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La figlia della foresta, Dispense di Italiano

Lord Colum di Sevenwaters ha generato sette figli: Liam, il leader naturale, l'avventuroso Diarmid, i gemelli Cormack e Conor, il ribelle Finbar e il compassionevole Padriac.Sarà tuttavia Sorha, l'unica figlia, la settima della nidiata, a difendere la propria famiglia e a proteggere la propria terra dai bretoni, nel momento in cui il padre e i fratelli rimangono vittime dell'incantesimo della perfida Lady Oonagh. Esiliata da Sevenwaters e rifugiatasi nella foresta....

Tipologia: Dispense

2009/2010

Caricato il 14/04/2022

liquirizia88
liquirizia88 🇮🇹

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Scarica La figlia della foresta e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! JULIET MARILLIER LA FIGLIA DELLA FORESTA (Daughter Of The Forest, 2000) Alle donne forti della mia famiglia: Dorothy, Jennifer, Elly e Bronya NOTE DELL'AUTRICE La trama de La Figlia della Foresta è tratta da una favola tedesca, I Sei Cigni, scritta dai fratelli Grimm. Al di sotto degli elementi classici delle fiabe (la matrigna cattiva, la trasformazione, la prova del silenzio), è una storia di coraggio che nasce dalla perdita, e di vite per sempre trasformate. Con la sua immagine poetica dei cigni e l'ambientazione silvestre e remota, la fiaba tedesca ben si adatta al paesaggio irlandese, e potrebbe persino essere debitrice di una qualche ispirazione alla tradizione celtica che, a partire dal tredicesimo secolo, esercitò una notevole influenza sullo sche- ma tradizionale della fiaba popolare. La favola dei figli di Lir, quella di Aengus Og e della sua sposa-cigno: sono questi i miti irlandesi in cui, in un batter d'occhio, bambini diventano cigni e cigni incantevoli fanciulle. Nella mia storia ho cercato il dilemma racchiuso nelle favole, poiché es- se narrano di esperienze meravigliose e strazianti, dando voce al meglio e al peggio dell'animo umano. Onore, fiducia, coraggio, onestà, amore. Per- fidia, tradimento, codardia, odio. Esse ci divertono, ci fanno inorridire e ci rassicurano. Ci fanno ridere oppure piangere. La carica di innata verità che contengono fa vibrare le nostre corde più profonde e ci mostra quanto sia- no sottili i confini che separano il mondo reale da quello che, pur nella sua onnipresenza, resterà per sempre l'Altro. E soprattutto esse risvegliano in noi il senso del prodigioso e la consapevolezza dei misteriosi schemi dell'esistenza, una danza a spirale di nascita, morte e rinascita. Al lettore potranno forse risultare gradite alcune indicazioni in merito ai nomi propri e ai termini in antico gaelico che sono stati usati in questa sto- ria. Qui di seguito vengono dati cenni per una pronuncia approssimativa di alcuni di essi. La sillaba in corsivo indica la posizione dell'accento nella parola. Diarmid Diar-mid Eamonn Ei-mon Eilis Ai-lisc [sc come nella parola «sci»] Padriac Pad-ric Seamus Scei-mus Sorha Sor-ra Per Sorha e i suoi fratelli, lo scorrere dell'anno è scandito delle otto fe- stività del calendario druidico. Le solennità cristiane erano a volte celebra- te nello stesso giorno, in tutta probabilità per ragioni puramente pratiche, com'è il caso di Lugnasad, festa della mietitura, e di Imbolc, festa della Candelora. Quattro sono le principali festività, a volte denominate feste del fuoco, oltre a solstizi ed equinozi: Samhain Sou-an 1° novembre Meàn Geimhridh Mion gev-rii 21 dicembre (solstizio d'inverno) Imbolc Imulc 1° febbraio Meàn Earraigh Mion a-rii 21 marzo (equinozio di primavera) Beltaine Bal-te-na. 1° maggio Meàn Samhraidh Mion sour-ii 21 giugno (solstizio d'estate) Lugnasad Lunasa 1° agosto Meàn Fómhair Mion fo-uer 21 settembre (equinozio d'autunno) Altri termini usati a sedere, fletté le ginocchia e vi appoggiò il mento. «Arriveranno questa sera.» Dietro di lui la brezza faceva ondeggiare i rami di querce e olmi, di fras- sini e sambuchi, provocando un turbinio di foglie dorate, bronzee e brune. Il lago era situato in fondo a una conca delimitata da tre colline coperte di vegetazione, riparato come all'interno di un capiente calice verde. «Come fai a saperlo?» domandò Padriac. «Come puoi esserne certo? Po- trebbero arrivare domani, o dopodomani. Oppure potrebbero dirigersi in qualche altro luogo. Non so come tu faccia ad essere sempre così sicuro». Ricordo che Finbar non rispose, ma quello stesso giorno, più tardi, verso l'imbrunire, mi condusse sulla sponda del lago. Nella luce morente che lo sovrastava notammo i cigni far ritorno a casa. Gli ultimi raggi del sole, bassi all'orizzonte, catturarono un movimento bianco nel cielo che andava oscurandosi. Poi i cigni giunsero così vicini da permetterci di osservarne lo schema di volo, l'ordinata formazione che tagliava l'aria fresca nell'oscurità imminente. La spinta delle ali, la vibrazione dell'aria. La planata finale sull'acqua, il bagliore argentato, mentre questa si fendeva ad accoglierli. Nel posarsi produssero un suono simile al mio nome, ripetutamente: Sor- ha, Sorha. Feci scivolare la mano in quella di Finbar e restammo lì immo- bili fino al sopraggiungere del buio; poi mio fratello mi condusse a casa. Se avrete la fortuna di crescere come me, molte saranno le belle cose da ricordare. E altre meno belle. Una primavera, andando a caccia delle raga- nelle che apparivano con i primi caldi, io e i miei fratelli ci immergemmo fino al ginocchio nel fiume, facendo tutti un gran baccano per spaventare e allontanare altri animali. Ero accompagnata da tre dei miei sei fratelli: Co- nor, che fischiettava un vecchio motivo; Cormack, il suo gemello, che lo seguiva di soppiatto per infilargli una manciata di erbe palustri giù per il collo, tanto che i due si rotolarono sulla riva, lottando e ridendo. E Finbar. Finbar stava più avanti lungo il fiume, fermo presso una pozza d'acqua tra le rocce. Per cercare le rane non capovolgeva i sassi, ma preferiva restare in attesa e stanarle col silenzio. Io tenevo in mano un mazzolino di fiori selvatici: violette, filipendule e piccole corolle rosa che chiamavamo fiori del cucù. Lungo il ciglio dell'acqua ne vidi di nuovi, con bei capolini stellati di un pallido verde e foglie simili a piume grigie. Mi avvicinai e mi chinai per raccoglierne uno. «Sorha! Non toccarlo!» gridò all'improvviso Finbar. Stupita, sollevai lo sguardo. Finbar non mi dava mai ordini. Se si fosse trattato di Liam, il più vecchio, o Diarmid, appena più giovane di lui, avrei anche potuto aspettarmelo. Finbar era tornato indietro in fretta per rag- giungermi, dimentico delle raganelle. Per quale motivo avrei dovuto ubbi- dirgli? Non era poi tanto più vecchio di me, e dopotutto si trattava soltanto di un fiore. Lo udii ammonirmi: «Sorha, non...», proprio mentre le mie piccole dita afferravano uno di quegli steli dall'aspetto morbido. Il dolore alla mano si accese come fuoco, uno strazio indicibile che mi fece torcere il viso e gridare mentre avanzavo alla cieca sul sentiero, i fiori ora a terra e calpestati con noncuranza. Finbar mi fermò con un movimento energico, afferrandomi per le spalle e ponendo fine alla mia corsa cieca. «Stellaria», annunciò dopo aver osservato attentamente la mia mano, che aveva già iniziato a gonfiarsi e ad arrossarsi. Anche i gemelli erano arrivati di corsa, richiamati dalla mie grida. Cormack, che era assai forte, mi tene- va stretta mentre strepitavo e mi dimenavo per il dolore. Conor strappò un lembo dalla sua camicia sporca. Finbar, dopo aver trovato un paio di le- gnetti appuntiti, prese a estrarre con delicatezza, a una a una, le sottili spi- ne aghiformi che la stellaria aveva conficcato nella morbida carne. Ricordo la pressione sulle mie braccia esercitata dalle mani di Cormack, mentre singhiozzavo cercando di respirare, e posso ancora udire la voce tranquilla di Conor che accompagnava i movimenti sciolti delle lunghe dita di Finbar che svolgevano il loro compito senza tremare. «... e il suo nome era Deirdre, Signora della Foresta. Non la si vedeva mai, eccetto che di notte, quando, se ti avventuravi lungo i sentieri sotto le betulle, potevi scorgere l'alta figura avvolta in un mantello blu come la notte, i capelli scuri e ribelli che fluttuavano dietro di lei e la coroncina di stelle...». Una volta finito, mi fasciarono la mano con la benda improvvisata di Conor e alcuni petali di calendula schiacciati, e il mattino dopo stavo già meglio. Quando i fratelli più grandi giunsero a casa, agli altri non sfuggì nemmeno una parola sull'accaduto e su quanto fossi stata sciocca. Dopo quell'episodio seppi bene cos'era una stellaria e iniziai da sola a studiare altre piante che potevano nuocere o guarire. Una bambina che cresce libera nella foresta impara presto a conoscerne i segreti, semplice- mente usando il buonsenso. Funghi mangerecci e velenosi. Licheni, mu- schi e rampicanti. Foglie, fiori, radici e cortecce. Nella smisurata estensio- ne della foresta le grandi querce, i robusti frassini e le gentili betulle offri- vano grato riparo a una vasta schiera di essenze vegetali. Imparai dove trovarle, quando raccoglierle e come usarle per preparare pomate, unguenti o infusioni. Ma non mi limitai solo a quello. Parlai con le vecchie che abi- tavano nelle capanne fino a che non ne ebbero abbastanza di me, e studiai tutti i manoscritti su cui riuscii a metter mano, facendo esperimenti per conto mio. Le cose da imparare sembravano moltiplicarsi e i lavori da svolgere non mancavano mai. Ma quando tutto ebbe inizio? Quando mio padre incontrò mia madre e perse la testa, decidendo di sposarsi per amore? Oppure quando nacqui? Sarei dovuta essere il settimo figlio di un settimo figlio, ma la dea si burlò di noi e così nacqui femmina. E dopo avermi dato alla luce, mia madre morì. Non sarebbe esatto affermare che mio padre cedette sotto il peso del do- lore. Era troppo forte per manifestare una reazione simile ma, quando la perse, fu come se una luce dentro di lui si fosse spenta per sempre. Da al- lora, per lui vi furono solo adunate di guerra, giochi di potere e accordi a porte chiuse. Era tutto ciò che vedeva, le uniche cose per cui mostrava un qualche interesse. Pertanto, i miei fratelli crebbero liberi nelle foreste at- torno alla tenuta di Sevenwaters. Forse non ero il settimo figlio delle anti- che leggende, quello che racchiudeva in sé i poteri magici e la fortuna del popolo fatato, ma mi accodavo comunque ai fratelli, che mi amavano e mi educavano nell'unico modo conosciuto a una brigata di maschi. La nostra casa prendeva il nome dai sette torrenti che scendevano dai fianchi delle colline e si immettevano nel grande lago bordato da alberi. Era un luogo remoto, tranquillo e caratteristico, sorvegliato da uomini si- lenziosi vestiti di grigio che si aggiravano per la foresta portando armi affi- late. A mio padre non piaceva correre rischi. Era Lord Colum di Sevenwa- ters e la sua tùath era la più sicura e la più inaccessibile lungo questo ver- sante di Tara. Tutti lo rispettavano, qualcuno lo temeva. Al di fuori della foresta non vi era luogo che potesse davvero dirsi sicuro. I capitribù si combattevano l'un l'altro, e anche i re. E, come se non bastasse, c'erano i razziatori d'oltremare. I monasteri cristiani, luoghi di studio e contempla- zione, venivano saccheggiati e i loro pacifici occupanti uccisi o messi in fuga. Spinti dalla disperazione, a volte i monaci stessi si armavano, dimen- ticando i precetti della loro fede. I vichinghi predavano le nostre coste e passavano l'inizio dell'inverno nell'attracco che allestivano a Dublino, sic- ché nessun periodo dell'anno era privo di rischi. Anch'io fui testimone del- la loro opera, dato che a Killevy vi erano delle rovine, risultato di una scor- reria che aveva causato la morte delle religiose e la distruzione della chie- sa. Ci andai soltanto una volta. Su quel posto aleggiava come un'ombra. Camminando tra le pietre divelte, si udiva ancora l'eco delle loro grida. nostro universo gioioso e indisciplinato. Non molto più tardi, la spiccata abilità di Diarmid con la lancia gli valse un posto accanto al fratello. Ben presto entrambi entrarono a far parte del contingente di guerrieri a cavallo al servizio di mio padre. Cormack non vedeva l'ora che arrivasse il giorno in cui anch'egli avreb- be potuto unirsi a loro, dato che l'addestramento impartito dai maestri d'arme di mio padre non era sufficiente a placare la sua smania di eccelle- re. Padriac, il più piccolo, era straordinariamente dotato nel curare gli ani- mali e aveva uno spiccato talento per riparare gli oggetti. Anch'egli imparò a cavalcare e a brandire una spada, ma più spesso lo si trovava intento a far nascere un vitello o a sottrarre un toro da esposizione dalle cornate di un rivale. Noi altri eravamo diversi. Conor era gemello di Cormack, ma non a- vrebbe potuto mostrare un temperamento più diverso. Nutriva da sempre un amore tutto speciale per il sapere, e già da piccolo aveva stretto un patto con un eremita cristiano che viveva in una grotta sul fianco della collina, lungo la sponda meridionale del lago. In cambio di lezioni di lettura, mio fratello portava a padre Brien pesce fresco ed erbe aromatiche, e talvolta anche un paio di pagnotte sottratte alle cucine. Quei tempi sono ancora molto vividi nella mia memoria. Rivedo Conor, seduto su una panca a fianco del monaco, immerso in una conversazione riguardante una qualche sottigliezza linguistica o filosofica, e io e Finbar in un angolo, a gambe incrociate sul pavimento di terra battuta, immobili come topi campagnoli. Noi tre assorbivamo nozioni e conoscenze come piccole spugne, convin- ti, isolati com'eravamo, che tale pratica fosse assai comune. Imparammo per esempio la lingua dei britanni, una parlata aspra, serrata e senza alcuna musicalità. E a mano a mano che apprendevamo la lingua dei nostri nemi- ci, ne imparavamo anche la storia. Si trattava di un popolo un tempo simile al nostro, forte e fiero, ricco di storie e canti. Le loro terre, però, aperte e vulnerabili, erano state invase ripetutamente, e il loro sangue si era mischiato con quello di romani e sas- soni. E quando si stabilì una qualche parvenza di pace, la vecchia stirpe di quelle terre risultò estinta, rimpiazzata da un nuovo popolo d'oltremare. Fu il monaco a raccontarci questi fatti. Tutti avevano una qualche storia da raccontare sui britanni. Riconoscibi- li per via dei capelli biondi e della statura imponente, nonché della man- canza di qualsivoglia regola del vivere civile, avevano provocato l'inizio della guerra impossessandosi di ciò che di più inviolabile e profondamente sacro vi era per il nostro popolo: la Piccola Isola, la Grande Isola e l'Ago. Luoghi di fitto mistero e profondi segreti. Il cuore dell'antica fede. Nessun britanno avrebbe mai dovuto posare piede su quelle isole. Così, nulla sa- rebbe mai più stato giusto fino a che non fossero stati scacciati. Questo era ciò che tutti dicevano. Era chiaro che Conor non era tagliato per fare il guerriero. Mio padre, che aveva tanti figli, accettò il fatto, seppure con riluttanza. Forse compre- se che uno studioso si sarebbe rivelato utile in famiglia. Vi erano registri da tenere, conti da fare e mappe da elaborare, e lo scriba di mio padre era ormai in là con gli anni. Fu così che Conor trovò il proprio posto in seno alla famiglia, e si mise all'opera con soddisfazione. Sebbene le sue giornate fossero assai intense, trovava sempre un po' di tempo per me e Finbar; così noi tre crescemmo molto uniti, accomunati com'eravamo dalla sete di sa- pere e da una peculiare, tacita forma di mutua comprensione. Padriac, invece, avrebbe potuto dedicarsi con profitto a qualsiasi arte, ma la sua grande passione consisteva nell'esaminare gli oggetti e compren- derne il funzionamento, cosa che tentava di fare ponendo una serie infinita di domande che finivano per spazientire qualunque interlocutore. Padriac era l'unico in grado di far breccia nella dura corazza di papà, tanto che a volte, quando osservava il figlio più giovane, sulle fattezze severe di Co- lum era possibile scorgere l'ombra di un sorriso. Ma a me, o a Finbar, papà non sorrideva mai. Secondo Finbar, il motivo era che entrambi gli ricordavamo la mamma, che era morta. Da lei avevamo entrambi ereditato i capelli ricci e ribelli. Io avevo gli stessi suoi occhi verdi, e Finbar la sua calma. Nascendo, fui io a provocarne la morte. Perciò non c'era da stupirsi se papà faceva fatica a guardarmi con favore. Ma quando parlava a Finbar il suo sguardo era geli- do come l'inverno. Ricordo un episodio in particolare, accaduto prima che lei arrivasse e sovvertisse per sempre le nostre esistenze. Finbar aveva quindici anni; non era ancora uomo, ma certamente nemmeno più fanciul- lo. Papà ci aveva convocati, ed eravamo tutti riuniti nel salone. Finbar stava davanti al trono di Lord Colum, la schiena dritta come una lancia, in attesa della rituale inquisizione. Liam e Diarmid erano ormai giovanotti, pertanto questo tormento veniva loro risparmiato. Erano però presenti ai margini della scena, consapevoli che la loro presenza rassicurava gli altri fratelli. «Ho parlato con i tuoi istruttori, Finbar». Silenzio. I grandi occhi grigi di Finbar sembravano puntare dritto in quelli del padre. «Mi riferiscono che le tue abilità si sviluppano con profit- to e questo mi fa piacere». Malgrado queste parole elogiative lo sguardo di papà era gelido e il suo tono distante. Liam gettò un'occhiata a Diarmid e Diarmid gli restituì un sorriso tirato, come a dire ecco che arriva. «Il tuo comportamento, tuttavia, lascia molto a desiderare. Mi è stato detto che hai conseguito questi risultati senza eccessivo sforzo o interesse da parte tua e che spesso ti assenti dagli addestramenti senza un valido motivo.» Si produsse un'altra pausa. A questo punto sarebbe stato opportuno dire qualcosa, giusto per non cacciarsi in ulteriori guai. Un «Sì, padre» sarebbe bastato. Il silenzio di Finbar costituiva già di per sé un insulto. «Cos'hai da dire a tua difesa, ragazzo? E guarda che quello che voglio è una risposta, non uno dei tuoi sguardi insolenti!» Papà si sporse in avanti, avvicinando il viso a quello di Finbar; la sua espressione mi diede i brividi, e mi spinse ad avvicinarmi a Conor. Era un'espressione che avrebbe messo paura anche a un adulto. «Ora hai un'età in cui puoi affiancare i tuoi fratelli e stare al mio fianco, perlomeno quando sono a casa. E tra non molto anche sul campo. Ma una campagna militare non è luogo per facce mute e insolenti. Un uomo deve imparare a obbedire senza contestare. Parla, dunque! Come giustifichi il tuo comportamento?». Finbar non fornì alcuna risposta. Non ho niente