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La figlia del capitano di Puškin, Appunti di Letteratura Russa

La figlia del capitano è un romanzo storico di Puškin pubblicato nel 1837. L'opera è ambientata durante la rivolta di Pugačëv, ma analizza anche il conflitto fra la classe nobile e quella contadina, un tema molto attuale durante il regno di Caterina II e nell'epoca di Puškin. Il protagonista, Pjotr Andrèjevic Grinëv, si innamora di Màrja Ivànovna, figlia del comandante Ivan Kuzmic, ma il loro matrimonio è ostacolato dal padre di Grinëv. La rivolta di Pugačëv mette in pericolo la vita dei protagonisti, ma alla fine riescono a liberarsi e a sposarsi.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 28/12/2022

sara.fazzin
sara.fazzin 🇮🇹

4.5

(16)

43 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La figlia del capitano di Puškin e più Appunti in PDF di Letteratura Russa solo su Docsity! LA FIGLIA DEL CAPITANO ‒ PUŠKIN La figlia del capitano è una delle sue ultime opere, è in prosa ed è stata pubblicata su una rivista nel 1837. Si tratta di un romanzo storico, in cui si intrecciano elementi tipici di altri generi, quali il romanzo di formazione e un carattere fiabesco. L'opera è ambientata in un'epoca precedente a quella di Puškin, ovvero durante il regno di Caterina II, in un periodo drammatico, cioè la rivolta di Pugačëv. Puškin però raccontando gli avvenimenti della Russia del passato prende in considerazione anche la Russia che gli è contemporanea, specialmente analizzando il problema del conflitto fra la classe nobile e quella contadina, un conflitto molto attuale durante il regno di Caterina II che porta alla rivolta di Pugačëv e molto attuale anche nell'epoca di Puškin e che resterà attuale per tutto il periodo fino alla rivoluzione. Puškin era interessato alla storia tanto che lo zar Nicola I gli da la consegna delle leggi dell'impero che contiene anche la sentenza del processo di Pugačëv, grazie a questi documenti storici lui ricostruisce tutto il processo, scrive quest'opera concentrandosi sul momento iniziale della rivolta. Per quanto riguarda gli altri generi ritroviamo le regole di Propp che definisce uno schema che rincorre in tutte le fiabe: il protagonista si allontana dal luogo sicuro, si trova a metà fra il mondo reale e il mondo altro, perde la strada, in questo momento di pericolo incontra un aiutante magico che aiuta/salva l'eroe, l'eroe supera delle prove, sconfigge l'antagonista e conquista l'amore della fanciulla. Puškin è influenzato dai romanzi storici di Walter Scott, il quale ha rivoluzionato il modo di fare romanzo storico, in quanto fa vivere anche a personaggi comuni e fa intrecciare i loro destini con quelli di personaggi storici/eventi storici. Perciò la storia viene considerata come un mosaico di tasselli che si influenzano a vicenda. Il protagonista Pjotr Andrèjevic Grinëv, vissuto fino a 16 anni con la famiglia nella campagna di Simbirsk, viene mandato, seguito dallo staffiere Savelic, per decisione del padre Andrej Petrovic Grinëv, a prestare servizio militare ad Orenburg. Durante il viaggio, i due si imbattono in una tormenta; pur rischiando di perdersi, trovano l’aiuto di un uomo di passaggio, che fa loro da guida, e li conduce presso un albergo dove trascorrere la notte. Il mattino seguente, Grinëv regala all’uomo un pellicciotto di lepre. Grinëv e Savelic riprendono poi il viaggio, ed arrivano nella fortezza di Bjelogòrsk, dove conoscono il comandante Ivan Kuzmic, sua moglie Vassilissa Jegorovna, la loro figlia Màrja Ivànovna (Maša) ed il giovane ufficiale Švabrin; tra Grinëv e quest’ultimo nasce subito una forte antipatia, in quanto entrambi sono innamorati di Màrja, e, in seguito ad una discussione, si sfidano a duello, ma Grinëv ne esce ferito. Durante la convalescenza, il protagonista confessa il suo amore a Màrja, fortunatamente corrisposto, ma sfortunatamente ostacolato dall’atteggiamento sfavorevole del padre di Grinëv, contrario al loro matrimonio. Nel frattempo si sparge la notizia della rivolta di Pugačëv. Quattro degli uomini del comandante Kuzmic lo tradiscono per mettersi al servizio dell’ usurpatore, e tra questi, Švabrin. Dopo uno scontro tra truppe regolari e truppe ribelli, Ivan Kuzmic viene mandato alla forca; anche Grinëv sta per essere impiccato, ma riesce a salvarsi grazie all’aiuto di Savelic, il quale chiede grazia a Pugačëv per il suo padrone, riconoscendo in lui la guida di quella notte in mezzo alla tormenta. Anche Pugaciov riconosce i due, e, ricordandosi che Grinëv gli aveva donato alla loro separazione un pellicciotto di lepre ed offerto un bicchiere di vino, li lascia andare. Rimasta orfana, Màrja viene accolta in casa di Padre Gherassim, e di sua moglie, i quali proteggono la ragazza, spacciandola per una loro nipote. Grinëv parte per Orenburg,che ancora non era caduta sotto i ribelli, dove tenta di convincere, invano, il generale ad adottare una tattica offensiva contro i rivoltosi; nel frattempo Pugačëv si avvicina alla fortezza. Grinëv dopo aver ricevuto una lettera, in cui scopre che Švabrin, nominato comandante della fortezza di Bjelogorsk dall’usurpatore, costringe Màrja a sposarlo, parte per Bjelogorsk con Savelic. Durante il viaggio, i due vengono catturati da cinque contadini e condotti davanti a Pugačëv, il quale si mostrerà con entrambi molto disponibile. Dopo avergli raccontato la faccenda di Švabrin, Grinëv, Savelic e l’usurpatore partono per Bjelogorsk, per liberare la fanciulla. Giunti a destinazione, Pugačëv restituisce la libertà a Màrja, favorendo, così, la sua unione con Grinëv. I due si mettono in viaggio per Simbirsk, ma vengono fermati da alcune guardie che lo riconoscono in qualità di “compare” dell’usurpatore, e lo conducono davanti al maggiore degli ufficiali degli ussari, Zurin, che Grinëv aveva conosciuto appena si era messo in viaggio per Orenburg,e con il quale, fortunatamente, era diventato subito amico. Questi si unisce all’ amico per lottare contro Pugačëv,dicendo a Màrja di tornare con Savelic a Simbirsk. Soppressa la rivolta e arrestato Pugačëv, Grinëv parte per Simbirsk, dove scopre che i contadini si sono ribellati al padre; alla fine riesce a liberare tutta la famiglia. Poco tempo dopo, Grinëv viene chiamato a rispondere del suo rapporto con l’usurpatore, e condannato all’esilio in Siberia. Interverrà a salvarlo Màrja, la quale si reca a Pietroburgo per raccontare tutta la storia all’imperatrice Caterina II; questa si dimostrerà comprensiva e tollerante nei confronti di Grinëv, e i due innamorati riusciranno finalmente a coronare il loro sogno d’ amore. Il problema chiave è il conflitto tra il mondo popolare e il mondo aristocratico. Come afferma Lotman nel saggio "la figlia del capitano" il romanzo si può dividere in due filoni stilistici e intellettuali che sono subordinati all'analisi di questi due mondi, ovvero sia dal punto di vista del contenuto sia della forma. Il testo vuole analizzare e dipingere la società russa che si divide in mondo popolare e mondo aristocratico, e ciascuno di questi due mondi ha un proprio modo di pensare e propri ideali estetici. La vita di Grinëv, la sua educazione sono descritte attraverso associazioni con Fonzin, i cui echi sono percepiti come ricostruzione di quanto è caratteristico nella vita nobiliare del XVIII secolo. Il modo di vita del nobile di provincia Grinëv non è contropposto ai vertici della cultura nobiliare, ma ne fa parte. Il filone nobiliare è compenetrato di associazioni che rievocano l'atmosfera della letteratura nobiliare con il culto del dovere, dell'onore e dell'umanità. A questo scopo servono