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La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Sintesi del corso di Storia Della Filosofia

Riassunti dettagliati di filosofia medievale.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 07/11/2017

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Scarica La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! La Filosofia nel Medioevo – Gilson - Riassunto Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo Introduzione: La religione cristiana è entrata in contatto con la filosofia nel II sec. d. C., anche se si potrebbero vedere concetti di origine filosofica nel Nuovo Testamento. A riguardo, e più in generale approcciandosi alla filosofia del medioevo che spesso è il risultato di una commistione tra dottrine teologiche e istanze filosofiche, BISOGNA SEMPRE distinguere filosofia e religione che pur intrecciandosi mantengono ognuna la propria autonomia rimanendo SEMPRE due entità distinte e tali devono essere considerate. Gli scrittori sacri si sono serviti di termini e concetti filosofici cedendo ad una necessità umana e soprattutto concettuale, ma all’antico significato filosofico ne hanno sostituito uno religioso e questo è il significato che gli va attribuito quando occorrono nei testi cristiani. Essenzialmente la religione cristiana si fondava sull’insegnamento dei Vangeli, in cui non vi è una parola di filosofia. Il cristianesimo si rivolge all’uomo, è una dottrina della salvezza e per questo è una religione. La religione si rivolge all’uomo e gli parla del suo destino. La filosofia si rivolge all’intelligenza e le dice quel che le cose sono. Le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofie della necessità, invece le filosofie influenzate dalla religione cristiana sono filosofie della libertà. Il momento criticò si porrà nel momento in cui, XIII secolo, il mondo occidentale dovrà scegliere tra il necessitarismo greco di Averroè e una metafisica della libertà divina. Il concetto greco di “λόγoς” è manifestamente di origine filosofica (soprattutto stoica), utilizzato anche da Filone di Alessandria, c’è chi ha sostenuto che un concetto greco si sostituisce al Dio cristiano imponendo così una deviazione al pensiero cristiano che questo non sarà più in grado di correggere. Ellenismo e cristianesimo sono dal allora in contatto: quale dei due ha assorbito l’altro? Se avesse trionfato l’Ellenismo da ciò si avrebbe una filosofia del “λόγoς” che spiega la creazione del mondo tramite questo intelligibile che vede anche come fonte di salvezza, assimila a sé il Messia predicato da una setta religiosa ebraica e ne fa manifestazione del Verbo: da quest’operazione sorgeranno le posizioni gnostiche con cui la religione cristiana eviterà fermamente di confondersi. Ciò che avverrà con il Vangelo di Giovanni è differente: “Come per tutto ciò che il cristianesimo ha preso dall’Ellenismo, si tratta, fin da questo caso (Gv), che è il primo a nostra conoscenza, dell’approssimazione di un concetto che servirà all’interpretazione filosofica della fede, piuttosto che come elemento costitutivo della fede stessa.”, A. Puech. San Paolo: Ebreo di nascita, originario di Tarso aperta alle influenze greche, aveva certamente ascoltato le diatribe stoiche. Conosceva l’esistenza della sapienza dei filosofi greci e la condanna in nome di una nuova Sapienza, follia per i Greci e scandalo per gli Ebrei (I Cor 1, 22-25). Questa sfida rivolta a i filosofi avrà grande eco nel Medioevo. Di Rm 1, 19-21 si avvarrà lo stesso Descartes per legittimare la sua impresa metafisica. La tesi di Paolo non è nuova (già trattata nel libro della Sapienza 13, 5-9), ma da lui esposta pone il dovere ad ogni filosofo cristiano di ammettere che è possibile una conoscenza certa di Dio. Riprende molto dallo stoicismo, per esempio la distinzione tra anima (ψυχή, anima) e spirito (πνεΰμα, spiritus) che sarà alla base di molte speculazioni psicologiche ispirate a Ts 5, 23. lOMoARcPSD|1338224 Distribuzione proibita | Scaricato da Angelica Librone (angy.l97@alice.it) I punti di contatto sussistono ma non hanno variato né toccato la sostanza della fede cristiana. Letteratura patristica: si chiamano così l’insieme delle opere cristiane che risalgono ai Padri della Chiesa, ma non tutte li hanno come autori (non è una denominazione rigorosa). Padri della Chiesa: 1. Designa tutti gli antichi scrittori