da dirti. Non parlerò. Sapevo che quelle parole giravano nella sua mente. Afferrai la mano di Conor. Avevamo già avuto modo di sperimentare l'ira di nostro padre. E provocarla a bella posta era una follia. «Padre», interloquì Liam avanzando diplomaticamente di un passo. «Forse...». «Taci!» gli ingiunse papà. «Tuo fratello non ha bisogno che si parli in sua vece. Ha lingua e cervello... che li usi, quindi». Esternamente Finbar appariva del tutto calmo e composto. Solo io, che condividevo ogni suo respiro, che percepivo ogni empito di dolore o di gioia come fosse mio, riuscivo a sentire la tensione che c'era in lui e pote- vo comprendere il coraggio che avrebbe richiesto una risposta. «Vi darò una risposta», esordì con voce calma. «Imparare a governare un cavallo e a usare arco e spada può essere utile. Utilizzerei tali capacità per difendere me stesso, o mia sorella, o per soccorrere i miei fratelli in situazioni di pericolo. Ma dovrete fare a meno di me per le vostre campa- gne militari. Perché io non ne prenderò parte». lo spargimento di sangue di cui è causa.» «Sì, padre». L'espressione e il tono di voce di Liam erano ormai ben al- lenati alla neutralità. Tuttavia, lo sguardo che gettò a Finbar fu di solidarie- tà. Si assicurò soltanto che papà non lo vedesse. «E adesso, dov'è mia figlia?». Avanzando verso di lui con riluttanza, superai Finbar e con la mia mano sfiorai la sua. I suoi occhi splendevano fieri in un viso in cui ogni colore era scomparso. Rimasi ritta di fronte a mio padre, combattuta tra sentimen- ti contrastanti che faticavo a comprendere. Un padre non era forse tenuto ad amare i propri figli? Possibile che non capisse quanto fosse stato corag- gioso Finbar a parlargli in quel modo? Finbar aveva una visione delle cose a noi preclusa. Papà avrebbe dovuto saperlo dato che, a quanto diceva la gente, anche mia madre era dotata di quello stesso dono. Se solo ci avesse dedicato un po' di tempo l'avrebbe certamente scoperto. Finbar riusciva a vedere nel futuro, e offriva moniti che venivano ignorati a rischio e perico- lo dell'interlocutore. Si trattava di una dote rischiosa, rara e onerosa. Qual- cuno la definiva la Vista. «Vieni avanti, Sorha.» Pur essendo arrabbiata con papà, desideravo la mia razione di lodi. No- nostante tutto, non potevo fare a meno di provare quel sentimento. I miei fratelli mi amavano. Perché non avrebbe potuto farlo anche lui? Tali erano i miei pensieri quando alzai lo sguardo su di lui. Se mi osservavo coi suoi occhi vedevo una piccola figura patetica, ossuta e in disordine, con una massa di ricci ribelli che ricadevano sulla fronte coprendo gli occhi. «Dove sono le tue scarpe, bambina?» chiese papà con aria esausta. Ini- ziava a dare segni di impazienza. «Non ne ho bisogno, padre», risposi quasi senza pensare. «I miei piedi sono robusti, guardate», dissi sollevando un piede magro e lurido affinché lo osservasse. «Così nessun insetto troverà la morte sotto le suole». Questa argomentazione era stata usata con i miei fratelli così di frequente da avermi ormai fatto guadagnare il permesso di camminare scalza ogniqualvolta ne avessi voglia. «Alle cure di quale domestico è affidata questa bambina?» chiese mio padre in tono irritato. «Non ha più un'età in cui la si possa lasciare girare libera come la monella di un calderaio ambulante. Quanti anni hai, Sorha? Nove, dieci?». Come poteva ignorare la mia età? Forse che il giorno della mia nascita non coincideva con quello della perdita della persona che aveva amato più d'ogni altra cosa? Quel giorno era caduto in concomitanza con il solstizio d'inverno, una data che, secondo quanto diceva la gente, mi avrebbe porta- to fortuna. Janis la Grossa, la nostra cuoca, aveva già un bambino al seno e latte per due, una circostanza che probabilmente mi salvò la vita. Magari, invece, questa dimenticanza provava solo il fatto che mio padre era ormai riuscito a mettere la parola fine a quel capitolo della sua vita, che aveva smesso di contare ogni notte solitaria, ogni giornata vuota da quando lei era mancata. «Compirò tredici anni la sera del solstizio d'inverno, padre», risposi, er- gendomi in tutta la mia altezza. Forse, se mi avesse considerata abbastanza cresciuta, mi avrebbe guardata con maggiore considerazione, similmente a quanto faceva con Liam e Diarmid. Oppure mi avrebbe osservata con quell'accenno di sorriso che di solito riservava a Padriac, il fratello più vicino a me per età. Per un istante i suoi occhi profondi e infossati incon- trarono i miei e io gli restituii apertamente uno sguardo verde disarmante che, sebbene ancora non lo sapessi, era identico a quello di mia madre. «Basta», sbottò tutto a un tratto in tono di congedo. «Portate via di qui questi bambini. C'è del lavoro da fare». E, volgendo la schiena, si immerse repentinamente nello studio di qual- che grande mappa che era stata aperta sul tavolo di quercia. Solo Liam e Diarmid erano tenuti a rimanere; essendo uomini fatti, venivano messi a parte delle strategie di mio padre. Per quanto riguardava gli altri figli, era tutto finito. Indietreggiai uscendo dall'alone di luce. Perché questi particolari sono così vividi nella mia memoria? Forse il di- spiacere per via di come stavamo crescendo indusse papà a optare per la scelta che compì, con conseguenze disastrose oltre ogni immaginazione. Certo, per portare quella donna a Sevenwaters egli usò la scusa del nostro benessere, e il fatto che questa decisione fosse priva di qualsiasi logica non venne evidentemente nemmeno considerato: eppure, in fondo al cuore, mio padre doveva ben sapere che io e Finbar eravamo di tempra forte, già formati nella mente e nello spirito sebbene non ancora adulti, e che aspet- tarsi che ci saremmo piegati di fronte a un'altra volontà sarebbe stato come chiedere alle maree di fermare il loro rifluire o impedire alla foresta di e- spandersi. Mio padre era governato da forze che lui stesso non riusciva a comprendere. Mia madre, invece, le avrebbe riconosciute. Mi capitò spes- so, più avanti negli anni, di chiedermi che cosa ella sapesse riguardo al nostro futuro. La Vista non sempre permette a una persona di vedere ciò che vuole, ma sono convinta che, nel darci l'addio, ella conoscesse il cam- mino bizzarro e tortuoso che i suoi figli avrebbero dovuto seguire. Non appena papà ci ebbe congedati, vidi Finbar dileguarsi come un'om- bra su per la scala in pietra che conduceva alla torre. Mentre mi voltavo per seguirlo, Liam mi strizzò l'occhio. Per quanto fosse un guerriero fatto e finito, era pur sempre mio fratello. Ed ebbi pure un sorriso da Diarmid, sebbene si premurò di cancellare dal viso ogni altra espressione fuorché il rispetto prima di girarsi di nuovo verso papà. Di certo Padriac era già all'esterno; nelle scuderie teneva un gufo ferito che stava curando per poi rimetterlo in libertà. Era incredibile, ci riferì, quante nozioni sul principio del volo fosse riuscito ad apprendere. Conor stava lavorando a fianco dello scriba di mio padre, aiutandolo nel far di conto, e lo si vedeva piuttosto raramente. Cormack era andato ad allenarsi con la spada o il bastone. Così, quando mi avviai a piedi scalzi su per le scale verso la sala della torre, mi ritrovai sola. Da quel luogo si poteva raggiungere una postazione ancor più elevata, un tratto di tetto di ardesia delimitato da una breve merlatura, in tutta probabilità insufficiente ad arre- stare una rovinosa caduta, che esercitava su di noi un costante richiamo. Era un luogo dove raccontare storie e confidarsi segreti, oppure dove poter stare in silenzio tra noi. Come mi aspettavo, lo trovai lì, seduto sullo spiovente più precario del tetto, le ginocchia raccolte al petto, le braccia che le cingevano e gli occhi dall'espressione impenetrabile fissi sul paesaggio costituito da pascoli cin- tati, fienili, stalle e capanne, oltre che dai toni grigi, verdi e azzurri della foresta. Non molto più in là l'acqua del lago riluceva di bagliori argentati. La brezza era piuttosto fredda e, mentre risalivo il tetto di ardesia e mi mettevo seduta accanto a lui, mi faceva ondeggiare la gonna. Finbar era immobile. Non avevo bisogno di guardarlo per capire che cosa gli passava per la mente, poiché ero affine a questo mio fratello come possono esserlo la corda e l'arco. Restammo in silenzio per qualche tempo, mentre il vento ci scompiglia- va i capelli e uno stormo di gabbiani ci passava sopra la testa lanciando acuti richiami. Di tanto in tanto si udivano delle voci e un clangore metal- lico: erano gli uomini di papà che si esercitavano a combattere nella corte. Tra di loro vi era anche Cormack; papà si sarebbe compiaciuto di questo. Lentamente, Finbar riemerse dalle profondità della sua mente. Con le lunghe dita prese ad attorcigliarsi una ciocca di capelli. «Cosa sai delle terre che stanno oltre il mare, Sorha?» chiese con voce pacata. «E oggi è stato difficile», ribattei, pensando allo sguardo gelido di papà e ai brutti momenti che Finbar aveva passato al suo cospetto. E sarà molto più difficile in futuro. Non riuscivo a capire se questo pen- siero proveniva dalla mia mente o da quella di mio fratello, ma un brivido di gelo mi corse giù per la schiena. Poi, dando voce ai suoi pensieri, proseguì: «Voglio che tu te ne ricordi sempre, Sorha. Per te io ci sarò sempre, qualsiasi cosa accada. Ricordalo. È importante. Su, andiamo, è ora di scendere». Quando ripenso agli anni della nostra infanzia, la cosa più importante è l'albero. Noi sette ci andavamo spesso, tagliando la foresta in direzione sud verso la sponda che sovrastava il lago. Quand'ero piccola, Liam o Diarmid mi portavano sulle spalle e, una volta in grado di camminare, due dei fra- telli mi tenevano per mano tirandomi di corsa, talvolta facendomi penzola- re tra loro con un giocoso uno, due e tre, mentre gli altri si precipitavano davanti a noi in direzione del lago. A mano a mano che ci avvicinavamo, diventavamo più silenziosi. La sponda dove cresceva la betulla era un luo- go pregno di magia e le nostre voci, mentre ci riunivamo sul terreno erboso che la circondava, si tramutavano in sussurri. Tutti eravamo fermi nella nostra convinzione che quel terreno fosse la porta d'accesso nell'altro mondo, nel regno degli spiriti, dei sogni e del popolo fatato. Il luogo in cui eravamo cresciuti era così pieno di magia, che questa era diventata parte integrante della vita quotidiana. Non che si incontrassero creature fatate ogniqualvolta si andava per bacche o ci si dirigeva al pozzo per attingere l'acqua, ma quasi ogni nostro conoscente aveva un amico il cui amico si era avventurato nel fitto della foresta ed era scomparso; oppure si era arrischiato a entrare in un cerchio di funghi eclis- sandosi e, quando aveva fatto ritorno, non era più stato lo stesso. In quei luoghi potevano accadere cose molto strane. Poteva capitarti di sparire anche per cinquant'anni, e ritornare che eri ancora nel fiore della gioventù, oppure assentarti per un solo, mortale istante, e ritornare col viso tutto rag- grinzito e la schiena piegata sotto il peso degli anni. Queste storie ci affa- scinavano, ma non al punto di renderci prudenti. Se doveva succedere qualcosa, sarebbe successo, che piacesse o meno. La betulla, comunque, era tutt'altra cosa. Era depositaria dello spirito di nostra madre, essendo stata piantata dai miei fratelli il giorno della sua morte, come da sua richiesta. Dopo aver detto loro ciò che avrebbero do- vuto fare, Liam e Diarmid, che avevano sei e cinque anni, avevano preso le vanghe e si erano diretti nel luogo da lei indicato, indi avevano scalzato il soffice prato verde e interrato il seme là, sul piatto ciglio erboso sovrastan- te il lago. Con le loro manine sporche, i più piccoli avevano aiutato a livel- lare il terreno e a portare l'acqua. Più tardi, non appena fu dato loro il per- messo di portarmi fuori casa, ci andammo tutti assieme. Fu la mia prima volta ma, dopo quella, prendemmo l'abitudine di andarci due volte l'anno: in occasione del solstizio d'estate e di quello d'inverno. Sebbene animali in cerca di pascolo avrebbero potuto divorare l'alberel- lo, oppure i venti gelidi dell'inverno spezzarne l'esile fusto, esso fu sempre risparmiato. Nel giro di pochi anni iniziò a prosperare, offrendo un bello spettacolo sia nell'austera tenuta invernale sia in estate, quando si amman- tava della sua veste argentea e frusciante. Nella mia mente riesco ancora a vedere quel luogo con chiarezza, noi sette seduti a gambe incrociate sul prato circostante, senza neppure toccarci, ma intimamente uniti come se le nostre mani fossero strettamente allacciate. Eravamo più grandi, allora, ma pur sempre bambini. Io avevo forse cinque anni e Finbar otto. Liam aveva atteso che fossimo cresciuti a sufficienza prima di raccontarci quella storia. «...ora c'era qualcosa di inquietante nella stanza. Aveva un odore diver- so, strano. La sorellina appena nata era stata portata via e c'era del sangue, oltre a un andirivieni di persone con le facce spaventate. Mamma era sdra- iata e il suo viso, incorniciato dai capelli scuri sparsi sul cuscino, era terre- o. Ci diede il seme e disse a me e Diarmid: "Voglio che prendiate questo, e lo piantiate sulla sponda del lago, così che al momento della mia morte il seme possa crescere di una nuova vita. In questo modo, figli miei, sarò sempre là con voi, e quando vi troverete in quel luogo saprete di far parte di una grande magia che ci unisce. La nostra forza proviene dalla magia, dalla terra e dal cielo, dal fuoco e dall'acqua. Volate in alto, immergetevi nelle profondità e restituite alla terra ciò che vi dà. «Malgrado la spossatezza, poiché stava perdendo molto sangue, riuscì a regalarci un sorriso, e anche noi facemmo del nostro meglio per rispondere a quel sorriso combattendo le lacrime, comprendendo a malapena ciò che stava dicendo, ma sapendo che era importante. "Diarmid", disse, "prenditi cura dei più piccoli e condividi con loro la tua allegria". La sua voce si faceva sempre più debole. "Liam, figlio mio. Temo che per un certo perio- do sarà dura per te. Tu sarai responsabile per loro, sarai la loro guida. E sei molto giovane per portare un peso così gravoso". «"Posso farcela", ribattei ricacciando indietro le lacrime. Alcune persone si muovevano per la stanza: un guaritore che mormorava tra sé scuotendo il capo, alcune donne che rimuovevano panni zuppi di sangue e ne porta- vano di puliti, e ora qualcuno che cercava di portarci fuori. Mamma, però, disse che non era ancora arrivato il momento e fece uscire tutti per qualche attimo. Allora invitò tutti noi più vicino per darci l'addio. Papà era fuori. Anche in quel momento teneva il suo dolore solo per sé. Allora parlò in tono sommesso a ognuno di noi, ma la voce le veniva meno. I gemelli sta- vano ognuno da un lato del letto, chini in avanti, l'uno l'immagine riflessa dell'altro, occhi grigi come il cielo invernale e capelli di un bel castano acceso, lucenti come castagne mature. «"Conor, mio tesoro, ricordi la poesia del cervo e dell'aquila?". Conor annuì, le minuscole fattezze composte in un'espressione seria. "Dimmela, allora", sussurrò. «"I miei piedi si poseranno a terra lievi come quelli di un cervo nella fo- resta", recitò Conor, corrugando la fronte per via della concentrazione. "Limpida sarà la mia mente come acqua della sacra fonte, e forte il mio cuore come la grande quercia. Il mio spirito si stenderà sulle ali delle a- quile, e volerà lontano. Questa è la strada della verità". «"Bene", disse. "Tienila a mente e, quando sarà più grande, insegnala a tua sorella. Ne sarai capace?" Di nuovo Conor annuì con solennità. «"Non è giusto!" esclamò Cormack, il viso inondato di lacrime rabbiose. Le cinse il collo con le braccia e la tenne stretta. "Non puoi morire! Io non voglio che tu muoia!" «Lei gli scompigliò i capelli e lo quietò con dolci parole; Conor cammi- nò attorno al letto per prendergli la mano. Cormack si calmò. Poi Diarmid sollevò Padriac così che il braccio di mamma riuscì a cingere entrambi per un attimo. Finbar, che stava presso il cuscino, era così immobile che ci si sarebbe potuti dimenticare di lui, e la osservava in silenzio mentre conge- dava i figli a uno a uno. Da ultimo si volse verso di lui, senza dire nulla, e lo invitò a prendere la gemma intagliata che portava al collo e a indossarla lui stesso. Era poco più che un infante, e il pendente gli arrivava fin sotto la vita. Strinse il piccolo pugno attorno all'amuleto. Con lui mamma non aveva bisogno di parole. «"E mia figlia?" sussurrò infine. "Dov'è la mia Sorha?". Allora uscii e chiesi di lei, e Janis la Grossa entrò deponendo la neonata tra le braccia di mamma, ora così debole da non riuscire quasi a cingere il fagottino avvol- to in panni di lana. Finbar si fece più vicino, la manina tesa per aiutare la madre a sostenere quel leggero fardello. "Mia figlia sarà forte", annunciò mamma. "La magia è potente in lei, così come in tutti voi. Siate leali con rare volte in cui parlava, la sua conversazione toccava solo argomenti su- perficiali e contingenti, che a loro non potevano interessare granché. Ciò malgrado si vedeva Liam, Diarmid e Cormack che, a turni, la scortavano con pazienza per le corti e i giardini, chinandosi affascinati verso di lei per non perdere nemmeno una parola e offrendole la mano per scendere scale che io avrei superato con pochi balzi. Era strano, e lo divenne ancor di più, sebbene ciò che si rivelò più strano di tutto fu la quantità di tempo che mi ci volle per realizzare ciò che stava accadendo. Già dopo pochi giorni, Eilis mostrò la sua devozione restando spesso in compagnia di Liam. Lui, di solito occupatissimo, pareva trovare sempre del tempo da passare con Eilis. Sul suo viso, la cui ossatura aveva acquisito una nota di durezza caratteristica della maturità, ora vedevo qual- cosa di nuovo: l'avvertimento ai fratelli di tenersi alla larga, avvertimento che essi tennero ben presente. Eilis andava a passeggio con lui nel bosco, sebbene si rifiutasse di venirci con me, e a tavola, dove si dimostrava sem- pre contegnosa, non mancava mai di notare quando gli occhi scuri di Liam si posavano su di lei dal fondo della sala; in quei frangenti incontrava per un breve attimo il suo sguardo, arrossiva convenientemente e poi abbassa- va di nuovo le lunghe ciglia sugli occhi azzurri. Ciò malgrado continuavo ad essere cieca. Aprii gli occhi solo la sera in cui mio padre, battendo un pugno sul tavolo per chiedere il silenzio disse: «Amici miei! Miei cari vi- cini!». Tra gli ospiti il vociferare si ridusse a un brusio, mentre le coppe si fer- mavano a metà strada nel loro percorso verso labbra già protese per bere. Percepivo un senso