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La favola e la Fiaba nella storia, dispensa di letteratura italiana moderna, prof. Boroni, Dispense di Letteratura Italiana

- la favola nella storia, dall'antichità al medioevo, dal rinascimento all'illuminismo - dalla favola alla fiaba: una nota sulla favola in versi e sull'origine del nome - la fiaba nella storia, dall'antichità al medioevo, dal rinascimento all'illuminismo - la struttura della fiaba e le sue caratteristiche

Tipologia: Dispense

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Scarica La favola e la Fiaba nella storia, dispensa di letteratura italiana moderna, prof. Boroni e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Dispensa relativa agli audio di Fiabe e Favole d’autore. Scienze formazione-educazione triennale 2020-2021 La favola nella storia Dall’Antichità al Medioevo La favola fu, in principio, espressione della poesia popolare. Nessun genere di letteratura è antico e universale quanto la favola. Il problema per chi ne ricerca le origini è lo stesso che anima il dibattito filologico intorno all’epica, cioè l’inventio nelle sue implicazioni storiche, geografiche, ma anche della definizione del genere, come frutto di creazione collettiva e personale. Le correnti critiche e filologiche hanno dato a tal proposito diverse, quanto ingombranti risposte, visto che non esiste altro genere letterario che ritorni con uguale vivacità presso le diverse tradizioni culturali e che riaffiori, interpretato e reinterpretato, secondo i diversi luoghi e persone. La favola non è il Dramma tragico. “La favola ha i piedi per terra, nasce con l’uomo, quando questo animale vive in dimestichezza con le altre specie”,1 anche se prospera, più o meno, ma con costanza, in ogni periodo storico. “Che cosa son gli animali, se non le diverse immagini delle nostre virtù e dei nostri vizi, che Dio fa errare davanti al nostro sguardo, i fantasmi visibili delle anime nostre?”.2 La favola è dunque eterna, parla a tutte le età, ai bambini, agli adulti e ancor di più ai vecchi. E’ la pianta che ogni terreno esprime. Esopo rappresenta la matrice di tutta la favolistica occidentale, ma per arrivarci bisogna rivolgere l’attenzione all’Oriente e precisamente all’antico Egitto, che conobbe una grande fioritura di favole. Tuttavia è inutile rintracciare un itinerario preciso, cercare quando la favola si è affermata in Occidente. Nasce in Asia, come l’uomo, ma da là vien “quasi” tutto. Le favole che compaiono nel mondo greco e nel mondo romano hanno come protagonisti gatti, cani, coccodrilli, piccoli serpenti e scarabei, si possono quindi difficilmente separare dalla tradizione egizia, dove questi animali rientrano nell’ambito del sacro e dell’inevitabilmente religioso. Ma anche nella Bibbia, per esempio nel libro dei Giudici, troviamo il racconto degli alberi eleggono re il rovo, il quale ha in serbo per tutti il fuoco, che piomberà a divorarli. Satira evidente contro l’assolutismo monarchico, di cui l’antichità trasmette molti esempi. Come i documenti della tradizione assiro-babilonese. La letteratura sanscrita rappresenta ampia testimonianza del genere favolistico. Ci sono raccolte che diventano il punto d’arrivo della complessa favolista indiana come l’Jàtaka e il Pancatantra. Soprattutto quest’ultimo, è un composito caleidoscopio dove appaiono animali eletti a simbolo dei diversi atteggiamenti umani. Animali vili o coraggiosi, sciocchi o saggi, fonti di                                                                                                                           1 MANLIO FAGGELLA, Fedro / Le favole, Feltrinelli, Milano 1974, p.7. 2 VICTOR HUGO, I Miserabili, parte I, libro IV, cap. IV. consiglio in merito al vivere quotidiano. A collegare le varie favole sono inserite alcune strofe sentenziose, sapientemente involute e pregnanti. Tramandato prima oralmente, venne poi raccolto da studiosi e rielaborato dalla vena individuale di narratori, che vi aggiunsero elementi d’invenzione personale. E’ naturale che le esigenze della fantasia s’innestino con la realtà dell’ambiente in cui la favola si è sviluppata. Chi vuol conoscere come nasce ed evolve la favola basta legga l’Introduzione del Pancatantra. La favola è sorella della parabola “cucina per stomachi deboli, pietanze ammannite a menti ribelli a piatti ordinari”.3 Prima che Esopo ne canonizzasse il genere, non mancano, nella tradizione letteraria greca, alcune testimonianze che ci illustrano la vitalità del genere favolistico. Già in Omero ne troviamo echi nell’Odissea, là dove Menelao, predice la strage dei Proci e li paragona alla cerva che, imprudentemente, si reca a porre i suoi cerbiatti appena nati nella selva dove c’è il leone e ne decreta, in tal modo, la morte. E poi la Batracomiomachia, la battaglia di topi e rane che la tradizione attribuisce ad Omero, poi ripresa mirabilmente da Leopardi. Non si sono ritrovati spunti della nostra favola in quella d’Oriente. La prima in cui ci si imbatte nelle letterature d’Europa è quella del Rossignolo e del nibbio, nelle Opere e i Giorni di Esiodo, di cui, sempre per Leopardi “nulla è più delizioso in letteratura”. Questa è, a memoria degli antichi, la prima favola.4 Ma è in Esiodo che la favola appare inserita, per la prima volta, come commento nel corso della narrazione morale. In questo autore troviamo anche la struttura narrativa più caratteristica della favola di Esopo, cioè il contrasto tra due personaggi animali, o provenienti dal mondo vegetale. Oltre ad Esiodo ci sono Archiloco, Solomone, Somonide di Amorgo: solo cenni legati a personaggi, ma sintomi che la favola non è usata raramente nella riflessione morale greca. Nel pensiero antico, poi, la morale si confonde con la politica: da Aristotele a Stesicoro. Da ricordare questo frammento, in cui Aristotele nello stesso passo in cui cita la favola di Stesicoro contro il tiranno, ne cita un’altra molto attuale, contro i politicanti avidi, che è meglio sopportare per evitare guai anche peggiori: una volpe, attraversando il fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto dirupato, da cui non può tirarsi fuori; le zecche la coprono e le succhiano il sangue; capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle zecche “Ti prego di no” risponde la volpe. “Queste qui sono già rimpinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora più affamate”. La leggenda ha voluto Esopo nativo di Frigia o Trace, contemporaneo di Solone e degli altri sei Saggi. Lo si dipinse piccino, curvo, sciancato, con una catena ai piedi, perché era schiavo. Si volle anche che andasse schiavo in Atene, e che ottenuta la libertà, giungesse peregrinando a Creso, il ricco re di Lidia; poi mandato da questo a Delfi, fosse precipitato giù da una rupe dai cittadini di là, per scherni all’oracolo.5                                                                                                                           3 MANLIO FAGGELLA, Fedro/le favole, cit. 4 QUINTILLIANO, Institutio oratoria, V,11, 19, “Videtur primus auctor fabellarum Hesiodus”. 