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DIRITTO COMMERCIALE-LA FIGURA DEL CURATORE E DEL PICCOLO IMPRENDITORE, Tesi di laurea di Diritto Commerciale

LA FIGURA DEL CURATORE E DEL PICCOLO IMPRENDITORE, CARATTERISTICHE ELEMENTI E COMPARAZIONI

Tipologia: Tesi di laurea

2021/2022

In vendita dal 15/04/2022

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Scarica DIRITTO COMMERCIALE-LA FIGURA DEL CURATORE E DEL PICCOLO IMPRENDITORE e più Tesi di laurea in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! Capitolo 1 Le novità nella definizione di imprenditore agricolo 1 La storia economica dell’agricoltura L’agricoltura ha da sempre occupato un ruolo primario all’interno del sistema economico e lo stesso processo di sviluppo della civiltà umana è profondamente legato ad essa che da sempre ha avuto un profondo impatto dal punto di vista sociale ed economico. L’uomo per migliaia di anni ha vissuto da nomade procurandosi cibo grazie a caccia, pesca ed alla raccolta di frutti e piante selvatiche. Il passaggio dalla cosìddetta economia predatoria a quella di produzione agricola risale al neolitico e le tecniche di coltivazione della terra hanno avuto notevoli cambiamenti nel XVIII secolo parallelamente alla rivoluzione industriale. Lo sviluppo dell’agricoltura ebbe luogo nella “Mezzaluna fertile” e poco dopo, presumibilmente in contemporanea in diverse aree del mondo, nel Centro- America e nel Sud-Est asiatico. Da queste zone poi si diffuse in tutto il mondo accompagnata dal “nuovo stile di vita” stanziale invece che nomade. L’agricoltura e l’allevamento degli animali permisero all’uomo di creare comunità più stabili e grandi. Dalla Mesopotamia si diffuse in Europa, prima in Grecia e poi attraverso il Danubio e il Mediterraneo anche nei Balcani, in Italia, Francia, Germania ed Ungheria. Le prime comunità agricole che si sostituirono a quelle di cacciatori si svilupparono in Europa tra il 4500 e il 2000 a.C. Oltre agli aspetti legati al cibo, la produzione agricola e gli allevamenti portarono anche ad altri vantaggi come la produzione di tessuti, vestiti, reti o corde, ma soprattutto all’utilizzo della forza e dell’energia animale per arare i campi ed azionare le macine. Inizialmente non si realizzarono forti cambiamenti nelle procedure agricole. Nell'età medievale una prima rivoluzione agricola aveva interessato l'Europa nel lungo arco di tempo che va dall'VIII al XIII secolo, furono utilizzate innovazioni come la rotazione agraria, vale a dire l’alternanza fra coltivazione e incolto, l’aratro pesante, il mulino a vento o ad acqua. Fu a partire dal XVIII secolo l’agricoltura subì una forte evoluzione sia nel tipo di produzione che nell’innovazione, tale da configurarsi come la prima grande rivoluzione economica nella storia dell’uomo. La rivoluzione agricola rese possibile ampliare la produzione, in termini di quantità e di valore di mercato, non attraverso l'aumento dei suoi fattori (terra e lavoro), ma attraverso l'aumento dei rendimenti della terra e della produttività del lavoro. Vennero scoperti strumenti e tecniche che permisero di aumentare il volume fisico e la varietà di cibo a disposizione. Contemporaneamente,a causa dello sviluppo industriale, il settore agricolo vide da una lato ridurre il suo ruolo principale nello scenario economico , dall’altro un’evoluzione dello stesso settore grazie all’utilizzo di nuove tecnologie. Si passò dallo sfruttamento di energie facilmente accessibili in natura ( oggi definite rinnovabili) a quelle dei combustibili fossili ( oggi definite fonti di energia tradizionale), l’utilizzo, quindi, delle macchine a vapore e l’automatizzazione delle produzioni. Le innovazioni avutesi in tale settore realizzando tecniche sempre più moderne hanno consentito di accantonare la centralità dell’elemento fondiario, e quindi del “collegamento con il fondo”, a favore della teoria del “ciclo biologico”, in quanto, oggi, è possibile ottenere prodotti agricoli prescindendo dallo sfruttamento della terra. Basti considerare le colture effettuate in ambienti artificiali senza legami con il fondo. Queste considerazioni e i dibattiti dottrinali avutisi su tali argomenti hanno portato a cambiamenti nella legislazione relativa alla fattispecie dell’imprenditore agricolo, in modo da superare i dubbi di interpretazione originati dalle innovazioni tecnologiche raggiunte. In virtù di tali considerazioni è stata delineata la nuova normativa relativamente alla figura dell’imprenditore agricolo. 2. Definizione di imprenditore agricolo La definizione di imprenditore agricolo deve essere contestualizzata in quella più ampia di imprenditore in generale. L’art. 2082 del Codice civile recita: “ è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”. Le caratteristiche necessarie alla definizione di imprenditore sono : • impresa: attività, nel senso di serie di atti, aventi uno scopo comune; • attività produttiva: una serie coordinata di atti finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. L'attività non deve essere di mero godimento di beni preesistenti; tuttavia, è irrilevante che l'attività produttiva rappresenti anche godimento di beni preesistenti. • organizzazione, cioè impiego e coordinazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro, siano essi propri o altrui. La nozione di organizzazione è ripresa anche nel 2555cc, che dà la definizione di azienda. • economicità : tale caratteristica è richiesta in aggiunta allo scopo produttivo. L'attività produttiva deve essere condotta con metodo economico, secondo modalità che consentano quantomeno la copertura dei costi con i ricavi. • professionalità: l’attività è svolta in modo abituale, non saltuario. Il concetto di imprenditore agricolo è , invece, contenuto nell’art. 2135 cc , composto oggi da tre commi differentemente dalla precedente normativa : “ E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o capitale, principalmente un fattore di produzione in quanto offre la sede per ogni attività umana fornendo una grande quantità di beni alimentari e di energie naturali. Il legislatore nell’art. 2135 per ciò che riguarda la coltivazione del fondo, oltre a farla rientrare tra le attività agricole essenziali, ha recepito la teoria del ciclo biologico, nel senso che ineriscono all’agricoltura le attività volte alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Per essere definita agricola un'attività può riguardare anche una sola fase del ciclo di produzione, quando cioè si realizza un incremento quali-quantitativo dello sviluppo vegetativo del prodotto. Questo comporta che, con riguardo all’attività di coltivazione del fondo, viene superata la precedente nozione che la individuava come il complesso unico e inscindibile del ciclo dei lavori svolti dall’agricoltore per conseguire i prodotti immediati e diretti della terra. Oggi il fondo pur essendo considerato uno straordinario ed importantissimo laboratorio naturale, in grado di fornire i supporti chimici indispensabili per assicurare lo sviluppo delle piante oltre che l'alimentazione degli animali non viene più considerato elemento qualificante dell’agrarietà. Per ciò che concerne la semplice raccolta di frutti nati dal suolo spontaneamente non rientra nella fattispecie delle attività considerate agricole dall’imprenditore; in quanto si è in presenza dell’esclusivo atto finale della coltivazione e non tutti gli atti precedenti che permettono al ciclo biologico o a fasi di esso di realizzarsi, pertanto tale attività è da considerarsi industriale- commerciale. Sempre di natura industriale-commerciale è configurata l’attività di bonifica del suolo realizzata da un soggetto diverso dall’agricoltore. 