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Rimozione cause in giudizio: precisazione conclusioni e pronuncia sentenza, Appunti di Diritto Processuale Civile

Come, durante la fase istruttoria di un processo giudiziario in italia, il giudice istruttore può rimettere una causa al collegio di giudici per decisione, invitando le parti a precisare le conclusioni da presentare. Se la causa è matura per la decisione, il giudice istruttore può anche decidere su tutto il merito. Le conclusioni devono essere depositate entro termini specifici, e la sentenza è depositata in cancelleria dopo la decisione del collegio. Anche della possibilità di una discussione orale e della separazione di cause da giudicare da parte di un tribunale monocratico o collegiale.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 14/08/2019

p.bonaventura
p.bonaventura 🇮🇹

4.3

(64)

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Scarica Rimozione cause in giudizio: precisazione conclusioni e pronuncia sentenza e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! LA FASE DECISORIA La distinzione tra fase decisoria davanti al tribunale in composizione collegiale e davanti al tribunale in composizione monocratica. Considerazioni introduttive Esaurita la fase istruttoria, si passa a quella decisoria (<— cap. 13, § 14), ultima fase del processo che conduce alla sentenza. Occorre oggi distinguere tra fase decisoria davanti al giudice monocratico e fase decisoria davanti al tribunale in composizione collegiale. L’impianto originario del codice è costruito sulla decisione dell’organo collegiale perché all’epoca la decisione collegiale costituiva la regola. Nel 1998 si è invece passati alla situazione opposta: regola generale è la monocraticità, mentre eccezionalmente vi è la riserva di collegialità. L’organo collegiale di tribunale si compone di tre membri, il presidente, il giudice relatore, ed il terzo giudice. La distinzione tra decisione dell’organo collegiale o decisione del giudice monocratico si riflette a ritroso su talune differenze tra i due procedimenti anche nella fase istruttoria. Delle peculiarità dell’istruzione e della decisione davanti al tribunale in composizione monocratica si tratterà alla fine del capitolo. Per il momento si esaminerà la fase decisoria così come costruita nella versione originale del codice, cioè come pensata per l’organo collegiale. La rimessione in decisione Si ha “rimessione in decisione” (o rimessione al collegio) quando il giudice istruttore ritiene la causa matura per la decisione (sussistono tutti gli elementi necessari per giungere a sentenza). Ciò può avvenire: a) quando la causa è matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, il che può accadere ad es. se si tratta di causa solo in diritto (essendo pacifici i fatti posti a fondamento della domanda o delle eccezioni), ovvero se la causa è solo documentale (non occorre assumere prova nel processo). b) quando il giudice istruttore rimette le parti al collegio “affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare”, ma alla condizione che si tratti di questione la cui decisione è in grado di definire il giudizio. Sono “questioni di merito aventi carattere preliminare” (le cd. questioni preliminari di merito) quelle che, non costituendo autonoma domanda, rappresentano taluni elementi della fattispecie. Così ad es. la prescrizione del diritto, eccezione sollevata dal convenuto per paralizzare la domanda dell’attore. Sulla questione di prescrizione il giudice “può” rimettere la causa al collegio, ma, non è tenuto a farlo. La scelta dipende da una valutazione sommaria di fondatezza della questione: se essa risulta fondata, rimette la causa in decisione sulla questione di prescrizione perché l’accoglimento di tale eccezione consente di decidere la causa. c)quando il giudice rimette in decisione “se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al merito” (art. 187 comma 3 c.p.c.). Sono queste le cd. questioni pregiudiziali di rito, assoggettate ad un meccanismo analogo a quello esaminato per le questioni preliminari di merito (sub b)). Si tratta di questioni di natura processuale attinenti ai cd. presupposti processuali (presupposti la cui esistenza è necessaria affinché il giudice esamini la causa nel merito). Anche qui, per rimettere la causa al collegio sulla questione pregiudiziale di rito il giudice istruttore ne valuta sommariamente la fondatezza. Se la ritiene fondata (ad es. ritiene di essere