5 ERODOTO, Storie, II. scopi, dall’esercizio stilistico e retorico (come La prima veste dei discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola), allo scritto moraleggiante o come strumento di polemica sociale. Verso la fine del ‘400 agli Esopi volgari medievali si affiancano le prime edizioni a stampa dell’Esopo greco e le sue versioni latine ed italiane. La rilettura di Platone e dei suoi miti allegorici alimenta le favole umanistiche sia con raccolte autonome ed originali, sia con la frequente inserzione di favole all’interno di opere di altro genere. I filologi e i filosofi di questo periodo, tra i quali Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti, Bartolomeo della Scala, Angelo Poliziano si cimentano in edizioni, traduzioni e rivisitazioni del genere. Anche Leonardo da Vinci, altro grande amante di Esopo, mostra interesse per il linguaggio degli animali e della natura, unendo le fonti letterarie con l’osservazione diretta, non senza il sostegno di una eccezionale immaginazione visionaria. Sono ancora da ricordare Specchio d’Esopo di Pandolfo Collenuccio e La moral filosofia di Anton Francesco Doni. Questi modelli narrativi, di raccolte di favole, godettero di ampia fama, tanto da costituire una distintiva e diffusa tipologia della novellistica rinascimentale, dai toni mordaci e sarcastici. Nel Seicento la morale diventa moralismo, ci si protegge con la prudenza e la retorica e le favole ripercorrono rassicuranti luoghi comuni con qualche eccezione per Salvator Rosa e per Galileo Galilei. Apologhi e favole riflettono su temi morali spesso sotto forma di coppie antitetiche (si veda per esempio la favola del piacere e del dolore di Giovan Battista Gelli, narrata sia nella Circe che nelle Lezioni petrarchesche e proposta da Leopardi nella sua Crestomazia della prosa, in quanto ha come modello la favola socratica riportata per altro da Platone nel Fedone). Dopo Esopo, il trionfatore del genere favolistico è Jean De La Fontaine (1621- 1695). Le sue storie uscirono in tre tempi: nel 1668 i primi sei libri, nel 1678 dal settimo all’undicesimo e nel 1693 gli ultimi due libri. Grazie a lui il Settecento diviene il secolo delle favole. Il genere si diffonde velocemente quasi in ogni letteratura e in quella italiana il verso torna a dominare sulla prosa. “La Fontaine sa insinuare ingenuità né discorsi degli uomini del pari che in quelli degli animali; e allorché entra a parlare il poeta, n’ha d’ordinario l’aria più cara. I prologhetti, le chiuse, le picciole riflessioni con cui balza fuori d’improvviso, sembrano poter esser fatte ed espresse da un fanciullo; e non v’è che un filosofo e un sommo poeta che possa farle ed esprimerle a quel modo (…). I più accorti poi analizzeranno con un gran diletto quel vezzo, quel tuono, quel colorito che regnano laddove si fan parlare gli animaletti più mansueti e gentili, e dove si esprimono i loro appassiona menti più delicate; e vedranno per quanti gradi e per quali artifizi si devii felicemente da Esopo e si cresca sopra Fedro”.8 In Italia si diffonde in particolare la poesia didascalica, nella quale viene inserita anche la favola in versi, poesia meno elevata, ma che ebbe maggior fortuna di tutte le                                                                                                                           8 AURELIO DE’ GIORGI BERTOLA, Saggio sopra la favola, in Dal Muratori al Cesarotti. Critici e storici della poesia e delle arti del secondo Settecento, a c. di Enrico Bigi, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, pp.805-807. altre e venne trasformata, a volte, in vera e propria satira. Durante l’Arcadia la favola ha un’importante funzione istruttiva, insegna con rapidità e piacere e rappresenta nella poesia quello che è il saggio breve nella trattatistica. Per la cultura italiana è anche un modo di essere in contatto vitale con le più avanzate culture europee. Il nuovo strumento editoriale del giornale, si presta molto bene all’inserimento di testi brevi quali le favole. La produzione poetica era dominata dalla melodiosa grazia dell’Arcadia: i suoi moduli stilistici e ritmici, riconoscibili soprattutto in certe soluzioni retoriche e nella facile cantabilità, passarono, in massa, anche nella produzione favolistica. Su tutta la poesia del secolo impera la canzonetta: versi corti dal ritmo pronunciato, strofe con non più di sei versi, andamento ritmico vivace grazie all’uso di versi sdruccioli e tronchi. A rafforzare però l’effetto ritmico delle rime concorre la brevità del verso. Esempi di questa forma metrica sono Il Gufo e Il limone e la rosa9 di Aurelio De’ Giorgi Bertola. Gli autori settecenteschi di favole sono davvero tanti, impossibile nominarli tutti. Fra gli altri Luigi Fiacchi, detto il Clasio, con le sue favole dai fini di ammaestramento pedagogico, Paolo Rolli, che usa un classicismo minuto ed elegante, Tommaso Crudeli, Carlo Cantoni, Carlo Innocenzo Frugoni, forse il più noto e prolifico dei rimatori arcaici. Al neoclassicismo arcadico è da assegnare l’opera di Gherardo De Rossi che esordì come poeta con una raccolta di Favole nel 1788, accresciuta in successive edizioni, nelle quali si mostra piuttosto originale quanto alla scelta degli argomenti, che solo in piccola parte derivano dalla favolistica classica o moderna. Si tratta in genere di favolette che vivono per un tocco di grazia descrittiva in scorci di paesaggi e figure, o per battute argute, più che per le velleità moralistiche di cui si alimenta il moderatismo derossiano. Al vertice dell’Arcadia dialettale si colloca Giovanni Meli con le sue Favule murali che concepì ed elaborò con passione e sono il capolavoro della favolistica settecentesca, in quanto è assente ogni velleità di riformismo radicale, ogni forzatura intesa a rendere esplicita la morale, perché questa è calata interamente entro gli esempi di vita di un mondo animalesco osservato e descritto con cura. Le sue favole sono inconfondibili per il loro realismo lirico filtrato da un linguaggio senza asprezze. I favolisti del Settecento10 e anche più tardi dell’Ottocento furono quindi per lo più poeti, da Parini (che inserisce favole incantevoli ne Il giorno) al Meli appunto, da Giusti, a Nievo, ovviamente non mancano eccezioni come Gasparo Gozzi, che alternava prosa e poesia, e Niccolò Tommaseo. La favola, quasi sempre in versi, se diventa prosa è soprattutto in ambito critico. Il dibattito sulla favola solleva l’interesse dei maggiori studiosi italiani, fra i quali Ludovico Antonio Muratori e Giambattista Vico. Il primo dedica alla favola un capitolo del trattato Della perfetta poesia italiana indicandone alcune fondamentali                                                                                                                           