2.2.2 La selvicoltura Con il termine selvicoltura si intendono le attività di coltivazione del bosco; in particolare essa consiste in interventi volti all’impianto, riproduzione, conservazione e sfruttamento razionale dei boschi al fine della produzione di legname. Non è considerata attività agricola il mero disboscamento poiché, non avendo cura della conservazione della produttività del bosco, non possono essere considerate attività derivante dall'esercizio di impresa agricola. Mentre è da considerare agricola la raccolta di legno effettuata dallo stesso silvicoltore al fine di fornire materiale utile alla lavorazione industriale o artigianale o destinato alla combustione, oppure una prima lavorazione della stessa destinata, ad esempio, ad ottenere pali o traversine ferroviarie. Il decreto legislativo n. 227/2001, in materia di orientamento e modernizzazione del settore forestale, ha stabilito che i termini bosco, foresta e selva sono equiparati. Pertanto, l'attività di selvicoltura può essere riferita anche alla foresta e alla selva. L’art. 2 del precedente decreto ha rinviato alle singole regioni la definizione puntuale di bosco, selva, foresta avendo riguardo : a) ai valori minimi di larghezza, estensione e copertura necessari affinchè un’area sia considerata bosco; b) alle dimensioni di radura e dei vuoti che interrompono la continuità del bosco; c) alle fattispecie che per la loro particolare natura non sono da considerarsi bosco. Inoltre tale disciplina prevede che sono assimilati al bosco: a) “i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell'aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell'ambiente in generale; b) le aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva a causa di utilizzazioni forestali, avversità biotiche o abiotiche, eventi accidentali, incendi; c) le radure e tutte le altre superfici d'estensione inferiore a 2000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco”. 2.2.3 L’allevamento di animali La recente disciplina in tema di imprenditore agricolo così come modificata dal d.lgs. n. 228/2001, ha riformulato l'art. 2135 c.c, utilizzando il termine “allevamento di animali” invece di “allevamento di bestiame”. Tale cambiamento riguarda diversi aspetti, non è puramente terminologico. Il legislatore utilizzando il termine più ampio di animali al posto di bestiame ha voluto includere tra le attività agricole essenziali l’allevamento di ogni organismo vivente, che non appartenga al genere umano o vegetale, indipendentemente dalla sua diretta connessione con la coltivazione del fondo e dalla circostanza che i prodotti dell’allevamento siano ottenuti da animali prodotti dallo stesso allevatore o da animali acquistati presso terzi e messi in produzione nell’impresa agricola . In base a tale definizione è considerato imprenditore agricolo chiunque curi lo sviluppo del ciclo biologico dell'essere animale anche nel caso in cui limiti la propria attività ad una o alcune delle fasi o degli stadi attraverso i quali si svolge e si completa il ciclo stesso. Con la nuova disciplina è stato possibile superare il dibattito dottrinale e giurisprudenziale legato al concetto tradizionale di allevamento secondo la “vecchia” nozione codicistica. Pertanto sono ricompresi nella qualifica di impresa agricola non solo l'allevamento degli animali da carne, da lavoro, da latte e da lana, ma anche gli allevamenti avicoli, di conigli, di api e di equini.. Inoltre il nuovo articolo 2135 prevede che l'attività agricola non deve comprendere l'intero ciclo produttivo, ma una fase apprezzabile di esso, per questo non è necessario che l’attività riguardi il periodo dalla nascita a quando l’animale sia idoneo ad essere utilizzato come carne; l’importante che riguardi anche una sola fase del ciclo biologico (es. nascita o sviluppo). La semplice fase di stazionamento, prima dell’uccisione, alla luce della vigente normativa, non può essere utile a configurare attività come impresa agricola in quanto non riguarda nessuna fase del ciclo biologico, mentre quella dell’ingrasso è tra le fasi necessarie allo sviluppo dell’animale. Infine è stato superato il concetto che l'attività di allevamento debba riferirsi ad animali nati in azienda alla cui alimentazione si provveda con mangimi ottenuti sul fondo. Infatti il legislatore non ha imposto interdipendenza o connessione tra coltivazione del fondo e allevamento di animali. La vigente formulazione dell’articolo 2135, nell’individuare l’allevamento di animali come attività agricola, non presuppone più la condizione che il risultato dell’allevamento sia destinato all’alimentazione; partendo da tale concetto, trae la logica conclusione che l’allevamento di qualunque specie di animali, le cui finalità non siano solo quelle dell’alimentazione, si può classificare come rientrante fra le attività agricole a titolo principale. Tale definizione è valida solamente per la disciplina civilistica. 2.2.4 Attività connesse La disciplina dell’impresa agricola, nell’art. 2135, prevede due tipi di attività connesse: quelle considerate connesse per presunzione di legge e quelle la cui connessione deve essere dimostrata dal soggetto che le pone in essere. La nuova normativa riprende lo schema di quella precedente che distingueva tra attività connesse "tipiche" (cioè quelle riguardanti la vendita, la trasformazione, la manipolazione, la conservazione, la valorizzazione del prodotto agricolo), e le attività connesse atipiche, che dovevano essere collegate o comunque complementari, sul piano funzionale ed economico, a quelle considerate agrarie (la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l'allevamento del bestiame), ma introduce novità sostanziali. Sono considerate attività tipicamente connesse quelle svolte dallo stesso imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, che abbiano a oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, o del bosco, o dall'allevamento di animali; le attività dirette alla fornitura di beni e servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata; le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale; le attività di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Le attività connesse devono, dunque, essere collegate funzionalmente alle attività agricole principali in modo da costituirne la naturale integrazione. Nella normativa attuale sono riconfermati i due principi, soggettivo e oggettivo, caratterizzanti le attività agricole connesse secondo la precedente disciplina. Secondo il criterio soggettivo occorre che sia lo stesso soggetto a dover svolgere l'attività principale e l'attività accessoria e collaterale (connessa). Il criterio oggettivo, invece, implica che l'attività collaterale (connessa) debba essere inserita nell'organizzazione creata per lo svolgimento dell'attività principale, in modo che le attrezzature di tale organizzazione unitaria vengano utilizzate nello svolgimento dell’attività connessa. E’, inoltre, introdotto il carattere della prevalenza che nel caso in cui si tratti di attività aventi ad oggetto la commercializzazione, la trasformazione, la manipolazione, la conservazione, e la valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall'allevamento degli animali, implica un giudizio comparativo, in termini quantitativi e qualitativi, tra i