incompetente, carente di giurisdizione, o che l’attore sia privo di legittimazione ad agire), rimette la causa in decisione (la fondatezza della questione rende la causa matura per essere decisa essendo il processo destinato a chiudersi in rito per mancanza di un presupposto processuale). d) quando la causa è matura per la decisione dopo che si sia svolta l’intera fase istruttoria e cioè che siano stati assunti tutti i mezzi di prova ammessi (“ilgiudice istruttore provvede all’assunzione di mezzi di prova e, esaurita l’istruzione, rimette le parti al collegio per la decisione a norma dell’articolo seguente”). La precisazione delle conclusioni Disposta la rimessione della causa al collegio restano delle residue attività per le parti. “Il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, a norma dei primi tre commi dell’art. 187 o dell’art. 188, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate, anche nei casi previsti dall’art. 187, secondo e terzo comma” (art. 189 c.p.c.). Con la cd. precisazione delle conclusioni (per la quale è prassi consolidata che sia fissata una apposita udienza) le parti delimitano in via definitiva le proprie domande e difese attualizzando quelle già proposte negli atti introduttivi. Può accadere infatti che rispetto alle domande originarie il thema decidendum sia stato “modificato o precisato”, ovvero che siano state proposte domande nuove in corso di causa, nei limiti in cui ciò sia possibile (art. 183 comma 5 c.p.c.). Può accadere poi che le parti rinuncino a una o più domande inizialmente proposte o ancora che siano dedotte sopravvenienze (in fatto o in diritto) tali da indurre le parti a rivedere le richieste originariamente presentate. Ad es. se all’esito dell’istruttoria risulta che la somma originariamente domandata dall’attore è dovuta solo in parte, ovvero se in corso di causa il debitore salda parzialmente il debito, con la precisazione delle conclusioni l’attore può ridurre il quantum domandato Il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica Solo eccezionalmente quindi la distinzione tra tribunale monocratico e tribunale collegiale (impostata sulla fase decisoria) incide sul “procedimento” (sulla trattazione). Una prima differenza riguarda i poteri istruttori del giudice, essendovi un più ampio margine di iniziativa ufficiosa quando la decisione è monocratica: il giudice può infatti “disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono r ferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità”. Non altrettanto può fare il giudice istruttore quando la decisione è riservata al collegio, potendo egli ammettere d’ufficio la prova testimoniale solo quando “alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone” (art. 257 c.p.c.). Quanto alla fase decisoria, essa è riservata al “giudice designato a norma dell’art. 168 bis o dell’art. 484, secondo comma” (art. 281 quater c.p.c.), cioè al giudice istruttore della causa. Gli artt. 281 quinquies e 281 sexies c.p.c. descrivono tre modalità di decisione: a) a seguito di trattazione scritta (art. 281 quinquies comma 1 c.p.c.); b) a seguito di trattazione mista (art. 281 quinquies comma 2 c.p.c.); c) a seguito di trattazione orale (art. 281 sexies c.p.c.). La prima sub a) — generalmente applicata - di poco si differenzia dalla decisione resa da organo collegiale. Invariata è la precisazione delle conclusioni a norma dell’art. 189 c.p.c. e lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica a norma dell’art. 190 c.p.c., ma la sentenza è depositata in cancelleria nei trenta giorni (non sessanta come nella decisione collegiale) dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (termine ordinatorio): art. 281 quinquies c.p.c. Se invece una delle parti ne formula la richiesta (DISCUSSIONE ORALE), “il giudice, disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali a norma dell’art. 190, fissa l’udienza di discussione orale non oltre trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime; la sentenza è depositata entro i trenta giorni successivi all’udienza di discussione” (art. 281 quinquies comma 2 c.p.c.). Quando le parti chiedono la discussione orale, viene soppresso — se la decisione è monocratica — lo scambio delle memorie di replica. L’ipotesi sub c) non ha invece corrispondenza nella decisione collegiale. Se non procede secondo le altre due modalità sub a) e b),“ il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza, o, su istanza di parte, in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” .