le epigrafi, le quali orientano in un determinato modo il lettore, sottolineando il tono del capitolo. Canzoni, fiabe e leggende compenetrano l'atmosfera della narrazione che ha per argomento invece il popolo. Infatti i proverbi hanno la funzione di mostrare il pensiero popolare. Ad esempio sia Savel'ič che Pugačëv si esprimono attraverso proverbi. Puškin sottolinea che il linguaggio utilizzato da Pugačëv è incomprensibile a un nobile, in quanto si tratta di un lingua composta da proverbi ed enigmi, un insieme tra l'elemento nazionale e l'originale della lingua. Diversi per modo di vita, interessi, ideali e spirito poetico, i due mondi si differenziano anche per la concezione del potere statale. Puškin ha respinto la distinzione tra potere legittimo e potere illegittimo. Il poeta si è reso conto che il popolo divide il potere in nobiliare e contadino, e mentre si sottomette alla forza del primo considera legittimo il secondo. Ma anche il governo (potere dei nobili) tratta in modo diverso i suoi, anche se traditori, rispetto agi altri. Esso non fa giustizia, ma vendetta di classe. Infatti l'ideologia nobiliare considera lo stato autocratico l'unica forma di potere possibile, e dal loro punto di vista il movimento popolare può condurre solo al caos e alla rovina dello stato. La posizione di Puškin è fondamentalmente diversa: individuando la frattura della società in due parti, egli comprese che ciò non era da attribuire alla cattiva volontà di qualcuno o agli istinti bestiali, bensì a processi sociali profondi, indipendenti dalla volontà o dalle intenzioni degli uomini. Puškin è consapevole del fatto che ogni parte ha una propria verità che gli impedisce di comprendere le ragioni del campo opposto. Sia i contadini sia i nobili hanno una concezione del potere legittimo che gli uni e gli altri considerano legittimi. Lo si nota quando il vecchio Grinëv, nella cui figura Puškin delinea gli elementi aristocratici, raccomanda al figlio "servi fedelmente coloro ai quali hai prestato giuramento" (pag 46). Dal punto di vista dei nobili Pugačëv è un brigante; dall'altra parte i contadini considerano Pugačëv il loro sovrano e parlano dei nobili "come coloro che avevano disobbedito al sovrano". Grinëv dal canto suo non può riconoscere in Pugačëv il proprio zar, in quanto è nobile di nascita e ha prestato giuramento all'imperatrice, di conseguenza non può servirlo. non solo al carattere originale delle forti personalità, ma anche della natura stessa del potere popolare, alieno dalla burocrazia e dal mortificante formalismo. La società russa della fine del diciottesimo secolo non è il suo ideale, siccome nessuna delle forze politico- sociali esistenti gli appare sufficientemente umana. Grinëv non è il portavoce di Puškin, ma c'è qualcosa in lui che attira la simpatia dell'autore: egli non rientra totalmente nell'etica nobiliare del suo tempo, è troppo umano per questo e non si identifica interamente con nessuno dei due campi in lotta. Vi sono in lui tratti di una comunità organizzata su principi più nobili e più umani, e proiettati al di là della sua epoca. Il riverbero del sogno puškiniano di rapporti umani cade anche su Grinëv. Si nota quindi la profonda differenza tra Grinëv e Švabrin. Grinëv è guardato con sospetto dagli uomini di Pugačëv perchè è un nobile e intercede per la figlia del nemico, e dal governo perchè è amico di Pugačëv. Egli riesce estraneo da entrambi i campi, mentre Švabrin è a casa sua in entrambi: nobile che ha tutti i pregiudizi della sua classe e un disprezzo per l'altrui dignità, diventa servo di Pugačëv. Švabrin è peggio di Zurin, un nobile senza alcun segno di distinzione, ma è fedele servitore di ciò che ritiene giusto. Per Puškin la strada giusta non sta nel passare da un campo all'altro, ma nell'elevarsi al di sopra del secolo crudele, conservando l'umanità, la dignità e il rispetto per la vita altrui. Solo così ci si avvicina allo spirito del popolo. IL CAPPOTTO ‒ GOGOL' Il racconto ha come protagonista Akakij Akakievič, un mediocre impiegato di basso rango, che non riceve alcuna forma di rispetto ed è pesantemente preso in giro dai suoi compagni per la sua passione per il lavoro: essa è così forte che egli non si accorge che il suo cappotto si è logorato così tanto da diventare inutilizzabile. Akakij Akakievič deve così recarsi da un sarto, suo amico, per farsene confezionare uno nuovo, con numerosi sacrifici per poterlo pagare, ma alla fine il cappotto risulta così ben fatto, che perfino tutti i suoi compagni di lavoro, solitamente meno scortesi del solito con lui, si complimentano ed organizzano addirittura una festa in suo onore. Akakij Akakievič accetta, dopo una certa resistenza, e si reca la sera stabilita alla festa in casa degli amici, dove si ferma più del previsto, poichè gli amici lo trattengono. Deve così ritornare a casa quando le vie di Pietroburgo sono deserte. Mentre attraversa una piazza, si trova di colpo davanti a dei ladri, che approfittano della sua indole pacifica per rubargli il cappotto. Akakij Akakievič, disperato, cerca in tutti i modi di recuperare l'oggetto smarrito, rivolgendosi alle autorità pubbliche, ma poichè la burocrazia rende i procedimenti troppo lenti, decide di chiedere aiuto al cosidetto "uomo importante", cioè un generale che avrebbe potuto, grazie alla sua influenza, aiutarlo. Tuttavia, il personaggio importante a cui si rivolge Akakij Akakievič è un uomo che, nonostante la sua bontà, quando in presenza di persone inferiori a lui, si comporta in modo molto severo e tirannico. Quando il povero derubato si rivolge a lui, l'uomo importante lo caccia con forza e Akakij Akakievič ritorna a casa di corsa e senza coprirsi, terrorizzato. Essendo inverno, si ammala e muore senza che i medici possano fare niente. Tuttavia, Akakij Akakievič continua ad aggirarsi per Pietroburgo come un fantasma, derubando tutti coloro che incontra dei loro cappotti, finchè non si imbatte nell'uomo importante e, dopo averlo terrorizzato, gli prende il cappotto. Da allora le sue apparizioni cessano, mentre l'uomo importante attenua notevolmente il suo atteggiamento tirannico versi i suoi inferiori. Il racconto è stato scritto nel 1842 e fa parte dei Racconti di Pietroburgo, invenzione editoriale non decisa da Gogol' ma dalla critica. Viene vista la vita nella capitale Pietroburgo e ne viene denunciata l'infernale modernità. E' la città dove si svolgono i destini dei personaggi: a lieto fine sono ne Il naso, ma tragica negli altri casi. Un altro tema è quello della delusione. In questi racconti si trova delineata la figura del piccolo uomo: un uomo alle prese con la realtà, la scoietà che lo schiaccia, con i suoi sogni che vanno in frantumi. Il racconto è più complesso di quanto potrebbe far pensare una semplice lettura. E' stato anche considerato una chiave per capire il mondo russo dell'ottocento. A partire dall'aneddotto secondo cui l'idea sarebbe stata suggerita da Puškin, ovvero un impiegato vede un fucile, ma lo perde la prima giornata di caccia e i colleghi fanno una colletta per comprargliene uno nuovo. Il tema è quello dell'uomo umiliato, che cerca una qualche consolazione in ebbrezze disperate. Una delle ebbrezze del povero Akakij Akakievič è quella legata al suo lavoro di copista: egli copia e le lettere dell'alfabeto che escono dalla sua penna sono gli unici essere che in un certo senso hanno pietà di lui e rispondono sinceramente al suo affetto. Poi Akakij Akakievič viene preso dalla passione totale, romantica, da grande amore, per il cappotto. Una passione che lo porterà alla morte. Ma anche, dopo la morte, alla vendetta, a una forma