prodotti ottenuti con l'esercizio delle attività essenzialmente agricole e quelli, merceologicamente dello stesso genere, acquistati da terzi sul mercato nell'esercizio delle attività considerate agricole per connessione. Tale indicazione si traduce in un giudizio che si esprime in termini di superiorità numerica per la determinazione delle quantità dei prodotti oggetto delle attività connesse. La nuova disposizione prevede che le attività di trasformazione e simili possono avere a oggetto anche prodotti acquistati da terzi, purché risultino prevalenti i prodotti propri, ovvero i prodotti acquistati all’esterno possono raggiungere il 49 % aggiungendo, poi, il restante 51% prodotto da attività agricole tipiche. Mentre nel caso in cui si tratti della fornitura da parte dell'imprenditore agricolo di beni o servizi attraverso l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'esercizio delle attività agricole principali, il criterio della prevalenza, temperato dal criterio della normalità, coinvolge profili diversi: organizzativo, funzionale e dimensionale dell'attività esercitata. La valutazione del criterio della prevalenza va effettuata in relazione all'importanza che il momento organizzativo assume in relazione all'esercizio delle attività aventi ad oggetto la fornitura di beni e servizi.La nuova disposizione prevede che le attività di trasformazione e simili possono avere a oggetto anche prodotti acquistati da terzi, purché risultino prevalenti i prodotti propri. Oltre alle attività tipicamente connesse ex lege sussistono le attività agricole atipiche, ove bisogna dimostrare la connessione con l’attività principale (come nelle attività di bachicoltura, di monta taurina,ecc.). In dottrina e in giurisprudenza si sono ricercati atti a dimostrare la connessione, si sono considerati la prevalenza, la normalità, l’autonomia, ma l’unico criterio voluto dal legislatore è la “connessione”. Le attività connesse, quindi, non si esauriscono a quelle indicate nel comma 3 dell'art. 2135 c.c poiché l'avverbio <<comunque>> contenuto nel terzo comma, accentua la relazione tra l'elenco delle attività agricole principali e quello delle attività connesse ed inoltre induce a ritenere che l'elenco previsto dalla norma in esame non sia tassativo e possa perciò essere integrato da altre attività che potrebbero risultare connesse pagamento dell’imposta nella misura fissa. Capitolo 2 Adempimenti amministrativi e fiscali 1 Costituzione impresa agricola L’imprenditore agricolo gode di un trattamento di favore rispetto all’imprenditore commerciale. Trattamento di favore che è poi accentuato dalla legislazione speciale (nazionale e comunitaria) attraverso una serie di incentivi e di agevolazioni volti a promuovere lo sviluppo di tale settore fondamentale dell’economia. Nel momento della costituzione di un’impresa agricola gli adempimenti necessari sono: - apertura di una partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate della Provincia di residenza e dichiarazione di inizio attività; - se si prevede di realizzare un volume di affari superiore a 7.000€ è obbligatorio l’iscrizione al Registro delle imprese della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura della provincia in cui l’impresa ha la propria sede, sezione imprenditori agricoli o piccoli imprenditori- coltivatori diretti entro 30 giorni dalla data di effettivo inizio attività. 1.1 Dichiarazione di inizio attività Ai sensi dell’art. 35 del DPR 633/1972, il soggetto che voglia intraprendere attività d’impresa è tenuto a trasmettere telematicamente, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, la dichiarazione fiscale di inizio attività all’Agenzia delle Entrate. L’Amministrazione finanziaria, una volta ricevuta la dichiarazione, provvederà a trasmettere al soggetto interessato o suo intermediario il numero di partita Iva. La trasmissione della dichiarazione avviene tramite la Comunicazione Unica, nel caso in cui il soggetto sia tenuto all’iscrizione al REA ed al Registro delle Imprese; diversamente il contribuente dovrà trasmettere la dichiarazione in via autonoma. Dalla dichiarazione fiscale di inizio attività devono risultare: • per le persone fisiche: cognome, nome, luogo di nascita, codice fiscale, residenza, domicilio fiscale ed eventuale denominazione della ditta; • per i soggetti diversi dalle persone fisiche: natura giuridica, denominazione, ragione sociale o ditta, sede legale o in mancanza quella amministrativa, domicilio fiscale e codice fiscale per almeno una delle persone che ne hanno la rappresentanza; • per i soggetti residenti all’estero: oltre alle informazioni di cui sopra, l’ubicazione della stabile organizzazione; • il tipo e l’oggetto di attività e il luogo o i luoghi in cui viene esercitata anche a mezzo di sedi secondarie, filiali, stabilimenti, succursali, negozi, depositi e simili, il luogo o i luoghi in cui sono tenuti e conservati i libri, i registri, le scritture e i documenti prescritti dalla normativa sull’Imposta sul Valore Aggiunto e da altre disposizioni; • l’eventuale opzione per i regimi fiscali agevolati; • per i soggetti che svolgono attività di commercio elettronico: l’indirizzo del sito web e i dati identificativi dell’internet service provider; • ogni altro elemento richiesto dal modello ad esclusione dei dati che l’Agenzia delle Entrate è in grado di acquisire autonomamente. 1.2 Iscrizione nel Registro delle Imprese L’art. 2 del D.lgs n.228 del 2001 recita:“l'iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all'articolo 2188 e seguenti del codice civile, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l'efficacia di cui all'articolo 2193 del codice civile”. Tale normativa incide profondamente sul disposto dell’art.2136 c.c. Per comprendere tale difformità è necessario ripercorrere rapidamente le tappe della legislazione che ha dato attuazione all’art. 2188 c.c. determinando la c.d. riforma del registro delle imprese. L’entrata in vigore della l. 29 dicembre 1993, n.280 che introduce la nuova disciplina del Registro delle imprese pone fine al regime di totale esenzione dall’iscrizione nel registro delle imprese dettato dall’art. 2136 c.c. Con la nuova disciplina del registro delle imprese, infatti, l’iscrizione viene imposta, seppure per diversi fini, anche agli imprenditori agricoli individuali ed ai piccoli imprenditori, così determinandosi un affievolimento della originaria distinzione tra imprese soggette a registrazione ed imprese sottratte a tale obbligo in quanto la imposizione dell’iscrizione (sia pure con diversa efficacia) per tutti i tipi di impresa abolisce la seconda delle due categorie o comunque ne riduce sensibilmente la peculiarità. Ai sensi dell’art.8 che disciplina ex novo la materia, sia pure mediante l’istituzione di “sezioni speciali” del registro, è prevista la iscrizione anche degli imprenditori agricoli, dei piccoli imprenditori e delle società semplici nonché delle imprese artigiane iscritte negli albi di cui alla l.8 agosto 1985, n. 443, con la precisazione che tale iscrizione “ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre che agli effetti previsti dalle leggi speciali”. Successivamente, l’art.2 del DPR 14 dicembre 1999, n.558, in un’ottica di maggiore semplificazione del procedimento pubblicitario, dispone l’unificazione delle sezioni speciali in una sola sezione, salva restando la qualificazione dei soggetti iscritti. L’unificazione delle sezioni speciali da un lato accomuna sotto il profilo dell’iscrizione