“In tal caso, la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria” (art. 281 sexies c.p.c.). La sentenza si intende pubblicata dal momento della sua pronuncia in udienza, momento dal quale decorre il termine lungo per impugnare (Cass. n. 22659/2010). Il termine breve decorre ordinariamente dalla notificazione (Cass. n. 12515/2009). A tale modalità decisoria si può accedere su iniziativa ufficiosa (ma non è esclusa la richiesta di parte), tanto che ad essa le parti possono mostrarsi non preparate (di qui la possibilità di chiedere un rinvio di udienza). Siffatta modalità decisoria è concretamente applicabile quando il giudice giunge alla udienza di precisazione delle conclusioni con una idea sufficientemente precisa della causa, tanto da non ritenere utile l’ulteriore scambio di comparse conclusionali e memorie di replica. Questa tecnica decisoria non ha avuto sino ad oggi una diffusa applicazione. I rapporti tra collegio e giudice monocratico Gli artt. 281 septies, octies e nonies c.p.c. si occupano dell’ipotesi in cui, da un lato, erroneamente sia rimessa al collegio una causa di competenza dell’organo monocratico (e vice versa), dall’altro vi siano vincoli di connessione tra cause, le une del giudice monocratico, le altre del collegio. L’art. 281 septies c.p.c. si occupa dell’ipotesi in cui sia rimessa al collegio una causa che invece andrebbe decisa dal tribunale in composizione monocratica. Ove ciò accada, il collegio stesso “rimette la causa davanti al giudice istruttore con ordinanza non impugnabile, perché provveda quale giudice monocratico, a norma degli artt. 281 quater, 281, quinquies, e 281 sexies”. In direzione opposta, l’art. 281 octies c.p.c. regola l’erronea rimessione della causa al giudice monocratico pur essendo essa di competenza dell’organo collegiale. In questo caso, “il giudice, quando rileva che una causa, riservata per la decisione davanti a sé in funzione di giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, provvede a norma degli artt. 187, 188 e 189”; rimette cioè le parti davanti al collegio. L’art. 281 nonies c.p.c. disciplina infine l’ipotesi di connessione tra cause che debbono essere decise dal tribunale collegiale - alcune — e dal tribunale monocratico — altre il giudice istruttore ne ordina la riunione e, all’esito dell’istruttoria, le rimette a norma dell’art. 189, al collegio, il quale pronuncia su tutte le domande, a meno che disponga la separazione a norma dell’art. 279, secondo comma, n. 5)”. In altre parole, nell’alternativa tra decisione collegiale e decisione monocratica, prevale la prima, salvo che non si debbano separare le cause per le ragioni che meglio si vedranno (—» § 10). I provvedimenti del collegio. Le ordinanze Di regola, la forma del provvedimento emesso in fase decisoria è la sentenza. L’organo decidente pronuncia però ordinanza “quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio” In questo caso, “se non definisce il giudizio impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa”. L’esigenza che il collegio (o il giudice monocratico) provvedano su questioni relative all’istruzione della causa può aversi quando il collegio stesso ritiene di dover riassumere un mezzo di prova. Il che può accadere, sia rimettendo la causa al giudice istruttore, sia provvedendo esso stesso alla riassunzione. Nella prima ipotesi, “con la sua ordinanza, il collegio fissa l’udienza per la comparizione delle parti davanti al giudice istruttore” e “per effetto dell’ordinanza il giudice istruttore è investito di tutti i poteri per l’ulteriore trattazione della causa”. Nella seconda ipotesi,“il collegio fissa l’udienza per la comparizione delle parti [...] davanti a sé” e si applica l’art. 281 c.p.c. (“quando ne ravvisa la necessità, il collegio, anche d’ufficio, può disporre la riassunzione davanti a sé di uno o più mezzi di prova”). NB: La forma dell’ordinanza si impone quando il collegio “decide soltanto questioni di competenza” (art. 279 comma 1 c.p.c.). Quando invece la decisione sulla competenza si accompagna ad una pronuncia sul merito, la forma è quella della sentenza. I provvedimenti del collegio aventi forma di ordinanza, comunque motivati, “non possono mai pregiudicare la decisione della causa; salvo che la legge disponga altrimenti, essi sono modificabili e revocabili dallo stesso collegio, e non sono soggetti ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze. Le ordinanze del collegio sono sempre immediatamente esecutive” (art. 279 ultimo comma c.p.c.). Sentenze definitive, non definitive, parziali e parzialmente definitive Fermo restando che la forma tipo di decisione è la sentenza, occorre distinguere tra sentenza definitiva e sentenza non definitiva. Il collegio pronuncia sentenza: 1) “quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione”. L’ipotesi è quella in cui la pronuncia sulla giurisdizione è idonea a definire il processo, cioè quando il collegio nega la propria giurisdizione. In questo caso, la sentenza è definitiva (perché definisce il giudizio). 