di giustizia fantastica. Akakij Akakievič vive in condizioni di povertà, il suo stipendio è misero. E i sacrifici, le rinunce, che egli compie per poter risparmiare i soldi per il cappotto, costituiscono il poema di Akakij Akakievič. La vita di Akakij Akakievič era una vita desolata, povera fino al limite, rinchiusa nella sua misera stanza e nel suo incarico: rinchiusa nel rapporto con le carte che ricopiava. Egli lavorava con amore e passione. Non conosceva altro orizzonte all'infuori del suo limitato lavoro. Nel mondo in cui faceva parte, fondato sulla sottomissione agli altri, sull'inchino ai forti e potenti, lui non era neppure un sottomesso, perchè non era niente e nessuno voleva la sua sottomissione, la sottomissione di un inesistente. Se mai suscitava qualche reazione, questa era di scherno. Veniva spesso preso in giro: quando non ne poteva più degli stupidi scherzi dei suoi giovani colleghi, diceva “lasciatemi in pace, perchè mi offendete”. Nella descrizione del personaggio elementi di esagerazione e anche grotteschi non mancano: il fatto che gli gettassero addosso bucce d'angurie e melone quando passava per le vie per tornare a casa, era un fatto abbastanza strano (che poteva accadere più a Roma che a Pietroburgo). Il povero impiegato non aveva avuto molti doni dalla natura: il suo cervello era incapace di sforzi eccessive, ad esempio quello di stendere una relazione, come gli aveva chiesto, anche per compassione, il suo capo, ma Akakij Akakievič lo pregò di liberarlo dalla fatica eccessiva. Era come se Akakij Akakievič fosse stato privato del suo diritto alla vita. Egli vive isolato dal mondo: era l'anti-eroe per eccellenza, e qui si vede la lungimiranza di Gogol'. L'umiliazione del protagonista era la sorte di tanti piccoli uomini, schiacciati dal destino, dalla società, dalla loro incapacità a sgomitare o a leccare i potenti. Il racconto di Gogol' ha subito due critiche: Critica classica, contemporanea a Gogol': subito dopo la pubblicazione è stato interpretato come opera di denuncia sociale del rigido apparato burocratico che caratterizzava la Russia zarista e il sottobosco umano di Pietroburgo, fra l'altro Gogol' fu uno dei primi a interessarsi di questa tematica. Ha visto in lui uno scrittore realista interessato agli aspetti sociali del suo tempo. Capeggiata dal critico Belinski dell'800, che tende a vedere nell'opera di Gogol' una componente realista e ne sottolinea la componente filantropica. Per loro Gogol' è interessato a studiare gli aspetti della società Critica formalista: ha rivolto l'attenzione non tanto ai contenuti quanto all'aspetto formale, al modo in cui la vicenda viene raccontata. Ha guardato con più attenzione la forma dicendo che già in Gogol' il realismo non tiene più e lascia spazio ad una visione onirica della realtà. A questa critica appartiene Ejchenbaum e si interessa dell'aspetto formale del testo (caratteristica chiave della scuola del formalismo, sviluppata in Russia all'inzio del 900). Ricerca le leggi e le strutture che rendono un testo un'opera d'arte, cerca di capire il perchè un testo è arte. Sta in contrapposizione alla critica classica dell'800, molto interessata a vedere nel testo letterario uno strumento per trasmettere un messaggio sociale. La scuola formalistica si interessa anche di poesia, della struttura metrica e fonetica. Questa scuola reinterpreta Gogol', ma la critica sovietica rifiuta il formalismo e vuole ritornare alla dimensione sociale dell'opera di Gogol'. Boris Ejchenbaum nel suo saggio Com'è fatto il cappotto di Gogol' afferma che il vero intreccio sta nella forma, cerca le leggi formali che governano il testo di Gogol', analizza lo stile del racconto che è caratterizzato da strane associazioni tra aggettivi e sostantivi, periodi lunghi e complessi che divagano dal filo della narrazione. Gogol' si concentra sui piccoli dettagli che non servono a raccontare la storia, si tratta di grottesco, in cui c'è una scelta sensata nel materiale che lui inserisce nel testo, inverte l'importanza di ciò che lo scrittore mette su carta, ribalta le proporzioni del mondo reale. In questo non è uno scrittore del tutto realista. Per Ejchenbaum l'intreccio in Gogol' secondario, statico, la vera dinamica sta nel gioco del linguaggio e nella costruzione dello skaz. I personaggi in Gogol' parlano poco ed il loro linguaggio è costruito in maniera particolare e ben studiata, è un linguaggio sintetico, al limite dello sgrammaticato. Lo skaz è un tipo di narrazione artistico- letteraria che imita lo stile della letteratura di folclore e in particolare il tono e l'intonazione del narratore di storie popolari, quindi trasmesse per vie orali, ed è qui che lo stile del linguaggio non coincide con la norma della lingua letteraria dell'800. Ejchenbaum sottolinea il fatto che la struttura della novella dipende notevolmente dalla funzione del tono personale dell'autore, cioè se tale tono sia il principio organizzativo della novella, creando l'illusione dello skaz, oppure se serva solamente da nesso formale tra gli eventi e sia personato ausiliario. La novella primitiva, il romanzo d'avventura e la novella comica non hanno bisogno dello skaz. Le prime perchè sono determinate da un rapido e vario alternarsi degli avvenimenti delle situazioni, la terza perchè l'aneddoto alla base è già di per sè ricco di situazioni comiche. Se l'intreccio non ha più funzione organizzativa, quindi chi racconta si pone in primo piano, il centro di gravità si sposta dall'intreccio ai procedimenti dello skaz e la funzione comica principale è assegnata ai calembour che possono essere semplici giochi di parole come brevi aneddoti. L'effetto comico si ottiene nella maniera dello skaz, il quale viene identificato da Ejchenbaum in due tipologie: narrativo: si limita a fare degli scherzi, dei giochi di parole, più piano e lineare mimico declamatorio: introduce i procedimenti di mimica espressi con parole, è più articolato, costituisce delle disposizioni sintattiche bizzarre, sembra quasi che nasconda un attore, quindi lo skaz acquisisce i caratteri della recitazione. Il fatto che si usi "non ricordo", "non ne sa nulla" o "poco noto" creano l'illusione che ci sia una storia reale riferita come un fatto, nota nella sua interezza a colui che la racconta, ma che non la dice tutta. Nelle novelle di Gogol' la composizone non è data dall'intreccio, ma viene presa solo una situazione comica che serve unicamente da impulso/pretesto per l'elaborazione di procedimenti comici. In una lettera a Puskin gli chiede di raccontargli un aneddoto, anche se non fa ridere, purchè sia russo. Gogol' si distingueva per la particolare abilità nel leggere i suoi scritti come se stesse recitando. Questo contribuisce ad indicare che la base del testo gogoliano sia lo skaz, il quale ha tendenza non solo a narrare ma a riprodurre con la mimica e l'articolarsi della voce le parole. La struttura del discorso non segue solo il principio del discorso logico ma quello del discorso espressivo. Da qui il fenomeno della semantica fonica nella lingua di Gogol', che pone in primo piano come procedimento espressivo l'articolazione e il suo effetto acustico. L'intreccio di Gogol' ha un valore soltanto esteriore e perciò è statico. La vera dinamica delle sue opere sta nella costruzione dello skaz. I procedimenti basilari dello skaz nel cappotto sono caratterizzati dall'uso dei calembour. La prima frase della povest' in prima stesura era provvista di calembour fonica. Nella seconda edizione fu aggiunto un ulteriore gioco di parole, ma questi furono eliminati nella versione definitiva perchè Gogol' prediligeva il