ecclesiastici morti nella fede cristiana e in comunione con la chiesa; 2. In senso stretto dovrebbe avere quattro caratteristiche: 1. Ortodossia dottrinale; 2. Santità di vita; 3. Riconoscimento da parte della chiesa; 4. Relativa antichità (fino fine III sec. circa). Dottore della chiesa: se manca l’anzianità e ha rappresentato in maniera eminente la dottrina della chiesa (i più anziani tra loro sono chiamati “Padri”, fino a Gregorio Magno, il Medioevo li designa come sancti). Quando si distinguevano i sancti dai filosofi si intendeva parlare dei Dottori. Scrittori ecclesiastici: al di sotto dei Dottori, la cui autorità dottrinale è molto inferiore e la cui ortodossia dottrinale può non essere irreprensibile, ma sono importanti testimoni della tradizione (Origene, Eusebio di Cesarea, ecc.). Queste distinzioni sono moderne e il Medioevo non li distribuiva secondo una precisa classificazione. I. I Padri greci e la filosofia: La filosofia compare nella storia del cristianesimo nel momento in cui alcuni Cristiani prendono posizione nei suoi riguardi. Da quest’epoca il termine “filosofia” è utilizzato con il significato di “sapienza pagana”. XII, XIII secolo l’opposizione di “philosophi” e “sancti” indicherà quella tra concezioni elaborate da uomini privi della luce di Dio e i Padri della Chiesa. Sin da subito il cristianesimo ha preso in considerazione le filosofie pagane nei cui confronti i Cristiani colti dei primi secoli hanno avito atteggiamenti assai differenti. 1. I Padri apologisti Padri apologisti/Apologeti, compaiono dal II secolo, così chiamati perché le loro opere principali sono apologie del cristianesimo. Apologia= in senso tecnico un’arringa giuridica, nel qual caso in difesa del cristianesimo e un tentativo di giustificarla politicamente in un impero pagano e dinanzi la filosofia greca. Le due apologie più antiche risalgono al 125, di Quadrato, mai ritrovata, secondo le testimonianze priva di prese di posizione nei confronti della filosofia e quella di Aristide, in cui è presente qualche tesi di ispirazione filosofica. Aristide: ogni movimento regolato che regna nell’universo risponde ad una necessità, l’ordinatore di questo movimento è Dio. C’è un solo Dio. La visione cristiana dell’universo dunque è fissata a grandi linee già dall’inizio del II secolo, definibile come “giudeo-cristiana” dal momento che è ereditata dal Vecchio Testamento. Pastore di Erma (140-145): vi si ritrova l’idea che Dio è UNO e ha creato tutto ex nihilo, idea non innovativa, di origine biblica ( III Macc. 7, 28). S. Giustino martire, di Neapolis/Nabulus: contemporaneo al Pastore di Erma. OPERE: Apologia I (150) all’imperatore Adriano, in cui pone il problema: se la verità è stata rivelata attraverso Cristo pare che chi è vissuto prima non sia colpevole d’averla ignorata. Si propone di definire la natura della rivelazione cristiana e il suo posto nella storia dell’umanità. Mutua una prima soluzione dal prologo di Gv, vi è una rivelazione del Verbo divino anteriore all’incarnazione. Apologia II a Marco Aurelio, in cui ripropone il tema della partecipazione al Verbo, abbozzata in Apologia I, che definisce stoicamente come “ragione seminale”, di cui vi un germe in goni uomo. Individua meriti e demeriti rispettivamente in coloro che hanno vissuto secondo il Verbo/Cristo e coloro che hanno vissuto contro questo. La religione cristiana è vista come punto culminante di una rivelazione divina antica quanto il genere umano. “Tutto ciò che è stato detto di vero ci appartiene”, famoso passo si quest’opera. Considera lOMoARcPSD|1338224 VII capitolo: prima dimostrazione dell’unicità di Dio in relazione: se ci fossero stati più dei non si sarebbero potuti trovare in un solo posto, essendo di natura diversa perché non generati; se ognuno fosse creatore del mondo e occupasse un proprio posto non sarebbe posto nel mondo in cui siamo; se esistessero più mondi, ognuno con un Dio, gli altri che non esercitano potere sul nostro sarebbero limitati e dunque non dei; la potenza di Dio avvolge tutto, non possono esserci altri mondi né può darsi che altri dei esistano senza far nulla, non sarebbero tali= ATENAGORA NON RIESCE A PENSARE DIO SE NON IN RELAZIONE ALLO SPAZIO (sua influenza in “De fide orthodoxa”, G. Damasceno). Teologia del verbo: insiste su eternità del Verbo nel Padre, non parla di lui come altro, lo figura come raggio di sole, emanante dal Padre, a lui riveniente; si basa come gli altri su Proverbi 8, 22. De resurrectione mortuorum: stabilisce che non è impossibile, chi ha creato può restituirla. Di ogni apologia: 1° momento, “in favore della verità”; 2° momento, “sulla verità” che in questo caso tratta che avrà luogo la resurrezione (già dimostrata). Provato da tre argomenti: 1. Insiste sul fatto che abbia carattere razionale: uomo creato per partecipare della Sapienza e contemplare le opere di Dio= la causa della sua nascita ne garantisce la perpetuità. 