di attesa, come se, esclusa me, tutti sapessero quali parole papà fosse in procinto di pronunciare. «È bello, in questi tempi travagliati, stare assieme in allegria, bere, ridere e godere dei frutti della nostra terra. Molto presto, quando la luna sarà pie- na, dovremo partire di nuovo nella speranza di rendere le nostre coste sicu- re una volta per tutte». Si udirono fischi e grida di acclamazione, ma era chiaro che gli ospiti stavano aspettando qualcos'altro. «Nel frattempo siete tutti i benvenuti, qui nella mia casa. È da molto tempo che non si fa una festa così.» Quindi rimase serio per un attimo. Seamus Redbeard si sporse in avanti, il viso arrossato. «Sei un ospite di prim'ordine, Colum, e guai a chi afferma il contrario», proclamò con voce malferma da avvinazzato. Eilis era di nuovo arrossita e teneva lo sguardo basso, posato sul piatto. Con la coda dell'occhio vidi Cormack offrire delle fettine di carne a Linn, il suo cane, che era riuscito ad infilarsi sotto il tavolo. Con noncuranza, teneva tra pollice e indice un boccone di arrosto o di pollo, e in un baleno il grosso muso baffuto appari- va e scompariva. Cormack, allora, posava sul tavolo la mano vuota e fissa- va lo sguardo nella direzione opposta, mentre un accenno di fossette gli segnava il viso. «Perciò vi invito a bere alla salute della felice coppia! Possa la loro u- nione essere durevole e feconda, e simboleggiare sempre la pace e l'amici- zia tra noi vicini.» Dovevo aver perso una parte del discorso; Liam era in piedi, piuttosto pallido, ma incapace di trattenere un ampio sorriso sul volto solitamente serio; poi prese la mano di Eilis e io finalmente compresi, dal modo in cui si guardavano, come stavano le cose. «Liam? Sposarsi?» sbottai basita. «Con quella?». Tutti, però, stavano ri- dendo ed esultando, e persino mio padre sbandierava sul viso un'espressio- ne lieta. Tra la folla vidi padre Brien che parlava in toni pacati a Liam e Eilis. Tenendo quel dolore per me sola, scivolai fuori dal salone sottraen- domi alla luce delle torce e delle candele e al rumore, e mi diressi nella spezieria, un luogo che apparteneva a me sola. Non ci andai per lavorare, ma per sedermi sul davanzale della finestra con un moccolo a tenermi compagnia, e guardai fuori nell'oscurità in direzione dell'orto. Nel cielo scuro spiccava una falce di luna e qualche stella. A poco a poco, le sagome familiari del giardino mi si rivelarono in tutti i loro particolari, sebbene le conoscessi così tanto da poterle distinguere anche nel buio più completo: il verdazzurro dell'assenzio, che teneva alla larga i parassiti, i capolini gialli del tanaceto, il grigio spento della lavanda con le sue spighe brillanti blu e viola, le pareti di pietra grezza rivestite di un verde tenue nel punto in cui prosperava un vecchio rampicante. L'orto annoverava ancora molte altre piante; dietro di me, sugli scaffali, vi erano oli ed essenze che luccicavano in boccette, vasi o crogioli, pronti all'uso come medicamenti o palliativi. E, sopra la mia testa, i loro capolini secchi, appesi in mazzi ordinati. Un deli- cato sentore di medicinale pervadeva l'aria ferma. Trassi dei profondi re- spiri. Faceva molto freddo. Mi coprii col vecchio mantello appeso dietro la porta, ma il freddo mi arrivò ugualmente alle ossa. Il meglio dell'estate, ormai, se ne era andato. Rimasi seduta là per un bel pezzo, pur sentendo freddo persino tra le co- se che più amavo. Era la fine di qualcosa, e io non volevo che finisse. Non c'era niente da fare. Non potei fare a meno di piangere; lacrime silenziose presero a scorrere lungo il viso ma non feci nemmeno lo sforzo di asciu- garmele. Poco dopo udii dei passi risuonare al di fuori, sulle lastre di pie- tra, seguiti da un lieve bussare. Era di certo uno di loro che veniva a rag- giungermi. Tra noi sette regnava una tale sintonia che non vi era sofferenza che passasse inosservata, insulto che non venisse affrontato e dolore lenito. «Sorha? È permesso?» Pensavo si trattasse di Conor, ma si trattava del mio secondo fratello, Diarmid che, dopo essersi chinato sotto l'architrave ed entrato nella stanza, adagiò la lunga figura sopra una panca accanto alla finestra. La candela guizzante proiettò sul suo volto un intreccio di chiaroscuri, facendo emer- gere un viso che sembrava una versione più giovane di quello di Liam: il naso affilato dalla linea dritta e le labbra piene, con la differenza che que- ste erano sempre pronte ad aprirsi in un sorriso malizioso. Al momento, comunque, la sua espressione era seria. «Sarebbe meglio che tornassi di là», mi disse in un tono che rivelava quanto poco importassero anche a lui quei manierismi sociali. «La tua as- senza è stata notata». Deglutii e mi passai un lembo del vecchio mantello sulle guance bagna- te. Ora il sentimento che mi animava non sembrava più essere la rabbia, bensì il dolore. «Perché le cose devono cambiare?» chiesi contrariata. «Perché non pos- sono continuare nel modo in cui sono sempre state? Liam era così felice anche prima... non ha certo bisogno di lei!» Diarmid ebbe il buon cuore di non ridermi in faccia. Apparentemente immerso in profonde riflessioni, distese sul pavimento le lunghe gambe. «Ormai Liam è un uomo. E gli uomini prendono moglie, Sorha. Qui ci sono delle responsabilità che lo attendono, e una moglie potrà condivider- le.» «Ma ha già noi», dissi fiera. Diarmid allora sorrise, mettendo in mostra un paio di fossette che, in quanto a fascino, rivaleggiavano con quelle di Cormack, e che mi spinsero a chiedermi perché mai Eilis non avesse scelto lui invece del più serio Liam. «Ascolta, Sorha. Ciò che facciamo, o dove siamo, non è importante. Noi sette non saremo mai davvero separati. Saremo sempre la stessa cosa l'uno per l'altro. Ma stiamo diventando adulti, e le persone adulte si sposano, costruiscono una nuova casa e accolgono nella loro vita altre persone. An- che tu farai lo stesso, un giorno.» «Io!» ribattei esterrefatta. passare un drappello di uomini di mio padre con ancora indosso l'armatura e con la spada sguainata. Raggiunsero mio padre che sedeva sul trono tra- scinando con loro un prigioniero il cui viso non potei vedere ma i cui ca- pelli, afferrati da tergo da un grosso pugno rivestito di maglia ferrata, cat- turavano la luce delle torce e risplendevano come onde di oro scintillante. «Mio signore!» esclamò il capitano con voce tonante. «Mi duole distur- barvi durante questi festeggiamenti». «Difatti», rispose mio padre in tono gelido. «Le questioni che ti portano qui devono essere indubbiamente urgenti per giustificare una tale intrusio- ne. Cos'hai da dirmi? Ho ospiti». L'interruzione l'aveva infastidito, ma mosse ugualmente la mano in dire- zione della cintura che reggeva la spada. Lord Colum conosceva bene i suoi uomini: mai avrebbero rischiato di scatenare la sua ira senza un valido motivo. E il senso di vigile prontezza che l'uomo emanava lasciava inten- dere che ben sapeva il fatto suo. Lì vicino, Seamus Redbeard se ne stava sprofondato nella sedia, sorridendo con beatitudine nel vuoto. Quella sera si era forse lasciato andare ai troppi bagordi, a differenza del padrone di casa che era sobrio e lucido. «Un prigioniero, mio signore, come potete vedere. L'abbiamo trovato sulla sponda settentrionale del lago, da solo; da qualche parte lì vicino, però, ci devono essere altri come lui. Non si tratta di un mercenario, Lord Colum.» Vi furono dei movimenti concitati e la voce del soldato si interruppe, mentre il prigioniero si dibatteva con violenza nel tentativo di allentare gli stretti legacci che lo immobilizzavano. Gli ospiti spintonavano per poter godere di una visuale migliore, ma tutto ciò che riuscii a vedere tra i corpi accalcati fu l'oro lucido dei capelli del prigioniero, il pugno possente dell'uomo che li afferrava e il modo in cui il primo si teneva eretto, come fosse la persona più importante al mondo. Passai al di sotto di alcune braccia, superai un gruppo di ragazze che bi- sbigliavano e montai sul sedile in pietra che girava tutt'attorno all'ampio salone. Poi salii di un altro po' appoggiando i piedi al cornicione di un pi- lastro, guadagnandomi la visuale al di sopra delle teste della folla accalcata e mormorante. Ciò che vidi in primo luogo fu Finbar, appollaiato nello stesso identico punto dall'altro lato della sala. Il suo sguardo incontrò il mio e poi si fissò sul prigioniero. Quest'ultimo aveva la faccia piena di lividi; il naso sanguinava e, a un più attento esame, i ricci lucenti risultavano intrisi di sudore e la fronte chiazzata di sangue. Sotto, gli occhi posati su mio padre bruciavano come tizzoni. Era giovane, malridotto e pieno d'odio. Era il primo britanno che vedevo. «Chi sei, e che cosa ti conduce nei nostri territori?» chiese mio padre. «Parla, perché il silenzio non ti porterà niente di buono, te lo posso garan- tire. Non c'è benvenuto, ma solo la morte per quelli come te, conoscendo l'unica intenzione che può averti spinto fin sulle nostre terre. Chi ti ha mandato?» Il giovane gli si avvicinò strattonando con aria sprezzante le corde che gli serravano strettamente le mani dietro la schiena. Indi sputò con sor- prendente precisione ai piedi di mio padre. Subito uno dei carcerieri au- mentò la stretta sulle corde e torse ancora di più il braccio del prigioniero, mentre con l'altra mano gli sferrava un pugno guantato di ferro sulla fac- cia, lasciando una tumefazione rossa sulla bocca e sulla guancia. Subito furia e risentimento divamparono negli occhi del giovane, ma egli serrò le labbra e rimase muto. Papà si alzò in piedi. «Questo non è certo uno spettacolo che si addice alle signore, né può a- vere luogo qui, in questo salone delle feste», annunciò. «Credo che sia meglio interrompere i festeggiamenti». Quindi gettò attorno alla sala un'occhiata di congedo, in qualche modo con l'intento di ringraziare e salu- tare gli ospiti in un unico gesto. «Uomini, tenetevi pronti per una partenza anticipata. A quanto pare la nostra spedizione non può attendere la luna piena. Nel frattempo ascolteremo ciò che questo sgradito visitatore ha da dirci. I capitani mi seguano, gli altri si ritirino. Ai miei ospiti chiedo per- dono per l'affrettata conclusione della festa». Nel giro di un attimo tutta la casa era piombata in un'atmosfera di guer- ra. Servitori presero ad apparire, e fiasche, coppe e piatti a sparire. Eilis e le sue dame di compagnia si ritirarono prontamente nei loro alloggiamenti, seguite dopo breve tempo da Seamus. Di lì a poco nella sala rimasero solo papà e un manipolo di fedelissimi. Durante il trambusto il prigioniero era stato portato via, muto e fremente di rabbia. Se alle guardie erano stati im- partiti degli ordini, io non li avevo uditi. Nel salone buio io e Finbar, uno per lato, ci mescolammo alle ombre, come sapevamo fare tanto bene. Non saprei spiegare il motivo per cui re- stai; il disegno che avrebbe plasmato il nostro destino stava già prendendo forma, sebbene io ancora non lo sapessi. «...già qui, così vicini; questo significa che sono al corrente delle nostre posizioni e che quindi minacciano...» «... sgominarli al più presto, prima che le informazioni...» «È imperativo che lo si faccia parlare». Questa era la voce autoritaria di papà. «Riferitelo. E che sia questa notte: in questi casi la rapidità è essen- ziale. Partiremo all'alba. Dite ai vostri uomini di dormire fintanto che pos- sono, e controllate che tutto sia pronto». Poi si volse verso uno degli uo- mini più anziani. «Tu dirigerai l'interrogatorio. E bada bene a che rimanga vivo: Un prigioniero del genere potrebbe avere un certo valore come o- staggio, dopo esser servito allo scopo. È chiaro che non si tratta di un sol- dato qualsiasi. Potrebbe persino appartenere al clan dei Northwoods. Im- partite ordini che sia trattato a dovere». L'uomo annuì e lasciò il salone, mentre gli altri tornarono a concentrarsi sui piani tattici. Mi spiacque per Liam; si era appena fidanzato e già dove- va partire con la spedizione militare. Forse per gli uomini la vita era fatta così, ma a me sembrava ingiusto. «Sorha!». Un bisbiglio dietro le mie spalle mi fece gridare per lo spa- vento, rivelando il mio nascondiglio. Finbar mi tirò la manica e, in silen- zio, uscimmo nella corte. «Non farmi più spaventare in quel modo!» sibilai. La sua mano sulla mia bocca, però, mi azzittì, e fu solo dopo aver svoltato l'angolo e aver controllato che nessuno fosse a portata d'orecchio che si risolse a parlare. «Ho bisogno del tuo aiuto», sussurrò. «Non volevo chiedertelo, ma non posso farcela da solo». «Fare cosa?». La mia attenzione era stata catturata all'istante, sebbene non avessi la più pallida idea di che cosa volesse. «Non possiamo far molto, ora.», disse, «ma potremmo portarlo via do- mani mattina, se tu mi procurerai ciò di cui ho bisogno». «E sarebbe? Si può sapere di cosa stai parlando?» «Di veleno», rispose Finbar. Mi stava guidando velocemente sotto l'ar- cata che dava accesso ai giardini. Entrambi eravamo dotati della stessa abilità nello spostarci con rapidità e silenziosamente su qualsiasi terreno, uno dei vantaggi che avevamo acquisito grazie al fatto che in pratica era- vamo stati cresciuti allo stato brado. A dire il vero erano molte le qualità strane che ci accomunavano. Una volta entrati nella spezieria, e dopo avere chiuso sia la porta esterna sia quella interna, chiesi a Finbar di sedere e spiegarsi meglio. Sembrava riluttante: il suo volto ostentava quell'espressione ostinata che assumeva ogniqualvolta la verità da pronunciare era drammatica o penosa. Però era necessario che parlasse. Mentire una delle cose che nessuno dei due era «Uh, quante domande! Non c'è abbastanza tempo. Non puoi farlo e ba- sta?». Mi cinsi le spalle con le braccia, voltandomi per guardarlo in viso. Stavo tremando, e non solo per il freddo. «So che sei incapace di mentire, Finbar. Quindi non posso fare altro che credere a ciò che mi dici. Ma prima d'ora non ho mai avvelenato nessuno. Sono una guaritrice.» Osservai il suo viso silenzioso, la bocca pronunciata e mobile, gli occhi grigio chiaro che sembravano sempre guardare al futuro ma in cui non vi era traccia di incertezza. «Succede. Fa parte della guerra. A volte parlano. A volte no. Spesso muoiono. Raramente riescono a fuggire.» «Allora sarà meglio che tu vada e ti dia da fare», lo invitai con una voce che suonò come quella di un'altra persona. Le mie mani cercarono un col- tello affilato e, meccanicamente, iniziarono a tagliare e sminuzzare gli in- gredienti della pozione soporifera. Giusquiamo, digitale, piccoli funghi azzurri che qualcuno chiamava uova-del-diavolo. E belladonna, in piccola quantità. «Vai,Finbar». «Grazie». Vidi il lampo di un sorriso, quel sorriso generoso che gli illu- minava tutto il viso. «Insieme formiamo una bella squadra. Una squadra infallibile. Ce la faremo». Mi abbracciò per un attimo, ma fu sufficiente a farmi percepire la ten- sione del suo corpo, il rapido battito del cuore. E in un baleno era già scomparso, scivolando tra le ombre silenzioso come un gatto. Fu una lunga notte. Mi tenne sveglia la consapevolezza che il benché minimo errore mi avrebbe trasformata in un'assassina; sul far del giorno la droga soporifera era pronta, al sicuro dentro una boccetta di pietra che sta- va comodamente nascosta nel palmo della mano. La spezieria era ritornata immacolata e ogni traccia della mia attività scomparsa. Quando all'esterno il tintinnio dei finimenti e il tramestio di piedi calzati di stivali si fece più forte, Finbar venne a cercarmi. «Penso sia meglio che tu faccia anche questa parte», sussurrò. «È più probabile che sia tu a passare inosservata». Mi sovvenne il vago pensiero che questa volta anche lui avrebbe dovuto unirsi alla campagna militare, come papà aveva decretato. Però avevo troppo da fare per soffermarmi su quel fatto. Seguendo le istruzioni di mio fratello, scivolai senza far rumore in direzione delle cucine, sgusciando tra i servitori e i guerrieri intenti a procurarsi un ultimo boccone, a preparare i pacchi con le razioni e a riem- pire bottiglie di vino e di acqua. Secondo le istruzioni di Finbar, avrei do- vuto raggiungere la grande stufa su cui Janis la Grossa teneva il calderone di ferro. Se erano stati in piedi tutta la notte, al mattino, per prima cosa, Janis avrebbe portato loro della birra calda e speziata. Una sua ricette spe- ciale. Si diceva che avesse piacevoli effetti collaterali. Gliel'avrebbe servi- ta personalmente, magari ricevendone in cambio dei favori. Che genere di favori? era stata la mia domanda. Lascia perdere, aveva risposto lui. Ac- certati solo che non ti veda. Vi erano due cose in cui ero particolarmente abile. Una era preparare pozioni e veleni, e l'altra era rimanere immobile e passare inosservata quando ne avevo bisogno. Mettere la droga nella birra si rivelò estrema- mente facile: lo feci non appena Janis ebbe voltato la schiena per ridere di una facezia pronunciata da un imponente guerriero mentre questi si infila- va in bocca l'ultimo pezzo di salsiccia e si avviava verso la porta allaccian- dosi la cintura. Prima che si fosse girata di nuovo avevo già finito e mi ero dileguata. Janis non mi aveva nemmeno vista. Facile, pensai, mentre scivolavo verso la porta. Nella stanza dovevano esserci almeno una quindicina di persone, e nessuno di loro mi aveva nota- ta. Ero quasi uscita quando qualcosa mi fece voltare. Dall'altro capo della cucina c'era mio fratello Conor, il suo sguardo fisso sulla mia faccia stupi- ta. Stava nell'angolo opposto della stanza, in penombra, reggendo una lista con una mano e tenendo sospesa a mezz'aria una penna d'oca con l'altra. Il suo assistente, voltato per metà, stava riempiendo di provviste una bisac- cia. Mi sentii raggelare per la sorpresa. Dalla sua posizione doveva avere visto tutto. Come avevo potuto non notarlo? Paralizzata dall'indecisione se darmi alla fuga o aspettare il suo richiamo e la richiesta di spiegazioni, esitai sulla soglia. Ma Conor abbassò di nuovo gli occhi sul foglio e conti- nuò a scrivere come se fossi stata invisibile. Mi sentii troppo sollevata per pensare a una possibile spiegazione, e fuggii come un coniglio spaventato, tremando di paura. Finbar non si vedeva da nessuna parte. Mi diressi verso il rifugio più sicuro che conoscessi, la vecchia scuderia dove il più giovane dei miei fratelli, Padriac, teneva il suo serraglio di trovatelli e randagi. Là trovai un cantuccio caldo tra la paglia asciutta, dove l'asino più vecchio, che accampava i maggiori diritti su quell'angolo, si spostò di malavoglia lasciandomi un po' di spazio a ridosso dell'ampio dorso. Famelica, infred- dolita, confusa ed esausta, trovai rifugio, almeno