calembour di genere etimologico, da qui mondo spirituale di Akakij Akakievič non è da nulla, ma è fantasticamente chiuso, tutto suo, con leggi e proporzioni tutte sue. In questo modo il cappotto nuovo appare come un avvenimento grandioso. La morte di Akakij Akakievič è raccontata grottescamente, concludendosi all'improvviso con la frase: "finalmente il povero Akakij Akakievič rese lo spirito", con quel passaggio immediato a ogni sorta di inezie. La fine del cappotto è una vistosa apoteosi del grottesco. Gli studiosi che hanno visto il succo della storia nel brano umanitario si fermano perplessi davanti all'improvvisa introduzione del romanticismo nel realismo. In realtà la chiusura non è nè più fantastica nè più romantica di quanto non sia la novella stessa. Questo inganno è un procedimento di grottesco inverso. L'aneddoto del fantasma sviluppato nel finale riporta lontano dalla miserevole storia con i suoi episodi melodrammatici. Ritorna lo skaz puramente comico dell'inizio con tutti i suoi procedimenti. Con lo spettro si allontana anche l'intero grottesco. MEMORIE DAL SOTTOSUOLO ‒ DOSTOEVSKIJ E' stato scritto da Dostoevskij, pubblicato a puntate sulla rivista "Epoca" nel 1864. Il romanzo si divide in due parti: il sottosuolo e a proposito della neve fradicia. Nella prima parte, il protagonista, un ex impiegato dello Stato, racconta la sua visione del mondo e descrive se stesso. Afferma di essere un uomo malato ma di non volersi curare per farsi ancora più male. Ammette di essere un uomo che esprime tutta la sua inadeguatezza del vivere. Si descrive come un ex impiegato che amava umiliare gli altri usando il suo piccolo potere per costringerli alla resa. La sua è un’esistenza maligna ma non priva di volontà e di coscienza. Tanto che, mentre si definisce maligno, ammette anche di non esserlo e che il suo agire non è mai stato cattivo, anzi che le sue azioni erano senza conseguenze. Contraddizioni le sue che innervano il suo stato d’animo. Non è un uomo d’azione ma si definisce un riflessivo, un uomo non particolarmente intelligente ma nemmeno tanto stupido da svolgere come gli altri azioni inconsapevoli. Non vuole accettare una vita in cui l’agire sia senza pensiero e contemporaneamente non vuole nemmeno accettare una società che sia preordinata, senza che la volontà possa decidere il proprio destino. Il suo disagio sociale permette all’autore di scagliarsi contro il positivismo che prevedeva una società preordinata e che secondo Dostoevskij sarebbe stata fonte di maggiore infelicità rispetto ad una società governata dal libero arbitrio. Il protagonista condanna il XIX secolo, che definisce un secolo infelice in cui la coscienza dell’uomo non può che portarlo alla disperazione. Una coscienza naturalmente evoluta come la sua, perché le coscienze degli altri sono praticamente assenti e il loro comportamento non gli permette di comprendere la direzione vera delle loro azioni. Ma la coscienza non è un dono da difendere, perché più aveva coscienza del bello, più egli svolgeva azioni sbagliate, cattive e malevole che lo facevano sprofondare nella sua tana nel sottosuolo dell’esistenza sociale. Tuttavia egli non si vuole piegare all’ineluttabilità della natura e ai muri che gli si parano davanti e che servirebbero a limitarne la capacità decisionale. Per lui il 2 + 2 che fa 4 è solo una sfida a cercare un’altra soluzione e ad utilizzare la libertà di pensiero e la volontà per imporre la propria decisione. Finisce il monologo sul ragionamento della scrittura. Perché scrivere? Per liberarsi di ricordi che opprimono il protagonista e che messi sulla carta potranno essere giudicati da lui stesso in modo differente, forse più distaccato. E mentre osserva una neve fradicia e brutta scendere sulla città, inizia a raccontare la seconda parte del libro. Nella seconda parte dell’opera, il protagonista prosegue nel suo monologo raccontando la sua vita e in particolare alcune azioni disumane che hanno contraddistinto il suo comportamento. I fatti narrati risalgono a sedici anni prima del monologo del sottosuolo raccolto nella prima parte del testo. Il protagonista, infatti, inizia la sua narrazione affermando che all’epoca aveva 24 anni mentre nei ricordi ne ha quaranta. Egli è un impiegato che lavora negli uffici pubblici del suo paese. Già all’epoca conduce una vita di tortura interiore, in cui sente se stesso lontano dal mondo che lo circonda e in particolare dai colleghi che odia e disprezza, ma verso i quali prova un senso di inferiorità. E tuttavia ancora cerca un proprio riscatto, seppur attraverso azioni che lo trascineranno sempre più nel sottosuolo della sua esistenza. La prima azione è contro un ufficiale che lui ritiene l’abbia umiliato in pubblico, perchè il protagonista decide di entrare in una sala da biliardo ed essere spostato di peso da un ufficiale che era lì a far baldoria con gli amici. Scrive una lettera per convocarlo in un duello al fine di risolvere l’offesa. La sua speranza è che si possa arrivare ad un compromesso e che il rapporto con l’ufficiale si trasformi in amicizia. Ma non invia la lettera, ma avendolo incontrato molte volte lunga la Prospettiva Neskij, progetta di risolvere la situazione scontrandosi con l'ufficiale. Ogni volta che sta per farlo, l'ufficiale passa avanti senza notare la sua presenza e senza toccarlo. Il fatto di essere urtato proprio da un ufficiale, che appartiene a una classe superiore, è per lui un'onta imperdonabile. Per cui chiederà in anticipo il salario, comprerà un nuovo cappotto, si mostrerà in tutto e per tutto alla pari del suo momentaneo nemico, fino al momento in cui sarà pronto per affrontarlo. E lo farà. Aveva persino pensato di sfidarlo a duello ma trovando poi la cosa del tutto ridicola, decide semplicemente di non scostarsi e urtarlo anche lui. Inizialmente è soddisfatto della sua azione, è un piccolissima vittoria, quasi un burlarsi del lettore, perchè questa piccola e insignificante vittoria renderà solo più amara e dolorosa la sua tremenda sconfitta, torturandosi e alimentando il suo senso di colpa. Nel suo inappagato bisogno di riscatto cerca di prendere contatto con i suoi ex compagni di scuola, presentandosi a casa dell'amico Simon, dove assieme ad altri due coetanei sta organizzando una cena per l'avanzamento di posizione dell'amico Zverkov, divenuto ufficiale. Ovviamente non è in buoni rapporti con loro, li odia e loro lo disprezzano, perchè sin dai tempi della scuola il protagonista amava dissacrare e scontrarsi con l'idolo della classe, Zverkov. Loro sono indifferenti ai suoi tentativi di riallacciare i rapporti ma una sera riesce a partecipare ad una cena insieme a loro. La serata si trasforma in una goliardata. Cacciato, allontana e umiliato, non riesce a levarsi di testa l'obiettivo di vendicare la sua umiliazione, di riscattare un'intera esistenza di sottosuolo. Li segue in un bordello, in cui si dirigono per concludere i festeggiamenti, qui però li perde di vista e gli viene data in pasto la giovane prostituta Lisa, con la quale instaura un dialogo promettendole aiuto. Il protagonista va credere a Lisa di essere un benefattore e di provare dei sentimenti per lei, infatti ha parole di redenzione, di amore e di compassione. Il protagonista è così colpito da questa ragazza che addirittura le dà il suo indirizzo, la invita a non vendere più la sua anima eil suo corpo. È come se volesse salvarla dal suo stesso destino, quello di rimanere un giorno schiava del proprio sottosuolo. Ma quando lei lo va a trovare a casa lui la tratta male. Si vergogna della sua povertà e per difendersi la calunnia e le fa violenza. Il