le citate categorie imprenditoriali in un’ottica di semplificazione delle procedure dall’altro elimina le distinzioni esistenti sul piano formale e, conseguentemente, anche degli effetti della registrazione. Infatti, ai sensi dell’art.2 del decreto legislativo n.228 del 2001 l'iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all'articolo 2188 e seguenti del codice civile, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, acquista l'efficacia di cui all'articolo 2193 del codice civile; in tal modo per gli imprenditori agricoli (siano essi o meno piccoli ovvero svolgano l’attività in modo collettivo) l’iscrizione non produce più soltanto gli effetti della pubblicità notizia ma anche quelli della pubblicità dichiarativa disposti dall’art. 2193 c.c. per l’imprenditore commerciale. Nel caso in cui si tratti di persone fisiche la modalità di iscrizione (modifica o cancellazione) può avvenire tramite la presentazione di modelli cartacei. Se, invece, si tratta di soggetti diversi dalle persone fisiche la modalità di iscrizione è diversa. In quanto dal 1° novembre 2003, le domande, le denunce e gli atti di società di capitali, società di persone e società cooperative, devono essere presentati per via telematica oppure su supporto informatico utilizzando la produzione non eccede il doppio di quella del terreno su cui la produzione insiste; c) le attività di cui al terzo comma dell'articolo 2135 del codice civile, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, con riferimento ai beni individuati, ogni due anni e tenuto conto dei criteri di cui al comma 1, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze su proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali . 3. Con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro dell'agricoltura e delle foreste, e' stabilito per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unita' foraggere occorrenti a seconda della specie allevata. 4. Non si considerano produttivi di reddito agrario i terreni indicati nel comma 2 dell'articolo 27.” Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio ed al lavoro di organizzazione impiegati nell’esercizio delle attività agricole. Esso è determinato mediante l’applicazione di tariffe d’estimo stabilite dalla legge catastale per ciascuna coltivazione e deve essere rapportato al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione della produzione impiegati dal soggetto che esercita l’attività agricola. Questo è il punto più delicato del fisco in agricoltura; infatti, è l’unico caso in cui il reddito derivante da un’attività d’impresa viene determinato e tassato sulla base delle risultanze catastali, senza tener conto del reddito effettivo o della eventuale perdita d’esercizio. Il reddito agrario è di tipo forfetario, per ogni qualità e classe di coltura, e tiene conto dell’ammontare delle spese di conservazione del capitale, nonché dei costi di produzione, tra i quali sono compresi i compensi di lavoro intellettuale e manuale, e i contributi assicurativi a carico del datore di lavoro. Ai fini del calcolo del reddito agrario, il capitale di esercizio e il lavoro di organizzazione devono essere impiegati nei limiti delle potenzialità del terreno; qualora tali limiti vengano superati l’attività è commerciale e produttiva di reddito d’impresa. Il discrimine tra reddito d’impresa e reddito agrario è dato dalla componente organizzativa e capitalistica nell’attività esercitata e fa ritenere che il legislatore, come già per la definizione dei redditi d’impresa, abbia attribuito rilevanza al criterio dell’organizzazione come espressione della combinazione capitale. Ovviamente tutto ciò non vale per le società di capitali, gli enti commerciali, le cooperative, le società di mutua assicurazione e le società di persone diverse dalle società semplici, perché esse devono determinare il reddito derivante dall’esercizio di attività agricole in base alle ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa. In particolare, l’attività di coltivazione del fondo è valutata sempre produttiva di reddito agrario, poiché connessa con il fondo coltivato. Per quanto riguarda le attività “agricole per connessione” (allevamento, manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti del fondo) possono ritenersi produttive di reddito agrario se sussiste un particolare collegamento con il terreno nel rispetto dei limiti, qualitativi e quantitativi, previsti dal legislatore. Infatti, qualora tali limitazioni siano oltrepassate il reddito sarà classificato come reddito d’impresa e quantificato secondo le regole proprie di tale categoria reddituale (art. 55 del TUIR). Il reddito agrario deriva dall’esercizio di un’attività agricola e se quest’ultima è svolta direttamente dal possessore del fondo è imputato a tale soggetto, mentre se il terreno è dato in affitto per usi agricoli è imputato all’affittuario, dalla data in cui ha effetto il contratto di affitto (art. 33 Tuir). Ai fini della dichiarazione dei redditi, anche i redditi agrari devono essere rivalutati nella misura del 70%. 3.3 Mancata coltivazione e perdite Se un terreno non è stato coltivato, neppure in parte, per un’intera annata agraria, e per cause non dipendenti dalla tecnica agraria, il reddito dominicale concorre alla determinazione del reddito complessivo nella misura del 30%, ed il reddito agrario si considera inesistente. Invece la perdita, per eventi naturali, di almeno il 30% del prodotto ordinario ottenibile dal fondo, comporta l’annullamento sia del reddito dominicale, che di quello agrario. 4 IVA in agricoltura 4.1 Disciplina generale dell’Iva L’IVA è un’imposta generale sul consumo, che si applica alle attività commerciali che comportano la produzione e la distribuzione di beni e la prestazione di servizi. L’imposta è calcolata in funzione del valore aggiunto ai beni e ai servizi in ogni fase della produzione e del circuito di distribuzione. La riscossione dell’imposta avviene in forma frazionata attraverso un sistema di pagamenti parziali in base al quale i soggetti imponibili (le imprese identificate ai fini dell’IVA) possono detrarre dal proprio conto IVA l’importo dell’imposta da essi pagata ad altri soggetti imponibili sugli acquisti necessari alle loro attività commerciali nella fase precedente. L’IVA, in definitiva, è a carico del consumatore finale sotto forma di percentuale applicata al prezzo finale del bene o servizio. Tale prezzo finale costituisce la somma degli incrementi di valore intervenuti nelle singole fasi della produzione e della distribuzione. Il fornitore di beni o il prestatore di servizi (il soggetto passivo) versa all’amministrazione fiscale nazionale l’IVA relativa alle cessioni o prestazioni effettuate, dopo averne detratto l’IVA corrisposta ai propri fornitori. Le operazioni soggette a IVA sono le cessioni di beni, le prestazioni di servizi e le operazioni intracomunitarie effettuate in Italia nell'esercizio di imprese o di arti e professioni. Nella nozione di operazioni soggette all'IVA si ricomprendono non solo le operazioni soggette al pagamento dell'imposta, ma anche quelle soggette solamente agli adempimenti formali prescritti per l'accertamento dell'imposta: tali operazioni si distinguono, secondo del regime ad esse applicabile, in esenti, imponibili, non soggette al pagamento dell'IVA. Per tutte le operazioni soggette all'IVA vanno eseguiti, da parte dei soggetti passivi dell'IVA, gli adempimenti amministrativi di documentazione (con l'emissione della fattura, del documento di trasporto o bolla di accompagnamento , della ricevuta o scontrino fiscale), di registrazione e di dichiarazione stabiliti per la sua applicazione. 