per breve tempo, nel son- no. CAPITOLO SECONDO La narrazione della nostra storia non sarebbe completa senza la menzio- ne di padre Brien. Ho già detto che era un eremita, e che soleva barattare un po' del suo sapere per una pagnotta o un sacchetto di mele. Ma dietro alla sua figura c'era molto di più. Si diceva che un tempo fosse stato un guerriero e che i vichinghi sui quali aveva avuto la meglio in battaglia fos- sero stati più d'uno. Si diceva che fosse venuto da oltremare, coprendo il lungo percorso da Armorica, per mettere a buon frutto le sue abilità con penna e inchiostro presso il monastero cristiano di Kells. Tuttavia, viveva solo ormai da molto ed era invecchiato: si trattava infatti di un ometto di almeno cinquant'anni, asciutto, coi capelli grigi, sul cui volto si leggeva la paziente accettazione di uno spirito rimasto intatto dopo una vita messa a dura prova. Una visita a padre Brien costituiva già di per sé un'avventura. Viveva sul fianco della collina a sud del lago e, dato che il tragitto era parte integrante del divertimento, per raggiungerlo ci prendevamo tutto il tempo necessa- rio. Ricordo il tratto dove attraversavamo il torrente aggrappati a una corda che oscillava tra le grandi querce. Cormack una volta cadde nell'acqua, ma fortunatamente era estate. Rivedo il punto ove era necessario arrampicarsi su per un erto tratto di roccioso, che reclamava invariabilmente il suo tri- buto in sbucciature di gomiti e ginocchia, per non parlare dei buchi nei vestiti. E gli elaborati giochi a nascondino. In realtà, se avessimo viaggiato su un carro saremmo potuti arrivare in metà tempo, ma noi preferivamo fare così. A volte scoprivamo che padre Brien non c'era, il focolare spento e il nudo pavimento spazzato con cura. Secondo Finbar, che in qualche modo sembrava sempre essere al corrente di tutto, il monaco aveva l'abitu- dine di raggiungere la sommità di Ogma's Peak, un cimento non da poco per un uomo della sua età, e restarsene là, immobile come la roccia, lo sguardo fisso a oriente verso il mare e oltre, la terra dei britanni, oppure in direzione delle Isole. Da quel punto di osservazione queste non erano visi- bili, ma bastava chiedere a qualsiasi uomo o donna dove si trovassero per vedere il loro dito indicare un punto tra l'est e il sudest con incrollabile sicurezza. Sembravano avere una mappa stampata nello spirito che né tempo né distanza avrebbero potuto cancellare. Quando l'eremita si trovava a casa parlava volentieri con noi in quel suo modo calmo e misurato, barattando un po' del suo sapere contro qualche genere di prima necessità. Parlava diverse lingue, conosceva in modo ap- i mantelli degli armigeri, e cumuli di nubi solcavano veloci il cielo co- prendo il sole. Conor, in quanto figlio maggiore presente in quel momento e quindi fa- cente le funzioni di padrone di casa, porse formalmente i saluti a Eilis e la invitò a ritornare non appena le cose si fossero sistemate. Eilis lo ringraziò compitamente per l'ospitalità, ma ai miei occhi c'era qualcosa che non qua- drava. Mi chiesi quanto tempo sarebbe passato prima che rivedesse Liam e se la cosa le dispiacesse o meno. Una volta che partì, mi dimenticai di lei, anche perché la sera successiva all'ora di cena, Finbar riapparve all'im- provviso, proprio come se non si fosse mai allontanato. Padriac, profon- damente immerso nelle sue attività, non aveva quasi notato l'assenza del fratello, né Conor aveva fatto commenti in merito. Osservai Finbar da so- pra il tavolo; i suoi pensieri mi erano preclusi e i suoi occhi rimasero fissi sul piatto. Mentre spezzava il pane, o sollevava la coppa, le sue mani erano ferme e controllate. Attesi con impazienza che la cena finisse e che Conor si alzasse, il segnale convenuto che dava il permesso di lasciare la tavola. Seguii Finbar all'esterno scivolando dietro di lui come un'ombra, e una volta raggiunto il lungo camminamento sotto i salici lo subissai di doman- de. «Cos'è successo? Dove sei stato?» «Tu che cosa pensi?» «A nascondere quel ragazzo da qualche parte, ecco quello che penso. Ma dove?» Restò in silenzio per qualche istante, in tutta probabilità riflettendo sul modo per rivelarmi il meno possibile. «In un luogo sicuro. Meglio che tu non sappia dove.» «Cosa intendi dire?» «Pensaci un attimo, Sorha. Ora sei nei guai anche tu. Se papà o Liam scoprissero che cos'abbiamo fatto si infurierebbero. A dir poco». «Non abbiamo fatto altro che sottrarre una persona ad altre sofferenze», dissi, pur sapendo che le cose non stavano proprio in quei termini. «Ma lo vedrebbero come un tradimento del proprio clan, come una pu- gnalata alla schiena. Come rimettere una spia in libertà. Loro vedono tutto in bianco e nero, Sorha.» «Tu da che parte stai?». «Non è una questione di parti, in realtà, quanto di provenienza. Forse che i britanni non vengono qui per predare le nostre terre, scoprire i nostri segreti e distruggere il nostro modo di vivere? Aiutarli significherebbe andar contro ai legami di sangue, alla fratellanza e a tutto ciò che c'è di più sacro. Questo è ciò che pensa la maggior parte delle persone. E forse è ciò che dovremmo pensare anche noi». Dopo un lungo silenzio gli chiesi: «Ma, al di là di ogni considerazione, la vita è sacra, non vero?». Finbar ridacchiò. «Sei peggio di un brithem, Sorha. Riesci sempre a tro- vare un'argomentazione alla quale non so controbattere». Aggrottai la fron- te e lo guardai dubbiosa. Io, una bambina scalza e coi capelli scarmigliati, un giudice che emetteva verdetti? Io, che a volte faticavo a comprendere dove stava la ragione e dove il torto? Cadde il silenzio tra noi. Finbar si adagiò contro il tronco di un albero e appoggiò la testa alla corteccia ruvida, gli occhi chiusi. La forma scura del suo corpo era tutt'uno con le ombre. «E allora si può sapere perché l'hai fatto?» gli chiesi dopo un po'. Gli ci volle qualche attimo prima di rispondermi. La temperatura stava scenden- do e l'aria si stava caricando dell'umidità della sera. Rabbrividii. «Tieni», disse Finbar riaprendo gli occhi e posando sulle mie spalle la sua giacca sdrucita. Portava ancora la camicia che aveva indossato quella notte. Possibile che fossero passati solo tre giorni? «È come se tutto rientrasse in uno schema preordinato», ipotizzò infine. «È come se io non avessi scelta, come se fosse già tutto stabilito per me, già impresso su una sorta di mappa dell'esistenza. Credo che mamma sa- pesse cosa c'era in serbo per noi, forse non nei minimi particolari, ma di certo conosceva la strada che avremmo imboccato». Toccò l'amuleto che portava sempre attorno al collo. «Eppure, nonostante tutto, è anche una questione di scelta. Credi che non sarebbe più facile per me essere come uno degli altri fratelli, guadagnarmi l'amore di papà imparando a usare la spada e l'arco - ne sarei capace - prendere il mio posto al suo fianco e di- fendere la nostra terra e il nostro onore? In questo modo otterrei ricono- scimento, senso di appartenenza e un certo qual orgoglio. Invece me ne vado in un'altra direzione. Forse una direzione già scelta per me». «Insomma, si può sapere dove si trova il ragazzo? Ce l'ha fatta, allora?» Come ho già detto, io e Finbar avevamo due modi di comunicare. Uno avveniva per mezzo delle parole, come due persone qualsiasi; l'altro era riservato a noi soltanto. Si trattava di una capacità che si esprimeva in si- lenzio, mentre un'immagine, un pensiero o una sensazione si trasferiva da una mente all'altra. Finbar la usò in quell'istante, per mostrarmi il carro di padre Brien che, carico di involti e recipienti, arrancava lentamente lungo il sentiero sconnesso che conduceva alla grotta dell'eremita. Nonostante padre Brien tenesse il cavallo a un'andatura regolare, percepii l'aura di un dolore lancinante che si produceva a ogni sobbalzo. Il cerchione di una ruota si infilò in una cavità e il giovane aiutante del monaco balzò a terra per rimetterla in piano. Nell'andatura del giovane vi era una vivacità che mi permise di capire che si trattava di mio fratello, anche se il cappuccio gli copriva il viso, poiché Finbar camminava sempre in quel modo, con il passo vigoroso e le punte dei piedi rivolte all'esterno. L'immagine succes- siva mostrava invece i due all'esterno della grotta, intenti a scaricare dal carro con grande attenzione un lungo involto. Un bagliore di oro apparve tra le pieghe del tessuto macchiato. Non vidi altro, e la visione svanì. «Le sue condizioni non gli consentivano di andare oltre», spiegò Finbar in tono piatto. «Però è in buone mani. Non è necessario che tu sappia di più... no», disse mentre tentavo di interromperlo, «mi rifiuto di coinvolger- ti più di quanto abbia già fatto. Ho già messo in pericolo fin troppe perso- ne. È finita, almeno per te». In effetti, quello fu tutto ciò che riuscii a ottenere da lui quella sera. Sta- va diventando abile nel precludermi la visione della sua mente, un fatto che mi preoccupava, così né le suppliche né i tentativi di guardare dentro di lui nei momenti di distrazione valsero a farmi sapere di più. Comunque la sua predizione si rivelò del tutto errata. Seguì un periodo di tranquillità. Con papà e i fratelli più grandi lontani ricademmo nella nostra routine, con l'unica differenza che ora la sorve- glianza sulla fortezza e attorno al cortile era stata rafforzata. Conor seguiva gli affari di casa con tranquilla competenza, arbitrando le dispute tra due contadini, venuti alle mani a causa di un branco di oche che avevano scon- finato, supervisionando le incombenze autunnali quali la preparazione del- la birra, le attività dei forni, la selezione dei vitelli di un anno e la salatura delle carni per l'inverno. Per me, Finbar e Padriac fu un periodo felice. Donai metteva ancora alla prova i ragazzi con spada e arco, ma essi tra- scorrevano anche del tempo con Conor nel tentativo di conseguire profitti di natura più dotta. Di solito, pensando che un po' di istruzione non mi avrebbe fatto alcun male, e che anzi avrei potuto imparare qualcosa di inte- ressante, tentavo di aggregarmi anch'io a quelle lezioni. Tutti noi sapeva- mo leggere e scrivere grazie alla generosità e ai pazienti sforzi di padre Brien. Ma fu solo molto più tardi che compresi quanto questo fosse inu- suale, dato che nella maggior parte delle famiglie non vi era più di uno «Ah, che la mano della dea possa posarsi su tuo fratello», esordì quasi singhiozzando, «e anche su di te, ragazza. Il giovane Conor sarebbe degno di figurare tra i grandi saggi, proprio come un tempo lo fu suo padre . Non c'è una sola infiltrazione, e poi tutta quella torba già tagliata e asciutta, pronta per i tempi duri...!» «Cosa intendete dire?» chiesi, incuriosita. «I saggi? Quali grandi sag- gi?». Lui, però, si stava già ritirando all'interno, senza dubbio impaziente di scaldarsi le giunture irrigidite al fuoco di torba, il cui fumo s'innalzava in volute a spirale attraverso il camino. Poi passai da una donna che di recente aveva avuto un parto molto tra- vagliato. Durante la lunga notte del travaglio avevo affiancato le donne del villaggio e ora tenevo un occhio vigile sulla madre, assicurandomi che prendesse gli infusi d'erbe che le avevo prescritto per agevolare le contra- zioni dell'utero e favorire l'arrivo del latte. Scelsi però il momento sbaglia- to per partire da casa, poiché a metà strada il cielo si aprì e una fitta piog- gia prese a scendere, inzuppandomi in breve tempo fino al midollo e in- zaccherandomi i piedi di fango. Non mi diedi per vinta e proseguii, e il rombo dei tuoni era così assordante da coprire il cigolio delle ruote di un carro che sopraggiungeva; fu così che, d'improvviso, apparve al mio fianco padre Brien, con un vecchio sacco a ripararsi testa e spalle. Il cavallo era fermo sotto la pioggia, indifferente, le orecchie rivolte all'indietro. «Salta su», gridò il monaco sopra il frastuono del temporale e tese una mano per aiutarmi a salire sul sedile accanto a lui. «Grazie», risposi. Sarebbe stato inutile tentare di sovrastare il frastuono prodotto dalla furia degli elementi. Perciò presi posto in silenzio e mi av- volsi nel mantello. Vi era un punto in cui il sentiero attraversava un bo- schetto di vecchi pini i cui rami più bassi erano stati accorciati. Una volta raggiunto quel rifugio temporaneo, padre Brien fece rallentare il cavallo; la copertura di aghi di pino faceva deviare il grosso della pioggia e mutava lo scrosciare dell'acqua in un lontano picchiettio. «Ho bisogno del tuo aiuto, Sorha», esordì padre Brien allentando la stretta sulle redini e lasciando che il vecchio cavallo abbassasse il muso in cerca di qualcosa da mangiare. Lo guardai, colta di sorpresa. «Siete venuto per me?». «Sì, e devo rientrare in giornata. Non mi sarei mai avventurato per strada con questo tempo senza un valido motivo. Ho un paziente che non ho il potere di guarire. Ho tentato in ogni modo, Dio mi è testimone, e ho otte- nuto anche qualche risultato. Ma è giunto al punto in cui necessita di qual- cosa che io non posso dargli.» «E volete che vi aiuti? Che prepari un infuso o un decotto?». Padre Brien esalò un sospiro, poi abbassò lo sguardo sulle sue mani. «Vorrei tanto che fosse così semplice», ribatté. «Ho già tentato con infu- si e pozioni, con qualche risultato. Ho fatto impiego di molte delle erbe che mi hai insegnato a usare, e di alcune che già conoscevo. Ho pregato, parlato ed esortato. Non c'è altro che io possa fare, ma sento che lui si sta lasciando andare, che sta scivolando via». Non ebbi bisogno di chiedere chi fosse quel paziente. «Vi aiuterò, naturalmente, ma dubito di poter essere di qualche utilità. Le mie capacità riguardano principalmente l'uso di erbe medicinali. Da come parlate sembra che sia necessario qualcosa di più drastico.» Non c'era modo di chiedergli direttamente di che cosa soffrisse il ragaz- zo; significava avventurarsi su un terreno troppo rischioso. Ignoravo quan- to sapesse, o fino a che punto sarebbe stato saggio metterlo a parte dei fat- ti. «Vedrai tu stessa», disse, riprendendo in mano le redini. «Una volta pre- so tutto il necessario bisognerà partire senza indugio. Gli ho somministrato una pozione che lo farà dormire per gran parte della giornata, ma vorrei che al risveglio noi fossimo presenti, altrimenti potrebbe farsi del male.». «Non sono sicura che Conor mi lascerà andare», argomentai. «Perché non glielo chiediamo direttamente?» propose padre Brien. Trovammo Conor da solo, intento a scrivere. Nessuno menzionò britanni o prigionieri in fuga; padre Brien spiegò brevemente che aveva bisogno di consultarmi riguardo a un paziente e Conor non si mostrò affatto ansioso di avere ulteriori dettagli. Sembrava quasi si aspettasse quella richiesta e diede il suo assenso a condizione che si trattasse solo di pochi giorni e che io tornassi a casa non appena avesse inviato Finbar a prendermi. Lasciai i due a chiacchierare e andai a preparare un piccolo fagotto, chiedendomi, mentre passavo in rassegna gli scaffali nella spezieria, quali fossero i mali da curare: ustioni, contusioni, febbre o traumi? Padre Brien non mi aveva dato molti ragguagli. Presi alcuni capi di vestiario per me e qualche genere di prima necessità bastevole per pochi giorni. Poi lasciai il mio mantello a fumare quietamente davanti ai fuochi della cucina e ne presi uno più gran- de, appartenente a uno dei miei fratelli. Ammisi mio malgrado che l'arrivo dell'autunno rendeva in effetti consigliabile l'uso di calzature, così infilai i piedi intirizziti in un paio di stivali manifestamente troppo grandi per me. Questo, comunque, rappresentava uno dei vantaggi dell'essere la più gio- vane, la più piccola. «Solo pochi giorni, intesi?» ribadì Conor mentre ci avviavamo al carro. «Manderò Finbar a prenderla. E fate attenzione alla strada: l'ultimo tratto sulla collina sarà scivoloso». Padre Brien era già seduto sul carro e, nonostante la brevità della sosta, alle sue spalle era già stato sistemato un cesto proveniente dalle cucine ricolmo di pane, formaggio e verdure. Il monaco inviò un composto cenno del capo in direzione di mio fratello. Con gesti spicci Conor mi sollevò e, prima che potessi aprir bocca, mi ritrovai già in viaggio. Ora la pioggia battente si era trasformata in acquerugiola. Percorremmo un tratto sotto ai rami spogli dei salici tra il primo gruppo di rocce affio- ranti, a fianco delle acque cupe e grigie del lago, sulle quali non era rima- sto nemmeno un uccello. «Presumo che tu sappia chi è», esordì padre Brien con noncuranza e senza distogliere gli occhi dalla strada. «So che cos'è», puntualizzai senza sbilanciarmi troppo. «Ma non chi è. Non ho idea di cosa gli sia successo. E soprattutto non so cosa fare per aiutarlo. Se volete che riesca a essere di una qualche utilità sarà meglio che mi diate dei ragguagli». Mi guardò in tralice, in apparenza divertito. «Mi sembra giusto», convenne. «Il ragazzo presenta delle ferite. Ferite gravi. Se tuo fratello non l'avesse portato via, probabilmente sarebbe mor- to.» «Con un piccolo contributo da parte mia», aggiunsi, un po' indispettita che il mio ruolo nel salvataggio fosse stato dimenticato. «Sì, mi è stato riferito», ribatté il dotto monaco. «Hai corso un bel rischio, non credi?» «So bene come dosare gli ingredienti», fu la mia risposta. «Infatti, e molto meglio di chiunque altro, Sorha. Ma come ti ho detto ho già somministrato al ragazzo pozioni, unguenti... e preghiere. Aveva nu- merose ferite, che ho curato come ho potuto. Anche se non sarà più quello di prima, il suo corpo sta guarendo piuttosto rapidamente. Ma è più che altro la sua mente a preoccuparmi.» «Intendete dire che ha perso la ragione per via di quello che gli hanno fatto? Come Fergal il mugnaio, che aveva preso a comportarsi in modo strano dopo che gnomi e folletti l'avevano tenuto prigioniero per un'intera notte?». Ricordavo bene quell'uomo. L'avevano trovato accucciato presso Quando la temperatura ha raggiunto il massimo, ha delirato, rivelando di sé più di quanto desiderasse, credo. Ora però ha coscienza di dove si trova e tiene la bocca chiusa per gran parte del tempo, anche quando gli parlo nella sua lingua. È chiaro che non accetta di buon grado le mie preghiere, né i miei consigli. E l'ho scoperto per ben due volte mentre cercava un mezzo col quale porre fine alla sua vita oppure alla mia. È ancora molto debole, ma non così tanto da non poter risultare pericoloso se gli si doves- se presentare l'occasione». Detto questo soffocò un lungo sbadiglio. «Puoi riposarti fino al suo risveglio, poi vedremo il da farsi». Scrutai attentamente il volto sereno dell'eremita, terreo per lo sfinimen- to. «Credo che dormirà ancora per qualche tempo», risposi osservando