9 AURELIO DE’ GIORGI BERTOLA, Cento favole scelte, Tipografia e libreria dell’oratorio di San Francesco di Sales, Torino 1875, p.110 s. 10 Si veda MARIO SANSONE, Favolisti del Settecento, Sansoni, Firenze 1943. peculiarità come la brevità, la grazia, l’arguzia, la misura e il buon gusto. Senza dimenticare, inoltre e ovviamente, che la favola è in grado di coniugare perfettamente l’utile e il dilettevole. Da questo punto di vista anche Vico dedica alla favola molti passaggi nei Princìpi di Scienza Nuova. Grazie a Lessing11 il genere favolistico trovò la sua sistemazione teorica che però con l’avvento del Romanticismo entrò in crisi lasciando spazio al genere fiabesco, inteso come espressione del folklore di una nazione. Nei suoi Trattati sulla favola del 1759, egli inserisce osservazioni e riflessioni cruciali, che saranno per diversi autori punto di riferimento imprescindibile. In Italia la riflessione sul genere è stata fatta da scrittori di favole che sono diventati anche teorici come Gianbattista Roberti, Lorenzo Pignotti e il già menzionato Aurelio De’ Giorgi Bertola, quest’ultimo autore di un bel Saggio sopra la favola12 del 1788. Tra i minori, ma di gran classe, Francesco Gritti che giunse tardi alla favola. Scriveva in un ambiente illuministicamente “ben” illuminato, in cui l’interesse per la favolistica era un fatto canonico. Decisivo fu l’incontro con le Fables di Jean Pierre Claris de Florian e con La Fontaine, del quale rielabora liberamente qualche tema. Usa il linguaggio dialettale, ma della gente colta. Per avere un’idea della freschezza di rappresentazione e di dialogo particolarmente spumeggiante, molto utile può rivelarsi la lettura della favola L’Ava che beca13 ovvero L’Ape che punge, che raccoglie “il senso” di molte narrazioni dell’epoca. Se nelle favole gli animali continuano a conservare il loro doveroso e tradizionale primato, sono però lontani dalla vita concreta, sono soggetti letterari, artifici retorici, termini di paragone che attingono più alla letteratura stessa che all’osservazione diretta. Gli scrittori, come vedremo più avanti, ne parlano ma staccati dall’esperienza quotidiana. L’urgenza delle istanze sociali e politiche, che alla letteratura satirica del secolo XIX toglie leggerezza, il tono di piacevole divagazione, di raffinato gioco letterario, improntato ad un aristocratico distacco, che l’avevano caratterizzata nei secoli precedenti, diventano sempre più distanti.                                                                                                                                     11 GOTTHOLD EPHRAIM LESSING, Trattati sulla favola, a c. di Lucia Rodler, Carocci, Roma 2004, p. 120. 12 AURELIO DE’ GIORGI BERTOLA, Saggio sopra la favola, in Dal Muratori al Cesarotti. Critici e storici della poesia e delle arti del secondo Settecento, cit. 13 FRANCESCO GRITTI, L’Ava che beca, in Il fiore della lirica veneziana, a c. di Manlio Torquato Dazzi, II, Neri Pozza, Venezia 1956, pp. 394-395. La fiaba nella storia Dall’Antichità al Medioevo La storia delle “storie” inizia, come tutte le vicende storiche legate alla presenza dell’uomo sulla terra, in un periodo vago e lontanissimo che genericamente, e poeticamente, si usa chiamare, non a caso, “la notte dei tempi”. Abbiamo scritto “non a caso” perché, in effetti, la definizione subito ci colloca in un periodo temporale lontano e indistinto tipico delle fiabe (C’era una volta…), ma proprio anche del mito il quale rappresenta, come ormai tutti sappiamo anche solo per pura osmosi culturale, il prototipo di ogni narrazione. In altre pubblicazioni abbiamo preso in considerazione le analogie tra mito e fiaba e le omologie strutturali che li apparentano. Qui, ora, intendiamo invece delineare, molto sinteticamente, lo sviluppo storico di un genere narrativo praticamente universale, ma che ha trovato forme diverse per luoghi culturali, geografici e storici, diversi. La fiaba, a differenza della favola, è sempre in prosa e ha come protagonista di solito l’uomo, nelle cui vicende intervengono spiriti benefici o malefici, demoni, streghe, fate, e tutto l’armamentario. Rispetto alla favola ha molto maggiore sviluppo narrativo, un carattere più dichiaratamente fantastico e non ha necessariamente un fine morale e pedagogico. La fiaba, più della favola, ha un’origine popolare e uno sviluppo che si è tramandato per tradizione orale, anche se, specialmente col Romanticismo, molti letterati si volgono al mondo della fiaba o per raccoglierle, sistemarle, reinterpretarle o per inventarne di nuove. La fiaba e la favola, comunque, sono entrambe espressione di quel patrimonio di fantasia che si forma in ogni civiltà in modo apparentemente spontaneo, per un bisogno connaturato all’uomo. In Occidente, nell’epoca greco-romana, sono presenti sia la fiaba, col suo carattere essenzialmente fantastico, che la favola a sfondo spiccatamente morale. Ma, mentre la favola, come abbiamo visto, costituisce, in questo periodo, un genere autonomo tenuto in grande considerazione, la fiaba viene, invece, poco apprezzata anche se continua a vivere per tradizione orale e popolare divenendo, in alcuni casi, pretesto per composizioni artistiche raffinate. Una domanda continua riguarda come sono nati i racconti popolari, padri e madri delle fiabe. I racconti popolari sono antichi quanto la condizione umana. È difficile immaginare che una società con comunicazione orale non conosca la narrazione di avvenimenti del passato. E come si potrebbe vivere senza idee sull’origine dell’umanità? I racconti popolari dovevano davvero essere conosciuti in ogni società umana, anche molte migliaia di anni fa. Con ciò che non si è detto ancora nulla sull’origine e l’antichità dei generi, dei racconti e dei motivi narrativi conosciuti oggi. “A tale riguardo, il grosso problema è che noi conosciamo soltanto una piccola parte della storia umana: solo intorno al 1800 si sono cominciati a registrare in maniera più o meno sistematica i racconti popolari (orali), e allora si era molto selettivi su ciò che si raccoglieva, dove e da chi. Prima di quell’epoca, per l’Europa occidentale dobbiamo accontentarci di comunicazioni scritte incidentali, anch’esse fortemente selettive (…). Tocchiamo, qui, il punto del complesso rapporto tra tradizione scritta e orale. Entrambe hanno caratteristiche proprie. Una delle caratteristiche principali della tradizione orale è che un racconto non ha una forma unica e definitiva: la trasmissione orale da un narratore all’altro, le preferenze individuali dei singoli narratori e la capacità limitata della memoria umana lo rendono impossibile. Epoche nuove, spazi e narratori nuovi producono adattamenti e mutamenti sempre nuovi”.15 In realtà l’origine della fiaba, con i problemi storici e filologici che essa comporta, costituisce ancor oggi una questione ben complessa e di non facile soluzione. E non