2. Basato sul fatto che l’uomo è anima e corpo e così Dio lo ha creato per un certo fine: devono avere di necessità lo stesso destino. Così formula un’idea fondamentale che comporta il non cedere al platonismo (vs “Alcibiade”), sembra giustificare il finale trionfo dell’aristotelismo. 3. Accettati 1 e 2 si deve ammettere con Dio provvidenza degli uomini e giusto allora si dovrà ammettere anche un GIUDIZIO GIUSTO dato all’uomo nella sua interezza perché l’UOMO possa essere premiato o punito. Atenagora ha percepito i problemi principali da risolvere per il pensiero cristiano; due momenti di ogni apologetica: 1. Prova della credibilità con confutazione degli argomenti che vogliono stabilire l’assurdità della fede e giustificazione razionale (per questo non menziona resurrezione Cristo); 2. Distinzione tra prova razionale e appello alla fede. Teofilo di Antiochia: ?- 183/185. Consacrato vescovo nel 169; vescovo di Antiochia (Siria). Ad Autolycum: apologia che si rivolge a un privato, Autolico; “un Taziano senza talento”: suo argomento “Tu non credi che i morti debbano resuscitare? Quando la cosa accadrà sarai ben obbligato a crederlo”. Pone Dio come incomprensibile all’intelletto umano; usa la formula della creazione ex nihilo come Ermia e il libro dei Maccabei. Due scritti anonimi del II secolo: 1. Oratio ad Graecos, attribuita erroneamente a Giustino, stilisticamente vicina a Taziano per la condanna in blocco della cultura greca. 2. Exhortatio ad Graecos, riprende il tema dei prestiti che i filosofi hanno preso dalla Bibbia. Irrisio philosophorum: titolo con cui si indica l’opera di Ermia, ma più in generale anche il tema apologetico molto usato dai pensatori cristiani: confusione e contrasto risposte della ragione contro unità dottrine della fede. Si è passati dall’universo greco a quello cristiano in maniera brusca, non continua, sembra che l’universo greco sia crollato improvvisamente in uomini come Giustino, Taziano. Questi sembrano non alla ricerca da una verità da scoprire, ma di formule per esprimere ciò che avevano già scoperto. L’unico strumento che avevano era la filosofia greca, dunque gli apologisti del II secolo hanno intrapreso il compito di esprimere l’universo mentale dei Cristiani tramite il linguaggio della filosofia (concepito per esprimere l’universo mentale dei Greci). 2. Lo gnosticismo del II secolo e i suoi avversari: II secolo: periodo di fermento religioso. Si cerca di raggiungere l’unione dell’anima con Cristo, sapere che Dio esiste e conoscerlo filosoficamente non sembra più sufficiente= si cerca la gnosi (γνπσις), esperienza unificante che permetta un contatto personale. Inquietudine religiosa: origini orientali, precedenti al cristianesimo, ha trovato alimento nelle filosofie greche orientate verso la religione (es. platonismo e stoicismo si presentavano adattabili a fini religiosi) = gnosticismo del II secolo è l’insieme di sincretismi di questo tipo, che hanno tentato di inglobare in sé la religione cristiana. Gnosticismo: 1. Termine generico, astratto. Non esistettero storicamente gnostici e gnosticismi, ma uomini e dottrine che avendo peculiarità comuni permettono di dar loro uno stesso nome. 2. Il nome ne indica la natura (“gnosi”: sapere che assicura la salvezza per la liberazione da un errore originario). Dottrine che hanno avuto come scopo trasformare la fede in una conoscenza (γνπσις) capace di unirsi a Dio. 3. Origine nel dialogo tra fede religiosa (πίστις) e conoscenza intellettuale (γνπσις); si tenta di instaurare una πίστις σοφία (fede come sapienza). “Ellenizzazione acuta del cristianesimo” (Harnack). 4. Caratteristiche: (dello gnosticismo propriamente detto) concepire la conoscenza accessibile al cristiano come sostituzione della fede; bisogno di appellarsi al cristianesimo e impossibilità di accordarsi con esso. La perdita dei testi originali non permette di ricostruire con certezza i particolari di tali dottrine. 