la figura raggomitolata. «Lasciate che sia io a sedere qui, accanto a lui, e voi andate a riposare un poco». «Non dovresti restare sola con lui», ribatté. «È imprevedibile, e benché necessiti del tuo aiuto ho ricevuto ordini precisi di non metterti in nessun modo in pericolo, Sorha». «Che assurdità», replicai, sedendomi sullo sgabello a tre gambe in fondo alla grotta. «Qua c'è la vostra campanella, e io so gridare. E poi non sono forse abituata a tenere in riga sei fratelli? Su, andate, e cercate di dormire un po', altrimenti non sarete d'aiuto a nessuno». Padre Brien, riconoscendo d'essere così esausto da non reggersi in piedi, mi indirizzò un sorriso mesto. «D'accordo», concesse. «Ma prometti di chiamarmi non appena si sveglierà. I tuoi fratelli sono stati inflessibili». Padre Brien aveva detto che appena avessi visto il ragazzo avrei saputo che cosa fare. Ora lo vedevo, uno spettacolo pietoso. Era raggomitolato su se stesso come un cane bastonato e immerso nel sonno prossimo alla morte di colui che è stato vittima di indicibili torture. Le palpebre erano gonfie, e l'oro dei suoi capelli aveva perso ogni lucentezza. Cercai di figurarmi la scena del risveglio: forse mi avrebbe fissato con lo sguardo vuoto dell'idio- ta, oppure con quello folle di una belva in trappola; tutto ciò che mi si af- facciò alla mente, però, fu una delle vecchie storie e l'immagine dell'eroe che ne era protagonista, Culhan l'Avventuriero, che attraversava i boschi silenzioso come un cervo. Appoggiai la schiena contro la roccia e ripassai la storia a bassa voce. Si trattava di una leggenda molto nota, una di quelle favole che hanno la tendenza ad allungarsi e mutare col passare di bocca in bocca. Culhan aveva avuto molte disavventure e aveva dovuto superare numerose prove prima di riconquistare il proprio onore e il cuore della sua amata. Mi ci volle molto tempo per enumerarle tutte, e intanto il ragazzo dormiva. Ero arrivata al punto in cui Culhan doveva superare il ponte di lance per raggiungere l'isola magica dov'era tenuta prigioniera la sua innamorata. Fintanto che avesse avuto fede nelle sue capacità, sarebbe stato in grado di percorrere il ponte irto di punte senza ferirsi ai piedi. Ma se solo l'ombra del più tenue dubbio si fosse insinuato nel suo cuore, allora le lance lo a- vrebbero trafitto. «Allora Culhan avanzò di un passo, poi di un altro ancora. I suoi occhi erano come fuoco azzurro ed egli fissò lo sguardo in lontananza, sulla co- sta. Davanti a lui si stendeva la campata sfavillante del ponte, e i raggi del sole, riflettendosi sulle punte delle lance, lo accecavano.» Anch'io mi sentivo intorpidita per i fumi che si sprigionavano dal picco- lo braciere di padre Brien; nel minuscolo anfratto, la dose di erbe soporife- re doveva ormai essersi quasi esaurita, e l'aria andava facendosi meno pe- sante. «Su in alto, affacciata alla finestra, Lady Edan osservava i passi decisi e aggraziati dell'uomo mentre attraversava il ponte. In quel momento il sole fu oscurato dall'ombra di un grosso uccello da preda che si lanciò in pic- chiata sull'Avventuriero». Ma non ero così assorbita dal racconto da non notare un movimento im- percettibile nel pagliericcio vicino a me. Nonostante tenesse gli occhi chiusi sapevo che era sveglio. Proseguii il racconto, consapevole solo in quell'istante della lingua che avevo usato. «Strepitando di rabbia, l'incantatore Brieden, che aveva assunto sem- bianze di uccello, si avventò su Culhan più e più volte con artigli di ferro, becco crudele e odio feroce. Non fu che per un istante, ma l'eroe vacillò, e tre gocce di vivido sangue caddero dal suo piede nelle acque agitate del lago, trasformandosi all'istante in tre pesci rossi, che sfrecciarono veloci verso il canneto. L'uccello proruppe in un acuto grido di trionfo. Culhan, però, trasse un profondo respiro e, senza mai abbassare lo sguardo, conti- nuò a percorrere il ponte. Il grosso uccello, urlando per la frustrazione, si tuffò nell'acqua. Nessuno sa ciò che fu di Brieden l'incantatore, ma si dice che in quel lago viva un pesce smisurato dall'aspetto raccapricciante e dal- la forza straordinaria. Infine Culham superò il ponte di lance e trasse in salvo Lady Edan. Il suo piede destro, però, restò segnato dalla cicatrice che lo attraversava per tutta la lunghezza, a memoria di quel momento di dub- bio. Da allora, quel marchio fu tramandato ai suoi figli, e ai figli dei suoi figli.» La storia era finita, fino alla seguente narrazione. Mi alzai per prendere la brocca dell'acqua e notai che il ragazzo mi guardava con gli occhi soc- chiusi, occhi azzurri e ostili. Emanava ancora una traccia della furia spa- valda di cui aveva dato prova di fronte a mio padre, ma il colorito era livi- do e gli occhi infossati. Il suo aspetto non mi piacque nemmeno un po'. «Bevi», lo esortai nella sua stessa lingua, inginocchiandomi a lato del pagliericcio e tenendo sollevata la tazza che avevo riempito. Questa volta era solo acqua; avrebbe dovuto affrontare a mente serena le conseguenze di ciò che era successo. Infatti, conoscevo bene i sintomi rivelatori di un periodo troppo prolungato sotto l'influsso sedativo di certe erbe, e dovevo ridurre le dosi. Egli mi fissò in silenzio. «Bevi», ripetei. «Hai dormito molto e il tuo corpo ne ha bisogno. È solo acqua». Ne bevvi un sorso io stessa, per rassicurarlo. Dopo aver trascorso quasi tutta la giornata dormendo col braciere acceso doveva essere terribilmente assetato. Il suo unico movimento, però, fu un leggero scansarsi, senza mai distogliere gli occhi dal mio viso. Allungai la tazza per avvicinarla alle sue labbra, e nel fare quel gesto la mia mano sfiorò il suo braccio. Egli traseco- lò violentemente, si strinse ancor di più la coperta addosso e indietreggiò addossando la schiena alla parete di roccia nel tentativo di allontanarsi il più possibile da me. Percepii le ondate di paura e il leggero tremito che percorreva ogni parte del suo corpo, simile al tremore di un purosangue che sia stato maltrattato. La mia mano era rimasta ferma; non avevo rovesciato nemmeno una goccia d'acqua, sebbene il mio cuore battesse all'impazzata. Deposi la taz- za accanto al letto e ritornai al mio sgabello. «D'accordo, vorrà dire che berrai quando sarai pronto», dissi mentre mi sedevo e posavo le mani in grembo. «Hai mai sentito la storia del calice di Isha? Si trattava di un calice mol- to strano, poiché quando Bryn lo trovò dopo aver sgominato il gigante a tre teste e aver fatto il suo ingresso nel castello di fuoco, esso gli parlò mentre stava per afferrarlo, in quanto l'uomo era rimasto molto colpito dagli sme- raldi e dai fregi argentati che lo ornavano. Solo colui che è puro di cuore potrà bere da me, aveva enunciato con una voce debole e terribile. Dopo di ciò Bryn ebbe paura di appropriarsi del calice, ma poiché la voce si era zittita si risolse a prenderlo e lo nascose sotto il mantello.» Mentre parlavo osservai il ragazzo con calma: era ancora raggomitolato altri si sono dati da fare. Fatti mostrare ciò che rimane. Chiedi loro se han- no mai infilzato una donna incinta come un maialino da latte. Pensa all'u- sanza dei vostri guerrieri di mozzare gli arti delle vittime mentre urlano implorando una fine rapida». Il tono di voce aumentò. «Interrogalo sull'uso del ferro rovente. E poi vedremo se parlerai ancora di codici d'onore». Le parole gli si spezzarono in gola e iniziò a tossire. Senza pensare, mi avvicinai a lui e gli portai la tazza alle labbra. Tra gli scoppi di tosse, l'af- fannosa ricerca d'aria e il tremito della mia mano, gran parte dell'acqua andò rovesciata sul letto. Suo malgrado, però, riuscì a ingollarne qualche goccia. Infine, rantolando per il dolore, trasse un respiro e mi guardò al di sopra del bordo della tazza, vedendomi per la prima volta. «Accidenti a te», disse in tono più calmo e, presa la tazza dalle mie ma- ni, bevve quel poco d'acqua che era rimasta. «Accidenti a tutti voi.» Padre Brien scelse proprio quel momento per apparire sulla soglia; mi guardò in faccia e mi ordinò di uscire. Seduta sotto i sorbi, ascoltando il canto degli uccelli e il ronzare degli insetti, tutti intenti alle loro faccende quotidiane, piansi per mio padre, per i miei fratelli, e per me. Padre Brien restò all'interno per un bel pezzo. Dopo un po', le mie lacri- me cessarono e si trasformarono in pochi sommessi singhiozzi; così mi soffiai il naso e tentai in qualche modo di superare il dolore provocato dal- le parole del ragazzo, oltre che di concentrarmi sulla missione che mi ave- va portata in quel luogo. Fu molto difficile, in realtà, e mi trovai continua- mente dibattuta con me stessa a ogni passo del procedimento. Finbar è buono. Lo conosco bene come me stessa. Perché non ha parlato, allora? Perché ha aspettato che il male venisse compiuto, prima di organizzare il salvataggio? E quanto agli altri? Non hanno alzato nemmeno un dito. Liam è mio fratello maggiore. Nostra guida e nostro protettore. È stata la mamma ad affidargli quel compito. Lui non farebbe niente di male. Liam è un assassino come suo padre. E così pure Diarmid. In apparenza è tutto sorrisi, ma in realtà ciò che vuole è soltanto diventare come loro. E Conor, allora? Non combatte. È giusto. È uno studioso. Ma anche lui poteva parlare e non l'ha fatto. Però ci ha aiutato. Perlomeno così credo. Sapeva del ragazzo, e non ha tentato di fermarmi. Conor è abile a nascondere i propri pensieri. Cormack non sa ancora niente della guerra; per lui è tutto sport e diver- timento, tutto una sfida. Non perdonerebbe mai la tortura. Ma imparerà presto. Si vede che è assetato di sangue. E che dire di Padriac? Lui vive nell'innocenza, al di fuori di tutto questo, assorbito com'è dai suoi animali e dai suoi esperimenti. È vero. Ma per quanto tempo ancora? E in quanto a te, Sorha? Hai su- perato l'età dell'innocenza. Così battagliavo tra me e me, non potendo ignorare quell'altra voce. Ma il dubbio si poneva straziante: possibile che dietro ai fratelli che avevano curato le mie ginocchia ammaccate e che mi avevano accompagnata con paziente dedizione in tante avventure d'infanzia si celassero i mostri crude- li e senza scrupoli descritti dal ragazzo? Se le cose stavano così, allora io e Finbar avevamo fatto la cosa sbagliata? A dodici anni non ero così ingenua da credere che solo una delle parti di quel conflitto fosse capace di uccide- re e torturare. Allora quello significava che avevamo salvato il nostro più temibile nemico? Possibile che non ci fosse proprio nessuno di cui potersi fidare? Padre Brien si prese tutto il tempo necessario. Io rimasi lì mentre i miei conflitti interiori andavano attenuandosi e la mia mente veniva pervasa dall'immobilità che aleggiava sui vecchi alberi e sul terreno che li nutriva. Si trattava di una sensazione a me nota, poiché nella grande foresta vi era- no molti luoghi dove era possibile assimilare la sua energia, diventare tutt'uno col suo cuore antico. Se ti capitava di sentirti smarrito, quei luoghi ti aiutavano a ritrovare la strada giusta. Io li conoscevo, e così pure Finbar. Degli altri non sono del tutto certa, perché ogni volta che noi due sedeva- mo in silenzio nella biforcazione di una grande quercia o ce ne stavamo sdraiati sulle rocce fissando l'acqua, gli altri erano sempre intenti a correre, a scalare o a nuotare nel lago. Comunque, iniziavo a rendermi conto di quanto poco conoscessi i miei fratelli. Ora la pioggia era cessata, e sotto il riparo del boschetto di sorbi l'aria era fresca e carica di umidità. Gli uccelli emersero dai loro nascondigli e il loro canto prese a risuonare alto, sopra la mia testa. In quei frangenti, quando il mondo pareva rimanere sospeso, le voci mi avevano parlato di- verse volte. Per me erano le voci della foresta, oppure gli spiriti degli albe- ri stessi. A volte pensavo che a parlare fosse la voce di mia madre. Oggi gli alberi erano silenziosi, e io mi trovavo in un qualche remoto luogo della mente quando un leggero movimento dall'altra parte della radura interrup- pe il mio stato di trance. Non vi era il minimo dubbio riguardo al fatto che la donna che mi com- parve dinanzi non appartenesse a questo mondo; era straordinariamente alta e slanciata, e il viso dalla carnagione lattea era incorniciato da una folta chioma che le arrivava alle ginocchia. Era avvolta in un mantello di quel particolare colore che assume il cielo tra il tramonto e la notte. Mi alzai lentamente. «Sorha», chiamò, e la sua voce risuonò come una musica terribile. «Ti aspetta un lungo viaggio. Non c'è tempo per le lacrime». Mi sembrò di cruciale importanza formulare le domande esatte fintanto che ne avevo l'opportunità. Lo stupore mi aveva reso muta, e dovetti sfor- zarmi di articolare le parole. «I miei fratelli sono davvero malvagi, come questo ragazzo mi dice? Ma allora siamo tutti maledetti?» La donna proruppe in una risata, un suono dolce eppure pervaso da una forza che non era di questo mondo. «Nessun uomo è davvero malvagio», rispose. «Un giorno lo scoprirai da sola. Gran parte di loro mente, oppure si limita a pronunciare comode mezze verità. Ricorda le mie parole, Sorha la guaritrice». «Voi dite che dinanzi a me si apre un lungo cammino. Ma qual è il pri- mo passo?» «È un cammino assai più lungo di quanto tu possa immaginare. L'hai già imboccato, e il ragazzo, Simon, costituisce una delle pietre miliari. Per questa notte dagli del verdoro appena colto, che servirà a placare la mente» «E poi?» «Lo scoprirai da sola, figlia della foresta. Ma i tuoi piedi cammineranno dritti lungo la strada che attraverserà sofferenza e dolore, tradimento, lutto e dure prove.» L'immagine iniziò a svanire sotto i miei occhi; il blu del mantello prese a stemperarsi nella vegetazione scura dello sfondo. «Aspettate...», implorai lanciandomi in avanti per attraversare la radura. «Sorha?». Era la voce di padre Brien che mi chiamava dall'interno della grotta. La donna scomparve del tutto, come non fosse mai esistita, lascian- do solo le ombre del pomeriggio che ondeggiavano nella brezza. Padre Brien emerse dall'imboccatura della grotta asciugandosi le mani in un pan- no. «Vedo che abbiamo ricevuto visite», osservò in tono pacato. Gettai uno sguardo rapido nella sua direzione, poi di nuovo verso le ombre. Emergen- do cautamente nella radura, come incerta su quale accoglienza aspettarsi, si profilò alla vista Linn, la cagna. A quanto potevo constatare, mi aveva lo», replicai. «E io ti curerò, ma a una condizione». «Condizione?» ripeté il britanno. «Quale condizione?» «Io farò quanto necessario», spiegai con fermezza, «ma solo se collabo- rerai. Dovrai ascoltare ciò che ti dico e fare quanto ti chiedo, perché io ho il potere di guarirti». Mi rise in faccia, un suono piuttosto sgradevole. «Che piccola strega arrogante. Forse farei meglio ad abbandonarmi a febbri e putrefazione. Tanto forse il risultato sarebbe lo stesso. Che ne pen- si, vecchio?» «La cosa non mi piace, Sorha, e non piacerebbe nemmeno ai tuoi fratelli. Lascia a me questo compito.» «Allora perché mi avete portata fin qui?» mi limitai a chiedere con sem- plicità. E, non avendo nulla da offrirmi in risposta, rimase zitto. «Fuori», ordinò il ragazzo, in grado di riconoscere una vittoria all'istan- te. Padre Brien uscì, sottomettendosi con riluttanza all'inevitabile. «Sarò qua fuori, Sorha», disse nella mia lingua, che sembrava suonare incomprensibile alle orecchie del ragazzo, «e questa volta non aspettare tanto a chiamare. Ciò che vedrai ti turberà molto, e io non posso fare nien- te in proposito, bambina. Curalo come cureresti un animale ferito e cerca di capire, a dispetto di quello che ti ha detto, che non hai alcuna responsa- bilità dell'accaduto». «Andrà tutto bene», lo rassicurai, sentendo lo spirito della Signora della Foresta ancora forte in me, e così pure il mio senso di determinazione. Non mi soffermerò su quanto accadde in seguito. Spogliarsi davanti a me e sottoporsi alle mie cure risultò molto doloroso per il ragazzo, sia nel- lo spirito sia nel corpo. Essere testimone di quelle ingiurie, comprendere quanto vile potesse essere la natura dell'immaginazione umana fu un'espe- rienza che mi straziò il cuore allo stesso modo in cui gli strumenti di tortu- ra avevano straziato il suo corpo. Non sarebbe mai più tornato come prima, né più in possesso della gioia spensierata derivante dalla virilità che avevo visto nei miei fratelli mentre lottavano per gioco o amoreggiavano con una fanciulla compiacente. Trovavo inaccettabile che un uomo avesse potuto compiere quello scempio su un proprio simile. Mentre procedevo, gli rac- contai il resto della favola di Isha, così che entrambe le nostre menti potes- sero distaccarsi dall'orrore di quel compito. Linn stava accucciata con lo sguardo ansioso ai piedi del letto e leccava con delicatezza il pugno serrato del britanno. Questi si ritraeva al mio tocco ma, avendo dato il proprio assenso all'accordo, sopportò il dolore con stoicismo e gridò una volta sol- tanto. Finalmente, la storia era quasi giunta al termine e la mia opera completa- ta. Col corpo madido di sudore e il viso bagnato di lacrime, feci mettere il paziente nella posizione meno dolorosa possibile e stesi una coperta pulita sul corpo fasciato di fresco. Nel breve istante che mi ci volle per prendere la brocca dell'acqua, il cane era già saltato sul letto per allungarsi vicino a lui e dimenava con delicatezza la coda. L'espressione del muso comunica- va la tacita preghiera di fingere che non l'avessi notato. «Ben fatto, Simon», dissi mentre gli porgevo una tazza d'acqua da sor- seggiare, che questa volta accettò. Era troppo sfinito per protestare, più sfinito che impaurito. «Forse ora riuscirai a dormire un po'. Se avrai biso- gno uno di noi sarà qui. Linn!» chiamai, facendo schioccare le dita. «Giù!». «No...», protestò in modo appena udibile. «Lasciala». La sua mano acca- rezzò l'ispido mantello grigio. Mi mossi con l'intenzione di chiamare padre Brien. Ero troppo esausta per sentire la fame, ma quel giorno il mio lavoro non era ancora finito. «No.» Abbassai lo sguardo su di lui. «Resta.» «Non sono un cane, che obbedisce ai tuoi ordini», risposi. «Devo man- giare, e anche tu». «La storia...» biascicò, sorprendendomi. «Finisci la storia. Bryn riuscì a bere dal calice o rimase per sempre nel dubbio?». Con gesti lenti tornai a sedere. «Sì, bevve», risposi, trovando dentro di me la forza per proseguire, seb- bene mi costasse uno sforzo notevole. «Accadde molto, molto più tardi, poiché dopo le sue tante disavventure e i malefici abbattutisi sulla testa di coloro che avevano tentato di usare il calice di Isha, egli non fece altro che metterlo su uno scaffale in fondo alla