è qui il caso di prospettarne particolarmente la problematica che se ne ricava dalle ricerche di studiosi come Herder, i Grimm, Max Muller, G. B. Taylor, A. Lang solo per fare alcuni nomi indicativi. Bisogna sottolineare che sia la scuola naturista sia la scuola antropologica (se si accettano queste semplificazioni) si pongono da un punto di vista che lascia impregiudicata l’origine storica della fiaba. La scuola naturista sottolinea l’importanza che hanno i fatti e i fenomeni naturali come pretesto all’insorgere della fiaba. La scuola antropologica sottolinea la trasfigurazione subita da questi elementi naturali, per l’intervento della fantasia primitiva e secondo le leggi di una mitologia animistica e antropomorfica, in forme e figurazioni fiabesche. Ci saranno altre tesi e scuole successive, ma queste colgono gli elementi essenziali e le leggi costitutive che presiedono alla formazione della fiaba. Ne colgono l’origine mitica e psicologica, radicandola nello stupore magico dell’uomo primitivo di fronte ad eventi naturali. Ma non risolve per questo il problema dell’origine storica della fiaba. Anche chi sostiene che la fiaba trova la sua remota origine nel patrimonio antico della letteratura indiana, sa che alla formazione della fiaba presiedono sia gli elementi mitico-naturalistici messi in luce dalla scuola naturista, sia la mentalità animistica dell’uomo primitivo messa in luce dalla scuola antropologica. Il suo problema è e resta diverso, in quanto tenta di cogliere non l’origine della fiaba in sé, ma l’origine e la derivazione storica della fiaba occidentale. Questo è un problema tanto complesso che non può essere risolto se non nella sua sede più propria, la sede della ricerca storica e filologica. Sappiamo quanto sia difficile la soluzione, dal momento che tale problema è direttamente collegato con quello più generale della formazione del ceppo indoeuropeo e delle sue incessanti trasmigrazioni. Del resto, quando la scuola indianista insiste sulla trasformazione dei motivi originari per adattamento al nuovo ambiente, presuppone a sua volta sia l’intervento di nuovi elementi naturali, sia l’intervento di una diversa mentalità mitologica e primitiva. E se è vero che non tutto il complesso della favolistica occidentale è riconducibile alle fonti originarie dell’antico oriente è pur vero che dall’antico oriente si riverbera sulla fiaba, sui suoi modi e sui suoi miti, una luce remota e diffusa. La fiaba ha avuto, comunque, in Oriente uno sviluppo estremamente importante,                                                                                                                           15 TON DEKKER, JURJEN VAN DER KOOI, THEO MEDER, Dizionario delle fiabe e delle favole, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. XIV. documentato soprattutto dalle raccolte Pancatantra16 e Mille e una notte17. Il Pancatantra è una delle più antiche raccolte di favole della letteratura sanscrita. Risale al IV secolo d.C., ma si basa su più antiche raccolte di fiabe. Viene attribuito al saggio indiano Bidpai, vissuto attorno al 300 d.C. Si compone di un racconto cornice sul quale si innestano settanta favole che veicolano precetti di morale utilitaristica. I racconti sono suddivisi in cinque libri che trattano alcune tematiche come la conquista degli amici, la separazione dagli stessi, l’acquisto o la perdita di beni, il modo di organizzare e fare la guerra, le opere fatte sconsideratamente. Molto probabilmente, in origine, tali racconti erano destinati all’educazione e all’istruzione. Ancora oggi resta uno dei libri più tradotti dell’India, sono conosciute più di duecento versioni presenti in almeno cinquanta lingue. Già nell’XI secolo quest’opera aveva raggiunto l’Europa e prima del 1600 esisteva in alcune lingue slave e in greco e latino, spagnolo, italiano, tedesco e inglese. Lo schema e la concatenazione dei racconti esemplifica il modo in cui nella vita un’esperienza conduce ad un’altra, anche inaspettatamente, dimostrando che non è sempre facile tracciare una linea di demarcazione tra la fine e l’inizio dell’esistenza. Le mille e una notte è una ricca raccolta di novelle orientali, di varia ambientazione sia storica che geografica e di differenti autori. Non esiste un unico originale al quale fare riferimento, ma un certo numero di antichi manoscritti in alcuni casi differenti fra loro in quanto a novelle contenute. Inizialmente tramandate oralmente, da un punto di vista temporale si ritiene che la prima stesura organica sia da datare attorno al X secolo. Il numero 1001 non va preso alla lettera. Al contrario mille significa in arabo innumerevoli e quindi 1001 significa un numero infinito. Questa raccolta work in progress è arrivata in Occidente grazie ad Antoine Galland a fine Seicento. Tale mito planetario è stato il trattino di unione tra Oriente e Occidente. Il mondo è ancora incantato da questo scrigno di magia orientale intramontabile; califfi, ombre, narghilè, pozioni magiche più note in occidente che nel mondo arabo. In effetti il libro restò ancorato alla letteratura intermediaria. Era considerato lontano dall’Adab, la grande prosa, e linguisticamente criticabile perché denso di dialetti o meglio di parlate distanti dall’arabo letterario fusha, né abbastanza equilibrato tra serietà e comicità molto cari alla letteratura di prestigio. Dal punto di vista filologico l’opera per intero conta tra 100 e 250 racconti, di cui un corpo stabile di trenta che ritroviamo in tanti codici. Sono generalmente cicli di racconti, dal momento che sono incatenati per cui il terzo inizia grazie al secondo che a sua volta è incorporato nel primo. Un complesso labirinto testuale che ha fatto scalpore nel mondo della filologia araba. In questo magma si parla spesso di                                                                                                                           16 Per godere pienamente di questo libro si vedano le seguenti edizioni: GIOVANNI BECHIS, Pancatantra: il libro dei racconti, con la prefazione di Giorgio Cusatelli, Guanda, Parma 1991; ed anche: FRANCESCO CARCIOTTO, CETTINA CAVALLARO, MARIA ADELAIDE DURANTE, Novelle del Pancatantra tradotte dal Sanscrito, Greco, Catania 1999. 