ricerche 7 famiglia come portatore di reddito, veniva trattato con maggior rispetto. La madre aveva per lui quelle attenzioni che fino a quel momento aveva rivolto solo al padre o ai fratelli maggiori, si allentavano i rapporti di autorità, poteva passare più tempo fuori casa, poteva trattenere una parte dei suoi guadagni (Burnett 1982; Childs 1992). Non così per le ragazze che abbandonavano la scuola ed entravano nel mercato del lavoro prima dei loro fratelli; la famiglia operaia infatti non riponeva alcuna aspettativa nel futuro lavorativo delle figlie dalle quali si attendeva una fonte di reddito immediato (Kempf 1911; Buttafuoco 1988; Davin 1996; Dayhouse 1981). La fabbrica inoltre, rispetto al servizio domestico, alla fatica del lavoro dei campi o al mestiere di calzolaio, sarta o altri lavori svolti a domicilio, si rivelò attraente per molti adolescenti. I giovani delle classi popolari erano orgogliosi della loro identità di portatori di reddito. Anche le ragazze erano portate a valorizzare il lavoro industriale per la maggior libertà e le maggiori occasioni di socializzazzione che offriva (Fowler 1995). Tuttavia l’importanza del loro salario era ben lontana da garantire una vera indipendenza, al contrario, la subordinazione alle necessità famigliari in molti casi costringeva i giovani a protrarre nel tempo la permanenza nella casa paterna e a posticipare il matrimonio, come hanno rivelato le ricerche sulla base di fonti demografiche (Katz-Davey 1978). Ciononostante, solo una esigua minoranza degli intervistati negli ultimi decenni, ha dimostrato risentimento nei confronti dei genitori. Era impensabile sottrarsi alla necessità di contribuire al bilancio famigliare: le rinunce che questa comportava erano accettate in quanto temporanee. I conflitti sul salario e i contrasti con i genitori per una maggiore libertà sono invece evidenti nei luoghi di emigrazione. Nelle grandi città americane, a contatto con nuovi modelli di comportamento e stili di vita che valorizzavano l’individualità, i giovani immigrati si dimostrarono inclini a non dare per scontata la propria subordinazione ai bisogni della famiglia. La storiografia recente, sempre attraverso le testimonianze, le opere autobiografiche degli scrittori di origine europea, gli scritti degli esponenti del movimento riformatore, particolarmente ricchi e privi di pregiudizi e di moralismo, ha ricostruito i conflitti famigliari che condussero al ribellismo e alle aspirazioni dei giovani immigrati di liberarsi da una condizione di dipendenza nella famiglia, che nei luoghi di immigrazione era particolarmente marcata a causa della precarietà del lavoro dei padri. L’inchiesta di Edith Abbott e Sophonisba Breckinridge su 14.183 minorenni (11.413 ragazzi e 2.770 ragazze) inviati al tribunale dei minorenni di Chicago nel primo decennio della sua attività ha rivelato quanto duramente le difficoltà delle famiglie immigrate pesassero sui giovani e quanto le pressioni economiche fossero responsabili del dilagare della prostituzione minorile. È proprio allo stato d’animo e alla ribellione delle ragazze che si è rivolta la storiografia recente (Addams 1909, 1912; Abbott- Breckinridge 1912; Knupfer 2001). Se all’interno della famiglia il ruolo dei giovani lavoratori era riconosciuto e in qualche modo ricompensato, nelle fabbriche o nei laboratori, sia per l’apprendista che per il non qualificato, i rapporti di subordinazione all’operaio adulto restarono molto accentuati. Una dipendenza che si rispecchia nella scarsa considerazione che il lavoro giovanile riceveva all’interno delle organizzazioni sindacali, tese a privilegiare l’operaio adulto e qualificato ed a trascurare, se non ad ignorare, le condizioni di salario e di lavoro della mano d’opera minorile. Nel movimento operaio i minorenni 10 ebbero sempre scarso peso numerico e la questione della gioventù