capanna, dimenticandosene. Il calice rimase là, con i suoi smeraldi e rubini, in mezzo a vecchie stoviglie e a oggetti in peltro, e per lungo tempo nessuno lo notò. Questo perché Bryn rimase sempre nella sua capanna accanto alla foresta irta di rovi, invec- chiando in quel luogo. Continuò a fare la guardia all'unica entrata senza lasciare passare nessuno, bestia o umano che fosse. Vi furono numerose ragazze che l'avrebbero preso per marito, se solo avesse voluto, ma egli le rifiutò tutte con gentilezza. "Non sono altro che un uomo umile", diceva loro, "e non sarei adatto ad accompagnarmi a signore eleganti come voi. Inoltre il mio cuore è già occupato". Nel corso degli anni gli si presentaro- no molte occasioni di lasciare quel luogo: andare in guerra come soldato o viaggiare in cerca di fortuna, ma egli scelse di rimanere. "Questo è il mio posto di guardia", diceva loro, "pertanto resterò qui, fino alla morte". E dopo sessant'anni, quando Bryn era ormai vecchio e la barba bianca gli arrivava fino alla punta degli stivali, la maledizione svanì e l'intrico di rovi scomparve. Apparve allora un'anziana signora con un lacero abito bianco e il viso avvizzito come una prugna secca. Bryn riconobbe subito in lei la propria amata e le si inginocchiò dinanzi rendendo grazie per la sua libera- zione. «"Ho sete", disse la vecchia con voce stridula (ma a Bryn parve il suono più celestiale mai udito). "Per cortesia dammi da bere, soldato". E poiché in quell'umile dimora vi era solo un calice adatto a dissetare una dama di tal fatta, dagli scaffali polverosi della sua cucina l'uomo prelevò quello di Isha. Si avvide allora che esso era ricolmo fino all'orlo di acqua fresca e limpida. Lo offrì alla dama con mani tremanti. «"Bevi prima tu", lo invitò, ed egli non ebbe cuore di scontentarla. Bev- ve una sorsata, e lei pure, mentre le pietre preziose incastonate nel metallo brillavano come stelle. Quando Bryn sollevò lo sguardo su di lei, vide da- vanti a sé il suo amore di gioventù, ancora giovane e bello come il giorno in cui l'aveva perso. E quando guardò dentro la coppa di Isha, il riflesso gli mostrò una chioma di ricci neri e un sorriso candido e smagliante. "Ma... io credevo..." articolò con difficoltà, dato che il suo cuore batteva come un tamburo. La sua innamorata sorrise e gli prese la mano. "Avresti potuto bere fin dal principio", disse, "poiché chi, se non un puro di cuore, può attendere per sessant'anni la propria amata?". Posò la coppa sopra una pie- tra lungo il sentiero e insieme entrarono nella capanna, dove rimasero per tutto il resto della loro vita. E la coppa di Isha? Riposa tra rovi e margheri- te, in attesa di essere trovata da un altro viaggiatore.» Il ragazzo si era quasi addormentato, e per la prima volta l'espressione che aveva sul viso, ancora guardingo, rasentava la pace. Disse in sussurri: «Se non sei una strega, come puoi sapere il mio nome?». Me l'ha rivelato la Signora del popolo fatato. Era la verità, ma non mi aspettavo di certo che mi credesse. Riflettei alla svelta. Come ho già detto, non ero mai stata capace di mentire, né lo era mai stato mio fratello Finbar. «Ti risponderò solo quando ti vedrò camminare con le tue gambe fuori di qui, all'aria aperta», fu tutto ciò che seppi rispondere. «Ora cerca di ri- le mie favole. L'aria fresca e il cammino, per quanta fatica gli costasse quest'ultimo, gli avevano ravvivato il colorito del viso, e gli occhi del colo- re dei fiordalisi non erano più privi di vita. Gli spazzolavo i capelli, e le proteste che sollevava quando mi apprestavo a scioglierne i nodi erano più veementi dei lamenti provocati dal dolore delle ferite. Prendevo comunque il suo pessimo carattere come buon segno: qualsiasi cosa, infatti, era me- glio di quella disperazione a occhi sbarrati che l'aveva accompagnato nelle lunghe giornate d'infermità, o del suo volto esangue per il terrore dei ri- svegli notturni. Infine giunse Finbar. Il suo pony aveva percorso l'ultimo tratto della pi- sta in terra battuta e lui, lasciato indietro l'animale, aveva proseguito a pie- di. Come d'abitudine si muoveva senza causare il minimo rumore, ragion per cui la sua apparizione sul limitare del boschetto risultò piuttosto im- provvisa. In un lampo Simon si era tirato in piedi, il corto ansito rantolante unico indicatore della sofferenza che doveva causargli ogni movimento; sentii i capelli che mi venivano afferrati da tergo e una lama di freddo me- tallo contro il collo. «Fai solo un altro passo avanti e le taglio la gola», minacciò, al che Fin- bar si fermò impietrito, il viso sbiancato. Non si udiva alcun suono, fatta eccezione per il canto di un uccello in lontananza che sfidava un rivale, e il respiro raspante di Simon in qualche punto dietro di me. Con grande len- tezza, Finbar portò le mani in avanti e gli mostrò che erano aperte e vuote, poi sedette anch'egli accanto a noi, la schiena eretta come un giovane albe- ro, gli occhi vigili. Le lentiggini risaltavano contro quel pallore e la bocca era serrata in una linea sottile. Sentivo padre Brien canticchiare tra sé den- tro la capanna. Il coltello si allontanò un poco dalla mia gola. «Questo è tuo fratello?». «Uno di loro», riuscii a rispondere, la voce ridotta a poco più di uno sibi- lo. Simon allentò un po' la stretta. «È stato Finbar a salvarti e a portarti qua.» «Perché?». Pose la domanda con voce inespressiva. «Perché credo nella libertà», rispose Finbar con ammirevole fermezza. «Ho cercato di riparare ai torti fin dove ho potuto. Non sei stato il primo che ho aiutato in questo modo, sebbene non abbia mai saputo che ne sia stato di loro. Ora lascerai andare mia sorella?». «Per quale motivo dovrei crederti? Nessuno, sano di mente getterebbe la propria sorella tra le braccia del nemico, tutta sola, se non fosse per quel prete squilibrato. Per di più macchiandosi di tradimento verso la propria famiglia. Quale uomo farebbe una cosa simile? Potresti avere una guarni- gione di soldati nascosta tra gli alberi, pronta a catturarmi e a portare a termine il lavoro che è stato iniziato.» Simon riusciva a tenere la voce sotto controllo, ma sentivo la tensione nel suo corpo e sapevo che restare dritto in piedi e tenermi contro di sé in quel modo doveva costargli uno sforzo sovrumano. Non avrebbe potuto protrarlo ancora per molto. Parlai a Finbar direttamente, senza parole, drit- to nella sua mente. Lascia che ci pensi io. Fidati di me. Finbar ammiccò nella mia direzione e per un attimo abbassò la guardia. Nei suoi pensieri leggevo una rabbia e una confusione che mi giungevano del tutto nuove. Non è di te che non mi fido. È di lui. Non sono mai stata propensa alla debolezza, un tratto tipico di molte donne. Difatti, nonostante la mia corporatura esile e l'apparente fragilità, sono una persona forte e dotata di grande capacità di sopportazione. Non mi sarei mai creduta capace di mettere in atto un tale inganno, e rischiai molto affidandomi soltanto alla probabile reazione di Simon. Ma in quel frangente fu l'unica cosa a cui potei pensare. Emisi quindi un lieve gemito e crollai sulle ginocchia; fu così che Simon lasciò andare il coltello e mi prese al volo prima che potessi cadere a terra. Tenni gli occhi strettamente chiusi e ascoltai Finbar che si produceva in un repertorio di esclamazioni da fratello preoccupato, seguito da Simon che riguadagnava possesso dell'arma e che intimava a mio fratello di non avvicinarsi. Poi sopraggiun- se la voce di padre Brien, allertato dal rumore. In un attimo fu al mio fian- co e mi passò sul viso un panno umido profumato di lavanda. Nell'aprire cautamente gli occhi, vidi l'espressione divertita che campeggiava sul viso del buon monaco. Aveva capito tutto. Volsi la testa da un lato. Finbar sedeva esattamente dov'era prima: le gambe incrociate, la schiena diritta, il viso che non tradiva alcuna emozio- ne. Poi guardai nell'altra direzione. Simon era vicino, la schiena appoggia- ta a una grossa pietra, il coltello abbandonato tra le mani. Sapevo che mi aveva osservato, ma in quel momento i suoi occhi erano volti altrove, in direzione degli alberi. La sua carnagione, pallida e imperlata di gocce di sudore che pensavo di non rivedere più, non mi piacque affatto. A quanto pareva nessuno dei quattro sapeva bene come uscire da quella situazione; con nostra sorpresa ci venne in soccorso Linn che, stanca di inseguire conigli, stava emergendo di corsa dalla foresta, estasiata nel ve- dere così tanti amici tutti assieme. Per prima cosa balzò addosso a Finbar, puntandosi con le zampe sulle spalle di lui e lavandogli la faccia con vigo- rose leccate. Poi passò rapida sopra di me, incurante dell'apparente stato in cui versavo, piantandomi nello stomaco le pesanti zampe, indi girò intorno a Simon, fremente nell'attesa, ma ben attenta a non fargli del male. «Bene, ragazzi», disse padre Brien in tono pratico, «andrò a prendere una tazza di idromele. Credo ne abbiamo tutti bisogno. Poi parleremo. Vi prego, cercate di non farvi male l'un l'altro in questi pochi attimi». Si alzò, e Simon lo lasciò andare. Chiaramente, però, io non ero ancora libera di fare lo stesso, poiché non appena tentai di tirarmi a sedere sentii la sua mano che mi tratteneva ancora il braccio, una presa che esprimeva un'inflessibile determinazione. Era evidente che in lui vi era ancora una notevole riserva di forze, che io avevo invece creduta esaurita. Sedemmo in silenzio, a disagio, fino a che padre Brien tornò portando una brocca e alcune tazze, al che Finbar prese a parlare nella nostra lingua. «No!», gli ingiunsi con decisione, interrompendolo. «Parla in modo che anche Simon possa capire. Ci sono già stati fin troppi segreti. Possiamo essere nemici, ma nulla toglie che possiamo comportarci in modo civile». «Credi davvero?» chiese Finbar aggrottando la fronte. «Non mi pare che il qui presente britanno abbia fatto altrettanto». «Ora», intervenne padre Brien porgendo una tazza a ognuno, «cerchia- mo di fingere di accettare una tregua e di uscire da questa situazione. Cre- do, giovanotto, che Finbar sia venuto qui animato da intenzioni pacifiche. Il suo compito è prelevare sua sorella e portarla a casa». «E, come vedi, sono disarmato», soggiunse Finbar posando le mani sulle ginocchia e mostrando i palmi. Una ciocca di capelli gli cadeva sugli oc- chi, ma lui non fece alcun tentativo per spostarla. Ora il suo sguardo era posato su di me. «Sono qui per prendere Sorha. Questo è tutto. Avevo pen- sato di chiedere notizie della tua salute, giusto per capire se fosse valsa la pena di andare incontro a tutto quel disturbo per salvarti la vita. Ora però vedo che potevo risparmiarmi la fatica». Non ha alcuna intenzione di farmi del male. Non lo vedi? Finbar, dubbioso, sollevò le sopracciglia verso di me. Simon non parla- va, la tazza ancora intatta posata a terra sull'erba accanto a lui. Sentivo le sue mani bruciare sulla mia pelle, attraverso il tessuto del vestito. La cagna annusò l'idromele. «Novità da tuo padre, Finbar?» domandò padre Brien come per caso. «Non ancora. Ci vorrà ancora del tempo, credo. Il vostro paziente può segni rossi. Il massaggio col balsamo mi calmò un poco il dolore. Mentre stavo per riporre il vasetto, qualcosa mi fece voltare. Simon era ancora sveglio, e le palpebre pesanti non avevano al momento coperto del tutto il sorprendente azzurro dei suoi occhi. «Sei facilmente soggetta ai lividi», disse senza riuscire a scandire bene le parole. «Non intendevo farti male». Poi le palpebre si abbassarono e il sonno sopraggiunse. La cagna gli si fece più vicina, aderendo col suo corpo a quello di lui sullo stretto pagliericcio. A quel punto, mi recai nella capanna per un incontro chiarificatore e de- cisivo, tenendo la porta aperta perché Linn mi avvertisse nel caso Simon si svegliasse, come spiegai agli altri. Padre Brien insisté affinché io e Finbar mangiassimo e bevessimo, sebbene nessuno dei due ne avesse gran voglia. Ci volle un bel po' di tempo per convincere Finbar a rientrare. Era anco- ra convinto del fatto che io fossi in pericolo e che anche Conor non sareb- be stato d'accordo a prolungare la mia permanenza. Per persuaderlo usai la solita vecchia argomentazione: non si doveva presumere che un britanno fosse malvagio solo perché i suoi capelli avevano il colore dell'oro, o per- ché era alto, oppure ancora perché il suo modo di parlare ci sembrava stra- no. Si trattava solo di un essere umano, coi suoi punti di forza e le sue de- bolezze, proprio come noi. Non era stato forse lo stesso Finbar a dire tante volte la stessa cosa, persino a nostro padre? «Però ha minacciato di ucciderti», replicò Finbar esasperato dalla mia insistenza, «puntandoti un coltello alla gola. Quello non significa nulla?». «È malato», risposi. «E impaurito. E io sono qui proprio per aiutarlo. I- noltre mi è stato detto...», iniziai, subito interrompendomi. «Detto cosa?» Non riuscii a mentire. «Mi è stato detto che questo è un dovere da com- piere. Il primo passo di un cammino lungo e difficile. E io sento di doverlo fare». «Chi te l'ha detto, Sorha?» fu la domanda posta da padre Brien in tono gentile. Ora entrambi mi fissavano con intensità. Scelsi le parole con cura. «Ricordate quella vecchia storia che raccontava Conor, quella di Deir- dre, Signora della Foresta? Penso si trattasse di lei.» Padre Brien trasse un profondo respiro. «L'hai vista?». «Credo di sì», risposi, sorpresa. Quale che fosse la reazione che mi a- spettavo da lui, non era certo questa. «Mi ha detto che questa è la mia stra- da e che dovrò percorrerla fino in fondo. Mi dispiace, Finbar». «Questo britanno», disse lentamente, «non è il primo che ho incontrato, o con cui ho parlato. Gli altri, però, erano tutti più vecchi, più incalliti, ma allo stesso tempo più semplici. Ben contenti di tornare liberi e di dileguar- si. Questo, invece, si serve di inganni, si prende gioco di noi e gode della nostra confusione. Se davvero ti sono state impartite queste indicazioni non puoi fare altro che obbedire, ma stento a credere che questo ragazzo non costituisca una minaccia per te. Non sono contento di lasciarti qui, e credo che Conor si troverebbe del tutto d'accordo con me». Con le dita si attorcigliò una ciocca di capelli. La sua faccia aveva ripreso colore, ma la sua bocca aveva assunto un'espressione contrariata. Lo fissai. «E perché dovrebbe decidere Conor?» chiesi. «Per il momento potrà anche essere lui il capo, ma ha solo sedici anni». «Conor è molto maturo per la sua età», osservò padre Brien in toni misu- rati. «In quello vi assomiglia. Anche davanti a lui si apre un cammino già stabilito. Forse, però, lo date troppo per scontato: il fratello tranquillo, to- talmente affidabile, così gentile e giusto, col suo bagaglio di conoscenze. Io, invece, credo che non lo conosciate del tutto». «Sa sempre una quantità di cose strane,» dissi. «Cose sorprendenti». «Come l'alfabeto Ogham», sottolineò Finbar sommessamente. «I simbo- li, dove trovarli e come comprendere il loro significato. Ciò che sappiamo in proposito l'abbiamo imparato da Conor». «Ma lui dove l'ha imparato?» chiesi. «Non certo da un libro. Ne sono si- cura». «Conor conosce in modo approfondito numerose materie», rispose padre Brien guardando fuori dalla finestrella. I raggi del sole pomeridiano cade- vano sui ciuffi di capelli grigi sparsi sulla fronte distesa, trasformandoli in un'aureola fiammante. «Alcune le ha apprese da me, così come il resto di voi. Altre le ha imparate leggendo i manoscritti polverosi che si trovano nella biblioteca di vostro padre, proprio come hai fatto anche tu, Sorha, per imparare l'antica arte di guarire con le erbe. Quando sarai più grande sco- prirai che Conor non è solo dotato di una grande sapienza, ma anche di qualità ben più sottili. In lui sopravvive la conoscenza di arti antiche che appartengono alla vostra stirpe, ma che il mondo attuale ha in gran parte dimenticato. Guarda come lo riverisce la gente del villaggio. È vero, in assenza di tuo padre, è una buona guida, e loro lo riconoscono e ne sono grati. Ma ciò che riconoscono in lui ha radici ben più profonde». Fu allora che mi sovvenne un ricordo. «Quel vecchio del villaggio, Tom, il costruttore di tetti di paglia, in effetti aveva detto qualcosa riguardo al fatto che Conor sarebbe dovuto essere uno dei grandi saggi, come sarebbe dovuto diventare anche papà. Però non sono riuscita a capire del tutto quel che voleva dirmi». «Il clan dei Sevenwaters è molto antico, uno dei più antichi in assoluto su queste terre», spiegò padre Brien. «Questo lago e questa foresta sono luoghi dove accadono cose strane, dove l'imprevisto è un fatto ordinario. L'arrivo di persone come me, e della nostra fede, può avere mutato le cose in superficie. Ma vi sono dei punti, più sotto, dove la magia corre ancora forte e profonda come ai tempi in cui il popolo fatato giunse da ovest. I fili di diverse fedi possono correre paralleli e intrecciarsi di tanto in tanto, e comporre così una corda ancor più robusta. Tu l'hai visto coi tuoi occhi, Sorha; e tu, Finbar, senti il suo potere che ti guida nell'agire». «E Conor?» chiese Finbar. «Tuo fratello ha ricevuto un lascito oneroso», seguitò il monaco, «che chiunque può ereditare, sia che si tratti del figlio maggiore o del secondo, bensì soltanto di chi è più predisposto a riceverlo. Tuo padre aveva la forza per farlo, ma rinunciò. Perciò, per quella gente sarà Conor la guida della vecchia fede, una missione che svolgerà senza clamore e con discrezione, così che le antiche potenze, nascoste nelle profondità della foresta, possano prosperare e trasmettere la loro forza». «Intendi dire che Conor è... un druido? Come ha potuto impararlo sui li- bri?» chiesi confusa. Possibile che conoscessi così poco mio fratello? Padre Brien rise sommessamente. «Non l'ha imparato sui libri», fece os- servare ironico. «Le antiche tradizioni non sono legate alla carta; l'alfabeto degli alberi che ti ha mostrato è l'unica forma di scrittura ammissibile. Ha imparato, e continua a imparare, da altri come lui. Essi non si mostrano a tutti, non ancora, perché hanno faticato molto per resistere finora, tant'è che il loro numero si è molto assottigliato. Tuo fratello è solo all'inizio di un lungo cammino. Diciannove anni, ecco qual è il periodo di tempo fissa- to per l'acquisizione della saggezza. Ed è inutile precisare che non dovrete fare parola di questo con nessuno». «Ci avevo pensato, a volte. È impossibile spostarsi per i villaggi e ascol- tare la gente senza scoprire in chi è riposta la loro fiducia e per quale moti- vo. Questo spiega perché Conor lascia che ognuno di noi segua il proprio destino». «E cosa intendevate dire», chiesi, senza perdere la