4.2 Regime speciale IVA in agricoltura Il regime speciale Iva è per gli agricoltori il regime normale che si applica a tutti indistintamente, fatta salva la facoltà di esercitare l'opzione per il regime Iva normale. Altra eccezione è il regime di esonero previsto per chi ha un volume di affari inferiori a 7.000 euro. Tale regime speciale trova il proprio fondamento nell’articolo 25 della Direttiva comunitaria n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 e, successivamente, nella Direttiva comunitaria 2006/112/CE del 28 novembre 2006, nella quale gli articoli da 295 a 305 contengono la disciplina relativa al “Regime comune forfetario per i produttori agricoli”. In particolare, l’articolo 296 consente agli Stati membri di applicare ai produttori agricoli, per i quali l’assoggettamento al regime normale dell’IVA potrebbe creare difficoltà amministrative, “un regime forfetario inteso a compensare l’onere dell’IVA pagata sugli acquisti di beni e servizi”. E’ opportuno rilevare che, in base all’articolo 295 della suddetta Direttiva, il regime forfetario è applicabile anche a talune prestazioni di servizi, a condizione che siano effettuate dal produttore agricolo “con manodopera di cui dispone o con la normale attrezzatura della propria azienda agricola, silvicola o ittica, e che normalmente contribuiscono alla realizzazione della produzione agricola”. In conformità alle disposizioni comunitarie, nell’ordinamento nazionale l’imposta sul valore aggiunto nel settore agricolo è disciplinata dagli articoli 34 e 34-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modifiche ed integrazioni, tra le quali si richiamano quelle apportate, a decorrere dal 1° gennaio 1998, dal D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313, che hanno sostanzialmente determinato l’attuale assetto normativo del tributo. Il regime speciale Iva consiste in un regime di detrazione forfetaria e non di applicazione dell’imposta. Il regime speciale incide esclusivamente sulla detrazione del tributo, mentre l’imposta viene applicata mediante le aliquote ordinarie. La detrazione è stabilita in misura pari alle percentuali di compensazione che sono fissate con apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. In sostanza, il produttore agricolo versa la differenza tra l’aliquota ordinaria e la percentuale di compensazione, con l’avvertenza che per alcuni prodotti, come, ad esempio, cereali, ortaggi, frutta, l’aliquota ordinaria e la percentuale di compensazione si applicano nella stessa misura, per cui l’imposta dovuta è pari a “zero”. L’applicazione dell’Iva mediante le aliquote ordinarie fa sì che: - tutti i prodotti agricoli vengano ceduti con la medesima aliquota, così evitando distorsioni nella concorrenza, che in passato hanno favorito il settore agricolo; - i produttori agricoli che cedono i loro prodotti al consumo, oppure ad altri agricoltori in regime speciale, hanno difficoltà a trasferire al cliente il maggior onere dell’imposta derivante dalle aliquote ordinarie, che sono generalmente superiori alle percentuali di compensazione; - i produttori agricoli che acquistano presso altri agricoltori materie prime o beni destinati alla produzione, devono assolvere una maggiore Iva sugli acquisti, che nel regime speciale diviene un costo; - le imprese agricole, per effetto dell’applicazione delle aliquote ordinarie, che sono generalmente superiori alle percentuali di compensazione, hanno l’obbligo del versamento della differenza dell’imposta; questa circostanza comporta una maggiore diligenza nella tenuta della contabilità Iva e una maggiore tempestività nella registrazione delle fatture. Per l’applicazione del regime speciale devono, inoltre, ricorrere determinati requisiti soggettivi ed oggettivi. 4.2.1 Requisiti soggettivi Sotto il profilo soggettivo possono applicare il regime speciale: a) i soggetti che esercitano le attività agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile, indipendentemente dalla natura giuridica; b) gli organismi agricoli di intervento che operano in applicazione di regolamenti comunitari concernenti l’organizzazione comune dei mercati; tra tali enti rientra l’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), che, tra le altre, svolge le funzioni in passato esercitate dall’AIMA e dall’EIMA. c) le cooperative e loro consorzi, che utilizzano prevalentemente prodotti dei soci; d) le associazioni e loro unioni, costituite e riconosciute Capitolo 3 Esonero della fallibilità dell’imprenditore agricolo 3.1 La nuova definizione di imprenditore agricolo e la fallibilità. Nel nostro ordinamento vi è sempre stata una distinzione netta tra “impresa agricola” ex art. 2195 c.c. e le altre imprese “commerciali”; lo stesso codice civile del 1942, tracciando la definizione di impresa all’art. 2082 c.c., ribadisce tale distinzione ispirandosi alle prime codificazioni civili dell’ottocento che, appunto, assicuravano un trattamento speciale alle imprese agricole rispetto al regime “ordinario” previsto per le altre attività economiche poi regolamentate dal Codice Civile di Commercio del 1882. Particolare tutela dell’imprenditore agricolo da ricondursi ad una concezione dell’attività agricola legata alla sola utilizzazione produttiva del fondo. La modernizzazione del concetto di imprenditore agricolo avviene, senza dubbio, con il D. Lgs. 228/2001 che ha di fatto ampliato la definizione di impresa agricola riscrivendo l’art. 2135 c.c. e introducendo, al secondo comma, il concetto di ciclo biologico. L’ampia nozione di imprenditore agricolo dettata dall’art. 2135 c.c. e la sua possibile interazione con le varie procedure concorsuali previste dall’ordinamento ha aperto una serie di questioni in ordine ai confini che escludono la fallibilità dell’imprenditore agricolo e la possibilità di utilizzare il nuovo istituto della composizione della crisi da sovraindebitamento previsto dalla legge 27.01.2012, n. 3. Il legislatore del 1942 aveva riservato all’imprenditore agricolo un regime di favore (che si sostanziava, come ancora oggi, nell’esonero dagli adempimenti civilistici e contabili previsti all’art. 2214 c.c. e nella non assoggettabilità al fallimento) proprio in considerazione di una impostazione tradizionale dell’attività basata sulla sola utilizzazione produttiva del fondo, che comportava, quindi, un rischio di impresa maggiore in quanto dipendente anche da eventi esterni naturali e imprevedibili (il cd. “doppio rischio”). E’ indubbio però che negli anni ad una attività agricola “tradizionale” si è sostituita una attività sempre più moderna caratterizzata dal ricorso continuo a tecnologie da cui non è possibile prescindere come spiegato in precedenza. Dalla nuova nozione di imprenditore agricolo sembra potersi affermare che l’evoluzione della definizione della attività agricola e la conseguente disciplina normativa, non è del tutto compiuta . Parte della dottrina ritiene che rappresenti un ingiustificato privilegio non estendere il fallimento a fattispecie che rischiano di non aver nulla di agricolo se non il solo prodotto commercializzato. Anche la Suprema Corte ha in più occasioni richiesto un rigoroso accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 2135 c.c. con particolare riferimento al collegamento funzionale dell’impresa con il fondo, attribuendo la qualifica di