protagonista scoperta nella sua tana vuole sia vendicarsi di lei, sia riversarle addosso anche tutto l'odio che non è riuscito a scaricare su Zverkov. Ma anche in questo caso fallisce, siccome cade tra le braccia della prostituta, piange e ammetterà di essere un uomo infelice. Appena si riprende il suo odio aumenta, tanto che le lascia del denaro, facendola umilia ancora di più e la fa fuggire da lui. Egli è all’apice del suo disprezzo per la vita e nella piena contraddizione della sua libera volontà di sprofondare in atti reietti che lo spingono ancora di più nel suo sottosuolo di menzogna e falsità. Il fatto di aver ferito una persona più debole e reietta di lui lo spinge al massimo della sua malignità. Kasatkina sostiene che l'opera di Dostoevskij "Scritti dal sottosuolo" non fu capita anche a causa delle traduzioni perchè i traduttori che la resero accessibile al pubblico europeo furono scrupolosi nel conservare quanto espresso nello strato esteriore del testo, la trama e il discorso diretto. Negli anni '60 Dostoevskij si interessa della posizione della terra nella struttura a più livelli dell'universo. Non gli interessa sapere in quale punto dell'universo sia situata tecnicamente, ma gli interessa la sua posizione reale. Di conseguenza studia il ruolo e il significato che assume l'uomo in una terra così intesa. I pensatori e poeti cristiani hanno sempre testimoniato che tale posizione della terra indica che il nostro mondo esisterà soltanto fino al momento in cui farà la sua scelta definitiva e autonoma per il bene o per il male. La terra esiste come un luogo intermedio situato tra il paradiso e l'inferno. Ma ciò non significa che sia un posto neutrale, né sia isolato da luoghi (paradiso e inferno) che hanno già fatto la loro scelta. Significa che il mondo è un dinamismo costante, un movimento ininterrotto che tende verso l'una e l'altra parte, e che quando lo si osserva fissandone una sezione statica ci dà l'impressione di una mescolanza di tratti paradisiaci e infernali che ce lo fanno apparire come luogo intermedio. In questo mondo la volontà libera è una caratteristica che appartiene solo all'uomo, significa che è lui stesso a crearsi il suo inferno o il suo paradiso, a inondare il suo mondo di splendore o a colorarlo di fuoco. È così che Dostoevskij elabora il tema del paradiso e dell'inferno in una serie di opere che scrive negli anni '60. Il poeta inoltre parla dell'istantanea e potente trasfigurazione della terra che si realizza in ogni atto della fede e d'amore compiuto dall'uomo, e della deformazione, dell'alterazione del volto vero della terra, generati da ogni tendere al male. Sulla terra l'uomo non compie un male caduco, ma rende manifesto, in ogni sua azione, il tratto esterno dell'una o dell'altra essenza, partecipando ininterrottamente a trasformare la terra in paradiso o inferno. L'uomo non va a finire in paradiso perchè, visto che si è comportato bene, un bel giorno, in futuro, gli verrà concesso di entrare in quel luogo glorioso, e nemmeno, al contrario, verrà afferrato e scagliato all'inferno. Ma è nell'istante stesso in cui l'uomo compie il bene, è dentro le sue stesse azioni che egli spalanca la porta del paradiso. È l'uomo che lascia entrare le rispettive essenze, a dar forma allo spazio della ragione del mondo intermedio così che si ritrova a vivere nel paradiso o nell'inferno di cui in questo processo la terra assume il volto. E anche l'uomo stesso assume i tratti paradisiaci o infernali, armonizzando o alternando la sua natura, attraverso azioni che compie. Gli Scritti dal sottosuolo sono il terzo libro in cui Dostoevskij elabora il tema della terra come dimensione intermedia, non autosufficiente, non a sé stante e transitoria. In questo romanzo si concentra su una terra a sé stante, prendendo le mosse dal postulato degli innumerevoli "costruttori dell'umanità" senza Dio, che, negando la vita eterna, hanno rinchiuso l'uomo nella prigione dei confini terreni, Dostoevskij prova a immaginare le conseguenze e a descrivere che cosa accadrebbe se si scoprisse che hanno ragione. Ne risulterebbe che l'esistenza umana è assurda e che l'uomo è la più assurda tra tutte le creature perchè cerca, ma ha paura di trovare; è un viandante che ha nostalgia di una casa e che impazzisce per qualsiasi tipo di dimora; che per questa nostalgia che non trova il suo oggetto responsivo può perfino arrivare a commettere dei crimini. Se Dostoevskij parla continuamente dell'istantanea trasfigurazione dell'inferno in paradiso, non crede invece per niente alla possibilità di costruire il paradiso sulla terra, attraverso sforzi umani, in prospettiva storica. Una tale costruzione apparirebbe come un palazzo circondato da un recinto da cui è vietato uscire e in cui, di conseguenza, gli uomini raggiungerebbero rapidamente lo stato di cani rinchiusi in un carro coperto. Si tratta di uno spazio popolato da uomini che non sono presenti all'esistenza, che non vivono, ma si limitano ad aspettare di vivere. È qui che trova il suo vero fondamento anche il tipo di sognatore che Dostoevskij aveva rappresentato nelle prime opere. Gli abitanti della prigione sono tutti sognatori che tentano di trasportarsi avanti o indietro nel tempo, per essere presenti in una realtà che in quel momento è a loro negata. Tra l'altro è proprio per questo che tutti i forzati vengono chiamati infelici: in russo la parola felicità "sčast'e" significa "adesso-essere" e indica il vertice dell'essere presenti, l'esserci, con tutte le forze, nell'istante presente della vita. Il cielo è diverso in quella prigione, in quanto non è un cielo libero, ma un cielo che li rinchiude sotto di sè. Dostoevskij ritiene che sia l'uomo stesso a prestabilire, a determinare il carattere che assume la realtà in cui vive, la convinzione che la realtà venga determinata dallo stato interiore dell'uomo e che, cambiando se stessi, si può cambiare tutto ciò che ci circonda. All'uomo a cui viene negata l'esistenza di qualsiasi vita oltre i confini della terra, della stessa poesia quando fantastica su come salverà Lisa: "ma adesso, tu sei mia, tu - mia creazione, tu -pura, bella, tu – la mia bella moglie/ e la mia casa, audacemente e libera, / padrona in tutto entra". Un'epigrafe tratta da una poesia sulla riabilitazione di una donna perduta precede un racconto che parla di una donna perduta e di un eroe che, sognando di come la salverà, in realtà la umili, la calpesta e la oltraggia. Ma se ci fermiamo unicamente ai sensi e alle corrispondenze immediate perderemo i significati che lo scrittore ha inserito modificando la citazione, perchè già nel riportare un frammento della poesia ha operato una modifica che ne cambia il senso. Se leggessimo il frammento della poesia così come Dostoevskij l'ha inserito nel testo, immaginando di non sapere come prosegue, vedremmo distintamente che in esso è raffigurata la salvazione di un'anima da parte del Salvatore. Ci renderemmo conto che a fungere da strumento di salvezza è una confessione, che ha la forma di un racconto. La ragione per cui non l'abbiamo riconosciuta è che il contesto, che avevamo ricostruito rapidamente, in realtà ce l'aveva oscurata: apparentemente ci forniva le regioni sufficienti a spiegare perchè e a quale scopo quella epigrafe si trovasse lì, ma in realtà ci ha solo illusi di aver capito. Questo esempio mostra il ruolo enorme giocato dal contesto nel lavoro di comprensione del testo, ma ci mostra altresì come esso possa avere la forza di ostruirci l'accesso al suo significato profondo. L'epigrafe termina con la frase "ecc., ecc., ecc" come per dire che il processo di salvezza descritto