17 Detto anche il libro della “commedia umana in lingua araba”, il libro molteplice e moltiplicatore, il libro che comincia e non finisce o che finisce con tutti i finali possibili. concludersi con un ritorno e un cambiamento di status. Attraverso il viaggio, o una metamorfosi, i personaggi realizzano il passaggio a ranghi più alti. Passano dalla povertà alla ricchezza, dalla solitudine al matrimonio, dalla bruttezza alla bellezza, da un rango inferiore ad uno superiore. Questo passaggio avviene sempre attraverso eventi sui quali intervengono poteri violenti e capricciosi, quasi sempre impersonati da orchi e fate. Il cibo in questo scenario è elemento essenziale. La costante presenza del cambiamento e, soprattutto, del miglioramento è uno degli elementi ricorrenti in una società quale quella del XVII secolo, tendenzialmente statica, ma pervasa dal desiderio di modernità. Questa struttura fa del Cunto un sofisticato racconto multiplo che propone un modello narrativo tipico del racconto fiabesco, poi ripreso e diffuso praticamente in tutte le tradizioni del racconto europeo. Il Cunto, infatti, è stato la più grande fonte di ispirazione per il genere letterario della letteratura fiabesca europea. Non a caso i più noti racconti della tradizione quali Cenerentola, La Bella addormentata nel bosco, Il Gatto con gli stivali, sono il risultato di riduzioni o adattamenti dei racconti di Basile. E non sono che alcuni esempi fra molti altri. Il tema dominante nell’intera opera è il rapporto speculare che esiste tra realtà e finzione: attraverso la fantasia e l’invenzione della fiaba, Basile racconta la verità del mondo. Solo la quarantanovesima fiaba non è una finzione, ma il racconto delle vicende personali della narratrice, che rompe così l’incantesimo. Altro elemento caratterizzante i racconti del Cunto è il viaggio, inteso come allontanamento da una condizione nota per inoltrarsi in luoghi sconosciuti, non agevoli e ricchi di insidie. Il Cunto è un’opera che nasce da una contraddizione: scritto in un linguaggio popolare, è però destinato ad un pubblico colto ed esigente quale quello delle corti. Grazie al rivoluzionario schema narrativo, Basile ha saputo ottenere un unanime consenso. Eliminando qualsiasi riferimento alla quotidianità e annullando la riconoscibilità dei personaggi, il racconto diventa di facile ascolto anche perché non solleva nessuna forma di conflitto. Lo cunto de li cunti ha trovato una notevole fortuna presso le corti italiane ed europee proprio grazie alla sua struttura narrativa adattabile alle varie circostanze e soprattutto grazie al fatto che il racconto fiabesco non ha spessore storico, non utilizza modelli, rinuncia alla memoria storica della letteratura per individuare la memoria storica della cultura locale. Per raccontare una fiaba non è necessario avere schemi o essere fedeli al testo; la fiaba si colloca immediatamente fuori dalla società letteraria, dalle convenzioni e dai miti dei letterati. Per questo il racconto di Basile va a collocarsi nello spazio del passatempo che è quello dei giochi. Ma che è anche quello del mondo dei cibi e dell’alimentazione. I pranzi contrassegnano le svolte dell’intreccio. Spesso chiudono storie e coincidono con un giudizio e una pena, aprono le porte senza ritorno della morte. Dopo il pranzo il principe che ha riavuto la sua fata chiede ai convitati che pena merita chi ha fatto del male ad una fanciulla così bella e così appetibile, che ha il sapore dello zucchero. Lo Cunto è colmo di leccornie, di trasgressioni alimentari, di eccessi di gola, di ingestioni, digestioni, evacuazioni. La penuria e la crapula sono due delle componenti di una vita vissuta tra realtà e fantasia; nelle feste la fame e il suo soddisfacimento hanno i loro emblemi da tempo collaudati nel rito della grande cuccagna. Più di ogni altro genere letterario il racconto fiabesco non ha confini di gruppo, né vincoli letterari, né limiti alla sua diffusione e uso. Si adatta facilmente a qualsiasi pubblico, ma anche a qualsiasi narratore, a qualsiasi lingua e circostanza. La grande flessibilità della struttura del racconto fiabesco rende quindi possibile la rapida diffusione del capolavoro di Basile oltre i confini dell’Italia fino a raggiungere le corti europee. Una serie di antologie, traduzioni, rifacimenti assicura la circolazione dell’opera. Alcuni racconti sono tradotti in tedesco nel XIX secolo; successivamente è tradotta anche l’intera opera con prefazione di uno dei fratelli Grimm, così come circolano versioni in inglese e in altre lingue. “Eppure l’Italia è come se non possedesse quel libro - sempre a detta di Benedetto Croce - perché scritto in un antico e non facile dialetto (…). Più facilmente lo leggono i tedeschi, che fin dal 1846 ne hanno a lor uso la traduzione del Liebrecht, più volte ristampata, e gl’inglesi, che fin dal 1848 ne hanno la copiosa scelta del Taylor, anch’essa più volte ristampata, e dal 1893 la traduzione completa del Burton. Intento di questa mia nuova fatica è di far entrare l’opera del Basile nella nostra architettura nazionale, togliendola dall’angusta cerchia in cui ora è relegata (che non è più neanche quella dialettale e municipale, ma addirittura il circoletto degli eruditi, degli specialisti e dei curiosi), e di acquistare all’Italia il suo gran libro di fiabe”.21 Basile, “uomo di cuore e di cervello” è ormai entrato a pieno titolo nell’enclave letterario più accreditato “è un libro vivo e non ha nulla a che vedere con una mera raccolta di fiabe, siciliane, toscane o veneziane, come se ne hanno ora tante, e piuttosto si ricongiunge idealmente alla letteratura italiana d’arte che aveva col Pulci, col magnifico Lorenzo, col Folengo, e per alcuni rispetti col Boiardo e con l’Ariosto, preso a rifoggiare, celiando, la materia dei romanzi cavallereschi e della letteratura popolare, e, in certo senso, è l’ultima opera schietta di questa linea, venuta fuori in ritardo a Napoli, non più nell’ambiente della Rinascenza, ma in quello del seicento e del barocco. Il barocco vi entra dappertutto; e il Basile non si sta pago a dignificare i cunti degli orchi e delle fate presentandoli nella disposizione diventata classica mercé il classico Decamerone, e dando il posto, che già tennero Pampinea e Fiammetta e Neifile ed Elisa, alle sue Zeze e Ciulle e Pope e Ciommetelle, ma li cosparge tutti dei più forti olezzi della letteratura secentesca”.22                                                                                                                           21 GIAMBATTISTA BASILE, Il racconto dei racconti, a. c. di Alessandra Burani e Ruggero Guarini, cit., saggio di Benedetto Croce, p. 646.   