impresa commerciale assoggettabile al fallimento tutte le volte in cui tale collegamento non aveva alcuna incidenza sul ciclo produttivo ed il fondo era stato di fatto degradato a mero bene fungibile. D’altra parte le imprese agricole possono avere volumi d’affari del tutto simili a quelli delle imprese commerciali ed un massiccio ricorso al credito, per cui si sostiene che l’unitarietà del concetto economico di impresa non può più consentire ingiustificati trattamenti differenziati in base al concetto di agrarietà. Le problematiche connesse alla dilatazione dell’art. 2135 c.c. hanno persino portato il Tribunale di Torre Annunziata a sollevare, con ordinanza 20.01.2011, la questione di costituzionalità dell’art. 1 L.F. con riferimento all’art. 3 Cost. nella parte in cui esclude gli imprenditori agricoli e quelli ad essi equiparati dalla assoggettabilità alla dichiarazione di fallimento. Secondo il Tribunale remittente sarebbe ormai venuta meno la ragione di distinguere la posizione dell’imprenditore agricolo rispetto a quello commerciale, in quanto ormai vi è la possibilità di svolgere un’attività agricola anche senza l’utilizzazione del fondo, dato che questo può “assurgere a mero strumento di conservazione delle piante”, e l’attività agricola può essere ormai “limitata ad una sola fase necessaria del ciclo animale e vegetale”. Tale irrazionalità sarebbe ancor più evidente con riferimento alle attività “connesse” di cui all’art. 2135, III comma, c.c. in quanto l’adozione del criterio della prevalenza consentirebbe di considerare “agricola anche l’attività di chi commerci, trasformi o conservi unitamente a quelli da lui prodotti, anche frutti naturali provenienti da altri fondi non da lui coltivati”. La questione è stata comunque dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 20.04.2012, n. 104 la quale però ha lasciato del tutto aperto il problema. Le criticità non appaiono diminuite neppure con l’entrata in vigore della legge sul sovraindebitamento, che per la prima volta ha previsto la possibilità di regolare i propri debiti per tutta una serie di soggetti, tra i quali vi è espressamente l’imprenditore agricolo. Questo particolare intreccio normativo ed i dubbi interpretativi in ordine allo status dell’imprenditore agricolo ha portato la giurisprudenza di merito ad imporre oneri probatori assai stringenti a carico dei soggetti, esposti ad una procedura concorsuale, che si dichiarino imprenditori agricoli. 3.2 Procedure concorsuali e imprenditore agricolo Se il percorso verso una modernizzazione della definizione di imprenditore agricolo è ancora in fase di avvio, del pari può affermarsi che la stessa riforma del Diritto Fallimentare intervenuta nel 2006 dopo una lunghissima inerzia legislativa, sembra non trovare un proprio assetto definitivo. E’ noto infatti che, dopo la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali avvenuta con la Legge 80 del 2005, si sono succedute modifiche caratterizzate da una visione privatistica e così è stata affievolita la concezione processualistica, nonché sanzionatoria che, fino a quel momento, aveva indirizzato la disciplina del fallimento. Si è rivolta l’attenzione ad istituti considerati residuali nella vecchia normativa (come ad esempio il concordato preventivo, al contrario dell’istituto del fallimento che ha sempre avuto un ruolo centrale nella legge di riferimento) e sono state introdotte nuove procedure di composizione concordata della crisi (accordi di ristrutturazione, piani di risanamento della esposizione debitoria, transazione fiscale). La lettura del susseguirsi di tali norme non può prescindere da una valutazione sociale ed economica. E’ difficile distinguere l’urgenza di taluni provvedimenti (vd. ad esempio il D.L.6 luglio 2001 n.98 convertito in Legge 111 del 15/07/2011) dettati evidentemente da una crisi finanziaria ed economica che interessa il nostro paese (e non solo) da una naturale evoluzione normativa che intenda affidare direttamente alle parti interessate la gestione della crisi. In questa direzione si colloca, evidentemente, anche la L. 3/2012 in materia di sovrindebitamento (che richiama la struttura degli accordi di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo) che introduce tre procedure di estinzione delle obbligazioni del soggetto sovraindebitato, non fallibile o che non raggiunga la soglia minima di fallibilità. Ne consegue che l’imprenditore agricolo, in quanto soggetto non fallibile, può accedere alla procedura di sovraindebitamento, ma lo stesso imprenditore agricolo può anche beneficiare, ai sensi della L.111/2011, degli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F. e della transazione fiscale ex art. 182 ter L.F .Questa apertura impone di considerare l’istituto degli accordi di ristrutturazione disciplinati all’art. 182 bis della Legge Fallimentare come un istituto autonomo e indipendente dal Concordato preventivo pure disciplinato al titolo III, Capo I della medesima Legge. L’imprenditore agricolo, cioè, non può di certo essere dichiarato fallito e, conseguentemente, non potrebbe accedere ad una domanda di concordato preventivo per carenza del requisito soggettivo, ma può senza dubbio accedere alla ristrutturazione dei debiti nonché alla transazione fiscale. L’esclusione dalla legge fallimentare, nel caso dell’imprenditore agricolo, individuale o collettivo, non risulta essere coerente con il sistema, se si considera che, l’accesso agli accordi di ristrutturazione ed alla transazione fiscale è riservato allo “imprenditore in stato di crisi”, e le richiamate norme fanno riferimento, in modo esplicito, la prima, alla documentazione richiesta dall’art. 161 l.fall., e la seconda, al piano di cui all’art. 160 l.fall., sì da lasciar ritenere non esclusa la stessa possibilità di considerare proponibile la transazione fiscale con la domanda di concordato preventivo. La scelta del legislatore sembra, al contrario, essere coerente con il sistema previsto in ragione della riconosciuta possibilità, per le imprese agricole, di poter gestire, in assenza di un apposito sostegno normativo, le situazioni di crisi ovvero l’insolvenza, in conseguenza della circostanza di averle il legislatore considerate escluse dall’art. 1 della legge fallimentare, riformata e corretta, per il fatto di fare questo riferimento a quegli imprenditori che svolgono una attività commerciale. 3.3 La procedura del sovraindebitamento La Legge del 27 gennaio 2012, n. 3, successivamente modificata dal Decreto Legge del 18 Ottobre 2012, n.179 (Decreto Sviluppo Bis, convertito in Legge 221/2012) ha offerto un rimedio a tutti quei soggetti che si trovano in stato di “sovraindebitamento” e che non possono accedere alle procedure concorsuali previste dalla Legge fallimentare (ad esempio, le piccole imprese, le società artigiane, il consumatore, etc..). Tale disciplina è stata introdotta con il fine di consentire al debitore non fallibile di ridimensionare i debiti accumulati e riacquistare un ruolo attivo nell’economia, senza dover ricorrere al prestito usuraio. In particolare la Legge n. 3/2012 prevede le seguenti possibili procedure: • le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (ossia l’accordo con i creditori e il piano del consumatore); • la liquidazione del patrimonio; • l’esdebitazione (ossia la cancellazione dei debiti residui all’esito della liquidazione del patrimonio). 