sopra, ossia l'operazione con la quale il Salvatore trae un'anima fuori dal buio ed essa si pente, non accade una volta sola, ma ha la caratteristica di doversi ripetere sempre. Si tratta dell'indicazione del fatto che la confessione, che dovrebbe essere un mutamento radicale, si realizza come tale solo in un cammino fatto di gesti, movimenti, che tornano sempre a ripetersi. Dostoevskij non ci segnala una poesia concreta, ma d'altra parte non mette solo il nome dell'autore. Dostoevskij scrive "da una poesia di N.A. Nekrasov", così che rimanda il lettore a tutto il corpo delle poesie di Nekrasov. Tra le poesie, una in particolare è importante per Dostoevskij, cioè "Cavalieri per un'ora" (1862), la quale ha come tema proprio la confessione dell'eroe che parla delle sue aspirazioni, conclutesi in niente e termina con una sentenza di condanna. Con il rimandare il frammento di una poesia citato all'intero corpo dell'opera di Nekrasov, Dostoevskij ne cambia completamente il significato, trasformando questo frammento, che parla del tentativo che fa l'eroe stesso di salvare la propria anima, nel gesto della confessione ripetuta, che lo può condurre a quei cambiamenti radicali. Il testo degli Scritti dal sottosuolo é strutturato in modo tale che le parti in cui é diviso fungono entrambe contemporaneamente da prima e seconda, perché la parte che viene prima cronologicamente è collocata per ultima nel testo, mentre quella che cronologicamente verrebbe dopo, è collocata per prima. L'autore ci indica che le due parto sono strettamente legate, creando quasi un cerchio che non ci permette di dire cosa venga prima e cosa dopo e ponendo la questione sostanziale nella ripetivitá. La circolarità non conduce soltanto alla comprensione, ma anche alla trasfigurazione, a una trasformazione della personalità: se il cammino lineare porta all'acquisizione del sapere, quello circolare trasfigura quel sapere, che è ancora vacillante, che non è ancora nostro, rendondolo un'esperienza inalienabile. Concludendo la prima parte, l'uomo del sottosuolo scrive di aver dimenticato e non aver più pensato a tante circostanze della sua vita, cioè a quelle che non si possono ammettere non solo davanti a qualcuno, ma perfino a sé stessi. In lui, c'è molta esperienza non assimilata. Tutte le esperienze non assimilate vengono allontanate e vanno a depositarsi sul fondo della personalità dove restano in attesa della possibilità di essere recepite in maniera cosciente. È dopo aver fatto questa considerazione che il protagonista passa alla seconda parte, così che capiamo che sta iniziando a parlare di un ricordo che è riuscito a recuperare, a cui ha osato avvicinarsi, soltanto grazie al cammino di riflessione percorso nei sedici anni della parte prima. La struttura dell'opera è delineata dal rapporto strettissimo tra le due parti. La prima parte è intitolata Il sottosuolo ed è in sostanza una prefazione al ricordo a proposito della neve bagnata. Il sottosuolo è il cammino che l'uomo deve percorrere per poter guardare negli occhi se stesso. Contemporaneamente, questa parte è anche la conclusione, il traguardo a cui è giunto, attraverso il recondito assimilare l'esperienza di cui non aveva preso coscienza. Nella struttura troviamo, oltre all'epigrafe nella seconda parte, una nota dell'autore presente nella prima parte. La nota è parte integrante del testo letterario. Fondamentali sono anche i titoli perché sono parte costitutiva del testo d'autore, siccome se concentriamo tutta l'attenzione soltanto sul titolo generale dell'opera, perdiamo di vista i fattori importanti. L'aspetto che nel complesso dei titoli viene frequentemente bistrattato (trattato male) riguarda la definizione di genere data dall'autore. Il problema è che la definizione di genere di un'opera è inserita nel suo complesso dei titoli, che il lettore può ritenere che si possa ignorare una parte del testo. In questo romanzo, invece, Dostoevskij ci fornisce apertamente due sottotitoli di genere che fanno parte entrambi del titolo dell'opera. Scritti dal sottosuolo: la definizione di genere è nella parola "scritti". Notiamo che non si tratta di memorie come, ad esempio, l'elemento che definisce il genere nel titolo principale è reso nelle traduzione in italiano, perché le memorie riguardano avvenimenti accaduti da molto tempo, mentre qui si tratta di una persona che scrive qualcosa al momento, in forma libera, mantenendo sempre un punto di contatto e di interazione con il presente più attuale. Si tratta quindi di un genere che è assolutamente libero e che può includere al suo interno anche una parte di memorie, che però saranno soltanto uno dei suoi diversi elementi costruttivi e che in qualche modo verranno attualizzate, cioè coinvolte nella relazione con il presente. La seconda parte è intitolata A proposito della neve bagnata ma, nelle righe che la precedono, l'uomo del sottosuolo la definisce "un racconto a proposito della neve bagnata". L'autore ci ha dato la denominazione di genere, cioè un racconto. Nella prima parte invece non presenta nel sottosuolo l'indicazione di un genere specifico, è intitolata semplicemente "il sottosuolo". Ne risulta che il sottosuolo stesso è un particolare tipo di genere. È la conseguenza logica di questa serie: se in due casi, il titolo generale e il sottosuolo della seconda parte, ci è comunicata la denominazione del genere, sarebbe logico aspettarsela anche nella prima parte. Il sottosuolo è un genere di vita e di conseguenza può anche essere un genere letterario, cioè un modo di narrare la vita. A questo punto la questione di genere diventa di facile risoluzione: il testo è unito sotto il titolo generale di "scritti"; la seconda parte è un racconto ed è in questo senso che si tratta di memorie perché ci rimandano a qualcosa di passato, mentre la prima parte è " il sottosuolo" sia come genere di esistenza sia come genere letterario e anche filosofico. Il sottosuolo è anche un luogo in cui le cose si mantengono nella loro freschezza per essere utilizzate in seguito. E su questo sottosuolo l'autore ritiene necessario comunicarci qualcosa in nota. Dostoevskij usa la parola "lico", non né parla di figura né di persona, ma introduce una parola che indica il volto. Per capire l'importanza del volto nel suo pensiero, la Kasatkina fa riferimento a due testi, i quali sono brevi ma difficili da comprendere perché sono di fatto degli appunti. Il primo è Maša è distesa sul letto. Dostoevskij lo scrisse davanti alla bara della moglie appena morta. Sono appunti in cui si vede che Dostoevskij sta cercando di risolvere un problema importante (lo stesso che lo occupa per tutta la durata degli scritti dal sottosuolo), ma qui sta scrivendo solo per se stesso, così da una parte si esprime in modo più esplicito, ma dall'altra, visto che non ha bisogno di spiegare niente a nessuno, usa liberamente il suo linguaggio con tutti i concetti che lo caratterizzano. Il testo inizia con l'indicazione di una data, il 16 aprile. Dostoevskij inizia così: "Maša è distesa sul letto. Ci rivedremo io e Maša?"' Dopodiché inizia a svolgere un ragionamento che sarà centrato sulla questione l'immortalità dell'uomo. Il suo ragionamento prende le mosse a partire dall'amore. Dostoevskij nel testo evidenzia le parole io e tutti e questo indica che si tratta di concetti, e cioè che a queste parole è conferito un significato un po' diverso da quello che sono solite ad avere nel linguaggio comune. Per Dostoevskij il tutti non indica qualcosa di collettivo, ma di originario: dire tutti significa parlare di qualcosa che precede l'uomo nella sua condizione di entità separata. Tutti