22 Ibidem, p.655 s. Raccontare è un gioco che richiede una competenza letteraria e teatrale. In Francia, nell’epoca di Luigi XIV, Charles Perrault (1628-1703) riprende e rielabora le storie popolari di Basile, basandosi anche sull’osservazione della vita di corte, nei celebri Contes de ma Mère l’Oye, una raccolta di fiabe che risulterà imprescindibile per qualsiasi studioso del genere. Cosa ribadisce in queste fiabe Perrault? In primo luogo che l’arte non è imitazione dei modelli prestabiliti (siano pure i classici greci e latini), ma invenzione che deve animare i temi e i motivi più vivi del proprio tempo. “Perrault rifiuta l’imitazione, coglie i centri d’interesse del suo tempo. Interessi minori? Senza dubbio, e proprio per la natura della sua intelligenza un po’ svagata e infantile, del suo gusto prezioso, dominato dall’estro e dalla fantasia. Così alla mitologia classica egli contrappone la mitologia minore dei “favolelli”, dal carattere andante e popolare, dalla problematica semplificata a grandi linee, dove il bene e il male battagliano in un clima favoloso e lontano, senza quasi toccarci né impegnarci sul vivo, svagando e divertendo la fantasia, senza chiedere una pensosa e attiva partecipazione”.23 Perrault, a modo suo, è riuscito a precorrere alcuni atteggiamenti romantici, cede alla fantasia senza porsi troppe preoccupazioni intellettuali. “Egli non accetta le regole della raison, ma affondando le radici nella favola popolare, accetta le regole della fantasia, più libere, ma non meno rigorose. In definitiva, le regole dell’arte che sono sempre regole di coerenza umana, di verità nella favola”.24 A proposito delle fonti è stata discussa la derivazione di talune fiabe di Perrault da fiabe analoghe di Basile e, in realtà, vi sono spesso idee, spunti e motivi in comune. Ma sarebbe assai improprio parlare di una derivazione e tanto peggio sarebbe parlare di imitazione. Perrault ha rielaborato spunti popolari traendone dei gioielli letterari. Basile ha spesso riportato sulla pagina tali spunti popolari lasciandoli allo stato grezzo, con tutte le stravaganze e le incongruenze tipiche di certi racconti dialettali e popolari. Oltre alla diffusione e alle varie riprese e imitazioni dell’opera di Basile, è di fondamentale importanza, ai fini dell’arricchimento del repertorio fiabesco in ambito europeo, la divulgazione de Le mille e una notte, la ricchissima raccolta di fiabe del mondo arabo e orientale, ormai molto contaminata anche dal racconto occidentale. Tra il momento scettico di La Fontaine (e le sue favole) e il momento etico di Fénelon, si colloca, opportunamente, il momento fantastico di Perrault, che risolve mirabilmente nell’arte e nella fiaba, alcune preoccupazioni di ordine educativo. Ma se ci atteniamo alla cronologia il primo a sottolineare l’importanza della fiaba non fu Perrault, ma una donna, un’allieva di Fénelon, Francoise D’Aubigné (1635-1719). Rimasta vedova dello scrittore Scarron era passata a corte come istitutrice delle figlie di madame di Montespan, e vi aveva diffuso, in circoli e salotti, la moda della                                                                                                                           23 GIOVANNI CRISTINI, Perrault, Editrice La Scuola, Brescia 1974, p. 17. 24 Ibidem, p.18. di queste altre: come raccontano? Come ci parlano? In che modo si formano e come funzionano le fiabe? Spostare, in prima battuta, la nostra attenzione dal cosa al come non è una semplice preferenza espositiva, ma corrisponde ad un preciso percorso di avvicinamento che, una volta realizzato, ci consentirà, quasi senza accorgercene, di trovare le giuste risposte proprio a quelle prime domande. Intendiamoci, risposte che riguardano non solo la superficie delle varie storie, ma anche il loro significato profondo e nascosto, vale a dire, risposte che hanno un intento esplicativo oltre che descrittivo. In fondo di cosa parlano le fiabe, i racconti fantastici e le leggende lo sappiamo tutti. Narrano di vicende irreali o inverosimili, di magie, di incantesimi e raccontano storie di streghe malvagie, di matrigne e orchi, di principesse e fate. Chi racconta si lascia condurre dal piacere dell’intreccio e delle immagini, chi ascolta dal fascino della narrazione che scorre. A questo livello di lettura la comprensione è semplice e diretta e per essere apprezzata non richiede (anzi non deve richiedere) alcun approfondimento. Le fiabe sono racconti che seguono uno schema narrativo molto semplice e lineare. Di solito presentano una situazione iniziale in cui vengono brevemente delineati i personaggi principali, il luogo e il tempo della storia (tempo e luogo che però restano, in genere, indefiniti). Ben presto emerge un problema, una situazione da risolvere, la complicazione attorno a cui si costruirà l’intera fiaba. Quindi avviene lo svolgimento della vicenda, fino a giungere a una conclusione, a un lieto fine in cui si superano le difficoltà e si risolvono i problemi. Le fiabe raccontano quasi sempre di grandi difficoltà, di prove e pericoli da superare, di magie buone e cattive, di viaggi straordinari. Ma al di là delle varie vicende e dei vari modi di raccontarle si è scoperto, in effetti, che le fiabe sono sempre costruite secondo una struttura fissa e ricorrente che contempla, a fronte di un numero praticamente illimitato di azioni da parte dei personaggi, un numero di “azioni funzionali” limitato e fisso. Nella fiaba, infatti, esistono due livelli: uno superficiale dove si manifestano le particolarità di ogni singola fiaba, l’altro profondo nel quale quelle stesse particolarità mostrano invece di avere delle radici comuni. Tale scoperta, dimostratasi col tempo molto fruttuosa ai fini dell’analisi della fiaba e dello studio della narrazione in genere, la dobbiamo al russo Vladimir Propp (1895-1970). Seppur sinteticamente, è necessario prendere in considerazione e cercare di chiarire bene le conclusioni del suo lavoro perché rappresentano uno strumento (sia pure uno strumento di riferimento, se non d’uso) di straordinaria efficacia esplicativa. In Morfologia della fiaba,25 libro pubblicato nel 1928 divenuto poi                                                                                                                           25 Morfologia della fiaba è un saggio notissimo, pubblicato a Leningrado nel 1928 e uscito in Italia nel 1966 per Einaudi, a cura di Gian Luigi Bravo. Inizialmente pubblicato solo in Russia, questo scritto ha influenzato le ricerche dell’antropologo Claude Lévi-Strauss e del linguista Roland Barthes. Fra i vari studiosi che hanno rielaborato questo lavoro c’è A. J. Greimas, fondatore dell’analisi semiotica narrativa. Egli semplifica lo schema delle sfere d’azione di fondamentale nell’ambito degli studi narratologici, Propp si pone il compito di analizzare le forme della fiaba popolare “con la medesima precisione -scrive nella prefazione- con la quale viene elaborata la morfologia delle formazioni organiche”. Individuando nelle cosiddette “funzioni” gli elementi costanti che si presentano in un racconto secondo un determinato ordine (vale a dire il tipo di azioni e di avvenimenti che vi ricorrono) Propp riesce a mettere in luce che, anche se i personaggi delle fiabe sono innumerevoli e diversi, in realtà le azioni che essi compiono sono poche e si ripetono spesso. Tali funzioni riconosciute come presenti nella fiaba comportano la scomposizione della fiaba stessa in una serie di segmenti elementari, corrispondenti a una “descrizione strutturale” delle azioni compiute dai vari personaggi. Questi ultimi, inoltre, non si caratterizzano per loro peculiarità (il colore dei capelli, l’intelligenza, il nome, ecc.), ma per il loro ruolo nell’economia della narrazione, per le azioni standard che svolgono nella fiaba. Propp individua sette personaggi