5. Crisi gnostica: Dialogus cum Tryphone (150/160), Giustino cita le sette di Marcione, Basilide, Valentino e Saturnilo dicendo che ciascuna porta i nome del suo capo. Marcione di Sinope: già scomunicato dal suo vescovo quando si recò a Roma per insegnarvi la sua dottrina in ambienti cristiani, lì fonda una comunità nel 144. Dottrina: la sua dottrina ci è nota attraverso le confutazioni dei suoi avversari cristiani. Radicale rifiuto del giudaismo. AT e NT antitetici, non complementari: è una gnosi interna a un problema prettamente cristiano, il rapporto dell’antica antica legge con la nuova. AT: rivelazione del Dio adorato dagli Ebrei, ordinatore della materia che è il principio (non creatore; spiega così anche il fallimento del demiurgo), imperfetto, l’unica cosa che è stato in grado di fare alla defezione degli angeli e alla caduta dell’uomo è stato porre leggi rigorose e sanzioni terribili. NV: il Dio straniero (perché rimasto sconosciuto agli uomini e al demiurgo), al di là del Dio degli Ebrei, rivelato da Gesù, è essenzialmente bontà. Gesù appare come Dio supremo che HA VOLUTO soffrire per salvare gli uomini. Redenzione al centro della storia, opera dell’amore divino che impone una morale liberata dal legalismo ebraico, ascetica poiché la materia è per sé cattiva. Basilide: originario della Siria, pare abbia cominciato a insegnare ad Alessandria verso il 130; la sua gnosi è una cosmogonia in cui abbondano creature immaginate. Concezione dell’universo: Dio ingenerato, incomprensibile, innominabile al di sopra dell’essere, un “Dio non-essere”. Ha di che produrre perché ha in sé le sementi da cui tutto ha creato, il granaio di queste è la πανσπερμία, da qui all’ inizio del mondo Dio trae tre “filiazioni”: 1. La prima scaturisce da lui e subito a lui ritorna, come un raggio riflesso; 2. La seconda, più pesante, resterebbe legata tra le sementi se uno Spirito Santo non le desse le ali grazie a cui raggiunge Dio; lOMoARcPSD|1338224 3. Resta legata alla πανσπερμία fino a che la purificazione di cui necessità non le permetterà di elevarsi fino al suo principio. Questo accade in un mondo superiore in cui Dio è isolato da tutto il resto dallo στερέομα (sfera solida), separazione che è decisiva nella storia del mondo. Dal seno della πανσπερμία Dio produce il “grande Arconte”, inferiore alle filiazioni, ma πανσπερμία potentissimo, diverrà principio di tutto l’universo intermediario tra la sfera isolata e la sfera della Luna. Questo genera un figlio Ogdoade e da questi due nascono il pensiero (νοΰς), il Verbo (λόγος), la sapienza (σοφία), la Forza (δύναμις) che popolano il primo cielo di questo mondo intermedio, questi generano altri che popolano i 365 cieli incastrati concentricamente nello στερέομα; l’ultimo dei cieli è quello della Luna che noi vediamo e dove sta il Dio degli Ebrei. Questo ha volito arricchirsi per questo ha forgiato dalla materia caotica la terra e l’uomo, è un essere duplice per il corpo appartiene al mondo della materia per la sua anima partecipa al mondo divino. In un universo così strutturato una caduta morale era implicita nella sua struttura. Il grande Arconte isolato dallo στερέομα si considera dio supremo, questo peccato d’orgoglio s’è ripercosso di cielo in cielo fino a quello della Luna dove anche l’Arconte si è proclamato unico vero dio. Per riscattare questa colpa è intervenuta la prima filiazione divina che è conoscenza perfetta (γνπσις) la cui ignoranza aveva provocato il disordine nel mondo. Con il nome di Vangelo si fa conoscere dall’Arconte che ammette il suo errore e di essere una creatura del Dio supremo, rivelazione che si trasmette da un cielo all’altro ristabilendosi l’ordine in tutti i cieli. Allora intervenne Gesù, nuovo essere divino (εόν), con la sua incarnazione in Maria e la predicazione del Vangelo si è compiuta la redenzione dell’universo. La terza “filiazione” purificata del tutto dimora in Dio. Chi riceverà la γνπσις di Gesù sarà riscattato. Per mantenere la permanenza dell’ordine Dio avvolgerà il mondo nell’oblio di questa rivelazione così che gli esseri divini ignari del “Dio non-essere” non potranno invidiarlo e la loro ignoranza li proteggerà. Valentino: insegnò ad Alessandria fino al 135, poi a Roma fino al 160, il più originale dal punto di vista filosofico. All’origine di tutto “una entità non