non è il risultato che si ottiene mettendo insieme dei singoli, è qualcosa che originariamente era unito e che è stato diviso in unità a posteriori. L'io si ottiene quindi dal tutti in un processo di sfaldamento di questo tutti. La sensazione prodotto è espressa dall'uomo del sottosuolo con le parole "io sono solo uno, loro sono tutti". Per capire il concetto, Dostoevskij lo associa a un'immagine che compare nel testo Socialismo e cristianesimo. Dostoevskij afferma che nel socialismo ci sono piccole schegge, cioè che il socialismo tratta le persone come essere singoli. Ma l'immagine che ha scelto ci dice che esse originariamente non erano tali perché derivano dall'interno tronco da cui erano state recise. In principio c'è il tutto, c'è il tronco. Per Dostoevskij, il socialismo è innaturale proprio perché prende in considerazione gli esseri solo nello stato in cui si sono trovati a esistere dopo essere stato recisi. In Maša è distesa sul tavolo Dostoevskij afferma che lo scopo dell'uomo non è raggiungibile in terra e che l'uomo non ama il raggiungerlo, proprio perché esso è collocato al di là della storia e del muoversi dell'uomo nei suoi confini, perché il paradiso di Cristo è ciò che si trova oltre il limitare dello scorrere del tempo. Per questa ragione, ogni volta che l'uomo decide di aver raggiunto il suo scopo nei confini terreni, commette un tradimento dei suoi veri scopi, un tradimento di se stesso e della natura umana. La "natura umana" è un calembour perché è sia la natura dell'uomo naturale, quella cioè che si realizza nei confini terreni, sia la vera natura dell'uomo, quella cioè che si eleva al di sopra dei suoi bisogni contingenti e che si origina dal suo essere congiunto a Dio oltre il limite a noi percettibile dalla realtà immediata. Quindi, con riferimento agli Scritti dal sottosuolo, si può dire che l'uomo sulla terra sia principio un essere che sta solo percorrendo il suo cammino, ma che non raggiungerà lì la fine del percorso. Visto che lo scopo definitivo dell'uomo e dell'umanità è il paradiso di Cristo, si tratta di uno scopo che è per principio irraggiungibile nei confini della vita umana terrena. Per questa ragione sulla terra, l'uomo è solo un essere in evoluzione, un essere transitorio, di passaggio da una condizione all'altra, ma che non può raggiungere la sua trasformazione definitiva nei confini di ciò che ci è noto come vita terrena. Per Dostoevskij, Dio è la sintesi generale dell'essere in quanto l'essere è possibile solo lì dove Dio è presente e il male è un danno arrecato all'essere proprio a causa dell'assenza di Dio che lì si verifica in forza del Suo umile ritirarsi davanti alla volontà delle creature che abbiano desiderato rimanere senza di Lui e che siano rimaste in una zona in cui l'essere, spegnendosi, si disfa. Dostoevskij afferma "non prenderanno moglie, né marito, ma vivranno come angeli di Dio". È una citazione che compare nel Vangelo di Luca. Nella citazione è presente il tema della correlazione tra i due sessi,ma Dostoevskij li mette in un unico piano, ovvero quello dell'agire dell'uomo nei confronti della donna. Parlerà di "prendere in moglie una donna e farla propria" operando uno spostamento di senso perché concepisce il rapporto tra maschi e femmine come qualcosa che si realizza sempre, tra una parte che prende e una parte che dà, così che è la donna a incarnare la personalità evoluta al grado supremo (ad esempio Lisa), la personalità capace di passare a un pieno e incondizionato donarsi, come nella scena in cui Lisa si reca a casa del protagonista. L'amore e il dono di sé rappresentano il modo di esistere naturale della donna, mentre per l'uomo sono una condizione contro natura, una condizione a cui è chiamato ad elevarsi nel corso della vita, nel corso di quarant'anni di sottosuolo. Il testo dell'evangelista mostra il modo di vedere di Dostoevskij. Il momento di prender moglie e del farla propria, per Luca è legato alla natura mortale dell'uomo, mentre il momento in cui l'uomo non potrà già più morire è legato alla rinuncia alla vita coniugale. L'uomo del sottosuolo parla di certi calcoli sulla vita umana, che permetteranno all'uomo di raggiungere il benessere generale, così che non gli resti altro da fare che bere, mangiare e darsi da fare. Sta descrivendo la vita umana come un vano e ottuso vivere senza fine. Dostoevskij parlerà del fatto che il vero ideale umano è collocato per principio al di là della vita terrena. Perciò reclama la negazione di un ideale parziale e limitato, in nome di un ideale più completo. Chiede la negazione di ciò che è possibile e raggiungibile in nome di ciò che si spalanca sull'infinito. rispetto e considerazione verso gli altri, verso quelle stesse persone che lo hanno isolate. Il racconto è diviso in 12 paragrafi. Al tribunale in cui lavorava arrivò la notizia, tramite un quotidiano, della morte di Ivan. La prima preoccupazione dei suoi colleghi furono i cambiamenti che si sarebbero avuti in tribunale, ad esempio chi avrebbe preso il suo posto. Tutti pensavano "è morto lui, non io" e pensavano anche ai noiosissimi convenevoli che avrebbero dovuto affrontare. La storia della vita del giudice Ivan Il'ič Golovin, consigliere della Corte d'Appello di San Pietroburgo, "era la più semplice, la più comune e la più terribile". Figlio di un alto funzionario del governo, aveva studiato giurisprudenza ed era diventato giudice istruttore di una remota provincia. Tolstoj descrive anche la sua faniglia: ha due fratelli, quello maggiore ha seguito le orme del padre, mentre su quello minore non viene detto molto perché non ha fatto carriera, un fallito e non se ne parla perché è spiacevole, siccome la sua vita è andata alla deriva, quindi viene scacciato dal circuito di interesse. Il narratore onniscente si lascia sfuggire un commento "vita semplice e terribile". Con terribile vuole porre l'evidenza sul fatto che la vita di Ivan Il'ič è una vita mediocre. Un altro particolare relativo alla descrizione della vita del protagonista è il fatto che lui appende una medaglia sul suo studio con sopra scritto "Respicem Finem", cioè per valutare la riuscita di un'impresa, bisogna aspettare che essa sia terminata. Ivan fa i conti conti con la propria vita quando sta per morire, farli prima non ha senso. Questi due elementi inseriti all'interno da parte di Tolstoj all'inizio sembrano insignificanti, ma aiutano nella comprensione. Ivan prende in moglie una donna semplice, la quale rientra nella mediocrità. Comprano una casa che viene riempita da oggetti che per loro sembrano importanti, ma essi si trovano in tutte le case borghesi di quell'epoca. Il matrimonio con il tempo va male, Ivan nega di riflettere sul perché il suo matrimonio vada male, preferendo non risolvere la situazione e passare più tempo a lavoro. Perdono dei figli, ma la loro vita e la loro morte non viene data molto importanza. Sopravvive una ragazza da maritare e un maschio che va al ginnasio. Il 1880 è l'anno più brutto per Ivan Il'ič: ha fatto carriera, ma quando aspira a un posto più prestigioso, quest'ultimo viene assegnato a un suo collega, quindi è costretto a trasferirsi in campagna dal cognato siccome vivevano al di sopra delle proprie possibilità. La vita in campagna gli è dura, perciò va alla ricerca di un lavoro che gli garantisca 5000 rubli al mese, riesce ad ottenere un trasferimento nella capitale ed inizia un nuovo idillio, in cui vengono eliminate tutte le problematiche non relative alla vita borghese. Qui ha inizio la sua malattia: proprio mentre sta arredando la nuova casa a San Pietroburgo, però, cade dalla scala su cui era salito