tipo: l’eroe, l’antagonista, il donatore del mezzo magico, l’aiutante dell’eroe, il falso eroe, il mandante, il personaggio cercato. Questi personaggi possono anche non comparire tutti in una stessa fiaba, ma sono comunque fissi, come è fissata la gamma delle azioni che essi possono svolgere. A dire il vero in Morfologia della fiaba Propp prende in considerazione e studia solo le fiabe di magia russe; tuttavia le sue conclusioni si sono dimostrate valide anche per le fiabe di ogni altro paese, dato che la struttura di fondo delle fiabe, alla luce di successivi studi, si è rivelata essere uguale in tutte le civiltà e in tutte le epoche. Vediamo ora quali sono i risultati dell’indagine dello studioso russo. In estrema sintesi Propp giunge a formulare quattro principi: 1. gli elementi costanti, stabili della fiaba sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano. Essi costituiscono i componenti fondamentali della fiaba 2. il numero delle funzioni proprie del racconto di magia è limitato 3. la successione delle funzioni è sempre la stessa 4. tutte le fiabe, per struttura, sono monotipiche. Le funzioni che Propp individua, anche se le azioni che i personaggi possono compiere sono migliaia, sono solo trentuno e a quanto pare bastano, con le loro varianti ed articolazioni interne, a descrivere la forma delle fiabe. L’insieme delle trentuno funzioni costituisce la struttura della fiaba, quella struttura invariabile del livello profondo che poi, a un livello più superficiale, si riveste di tutte le varianti suggerite dalla fantasia di chi la racconta. Vediamole in dettaglio perché non rappresentano solo un elenco. Ciascuna funzione, infatti, pur nell’estrema sintesi della definizione, costituisce un importante riferimento interpretativo, certo non indispensabile per godere della lettura di una fiaba, ma sicuramente necessario se se ne vuole comprendere,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Propp rinominando attanti i personaggi (sostituendo le categorie individuate da Propp con soggetto, oppositore, destinante, aiutante e oggetto di valore). La rielaborazione dello studio di Propp porterà Greimas ad elaborare lo schema narrativo canonico. anche solo a grandi linee, la struttura. La lista, inoltre, al di là della numerazione progressiva (che rende comunque conto della successione temporale del testo narrativo) può essere letta come un prontuario cui far ricorso per chiarire il ruolo di un personaggio o una situazione significativa, come una svolta nella trama. Leggiamola, dunque, senza preoccuparci troppo dell’inevitabile sensazione di trovarci in presenza di un’analisi troppo tecnica, anche perché tale analisi non rientra tra gli scopi di questo libro. Leggiamola come se fosse, per quanto astratta, una fiaba prototipo che, in quanto tale, riassume tutte le fiabe senza prenderne in considerazione nessuna in particolare. 1. Allontanamento: uno dei membri della famiglia si allontana da casa per un particolare motivo (guerra, affari, punizione, ecc.). 2. Divieto: all’eroe viene proibito di fare qualcosa, gli viene imposto un divieto. 3. Infrazione: l’eroe non rispetta la proibizione, trasgredisce il divieto che gli era stato imposto. 4. Investigazione: l’antagonista cerca elementi utili per combattere l’eroe. 5. Delazione: l’antagonista riceve da qualcuno informazioni che gli servono per danneggiare l’eroe. 6. Tranello: l’antagonista cerca di ingannare la vittima per impossessarsi dei suoi beni o di lei stessa. 7. Connivenza: la vittima si lascia convincere e cade nel tranello. 8a. Danneggiamento: l’antagonista riesce a recare danno a un familiare dell’eroe o ad un suo amico. 8b. oppure Mancanza: a uno dei familiari o degli amici manca qualcosa o viene desiderio di qualcosa. 9. Mediazione: l’eroe viene incaricato di rimediare alla mancanza o al danneggiamento. 10. Consenso o reazione: l’eroe accetta l’incarico o decide di reagire. 11. Partenza: l’eroe parte per compiere la sua missione. 12. L’eroe messo alla prova dal donatore: deve superare prove e incarichi in cambio della promessa di un dono che lo aiuterà nell’impresa. 13. Superamento delle prove (reazione dell’eroe): l’eroe affronta le prove e le supera. 14. Conseguimento del mezzo magico: l’eroe si impadronisce del mezzo magico. 15. Trasferimento: l’eroe giunge, o viene condotto, nel luogo in cui dovrà compiere l’impresa. 16. Lotta: l’eroe si batte contro il suo avversario. 17. Marchiatura: all’eroe è imposto un segno particolare, cioè un marchio. 18. Vittoria: l’antagonista è vinto. 19. Rimozione della sciagura o della mancanza iniziale: l’eroe raggiunge lo scopo per cui si era messo in viaggio. le stesse (riducibili all’ingrosso a una cinquantina di tipi) le versioni più belle, originali e rare; tradurle dai dialetti in cui erano state raccolte (o dove purtroppo ce n’è giunta solo una traduzione italiana – spesso senza alcuna freschezza d’autenticità – provare – spinoso compito – a rinarrarle, cercando di rifondere in loro qualcosa di quella freschezza perduta); arricchire sulla scorta delle varianti la versione scelta, quando si può farlo serbandone intatto il carattere, l’interna unità, in modo da renderla più piena e articolata possibile; integrare con una mano leggera d’invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati; tener tutto sul piano d’un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito, che per quanto è possibile affondi le radici nel dialetto, senza sbalzi nelle espressioni “colte”, e sia elastico abbastanza per accogliere e incorporare dal dialetto le immagini, i giri di frase più espressivi e inconsueti. Questo era il mio programma di lavoro, che non so fino a che punto sono riuscito a realizzare”.26 Le scelte programmatiche di Calvino e le sue osservazioni sul lavoro dei fratelli Grimm rendono conto del difficile compito di raccogliere fiabe senza incorrere nel rischio di travisarle nella forma o nel linguaggio. Ma non ci sono altre soluzioni se si vuole che la narrazione mantenga (anche trascritta, anche tradotta), non tutta la freschezza dell’originale, che non è possibile, ma almeno un sentore, un profumo di quella. Rimane aperta, in ogni caso, la questione su cosa possa essere considerato effettivamente originale tra il materiale raccolto nel mondo delle fiabe, dove la forma fissa non è la regola ma l’eccezione. Forse la scelta più corretta, o se non altro la più opportuna, consiste nel considerare il racconto orale, quello trascritto in dialetto e quello scritto in lingua come tre cose diverse. Ciascuna con le sue caratteristiche ed esigenze, ciascuna con un linguaggio proprio ed una forma che può trovare la piena realizzazione solo nell’ambito del proprio scopo. Raccogliere fiabe, leggende, racconti implica, infatti, uno scopo che dev’essere necessariamente chiarito ed esplicitato se si vuole comprenderne il valore e il significato. Un conto è raccogliere fiabe con scopi