operaia non entrò mai a far parte della strategia sindacale; anche sul piano rivendicativo infatti dai giovani ci si attendeva rispetto e ubbidienza. La gerarchia professionale infatti riuscì a lungo a contenere rivendicazioni autonome e quando queste si manifestarono in scioperi promossi e diretti esclusivamente da minorenni, si trattò di scioperi di breve durata che si svolsero nell’indifferenza e talvolta nell’ostilità degli adulti e si conclusero negativamente. È il caso dell’Italia dove la storiografia si è soffermata sulla conflittualità dei giovani operai (Bianchi 1995; Ermacora 2005). Nell’impossibilità di identificarsi come gruppo all’interno delle organizzazioni sindacali, i giovani operai spesso esprimevano il proprio malcontento per le condizioni di lavoro e di salario con l’indisciplina o l’abbandono del lavoro, una mobilità rilevata anche dagli studi sulla formazione della classe operaia (Lequin 1977). E’ dunque alla strada, alla vita di gruppo che i giovani lavoratori si rivolgono per compensare le ristrettezze e le umiliazioni della loro vita. Nel gruppo si poteva superare il senso di solitudine e il disorientamento, si cercava una rivalsa dalla esclusione sociale (Pearson 1983 ; Gestrich 1986 ; Davies 1992, 1998; 1999). Anche i lavori di strada (fattorini, venditori di giornali, portalettere), che tanto inquietavano gli osservatori delle classi medie, non sembrano essere stati sgraditi ai giovani. Al tempo del lavoro si poteva intrecciare quello dello svago e sviluppare una socialità meno ristretta rispetto al caseggiato o al quartiere. Il comportamento estroverso della gioventù operaia, i conflitti territoriali, la passione del bere e il fumo, esprimevano la volontà di resistenza al controllo degli adulti attraverso l’umorismo e la derisione delle figure autoritarie, le strutture educative e le organizzazioni dei giovani delle classi medie. Una socialità basata sul valore della forza fisica, centrale nella cultura della classe operaia. Esclusi dal voto, messi ai margini dai partiti socialisti, molti individueranno nella lotta antimilitarista l’ambito specifico dell’agire politico della gioventù. L’estensione del servizio militare obbligatorio a tutti i giovani, l’enfasi crescente posta sull’importanza della difesa nazionale e sul valore civico del servizio militare attribuiva alla gioventù un ruolo centrale. La lotta antimilitarista è “la sola strategia che appare possibile per la gioventù. Essa se ne appropria per esprimere la propria ansia e il suo rifiuto della società adulta, borghese e gerarchizzata” (Cohen 1989). La tematica antimilitarista era ritenuta essenziale anche per una strategia proletaria di emancipazione. Studenti, ma anche giovani operai e artigiani, sono alla testa dei movimenti antimilitaristi tanto in Germania, quanto in Francia e in Italia. A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento sino allo scoppio del conflitto in tutti i paesi europei si avverte da parte dei giovani operai una nuova volontà di far sentire la propria voce che si manifesterà apertamente nel corso della Grande guerra. La Grande guerra Nel complesso lo studio delle modificazioni intervenute nella vita e nello stato d’animo dei giovani che non combatterono al fronte restano ancora trascurate. La storiografia infatti si è concentrata sulla “generazione del 1914”e sulla disillusione dei reduci. La guerra incise profondamente sulla vita dei più giovani; la ricostruzione e la riflessione storica delle loro vicende sono di 11 fondamentale importanza per comprendere i conflitti sociali e politici del dopoguerra. In tutti i paesi industrializzati coinvolti nel conflitto l’aumento straordinario della produzione nel settore dell’armamento, la diffusione della lavorazione in serie, la mobilitazione della gran parte della classe operaia, ampliarono grandemente le opportunità occupazionali