per mostrare al tappezziere come fissare le tende e sbatte col fianco sulla maniglia della finestra. Sul momento sembra una cosa da nulla, ma con l'andare del tempo inizia a manifestarsi un malessere proprio in corrispondenza del punto in cui la maglia l'aveva colpito. Il dolore cresce costantemente ed evolve in una misteriosa malattia, a cui i medici non sanno dare un nome e per cui nessuno riesce a trovare un rimedio. Ivan Il'ič si trova ben presto di fronte a un male incurabile, ormai chiaramente in stadio terminale. Una sorda disperazione prende il protagonista, che non riesce a capire il significato della sua mortalità. Aveva sempre saputo, certo, di essere un mortale, però al concreta prospettiva di dover morire lo inquieta. Cerca di pensare ad altro, si butta nel lavoro, ma senza risultato, la malattia di riaffaccia di continuo nella sua mente. Durante la malattia, si forma l'idea che, se non avesse vissuto una vita giusta, la sofferenza e la morte avrebbero avuto un senso. Ma lui aveva sempre vissuto onestamente, e tutto questo non si spiegava. Inizia ad odiare i familiare, la loro pretesa che lui sia solo ammalato e non moribondo, il loro superficiale tentativo di evitare il tema della sua morte. Qui Tolstoj fa riferimento alla metafora del naufragio di Lucrezio: poggiando sulla terraferma un naufrago contempla il mare in burrasca e si compiace di come esso sia riuscito a scampare a questa tragedia a differenza degli altri che ancora vivono tra travagli e sofferenze. Con questa metafora, Tolstoj vuole far capire il fatto che gli amici, la famiglia di ivan (ma anche i borghesi) non prendono in considerazione il fatto che anche loro devono morire. Nel paragrafo 6 viene fatta una riflessione sul sillogismo: tutti gli uomini sono mortali, Caino è un uomo, allora Caino è mortale. Un elemento intacca la vita di Ivan, il quale prende coscienza che è malato e che può morire. Si rende conto che lui è Caino ed è spaventato. Si è sempre sentito come spettatore del naufragio altrui, ma nell'ultimo paragrafo capisce che se lui è l'uomo sulla nave che sta naufragando e gli altri sono i spettatori, allora ha trascorso la sua vita invanamente , ha un sentimento di empatia, cambiando la sua visione sul naufragio: lui è salvo e gli altro sono colori che si nascondo dietro a obiettivi, a una vita futile. Per questo motivo guarda la moglie con pietà, rompendo il confine con la coscienza della morte, di conseguenza la sua vita acquisisce un senso, capisce come poteva vivere. Questo cambiando di prospettiva mostra che lui è un naufrago che sta naufragando e guarda gli altri naufragi a riva che non capiscono il senso della vita. Ivan non sopporta più nessuno perchè tutte le persone che lo circondano fanno finta che lui non stia morendo. Non permettono che la sua malattia intralci la loro vita, infatti dicono questa bugia perchè non vogliono preoccuparsi della loro vita e della morte. Ivan non li sopporta più perchè loro scoppiano di salute, lui è il naufrago che si sta allontanando dalla riva. Infatti lui non li detesta, perchè costruiscono questa menzogna sulla morte, proprio nel momento in cui lui ha bisogno della verità. Anche i medici gli dicono molte parole senza un vero senso, solo per mascherare l’ovvio, non dicendogli direttamente che sta per morire. L'unico conforto gli viene dal servo Gerasim, un ragazzo di origini contadine, l'unico a non avere paura della morte e l'unico a mostrargli compassione. Non gli rinfaccia la sua salute, ma tutto quello che fa per alleviare il suo dolore, ad esempio tenergli alzato le gambe oppure tenergli compagnia anche fuori dell’orario, lo fa con piacere, perchè spera che a sua volta, quando lui starà morendo, ci sia qualcuno che lo aiuti. E’ un personaggio che prende in considerazione l’idea della morte. Infatti rifiuta di dire una bugia sia ad Ivan che a se stesso, quindi cerca di qualche modo di fronteggiare la morte. Gerasim è altruista, sa che il bene proprio è il bene verso gli altri. Questo è il motivo per cui lui non ha paura della morte. Ivan inizia a domandarsi se avesse, in realtà, vissuto giustamente. La figura del servo Gerasim è contrapposta la figura dell’altro servo, Petr, il quale recita un copione come tutti gli altri. Una mattina quando Ivan giace a letto, torturato dai dolori, il servo entra chiedendogli le commissioni che doveva fare e se voleva la colazione. Segue il copione, antepone il proprio ruolo alla sua umiltà, seguendo solo gli ordini che gli vengono commissionati. Negli ultimi giorni, il protagonista inizia a tracciare un confine tra la vita artificiale, sempre condotta da lui e dalla sua famiglia, dominata dall'interesse, dal timore per la morte e dell'occultamento del vero significato dell'esistenza e la vita vera, quella di Gerasim, dominata dalla compassione. Verso la fine, una strana forza lo colpisce al petto, al fianco e gli mozza il respiro. Ivan Il'ič si sente risucchiato nel buco nero della morte, in fondo a cui, però, scorge una luce. Scopre che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma questo si poteva ancora porre rimedio. Sente che il figlio gli gli bacia la mano, vede la moglie in lacrime. Non li odia più, ma prova pietà per loro, perchè non hanno ancora capito la loro vita e la morte. Il suo sentire non è più confinato ai propri confini, ma si mette in comunicazione con gli altri. Un sollievo lo pervade, mentre si accorge di non aver più paura della morte, perchè la morte non c'è più, sostituita dalla luce. Esclama a voce alta "che gioia!". In mezzo ad un respiro, Ivan muore. Mentre muore, pensa che gli unici momenti felici della sua vita siano stati durante l’infanzia, quando mangiava le prugne appena raccolte. In questo momento si avvicina al figlio, che sta vivendo la sua vita al meglio. Il figlio soffre perchè non è consapevole, a differenza invece della sorella, la quale è già in un universo in cui non si ha più bisogno dei genitori e si vuole proteggere anche lei dalla morte, non vuole che un elemento, come la morte, distrugga la sua felicità. I suoi amici a questo punto devono compiere gesti convenzionali, come andare dalla vedova, sentire la sua storia e vederla piangere. Tolstoj mostra che l'amico di Ivan, Pëtr Ivanovič, preferisce andare a giocare a whist da Schwarz piuttosto che partecipare a questa scena. Pëtr va a trovare la vedova, vede il morto nella sua camera e poi viene fatto accomodare in salotto. Tolstoj mette in evidenza il puff sul quale si siede Pëtr e il rumore che fa ad ogni spostamento del corpo. Sia la vedova che Pëtr non sanno cosa dire, entrambi sono obbligati a compiere questa recita. Infatti Pëtr le chiedo com'è morto il marito, se ha sofferto molto, la sua malattia. Entrambi non sanno cosa dire, perciò ripetono le stesse cose. La vedova sposta le sofferenze del malato sulle proprie, su quello che lei ha dovuto sopportare, sulle urla del marito e come lei ha sofferto fino a quel momento. Dopo questa scenata convenzionali, la moglie prende in disparte Pëtr e gli chiede se dalla morte del marito può ricavare e ottenere più soldi dallo stato. Pëtr non le da una risposta, ma pensa che la vedova si sia già informata e sappia molto più di lui sui vantaggi della morte del marito. Capiamo che i personaggi che sono attorno ad Ivan non vedono l'ora di trarre vantaggio dalla sua morte. Tutti si consolano e aggirano il pensiero della morte che non tocca a loro. Quando fa capolinea, viene subito repressa. Pëtr Ivanovič ricorda l'infanzia passata con l'amico defunto, prova un senso di empatia, che viene subito represso.
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