3.3.1 Le procedure di composizione della crisi Le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento sono due: l’accordo con i creditori e il piano del consumatore. La principale differenza tra queste due procedure è che l’accordo con i creditori può essere richiesto da tutti i soggetti non fallibili, sia per debiti legati all’attività professionale o di impresa sia per debiti ad essa estranei; il piano del consumatore, invece, è riservato, come dice la parola stessa , al “consumatore“, ossia a colui che ha contratto debiti esclusivamente per scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale. Pertanto, l’imprenditore o professionista, per i debiti legati alla propria attività, potrebbe accedere solamente all’accordo con i creditori; il consumatore invece (per i debiti estranei all’attività svolta) potrebbe a sua scelta accedere all’una o all’altra procedura. In linea di massima, il piano del consumatore può risultare più vantaggioso, in quanto esso non è subordinato al consenso dei creditori. Sarà infatti il Tribunale a decidere se il consumatore- debitore è meritevole o meno di accedere a questa procedura (verificando in particolare se il consumatore ha assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero se ha colposamente determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali). Al contrario, l’accordo con i creditori necessita del consenso di tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti stessi. I soggetti che possono accedere alle procedure suddette (con la differenza che si è detto tra accordo con i creditori e piano del consumatore) sono: - i piccoli imprenditori non soggetti al fallimento, ossia - i crediti impignorabili ai sensi dell’articolo 545 del codice di procedura civile; - i crediti aventi carattere alimentare e di mantenimento, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività, nei limiti di quanto occorra al mantenimento suo e della sua famiglia indicati dal giudice; - i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto disposto dall’articolo 170 del Codice civile; - le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge. I debiti residui all’esito della liquidazione, potranno essere cancellati attraverso l’esdebitazione. 3.3.3 L’esdebitazione L’esdebitazione consente di cancellare i debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti, all’esito della procedura di liquidazione. Tale beneficio può essere richiesto solamente dal debitore persona fisica (non quindi le società), entro l’anno successivo alla chiusura della liquidazione. Il debitore può ottenere l’esdebitazione a condizione che: - abbia cooperato al regolare ed efficace svolgimento della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utili, nonché adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni; - non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura; - non abbia beneficiato di altra esdebitazione negli otto anni precedenti la domanda; - non sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per uno dei reati previsti dall’articolo 16; - abbia svolto, nei quattro anni di cui all’articolo 14- undecies, un’attività produttiva di reddito adeguata rispetto alle proprie competenze e alla situazione di mercato o, in ogni caso, abbia cercato un’occupazione e non abbia rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di impiego; - siano stati soddisfatti, almeno in parte, i creditori per titolo e causa anteriore al decreto di apertura della liquidazione. L’esdebitazione è esclusa: - quando il sovraindebitamento del debitore è imputabile ad un ricorso al credito colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali; - quando il debitore, nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione o nel corso della stessa, ha posto in essere atti in frode ai creditori, pagamenti o altri atti dispositivi del proprio patrimonio, ovvero simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno di altri. Non tutti i debiti possono considerarsi estinti a seguito dell'esdebitazione. Restano fermi, infatti, gli eventuali obblighi di versare l'assegno di mantenimento oppure di corrispondere gli alimenti e in ogni caso le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa. Restano anche esclusi dalla esdebitazione i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti. L'esdebitazione, inoltre, non fa venir meno i diritti vantati dai creditori nei confronti di eventuali coobbligati, fideiussori del debitore o degli obbligati in via di regresso. 3.4 Accordi di ristrutturazione Il legislatore, nell’inserire la del tutto nuova disciplina degli accordi stragiudiziali tra debitore e creditori, piuttosto che prevedere un nuovo titolo o capo nel corpo della legge fallimentare, ha ritenuto di fare riferimento al titolo dedicato al concordato preventivo, modificando la stessa rubrica del titolo III, che è divenuta Del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, e poi trattare l’intera disciplina degli accordi nel capo V, alla cui originaria rubrica Dell’omologazione e dell’esecuzione del concordato preventivo, è stata aggiunta la rubrica Degli accordi di ristrutturazione dei debiti. La legge 14 maggio 2005, n. 80, di conversione del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, cosiddetto “decreto sulla competitività”, all’articolo 2 ha apportato significative modifiche agli istituti della revocatoria fallimentare e del concordato preventivo e ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti. L’art. 182 bis prevede che il debitore possa depositare, con la domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo e la documentazione di cui all’art. 161, anche un accordo di ristrutturazione dei debiti. Si tratta di un istituto ampiamente conosciuto e diffuso nella prassi di molte legislazioni straniere di cui si attendeva una collocazione ufficiale anche nel nostro ordinamento, essendo unanime il riconoscimento della sua efficacia come strumento di risoluzione negoziale della crisi d’impresa. Da tempo, debitori e creditori sono soliti ricorrere a concordati stragiudiziali per definire i loro rapporti per cercare di superare l’insolvenza, ma ciò è sempre avvenuto senza poter fruire della stabilità e certezza giuridica. L’articolo 182-bis tenta di risolvere innanzitutto proprio i problemi afferenti la certezza e stabilità giuridica, fino ad oggi mancante, con la previsione del controllo ad opera del tribunale fallimentare in sede di omologazione, lasciando per il resto ampia libertà all’autonomia delle parti. Tale accordo deve essere stipulato con tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dell’ammontare dei crediti e deve essere corredato dalla relazione di un esperto avente ad oggetto l’attuabilità dell’accordo. Tale percentuale va calcolata sull’intera massa debitoria, senza alcuna distinzione tra creditori privilegiati e creditori chirografari ovvero tra creditori muniti di titolo esecutivo e creditori che ne siano sprovvisti. La locuzione “ristrutturazione dei debiti” indica, dunque, in via di prima approssimazione, non l’estinzione, ma la modifica della struttura (ossia degli elementi caratterizzanti, quali: scadenza, interessi, ammontare, garanzie) dei debiti dell’impresa. La ristrutturazione non riguarda necessariamente tutti i debiti dell’imprenditore, ma è sufficiente una percentuale minima del 60%; i debiti residui, non considerati dall’accordo, devono essere soddisfatti integralmente secondo le modalità previste nel titolo costitutivo dell’obbligazione, ovvero, in mancanza, dalla legge. Pertanto con l’accordo si può decidere l’estinzione totale o parziale