2) “quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito”. Cosa siano le cd. questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito si è già detto. Si tratta di questioni - attinenti al processo (presupposto processuali) ovvero al merito (ad es. la prescrizione) — idonee a definire il giudizio. La sentenza che pronuncia su tali questioni in modo da “definire provvedimento formale di separazione delle cause comporta che il cumulo si sciolga e il processo non definito con sentenza (parziale) prosegua autonomo. E’ da considerare parzialmente definitiva la sentenza con cui il giudice si pronunci su una (o più) domande con prosecuzione del procedimento per le altre, senza disporre la separazione ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 5), c.p.c., e senza provvedere sulle spese in ordine alla domande (o alle domande) decise, rinviandone la relativa liquidazione all’ulteriore corso del giudizio. E invece parziale la sentenza che pronuncia su alcune delle più domande disponendo la separazione dei giudizi e pronunciando sulle spese di lite (Cass. n. 9441/2011; Cass. n. 6993/2011; Cass. n. 711/1999). La sentenza di condanna generica Una forma particolare di sentenza (talvolta accomunabile a quella non definitiva) è la sentenza di condanna generica (art. 278 c.p.c.). Essa ha ad oggetto la domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, quando nel corso del giudizio risulti accertata la sussistenza del diritto (Vati della prestazione), ma ancora controversa la quantità della prestazione (il quantum). In questo caso, su istanza di parte il giudice “può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione” (art. 278 comma 1 c.p.c.). La sentenza si dice di “condanna” ma non ha un contenuto propriamente condannatorio, mancando la liquidazione della somma dovuta: trattandosi quindi di sentenza dichiarativa (piuttosto che di vera e propria condanna), essa non costituisce titolo esecutivo (—> cap. 23, § 2). La sentenza di condanna generica produce altri vantaggi. Innanzi tutto, essa costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (è tale ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni “da liquidarsi successivamente. In secondo luogo, la pronuncia di una sentenza di condanna generica consente di trasformare in prescrizione ordinaria il termine breve di prescrizione a cui eventualmente sia assoggettato il diritto accertato in sentenza (“i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”. Il contenuto particolare della condanna generica (riguardante solo l’an della prestazione e non il quantum) non necessariamente prende le forme della sentenza non definitiva. Ciò accade quando, proposta originariamente domanda di condanna specifica, l’attore in corso di causa chieda — e in convenuto acconsenta — la pronuncia di una condanna generica. In questo caso, pronunciata la condanna generica, il processo prosegue perla quantificazione della somma (se la successiva sentenza definitiva nega la quantificazione del danno, essa conclude per il rigetto della domanda pure avendo la non definitiva accertato la sussistenza dell’obbligazione). Può accadere però che l’attore chieda in citazione il solo accertamento del diritto, senza chiedere la quantificazione del dovuto. In questo caso, la pronuncia sul solo an dell’obbligazione non assume le forme della sentenza non definitiva, bensì è una normale sentenza definitiva di accertamento del rapporto obbligatorio (l’eventuale quantificazione della somma potrà essere oggetto di un successivo ed autonomo giudizio). Il comma 2 art. 278 c.p.c. si occupa della cd. provvisionale. Può accadere che, con la stessa sentenza di condanna generica, e su istanza di parte, il giudice condanni il debitore “al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. La condanna, nei limiti della provvisionale, è specifica.
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