concentrazione, «che mio padre era stato prescelto, ma che vi rinunciò?». Non riuscivo proprio a immaginare mio padre, con la sua espressione dura e accigliata e la sua ossessione per la guerra, che si faceva portavoce di qualsivoglia messaggio spirituale. In qualche modo la cosa sembrava non quadrare. dello spirito, sono depositarie di misteri che vanno oltre ogni umana com- prensione, e desidero ardentemente poter visitare le grotte della verità. Ma non ucciderei mai per avere un tale privilegio. Credo che questa fede sia insana». «E infatti, come vi ho appena detto, una fede può rendere ciechi di fronte alla realtà», commentò padre Brien. «Sempre, fin dai tempi dei lontani antenati di tuo padre, sono state combattute guerre per il possesso di quelle isole, a partire dal giorno in cui il primo britanno mise piede su quel suolo, ignorando che si trattava del cuore mistico che racchiudeva ogni antica credenza del tuo popolo. Così ebbe inizio la disputa, seguita da perdite ingenti in termini di vite umane e di ricchezze. Per quale altro motivo, al- trimenti, la scelta cadde proprio su Colum, un settimo figlio, per farne il depositario della grande saggezza? Perché i suoi fratelli furono tutti bru- talmente uccisi combattendo per la causa. E il loro padre li lasciò andare, a uno a uno». «E ora lui sta mettendo i suoi figli sulla stessa strada», ribatté Finbar te- tramente. «Forse», replicò padre Brien. «Ma i tuoi fratelli non condividono l'osses- sione di Lord Colum e inoltre c'è Conor", e anche tu. Forse è davvero ora che questo schema sia scalzato una volta per tutte». Stavo riflettendo febbrilmente. Dopo qualche istante gli chiesi: «State dicendo che Conor permetterà che io rimanga qui ad aiutare Simon, e che è consapevole di quanto mi ha detto la Signora riguardo al fatto che fa tutto parte di un grande disegno preordinato?». Padre Brien sorrise. «Se c'è qualcuno che può allontanarsi da una strada già tracciata quella sei tu, bambina. Ma hai ragione riguardo a Conor. Era pienamente consapevole del motivo che ti portava qui. E il fatto che egli sia capace di conciliare questa sua consapevolezza con l'amministrazione degli affari di vostro padre ci dà la misura della sua forza e della sua leva- tura». Aggrottai la fronte. «Parlate come se un giorno sarà Conor ad assumere il comando in seno alla famiglia», dissi. «Ma allora che ne sarà di Liam? È sempre stato lui la nostra guida, fin dal momento in cui glielo ordinò no- stra madre; e poi è il figlio maggiore». «Ci sono guide e guide. Non sottovalutare nessuno dei tuoi fratelli, Sor- ha», mi ammonì padre Brien. «E ora mangiate, voi due, che le fatiche di oggi non sono affatto terminate». Noi, però, avevamo lo stomaco chiuso e così, quando Finbar ci diede l'addio e con riluttanza si mise in marcia sul pony diretto a casa, il pane e il formaggio erano ancora quasi intatti. Il saluto che mi diede al momento della separazione non fu pronunciato a voce alta. Non mi fido ancora del tuo britanno. Dagli un messaggio da parte mia. Digli che se osa ancora sollevare un dito su di te non dovrà risponderne soltanto di fronte a me, ma di fronte a tutti e sei. Non dimenticarti di rife- rirglielo. Mi rifiutai di prendere sul serio quell'avvertimento. Finbar che minac- ciava violenza? Impensabile. Non gli riferirò niente del genere. Vedo che stai iniziando a parlare co- me i tuoi fratelli. Ora va', presto, e lascia che sia io a occuparmi di questo. Non preoccuparti per me, Finbar, andrà tutto bene. «Mmh», borbottò appena udibile, con piglio da fratello maggiore. «Quando te l'ho sentito dire l'ultima volta? Forse è stato appena prima che scavalcassi la recinzione per accarezzare il toro da esposizione. Oppure quella volta in cui dicesti di essere sicura di riuscire a saltare il ruscello, proprio come faceva Padriac, con quelle tue gambette corte? Ricordi quali furono le conseguenze?». «Su, è tempo che tu vada!», ribattei, assestando una sonora pacca sul fondoschiena del pony, che si mise in marcia. Udii un latrato provenire dalla grotta. Era ora di rimettersi al lavoro. CAPITOLO TERZO Non sempre ciò che si rompe si può aggiustare. In alcuni casi è necessa- rio procedere con molta cautela e aggiungere ogni singolo, fragile pezzo soltanto dopo avere atteso che quello precedente sia saldamente in sede. È un'opera che richiede grande pazienza. Lo stesso valse per Simon. La visita di Finbar aveva fatto ritardare i pro- gressi, pertanto dovetti riparare a quel danno prima di riprendere il filo del lungo processo di guarigione. Io e Simon avevamo fatto un patto, e lui sembrava tenere fede alla parola data. Così, sebbene apparisse spesso dell'umore più nero immaginabile, e quasi privo del desiderio di vivere con quel suo corpo martoriato, stringeva sempre i denti ed eseguiva i miei or- dini. Passarono sei o sette giorni, nei quali i progressi si verificarono con len- tezza esasperante. Il momento peggiore era la notte. Poiché Simon non accettava l'aiuto di padre Brien, ero io che dovevo assisterlo in ogni sua necessità, anche se il bravo monaco mi aiutava in quel suo modo discreto facendo sì che bende e pomate fossero sempre a portata di mano, provve- dendo affinché la biancheria fosse sempre pulita e facendo comparire da mangiare e da bere non appena avevo un attimo libero, dandomi così modo di rifocillarmi. Mi sentivo sfinita, stremata da una stanchezza mai cono- sciuta prima, che mi penetrava fin nelle ossa. Usavo il verdoro a piccole dosi. Grazie ad esso, Simon riusciva a dormire per un breve intervallo pri- ma che sopraggiungessero gli incubi, ed io imparai ad addormentarmi non appena lo faceva anche lui, essendo quello l'unico momento di riposo che mi era concesso. Ogni notte si ripetevano gli stessi eventi: Simon urlava, e io mi sveglia- vo di soprassalto per scoprire che si era tirato a sedere come una molla e che, tremante e boccheggiante, si stava coprendo il viso con le mani. Non mi diceva mai ciò che sognava, ma potevo immaginarlo. Allora accendevo una candela e con un panno gli asciugavo il corpo madido di sudore, men- tre il cane si ritirava verso l'uscita uggiolando irrequieto. In quei momenti di tenebra, raccontavo storie e cantavo canzoni, per poi ritrovarmi con la gola secca e infiammata a furia di parlare. Alcuni racconti riuscivano a penetrare la sua coscienza, altri gli scivolavano addosso come l'acqua su una roccia. Quando la paura diventava ingovernabile, Simon lasciava che lo abbracciassi, che gli cantassi una nenia e che gli accarezzassi i capelli come si fa con i bambini impauriti. Ma ci voleva molto tempo perché ri- piombasse nel sonno. Dopodiché, una spossatezza infinita si impadroniva di me mentre ancora sedevo presso il suo letto; così mi addormentavo lì dove mi trovavo, la testa abbandonata sul pagliericcio, la mia mano ancora nella sua. Ma erano istanti di riposo molto brevi. Simon si svegliava quattro, anche cinque vol- te per notte. La tentazione di somministrargli un infuso abbastanza potente da assicurare una notte di riposo ininterrotto a entrambi era fortissima, ma sapevo bene che la via della guarigione stava nel disintossicare il corpo e nell'imparare a convivere con la paura. Perché, in un modo o nell'altro, quei brutti ricordi l'avrebbero perseguitato per tutta la vita. Simon continuava a non lasciare che padre Brien si avvicinasse. Ero io, e io sola, a dover fare tutto: svegliarmi in un attimo, acquietarlo e confor- tarlo, tenere le ferite pulite e fasciate ed essere sempre presente per prov- vedere a ogni sua necessità. Era molto faticoso, ma così prevedeva il no- stro accordo. Di notte, comunque, padre Brien non ci lasciava mai soli; egli soleva sedere nella parte più esterna della grotta con una candela acce- battimento. Quando il ragazzo si riprende, il gigante lo ringrazia di cuore per aver accettato la sfida; di tutti i viaggiatori che si sono trovati a passare da quelle parti è stato lui il primo ad avere avuto il coraggio di fermarsi e di offrirgli un po' di divertimento. Il gigante perciò decide di seguirlo e diventa per lui una sorta di guardia del corpo.» «Utile», commentò Simon. «E poi?». «Poi giungerebbe a un castello, dove abita una dama», proseguii, racco- gliendo con aria distratta una manciata di bacche e foglie cadute e inizian- do a comporre una ghirlanda. «Lui la vedrebbe da una certa distanza, ma- gari mentre passa a cavallo sulla strada accanto, agghindata con gioielli e abiti eleganti. Nell'istante in cui la vede se ne innamora e la vuole per sé. Ma c'è un problema: per conquistare il suo cuore deve prima superare una prova». «O forse tre.» Annuii. «Sì, è più probabile. E qui arriva la parte dove le buone azioni compiute in passato gli tornano utili. Forse deve ripulire un'immensa scu- deria prima dell'alba, al che gli potrebbe apparire la vecchia con una scopa magica che fa brillare tutto in un baleno. Poi deve recuperare un qualche oggetto, magari una sfera d'oro finita in fondo a un cunicolo sotterraneo. E il coniglio potrebbe venirgli in soccorso. L'ultima è una prova di forza, e qui entrerebbe in scena il gigante. Così il nostro eroe può conquistare la dama e vivere per sempre felice e contento». «E che ne è di suo fratello?» «Quello? Be', vedi, quando il fratello più giovane ha superato tutte que- ste prove e conquistato il cuore della dama si è completamente dimenticato del fratello maggiore, perdendo ogni gelosia nei suoi confronti. Dopotutto ora ha la sua vita.» «Non mi piace tanto questo finale», disse Simon. «Trovane un altro». Pensai per un attimo. «Che ne pensi se andasse in guerra e una volta tor- nato scoprisse che suo fratello è morto e che tutte le terre sono sue?». Simon scoppiò in una risata, ma la durezza di quel suono non mi piac- que. «Come pensi prenderebbe quella notizia?», chiese. «Credo si sentirebbe confuso. Per un verso, sarebbe la realizzazione di un suo grande desiderio: prendere il posto di suo fratello. Ma d'altro canto finirebbe per rimpiangere tutti quegli anni passati a invidiarlo piuttosto che a imparare a conoscerlo.» «A suo fratello non interessava», precisò Simon con voce piatta, cosa che mi fece pensare di averlo punto sul vivo. Mi concentrai sulla ghirlanda che stavo intrecciando. Foglie color ruggine, marrone scuro, giallo dorato. Alcune si stavano già sgretolando, ultime vestigia di un'estate che stava scivolando via dai loro corpi scheletriti. E bacche rosse come il sangue. Lui mi guardò. «Sorha», disse dopo un attimo, ed era la prima volta che mi chiamava col mio nome invece che con l'appellativo «strega», «ragazza» o con qual- cosa di peggio. «Come puoi credere a queste storie? Fate, giganti e mostri. Sono solo fantasie da bambini». «Alcune possono essere vere, altre no», risposi mentre infilavo una lun- ga foglia appuntita sotto la coroncina, poi in mezzo e infine l'arrotolavo su se stessa. «Che importanza ha?». Si alzò, e udii il suo respiro mutare mentre tratteneva in gola un singulto di dolore; utilizzava il silenzio come forma di controllo. «La vita reale è molto diversa dalle favole», disse, «tu vivi qui, nel tuo piccolo mondo, ma non hai idea di ciò che esiste oltre i suoi confini. Vor- rei...», poi si interruppe. «Vorresti cosa?» chiesi, vedendo che non continuava. «Vorrei quasi che tu non debba mai scoprirlo», concluse dandomi la schiena. «Non credi invece che io abbia già iniziato?». Mi alzai, la coroncina nel- la mano. «Ho visto quello che ti hanno fatto. Ti ho sentito gridare per il dolore. E tu stesso mi hai raccontato storie di terribili crudeltà, che so esse- re vere. Non ti sei certo fatto scrupolo di risparmiarmele». «Ma con le tue favole tu ricacci quel mondo all'esterno.» «Non del tutto», replicai, mentre lentamente ci incamminavamo per rien- trare. «Non per te, né per me. Le favole aiutano solo a rendere le cose più facili, tutto qui. Ma se vuoi guarire e tornare a casa dovrai raccontarmi di quel mondo». Padre Brien gli aveva preparato un robusto bastone di frassino, che usa- va per sostenersi nel camminare; la sua andatura era ancora penosamente incerta, ma perlomeno riusciva a spostarsi senza il mio aiuto. Lì il sentiero era coperto da un tappeto di foglie cadute e l'intrico dei nudi rami autunna- li lasciava penetrare una luce fredda che lo pennellava di oro e di argento. Linn era eccitata, e scavava e fiutava in ogni angolo. Un uccello lanciò un richiamo, e un altro rispose. «Tornerò mai a dormire normalmente?» chiese cogliendomi di sorpresa. Risposi con prudenza; infatti avevo avuto modo di vedere come la follia di coloro che erano stati catturati dal popolo fatato non li abbandonasse né di giorno né di notte, e come l'incessante turbinio di quel ricordo non conce- desse loro un istante di tregua. «Potrebbe volerci molto tempo», azzardai con dolcezza. «Hai già fatto dei progressi. Però non posso mentirti. Danni di quelle proporzioni non guariscono facilmente, ma se sceglierai la strada giusta potrai diventare il migliore guaritore di te stesso». Il corpo di Simon stava migliorando. Era giovane, forte e resistente, e stava vincendo la lotta contro i danni e le devastazioni di quella notte, e gli umori nocivi che ne erano stati la conseguenza. Dopo qualche tempo, ave- va iniziato a camminare senza bastone e a scambiare le prime, poche paro- le con padre Brien, quasi senza rendersene conto. Io salutavo con gioia ogni piccola vittoria. Una parola gentile, il tentativo di fare qualcosa di nuovo senza che fossi io a chiederglielo, un sorriso offerto spontaneamen- te, erano tutti doni preziosi. Una volta avviatosi, il processo di guarigione proseguì più speditamente, e io iniziai a credere che di lì a non molto sa- rebbe potuto tornare tra la sua gente. Era comunque chiaro che le nostre cure gli erano ancora necessarie. Le precipitazioni del tardo autunno erano ormai giunte e le notti si erano fatte più lunghe e più fredde. Simon non era ancora riuscito a scuotersi di dosso i fantasmi che lo perseguitavano nelle ore di oscurità. Era tormentato da frotte di torturatori ai quali di volta in volta resisteva, sfuggiva o alla cui mercé si abbandonava. Per quel motivo mi buscai un occhio nero. Una notte, si alzò dal letto mezzo addormentato e tentò di fuggire. Per fermarlo fu necessaria sia la mia forza sia quella di padre Brien, ma una della sue braccia che si divincolava mi colpì forte in pieno viso. E il mattino succes- sivo Simon si rifiutò di credere di esserne stato la causa. Un'altra volta mi colse alla sprovvista e, svegliatosi di soprassalto prima di me e in preda al terrore, si appropriò in silenzio del pugnale, che si rivolse contro quasi prima che io potessi intervenire. Non so come riuscii a muovermi tanto rapidamente, ma afferrai il suo polso e lo trattenni mentre chiamavo padre Brien a gran voce; poi entrambi riuscimmo a calmarlo, mentre lui ancora piangeva e farneticava, implorandoci di ucciderlo e di porre fine a quel tormento. Allora cominciai a parlare e cantare fino a che non si acquietò, cedendo quasi al sonno, ma non ancora. Aveva smesso di parlare, ma i suoi occhi continuavano a farlo, e il messaggio che comunicavano era chiaro. Comprendeva fin troppo bene il futuro clic lo aspettava, e mi chie- deva perché non ponessi fine a quella disperazione. In effetti, che cosa mi salvataggio. «Ma alla fine, quando loro... quando loro...». Chiuse gli occhi, il viso di- storto dal ricordo del dolore. «Allora io... io non so se... se ho...». Sembra- va incapace di completare quel pensiero, come se trovare le parole per far- lo andasse oltre le sue capacità di sopportazione. «Pensi che potresti aver detto qualcosa che non avresti dovuto dire, qualcosa di segreto?». Annuì con aria afflitta. «Te l'ho detto che lui ha fallito, no? Che ha tradi- to la fiducia riposta in lui, che ha consegnato al nemico i propri uomini. Come potrebbe ritornare, dopo un tale disastro?». Sottrasse le mani alla mia stretta. «Chi gli darebbe la sua amicizia, dopo un simile gesto? Forse era meglio se fosse morto». «Ma non ne sei certo», azzardai cautamente. «Credo che tu... che lui...». «Suo fratello», disse Simon. «Ricordi la storia? Suo fratello aspetta che le truppe facciano ritorno, però questo non accade. Allora aspetta ancora un po' e poi manda un uomo in ricognizione per cercarle. È un percorso lungo, al di là del mare. Trova il luogo dove si sono accampati, ma sono tutti morti: arti mozzati, orbite vuote e occhi cavati, lasciati in pasto ai cor- vi. Dopo quella sciagura il fratello lo maledice: che non faccia mai più ritorno a casa, da coloro che sono stati traditi e abbandonati con tanta i- gnominia. Per il fratello più giovane, però, questa non è una novità. Non era mai stato voluto, e non avrebbe nemmeno dovuto sperare di poter cambiare il corso della propria esistenza. Suo fratello è l'eroe di ogni favo- la, ma lui è eternamente destinato al fallimento». «Che sciocchezze!» protestai, sentendomi così arrabbiata con lui da af- ferrarlo per le spalle e scuoterlo con una certa energia. «Sei tu che hai in- ventato questo finale, nessun altro. Ma sta a te decidere: le strade che si presentano al tuo eroe sono tante come i rami di un albero. E possono esse- re meravigliose, terribili, piane oppure tortuose. Si sfiorano, si dividono e si intrecciano; sei tu a scegliere il percorso. Guardami, Simon». Mi guardò battendo le palpebre una, due volte, e la luce della candela il- luminò i suoi occhi: erano di un morbido azzurro, come il cielo al mattino. E gelidi, per il disprezzo di sé. «Io credo in te», affermai con calma. «Sei un uomo coraggioso e leale, e nel profondo del cuore so che quella notte hai mantenuto il tuo segreto. Ho più fiducia in te di quanta non ne abbia tu stesso. Avresti potuto fare del male a me o a padre Brien, ma non l'hai mai fatto. E c'è un futuro che ti attende. Non vanificare il dono della guarigione, Simon. Siamo arrivati fin qui, perciò andiamo avanti». Rimase seduto a lungo in silenzio, tanto che feci in tempo a darmi una rassettata, a prendere dell'acqua e a preparare i bendaggi e le pomate per la medicazione. Infine parlò. «Vedo che sai essere molto convincente». «Hai fatto una promessa», dissi. «Ricordi? Perciò non puoi dire di no». «E per quanto tempo dovrei obbedire ai tuoi ordini?» chiese in tono se- mischerzoso. «Per anni e anni?». «Be'», risposi, «fin da piccola sono riuscita a tenere i miei fratelli in riga. Direi quindi il tempo necessario affinché anche tu ti abitui all'idea. E al- meno fino a che non ti sentirai meglio». Poi mi concentrai nuovamente sull'ingrato compito di lavare, medicare e bendare le ferite. Mentre fuori il cielo si oscurava, gli raccontai la favola della regina guerriera che aveva frotte di uomini ai