delle obbligazioni mediante novazione o remissione o il differimento della scadenza, ma si può anche decidere la creazione di nuove obbligazioni come conseguenza di finanziamenti da utilizzare per l’estinzione di precedenti obbligazioni, la costruzione di garanzie o l’impegno a stipulare negozi attuativi, quali ad esempio: contratti di finanziamento; aumenti di capitale con l’emissione di nuove azioni da attribuire ai finanziatori ed eventualmente ai creditori; la costituzione di nuove società che si accollino parte dei crediti sorti nei confronti dell’imprenditore; la rinegoziazione dei contratti per ridurre i costi delle forniture o dei servizi, ecc. 3.5 Transazione fiscale La transazione fiscale è quell'istituto volto all'ottenimento di un pagamento parziale o dilazionato dei debiti tributari da parte di un soggetto che si sottopone ad una procedura di concordato preventivo o ad un accordo di ristrutturazione dei debiti ex artt. 160 e 182BIS l.f., normato dall'art. 182TER della citata l.f.. E' utile precisare, in prima battuta, che la transazione fiscale si differenzia dagli ordinari strumenti deflattivi, previsti nell'ordinamento tributario al fine di dirimere eventuali controversie già sorte o prevenirne altre, poiché l'applicabilità di tale istituto resta circoscritta all'interno delle procedure concorsuali per le quali è prevista, ovvero concordato preventivo e accordo di ristrutturazione dei debiti, alla cui presentazione è subordinata. Ne consegue, quindi, che l'intento dell'istituto è quello di incentivare l'imprenditore che, trovandosi in stato di crisi, voglia preservare l'attività di impresa attraverso la possibilità di ristrutturare la sua posizione debitoria, coinvolgendo tutti i creditori, sia anche l'Amministrazione finanziaria, parificando di fatto il credito tributario a tutti gli altri. L’istituto, dunque, si inquadra perfettamente nell’ambito degli strumenti di “soluzione negoziale della crisi di impresa”, che la recente riforma del diritto concorsuale ha inteso valorizzare, nell’intento di incentivare il ricorso a composizioni concordate delle crisi (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati di risanamento) che evitino la disgregazione del complesso aziendale, nell’ottica della conservazione dell’impresa e della salvaguardia dei livelli occupazionali. Come noto, infatti, il tradizionale assetto delle procedure concorsuali, così come delineato dal R.D. n. 267/1942, aveva da tempo sollevato molteplici perplessità. Alle inefficienze e lungaggini delle procedure fallimentari si aggiungeva la crescente insoddisfazione per gli esiti drasticamente liquidatori del fallimento, connotato da un carattere marcatamente sanzionatorio, in quanto diretto ad attuare la responsabilità patrimoniale e personale del debitore insolvente: l’attenzione del legislatore, dunque, era rivolta quasi esclusivamente all’imprenditore, soprattutto quello individuale, piuttosto che all’impresa quale organizzazione dotata di un suo valore intrinseco, con la conseguenza che la disciplina dettata dalla legge fallimentare si riduceva essenzialmente ad un’espropriazione concorsuale dei beni dell’imprenditore, considerando così preminenti le ragioni della proprietà rispetto a quelle dell’impresa, e di riflesso del mercato. 3.6 Le problematiche di interpretazione normativa Con riferimento all’imprenditore agricolo si pone, piuttosto, un ulteriore interrogativo, in quanto vi è la necessita di dover stabilire se questi possa accedere indifferentemente alla composizione della crisi da sovraindebitamento o all’accordo di ristrutturazione dei debiti, regolato dall’art. 182 bis l.fall. Questa circostanza ha posto il dubbio sull’applicabilità della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento alla categoria in parola, visto che l’art. 182 bis l. fall., in quanto norma speciale, sarebbe l’unica norma applicabile. Invero, in senso contrario si è sostenuto che anche l’imprenditore agricolo può usufruire dello strumento di cui al D.L. 212/2011. Tale procedura presentava dei profili di differenziazione tali, rispetto agli accordi di ristrutturazione dei debiti, da far propendere per l’estensione soggettiva. Ci si riferisce alla previsione favorevole per il debitore di poter soddisfare i creditori non aderenti entro un anno e non già alla scadenza. Ancora, quanto agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall., aderendo all’impostazione dottrinaria maggioritaria che non assimila tale istituto alle procedure concorsuali, se ne doveva intuire l’impossibilità di ricomprenderli nella locuzione “vigenti procedure concorsuali”. Nonostante la collocazione di questo istituto all’interno della legge fallimentare, gli accordi di ristrutturazione non sono annoverabili tra le procedure concorsuali, ma vanno piuttosto qualificati come veri e propri accordi contrattuali che “il debitore, una volta che ha raggiunto il consenso contrattuale e ha raccolto l’accettazione, sotto forma possono assumere la veste di imprenditore agricolo; è quindi verosimile che l’analisi dei bilanci conduca alla conclusione di fallibilità (la società risulta al di sopra di tutti i parametri) anche laddove l’imprenditore debba considerarsi agricolo. Né l’obbligatorietà per gli enti costituiti in forma di società commerciale di contenere nella ragione sociale l’indicazione “società agricola” può considerarsi elemento utile e sufficiente ad escludere il carattere “commerciale” della stessa. L’analisi deve quindi estendersi dalla semplice analisi dei bilanci anche alla verifica dell’oggetto sociale che, per le società agricole deve intendersi “esclusivo” per le attività individuate dall’art. 2135 c.c.. Il Tribunale dovrà quindi accertare la qualità di impresa agricola sia avendo riguardo alla natura dell’attività esercitata, indipendentemente dalla complessità organizzativa raggiunta dall’azienda ma anche verificando che le attività connesse di cui ai commi 1° e 3° art. 2135 c.c. derivino in via prevalente dall’esercizio delle attività agricole principali. Da aggiungere all’introduzione In quanto nel continente europeo l’agricoltura riveste un’importanza molto significativa non solo perché all’interno dell’UE vi sono Stati membri con una tradizione agricola molto forte , come la Francia, la Spagna, o l’Italia, e nemmeno perché, sommando le terre arabili e quelle ricoperte da foreste, circa l’80% del territorio continentale ricade nell’interesse precipuo di una politica agricola. Oltre a queste macroscopiche ragioni ve ne sono altre, relative alla struttura stessa dell’attività agricola e della produzione di cibo. Dagli anni ‘50 in poi il ruolo dell’agricoltura, per quanto riguarda l’occupazione e i redditi, è calato considerevolmente. Inoltre, il contributo al reddito nazionale proveniente dall’agricoltura è più basso di quello di qualsiasi altro settore economico. Dagli anni ‘70, il numero di aziende agricole è stato in costante diminuzione in tutti i Paesi membri dell’UE, a eccezione dell’Italia per un periodo degli anni ‘80. Se fare il mestiere di agricoltore divenisse insostenibile economicamente, e quindi conducesse sempre meno persone a impiegarsi nel settore, il danno che ne riporterebbero le economie nazionali e le strutture della società, sarebbe incalcolabile: l’agricoltura svolge anche una funzione di salvaguardia del paesaggio e dell’esistenza stessa di paesini e di piccole comunità che su di essa vivono da secoli. 35
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