per i giovani nell’età compresa dai 14 ai 21 anni. In Germania il 25% dell’intera forza lavoro durante la guerra è costituita da ragazzi e ragazze (occupati nei settori metallurgico, meccanico e chimico). Nell’industria meccanica l’aumento fu del 60% (Linton 1991). Numerosi studi sul lavoro femminile durante il conflitto hanno fatto luce della condizione operaia giovanile; infatti le lavoratrici nelle industrie di guerra, le “munitionnettes” erano in prevalenza donne molto giovani, mentre le donne sposate si dedicarono prevalentemente al lavoro a domicilio (Braybon 1981; Woollacott 1994; Daniels 1997; Curli 1998; Thom 1998). Le retribuzioni a cottimo, la semplicità delle mansioni, la condizione di debolezza della mano d’opera adulta maschile, costantemente sottoposta al ricatto di perdere l’esonero, favorì nei giovani lavoratori l’occasione per emanciparsi dal sapere e dal rispetto dovuto all’adulto e il maturare di una coscienza nuova della propria dignità e dei propri diritti. Nelle fabbriche, infatti, la protesta dei ragazzi, che nel passato era stata tante volte soffocata o guidata dagli adulti, assunse un rilievo nuovo. Furono i ragazzi che, insieme alle donne, presero l’iniziativa degli scioperi e nel corso delle manifestazioni si dimostrarono i più attivi e i più determinati. I ragazzi infatti svolsero un ruolo di primo piano nelle manifestazioni per la pace e negli scioperi (Linton 1991; Bianchi 1995; Daniel 1997; Ermacora 2005). Ad Amburgo la prima manifestazione per la pace fu promossa da giovani lavoratori, nel 1916 (Ulrich 1982). Anche all’interno delle famiglie la guerra portò mutamenti di grande rilievo: impose un continuo riadattamento delle modalità di convivenza, alterò le relazioni di dipendenza, ridefinì responsabilità e ruoli. In molti casi gli adolescenti divennero capifamiglia e il loro salario non rappresentò più una semplice integrazione del reddito famigliare complessivo, bensì divenne indispensabile alla sopravvivenza. Alle nuove, accresciute responsabilità tuttavia non venne conferita dignità, alle fatiche e alle privazioni non venne attribuito alcun riconoscimento né morale né sociale. In Germania, le preoccupazioni per una eccessiva libertà dei giovani operai in assenza del capofamiglia condusse all’introduzione del risparmio forzato. Ai giovani inoltre fu negato il diritto allo svago e alla socializzazione al di fuori delle forme ufficialmente previste dalla mobilitazione e dalla propaganda ed essi reagirono valorizzando in modo ancora più accentuato rispetto al passato forme di socializzazione spontanea. Nel gruppo ricercarono sostegno morale e forme alternative di svago, praticarono forme di opposizione quotidiane ai controlli autoritari, ostentarono la propria estraneità al clima di lealismo patriottico e alla pressione ideologica che investì il fronte interno. Il tempo libero dal lavoro era trascorso per le strade dove si andarono moltiplicando le condanne per alcuni reati: aggressione nei confronti delle guardie, azioni irriverenti e ritorsioni violente nei confronti della classe media, dei “signori” che dimostravano disprezzo e indifferenza per le privazioni delle classi popolari. Infatti, in ogni paese coinvolto nel conflitto, aumentarono le condanne per questo tipo di reati. In Germania i minorenni condannati 12 Guidetti Serra Bianca, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile (2 voll.), Torino 1977. Hall Stuart, Jefferson Tony, Resistence through Rituals. Youth Subcultures in post-War Britain, Birmingham 1986. Harvey Elizabeth, Youth and the Welfare State in Weimar Germany, Oxford 1993. Hendrick Harry, Images of Youth. Age, Class, and the Male Youth Problem 1880-1920, Oxford 1990. Henning René, Les déportations de civils belges en Allemagne et dans le nord de la France, Bruxelles – Paris 1919. 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