suoi piedi, ma che non ne teneva mai uno a lungo; e Simon, che l'aveva già sentita più volte, fece commenti sarcastici sulle parti più sgradevoli della storia. Alla fine il compito fu por- tato a termine e il letto rassettato. Padre Brien entrò portando della mine- stra e del vino di sambuco. Quella sera, attorno alle nostre tre figure sedute tranquille accanto al fuoco e intente alla cena, regnò un'atmosfera di pro- fonda pace. Più tardi Simon si addormentò come un bambino, la guancia appoggiata su una mano. «Domani dovrò assentarmi per tutto il giorno», annunciò padre Brien. «Dovrò andare verso ovest, al villaggio, dove un confratello attende che gli consegni delle carte. E poi abbiamo bisogno di scorte. Non ti chiedo se pensi di farcela anche senza di me, dato che fino a ora te la sei cavata e- gregiamente. Farò comunque il possibile per essere di ritorno prima dell'imbrunire. Non voglio lasciarvi soli di notte». «Sta facendo progressi», dissi. «Tra un paio di lune sarà pronto per parti- re... ma per dove?». «Domani provvederà anche a quello», rispose padre Brien. «Credo che, all'ovest, i confratelli lo accoglieranno. Potrà restare con loro per un certo periodo, e quando si sentirà pronto lo accompagneranno sano e salvo a casa, ovunque essa sia». «Ma in che modo?» «Ne troveremo uno. Ma su una cosa hai ragione: non può assolutamente partire fintanto che continuerà a costituire un rischio per se stesso. E non può montare a cavallo, ma per quel periodo forse potrà sopportare i sob- balzi di un carro. Ti saprò dire di più domani sera». Come annunciato, partì il giorno seguente all'alba, approfittando di una schiarita tra uno scroscio di pioggia e l'altro. Quella notte Simon si era svegliato solo due volte, pertanto entrambi avevamo dormito meglio, e ora le sue guance apparivano un po' più rosee. Restammo sulla soglia a guar- dare il carro mentre arrancava lento sotto gli alberi. La mattina fu tranquilla. Scendeva una pioggerella leggera e intermitten- te, e di tanto in tanto un sole obliquo faceva capolino. Sembrava che il tempo non riuscisse a decidere se volgere al brutto o al bello. Mi raccolsi i capelli e mi accinsi a preparare una pomata a base di lavanda essiccata. Mentre Simon mi osservava, dosai olio e cera d'api. Più tardi dividemmo alcune mele verdi e una focaccia piuttosto dura. Era davvero ora di ricosti- tuire le nostre scorte, e mi chiesi se fosse avanzata farina sufficiente per infornare qualche pagnottella. Linn lo udì prima di noi. Rizzò le orecchie ed emise un ringhio profon- do. La fissai. Dall'esterno non proveniva alcun suono. Poi, nel giro di un istante, il messaggio silenzioso balenò nella mia mente, chiaro e impellen- te. Nascondilo, Sorha, presto. Non ci fu tempo per discutere. Afferrai Simon per il braccio. «Sta arrivando qualcuno», dissi, «vai alla capanna, presto. Entra e spranga la porta». «Ma...». «Non discutere. Fai come ti dico. E non farti vedere per nessun motivo! Ti prego, Simon!». Mi fissò per un istante; dovevo essere sbiancata in volto, e questo perché il messaggio di Finbar aveva un'estrema urgenza. Linn abbaiò una, due volte, poi uscì e seguì il sentiero, la coda che le ondeggiava dietro come uno stendardo. «Fai presto!» esclamai, quasi trascinando il riluttante Simon attraverso la radura fino alla capanna e sospingendolo all'interno. Ora lo udivamo en- trambi: un rumore di zoccoli di più cavalli al galoppo, che si avvicinavano veloci su per il sentiero. «Non farti vedere. Qua potrai stare al sicuro fino a che non se ne saranno andati». «E se...». «Chiudi la porta! Svelto!». Sperando che avesse il buonsenso di ubbi- dirmi, lo lasciai e rientrai di corsa nella grotta mentre i miei piedi tentava- no di confondere le due serie di orme stampate nel fango. Mi buttai all'interno col cuore martellante appena in tempo, poiché subi- «Vai pure avanti, Liam», suggerì Finbar. «Aiuto Sorha a raccogliere le sue cose. Poi la porterò io a casa». «Sei sicuro?». Liam era impaziente di avviarsi, e stava già indossando il mantello. «Non metterci troppo, però. Ci sono molte cose da fare. Andia- mo, Cormack, quel tuo stupido cane sarà contento di tornare a casa». Linn, però, parve smentirlo. Non appena i due furono balzati in sella prese a trotterellare con entusiasmo attorno al cavallo di Cormack. Ma quando si misero in marcia lungo il sentiero, l'irrevocabilità di quell'atto parve lasciarla interdetta. Allora si fermò, e con passo misurato tornò da noi. Si guardò attorno esitante, fiutando. In quella la pioggia riprese a scro- sciare. «Linn! Vieni!» la chiamò Cormack trattenendo il cavallo nel punto in cui il sentiero si immetteva nella foresta. «Vieni!». L'animale si voltò e a passi lenti si portò verso di lui; poi si fermò e guardò indietro un'altra volta. «Vai, Linn», esortai, ricacciando indietro lacrime di dispiacere per lei, per me e per Simon. «Vai a casa!». Cormack fischiò, e questa volta Linn andò da lui con un passo privo di ogni baldanza. Sparirono tra gli alberi. «Spicciati», disse Finbar. «Io raccolgo tutto, tu vai a parlargli. Poi par- tiamo». Non gli chiesi quando sarei potuta tornare indietro; tutto pareva avere un tremendo alone di irrevocabilità. In silenzio gli indicai il fagotto, la mantella, i vasetti e i barattoli. Poi corsi fuori, sotto la pioggia, e rag- giunsi la porta della capanna, che era sbarrata dall'interno. Fedele alla pa- rola data, aveva fatto quanto chiesto. «Simon!» lo chiamai gridando, per sovrastare il rumore della pioggia. «Sono io, fammi entrare!» Doveva aver colto nella mia voce una nota di disperata angoscia, che e- videntemente valse a vincere ogni riserva. Il catenaccio fu ritratto, e in un attimo la porta aperta. Teneva in mano il coltello, ma non accennò a toc- carmi; e mentre mi precipitavo all'interno e sbattevo la porta dietro di me, lui retrocesse fino in fondo alla stanza. Non c'era possibilità di dargli la notizia con i dovuti modi. «Devo partire, subito. Mi dispiace, non volevo che succedesse. Ma i miei fratelli mi stanno aspettando.» Posò su di me uno sguardo assente. «Non sarebbe ancora il momento, lo so, ma non ho scelta. Padre Brien tornerà questa sera e si prenderà cura di te proprio come ho fatto io fino- ra...» spiegai parlando come una furia, il mio turbamento del tutto eviden- te. Simon posò il coltello sul tavolo. La sua voce era appena udibile. «Avevi promesso», proferì. Io non ebbi cuore di guardarlo. «Non ho scelta», ripetei, e questa volta le lacrime presero a sgorgare. Le asciugai con un gesto rabbioso. Piangere non avrebbe aiutato nessuno dei due. Ma già pensavo alle lunghe notti che aveva davanti e non osai solle- vare lo sguardo per paura di vedere lo sgomento tornare nei suoi occhi. Rimase zitto e fermo; di lì a poco udii Finbar chiamarmi dall'esterno: «Sorha! Sei pronta?». La mano di Simon corse verso il coltello ma io fui più veloce e lo affer- rai per il polso. «Non posso mantenere la mia promessa», dissi con voce tremante, «ma tu mantieni la tua. Cerca di resistere, per oggi, e poi lascia che sia padre Brien ad aiutarti. Fai finire la favola come avrei voluto io. Questo me lo devi, se non altro. Ho fiducia in te, Simon. Non deludermi». Lasciai andare il polso ed egli prese il coltello, portandolo così vicino al mio viso che fui costretta ad alzare lo sguardo. Gli occhi del colore dei fiordalisi guardavano dritti nei miei, e in essi si leggeva un'asprezza che già mi annunciava l'inizio dei suoi incubi. La sua faccia era pallida come un cencio. «Non lasciarmi», sussurrò come fosse un bambino impaurito dal buio. «Devo farlo». Furono le parole più difficili che mi fosse mai toccato di pronunciare. «Sorha!» chiamò di nuovo Finbar. Vi fu un movimento fulmineo della lama, e tra le dita di Simon apparve una ciocca dei miei capelli ricci. Con l'altra mano mi offrì il coltello, dalla parte dell'impugnatura. «Prendi», disse. Poi mi volse la schiena, e attese. Io aprii la porta e uscii nella pioggia. Lady Oonagh. Sentii la sua presenza ancor prima di vederla. La percepii nel silenzio di Finbar mentre cavalcavamo verso casa sotto il cielo tempe- stoso. La riconobbi dal vento freddo che sferzava i rami degli alberi pie- gandoli alla sua furia, dalla turbolenza tumultuosa delle acque del lago, dalle grida di un gabbiano importunato nel suo volo dagli aghi di gelido nevischio. La sentii nella pesantezza del mio cuore, ad ogni passo. Lei era lì, e la sua mano si stendeva su tutti noi. Sapevo che eravamo in pericolo. Ma nemmeno quella precognizione valse a farmi arrivare preparata. Finbar mi fece smontare nel cortile e si diresse alle scuderie per accudire il cavallo, un compito a cui i ragazzi provvedevano sempre personalmente. Era bello essere a casa, finalmente. Non vedevo l'ora di scivolare in silen- zio nelle mie stanze o in cucina: dell'acqua calda, un bel fuoco e dei vestiti asciutti era tutto ciò che desideravo in quel momento, oltre a un po' di tempo per me sola. Le porte però vennero spalancate e in un istante mi ritrovai nel salone, il mantello gocciolante e gli stivali che lasciavano una serie di impronte di fango. Anche mio padre si trovava lì, ma tutto ciò che mi riuscì di vedere fu lei, la promessa sposa, Lady Oonagh. Era bella. Cormack aveva ragione. I suoi capelli erano una massa color rosso scuro, la carnagione bianca come latte appena munto. Erano gli oc- chi, però, a tradirla. Quando guardava mio padre con suadente dolcezza, erano innocenti e amorevoli. Ma se si riusciva a penetrarne le oscure pro- fondità, come io riuscivo a fare, ciò che vi si vedeva lasciava sgomenti. Il messaggio che mi inviarono era chiaro: ora sono qui. Non c'è posto per te. La sua voce aveva il suono di mille campanelli. «Tua figlia, Colum? Oh, che tesoro! Come ti chiami, cara?» Rimasi muta a fissarla, mentre un velo di vapore si levava dai miei abiti. «Sorha, ma guarda come sei conciata!» sbottò papà in tono brusco. «Mi disonori presentandoti davanti a tua madre così in disordine. Ora va', datti una rassettata e poi torna. Mi fai sfigurare». Lo fissai. Mia madre? Fu Lady Oonagh a rompere quel silenzio carico di disagio con uno scro- scio di risa. «Che assurdità, Colum. Sei troppo severo con questa bambina. Guarda come l'hai mortificata! Vieni, mia cara, levati di dosso questi vesti- ti bagnati e scaldati vicino al fuoco. Dove sei stata per ridurti così? Colum, non posso credere che tu lasci andare in giro da sola una ragazzina come questa... il freddo potrebbe farla ammalare seriamente. Così va meglio, piccolina... ma tu stai tremando. Dopo parleremo un po' da sole... e ho por- tato alcune cose carine; vedrai, sarà bello scegliere qualcosa che potrai indossare il giorno del matrimonio. Verde, credo. Temo che il tuo guarda- roba sia stato molto trascurato». I suoi occhi scrutatori percorsero il mio vestito tessuto in casa e la sopravveste consunta e chiazzata da una miriade di macchie: tintura di drupa di sambuco, olio di rosmarino. E sangue. Aprii la bocca per parlare, ma le parole mi rimasero in gola. Sentii un'e- norme spossatezza impadronirsi di me. Mi sfuggi uno sbadiglio e sentii le dimostrava sempre più soggiogato dalla malia di Lady Oonagh. Non vole- va saperne di ascoltare opinioni negative sul suo conto e le scodinzolava attorno tutto il giorno, perlomeno quando lei lo ammetteva alla sua presen- za. Era impossibile indurlo a un qualsiasi ragionamento di senso compiuto. Come dissi a Finbar, sembrava che fosse stato stregato dal piccolo popolo. «No», era stata la risposta di Finbar, «non fino a quel punto, ma poco ci manca. Il suo atteggiamento è più simile a quello di un uomo colpito dall'incantesimo, che vede la regina sotto la collina e brama per averla pur sapendo che è impossibile, a meno che non sia lei a volerlo. Può tenere un uomo a struggersi per lei anche per molto tempo, fino a che la faccia di lui si copre di rughe e il suo passo perde ogni baldanza». «Ho già sentito storie come questa», risposi. «E poi ne sputa i resti come semi di una mela nel momento in cui lui perde ogni sapore». Cormack e Padriac evitavano qualsiasi problema tenendosi alla larga. Quando si chiedeva di loro, si scopriva invariabilmente che uno era uscito a cavallo, o era andato a esercitarsi con l'arco, e che l'altro era occupato nel fienile o nei campi. Finbar, invece, non giustificava mai le proprie assenze. Non lo si trovava e tanto bastava. A Lady Oonagh piaceva convocarci a qualsiasi ora e, benché i suoi modi fossero sempre amabili e cordiali, era chiaro che omettere di presentarsi sarebbe stato fortemente disapprovato. Ma, dato che ogni suo desiderio era un ordine per papà, questi badava bene a che tutti facessero lo stesso. Tuttavia con lui era più cauta che con l'inge- nuo e compiacente Diarmid. Lord Colum poteva avere il suo carattere, ma non era certo un sempliciotto. E, soprattutto, non erano ancora sposati. Mancavano pochi giorni al matrimonio. Seamus Redbeard e sua figlia stavano per arrivare, e mi capitò di udire Liam dare disposizioni affinché a Eilis e alla sua dama di compagnia fossero assegnate le camere da letto più distanti possibile da quella di Lady Oonagh. Invece di apparire felice per il fatto di rivedere la fidanzata così presto, mio fratello maggiore era cupo e silenzioso. Tentò numerose volte di conferire in privato con papà; Lady Oonagh, in quei casi, li invitava ad appartarsi con quella sua risata squil- lante, al che papà dichiarava in tono burbero che qualsiasi cosa Liam aves- se da dire poteva farlo davanti alla sua futura moglie, poiché tra loro non esistevano segreti. Io desideravo parlare con Conor, ma sembrava sempre impegnato. Gran parte degli ordini per i preparativi era sotto la sua responsabilità e tra la supervisione delle cucine, l'arieggiatura della biancheria e gli ultimi ritoc- chi per approntare scuderie e cortili, il tempo che restava era ben poco. Riuscii a raggiungerlo per qualche istante la seconda sera, dopo cena, pri- ma di andare a letto, in un angolo poco illuminato della scalinata. Era un buon punto di osservazione, con poca eco, e per un volta non c'era nessuno che ci girava intorno. Guardai mio fratello con occhi nuovi, immaginando- lo con indosso una tunica bianca da druido, i capelli lucenti intrecciati e legati con una cordicella colorata, come facevano i grandi saggi. I suoi occhi erano sereni e lo sguardo lungimirante, due caratteristiche che diffi- cilmente comparivano sul viso del gemello, dato che Cormack era un uo- mo d'azione che viveva alla giornata. «Sto mandando a chiamare padre Brien, Sorha», annunciò con gravità. «Pensi che verrà?». Annuii. «Se si tratta di un giorno soltanto, per officiare la cerimonia, al- lora verrà. Chi pensi di mandare?». Mi guardò e lesse in fondo ai miei occhi la tacita richiesta. «Finbar, cre- do. Sempre che lo si riesca a trovare. Non vedo nessuna possibilità di farti tornare là, Sorha. Lei ti sta osservando attentamente. Devi stare molto at- tenta». «Lo senti anche tu, allora?». Un gelo improvviso mi colse; sollevai lo sguardo sul viso pallido di mio fratello. Era calmo come sempre, ma il suo disagio era evidente. Annuì. «Tiene sotto controllo quelli di noi che rappresentano la minaccia più grave, e ci studia attentamente. Da Diarmid e Cormack, poveri sempliciot- ti, non ha niente da temere, né vede alcuna minaccia in Padriac, giovane com'è. Ma io, te e Finbar... forse abbiamo abbastanza forza, se ci uniamo, per opporre resistenza. E questo non le piace.» «E Liam?» Conor sospirò. «Ha tentato di esercitare il suo fascino anche su di lui, puoi starne certa. Ma deve aver subito scoperto che lui è fatto di un'altra pasta. Liam la combatte a suo modo. Se riuscisse a parlare con papà, po- trebbe metterlo in guarda ed essere ascoltato. Ma anche lui ha i suoi punti deboli. Non mi piace affatto il modo in cui stanno andando le cose, Sorha. Sarebbe stato meglio se tu fossi rimasta lontana». «L'avrei preferito anch'io», risposi, pensando all'opera lasciata in sospe- so. Comunque, se non altro, sarebbe arrivato padre Brien, così avrei avuto notizie di Simon. «Sorha». Di nuovo sollevai su di lui lo sguardo. Stava lottando con la sua coscien- za per decidere fino a quale punto poteva rivelarmi la realtà dei fatti senza spaventarmi. «Cosa c'è?». «Devi stare molto attenta», disse lentamente. «Si sposeranno, su questo non c'è dubbio. Ora non fa più molta differenza che riusciamo a parlare con papà prima di quel giorno o meno. Lady Oonagh non fa una mossa falsa; gli direbbe che i nostri timori si fondano su fantasie, sull'avversione al cambiamento o sull'ignoranza. Una volta stabilito il suo potere su di te, ogni possibilità di vedere il suo vero io è persa. Ti seduce con la sua malia, e chi è debole o vulnerabile non ha scampo». «E quando saranno sposati?» Le labbra di Conor si contrassero. «Forse allora riusciremo a scoprire le sue vere intenzioni. Se potessi mandarti via prima di allora, lo farei molto volentieri, credimi. Ma papà è ancora il capo di questa famiglia e una ri- chiesta del genere, così a ridosso delle nozze, desterebbe troppi sospetti. Ti guarderò le spalle il più possibile, e così farà Liam. Tu però devi stare in guardia. E in quanto a Finbar...». «Ma chi è lei, Conor? Chi è?». La recente scoperta delle conoscenze di Conor mi diceva che se c'era qualcuno al mondo che poteva rispondere alla mia domanda, allora quello era lui. «Non te lo so dire. Né saprei dirti per quale motivo sta ordendo tutto questo. Per quanto sia difficile, non ci resta che aspettare. Il disegno che sta dietro alle sue azioni potrebbe essere così esteso e complesso che solo il trascorrere del tempo ce lo potrà rivelare. Comunque, è troppo tardi per impedire il matrimonio. E ora, mio piccolo gufo, sparisci... a giudicare dalla faccia hai bisogno di una buona notte di sonno. Come sta lui?» Nonostante avesse cambiato improvvisamente argomento, sapevo bene a chi si riferiva. «Era in via di guarigione, ma ho dovuto abbandonarlo. Pensi che anche quello possa far parte del piano di Lady Oonagh?» «Non credo possa averlo saputo. Non aggiungere anche questo cruccio alle preoccupazioni che hai già. Da quanto mi dici avete fatto buoni pro- gressi, e ora forse può contribuire lui stesso alla propria guarigione, con l'aiuto di padre Brien. E ci sono altri che possono portalo in salvo. Riguar- do a te, direi che è arrivato il momento di prenderti una pausa e di pensare un po' a te stessa. E ora a letto!» Il giorno successivo un pallido sole filtrava tra le onnipresenti nuvole, così decisi di mettermi al lavoro in giardino, determinata a fare ammenda per averlo trascurato tanto a lungo. Mi legai i capelli con una striscia di
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