etnologici (un intento cui deve necessariamente corrispondere l’adozione di metodi scientifici), un altro è proporre una raccolta di storie che hanno come scopo principale quello di appagare letterariamente (e che quindi deve far ricorso a interventi letterari ed estetici, ma non troppo invasivi); un altro ancora, infine, se lo scopo della raccolta è quello del puro intrattenimento (nel qual caso è consentito, se non addirittura richiesto, un libero intervento creativo). Il linguaggio della fiaba va dunque preso in considerazione tenendo conto del suo scopo. I termini usati, le costruzioni sintattiche, i temi proposti vengono adattati alle esigenze del tipo di fiaba, a sua volta scritta, trascritta o modificata per un particolare tipo di pubblico. Ancora Calvino chiarisce bene questo punto dove rende ragione di una sua                                                                                                                           26 ITALO CALVINO, Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956. Il testo di Calvino proposto è preso dall’edizione Meridiani Mondadori, Milano 1973, pp. 13-15. precisa scelta editoriale: Nelle mie stesure, per le quali ho dovuto tener conto dei bambini che le leggeranno o a cui saranno lette, ho naturalmente smorzato ogni carica di questo genere [Calvino si riferisce ai temi della sessualità e dell’erotismo presenti anche in forma latente in molte fiabe di origine mitica]. Una tale necessità già basta a sottolineare la diversa destinazione della fiaba nei vari livelli culturali. Questa che noi siamo abituati a considerare “letteratura per l’infanzia”, ancora nell’Ottocento (e forse ancora oggi), dove viveva come costume di tradizione orale, non aveva una destinazione d’età: era un racconto di meraviglie, piena espressione dei bisogni poetici di quello stadio culturale. La fiaba infantile esiste sì, ma come genere a sé, trascurato dai narratori più ambiziosi, e perpetuato attraverso una tradizione più umile, familiare, con caratteristiche che si possono sintetizzare nelle seguenti: tema pauroso e truculento, particolari scatologici e coprolalici, versi intercalati alla prosa con tendenza alla filastrocca. Caratteristiche in gran parte (truculenza, scurrilità) opposte a quelle che sono oggi i requisiti della letteratura infantile.27 Il linguaggio della fiaba si adatta sempre al contesto sociale e alle sue regole, con poche eccezioni significative. Tuttavia bisogna tener presente che sia la società che le sue norme si modificano nel tempo e quindi ciò che può apparire oggi come un linguaggio trasgressivo e pieno di riferimenti scabrosi, magari un tempo non appariva tale. Per quel che riguarda le fiabe degli autori del Novecento trattati, valgono le considerazioni che potrebbero essere fatte per qualsiasi altro luogo. In genere il linguaggio utilizzato è quello colloquiale, anche se arricchito di termini più curati, qualche arcaismo, qualche slang tesi a colpire l’immaginazione dell’ascoltatore o del lettore. Alcune fiabe si servono di rime e filastrocche (cioè brevi dialoghi o formule magiche) per vivacizzare il racconto (per esempio il noto “Ucci ucci, sento odor di cristianucci”). Altre fanno ricorso a vocaboli ricercati per sottolineare aspetti della fiaba particolarmente esotici o che si rifanno ad una diversa estrazione sociale. Tali vocaboli, comunque, rimangono sempre, in un certo senso, come estranei al contesto narrativo e sono utilizzati alla stregua di elementi decorativi del discorso. Una sorta di ingrediente aggiunto per insaporire il racconto, come il pepe o il peperoncino possono essere aggiunti a una pietanza per renderla più gustosa e piccante. Un linguaggio vero e proprio, specifico delle fiabe, può essere riscontrato solo nell’uso del dialetto, ma anche qui tenendo conto di alcune precisazioni. Il dialetto è una lingua e, in quanto tale, influenza e caratterizza il linguaggio, ma non lo esaurisce. Per questo motivo fiabe raccontate in dialetto possono ugualmente rivelare altre origini per il fatto di utilizzare un linguaggio diverso e                                                                                                                           27 Ibidem, p 49. appartenente ad un’altra cultura. Lingua e linguaggio, insomma, non coincidono. Naturalmente la lingua utilizzata nei racconti è in grado di caratterizzarne fortemente il tono e il ritmo, ma solo dal punto di vista della resa linguistica. Per quel che riguarda i rimandi culturali o i riferimenti di appartenenza sociale, geografica e storica, può invece rimanerne in superficie, senza per questo venir meno alla propria funzione espressiva e comunicativa. Il lessico delle fiabe del Novecento non presenta particolari caratteristiche, se non quelle proprie della lingua italiana, o quelle di un dialetto italianizzato. In molti casi, la narrazione in lingua italiana rivela costruzioni sintattiche proprie della forma dialettale. A questo proposito bisogna sempre tener conto del ruolo del narratore e del suo contributo nella caratterizzazione di un linguaggio particolare, sia dal punto di vista semantico che da quello della sintassi, poiché è vero ciò scrive Calvino, vale a dire che “la tecnica con cui la fiaba è costruita si vale insieme del rispetto di convenzioni e della libertà inventiva”.28 In ogni fiaba possiamo distinguere la narrazione (l’autore racconta i fatti), e il dialogo (i personaggi parlano tra loro); in ogni caso ci sono parole, nelle fiabe o nei racconti fantastici, che caratterizzano i personaggi, le cose, gli eventi sia nei loro aspetti realistici che in quelli immaginari. Anche se questi ultimi non esistono nella realtà in un certo qual modo tradiscono anch’essi, per il modo in cui vengono rappresentati, la visione del mondo di chi racconta. Ad esempio: la fata, l’orco, l’incantesimo, la bacchetta magica, l’anello fatato, ecc. pur appartenendo ad un mondo immaginario comune a tutte le fiabe rivestiranno caratteristiche legate alla cultura locale e verranno descritti secondo parametri tipici del linguaggio, più o meno forbito, del narratore. Sebbene oggi viviamo in un ambiente, sociale e culturale, profondamente diverso rispetto al passato, il linguaggio delle fiabe è tuttora vivo e ricco di significato; e questo vale, naturalmente, anche per il linguaggio delle fiabe moderne e contemporanee. E’ vero che molti di questi racconti si riferiscono quasi sempre a tempi lontani (C’era una volta…) e usano un linguaggio i cui riferimenti vanno via via scomparendo; è anche vero, però, che il linguaggio che propongono è, dal punto di vista dei contenuti esistenziali, profondo ed universale. Destinato, quindi, ad accompagnarci ancora per molto tempo.                                                                                                                                       28 Ibidem, p. 50.
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