generata, immortale, incomprensibile, impensabile), Padre/ Abisso (che non amava la solitudine perché era amore), principio maschile a cui bisogna aggiungerne uno femminile (σιγή: Silenzio), dall’unione di questi due nacquero Intelletto (νοΰς) e Verità (αλήθεια), questi sono la prima tetrade radice di tutto ciò che esiste. Intelletto e Verità generano il Verbo (λόγος) e la Vita che generano a loro volta l’uomo e la chiesa. Costituita la prima Ogdoade, da Verbo e Vita nacquero dieci Eoni, dodici da Uomo e chiesa. Ogdoade primitiva, Decade e Dodecade formano il Pleroma, società di trenta esseri divini (ne sarà simbolizzato il mistero con i trenta anni di Cristo). Gli ultimi due della Dodecade sono Volere (θελητός) e sapienza (σοφία) che mossa da una curiosità ambiziosa cede al desiderio di scrutare il mistero di Abisso (solo Intelletto ne è capace) e sarebbe caduta se il limite (όρος) che circonda il Pleroma non l’avesse evitato. Sapienza fecondata dal desiderio provato concepisce un figlio bastardo Concupiscenza (Achamoth), senza padre, materia informe che viene espulsa dal Pleroma. Intelletto e Verità generano l’ultima coppia di eoni, maschio e femmina, Cristo e lo Spirito Santo che insegnano agli Eoni del Pleroma ad amare e rispettare Abisso così è ristabilito l’ordine nel Pleroma. Nasce Gesù, dal desiderio comune di tutti gli Eoni, che purifica Concupiscenza dalle sue passioni (timore, tristezza, mancanza e bisogno) e ne fa principi attivi per il futuro, così di Concupiscenza diviene materia adatta a concepire con cui sarà l’universo dal Demiurgo. Questo rimane nella regione bassa, è ignaro del Pleroma per l’όρος, ma a sua insaputa ne produce come un’immagine; come l’Arconte di Basilide si crede un dio supremo e per questo nell’AT ha detto “Io sono Dio, e on c’è altro Dio all’infuori di me”. Dalla sua opera nascono tre classi uomini: 1. i Materiali: classe inferiore, destinati a dissolversi come la materia. 2. gli Psichici/pneumatici (πνεΰμα): classe nobile e l’unica che abbia bisogno di essere riscattata per cui è stato concepito un Redentore concepito dalla Vergine Maria. Non opera solo del Demiurgo, l’eone Gesù è venuto in lui al momento del suo battesimo e lo ha lasciato solo all’inizio della sua passione. 3. Gli Spirituali: salvi dal principio perché sono naturalmente spirito. Origene: nasce in Egitto nel 185 ad Alessandria. Si istruì presso Clemente Alessandrino e forse studiò filosofia sotto Ammonio Sacca; insegna nel Didaskalèion, una scuola catechetica cristiana; nel 250, al tempo delle persecuzioni di Decio, viene arrestato e non volendo rinnegare la sua fede muore dopo le torture nel 253. Unì la conoscenza profonda di tutta la filosofia greca quella delle tradizioni esegetiche giudaiche e del pensiero di Filone. Fu il primo padre cristiano ad applicarsi con un metodo organico all’interpretazione biblica (si vede in Omelie e Commentari, gli ultimi ci sono giunti parzialmente). Distingue due livelli (non antitetici, ma complementari) nel testo biblico: significato letterale e significato spirituale, che si articola in tre significati. L’interpretazione allegorica ,tratto più caratteristico del metodo di Origene, è finalizzata a individuare le verità morali e teologiche riposte sotto il livello letterale. Il compito del teologo è quello di indagare queste verità ed essere capace di distinguerle da quelle eterodosse. Tra i suoi scritti si deve ricordare “Contra Celsum” e il trattato “De principiis” (in cui contro la visione gnostica di un mondo malvagio in cui la salvezza è per pochi ribadisce, piuttosto, che il mondo è intrinsecamente buono e la scelta tra bene e male dipende dalla libera volontà di ogni singolo agente razionale, uomo e angelo) che si rivolge ai e cristiani e ai filosofi e agli eretici, anche ai nemici dichiarati della fede. In maniera vagamente protrettica si rivolge, comunque, principalmente ai fedeli perché pur avendo questi riconosciuto nella parola di Dio la verità non sempre concordano sul significato da attribuirvi. Bisogna poggiarsi su coloro che dallo Spirito Santo hanno ricevuto i doni di scienza e sapienza. Così Origene separa gli uomini in classi, rivelando in questo modo una sorta di aristocraticismo spirituale. Riguardo le ipostasi divine Origene considera il Verbo subordinato al Padre nella creazione, in lui vi sono tutte le cose, egli produce da se stesso altri verbi che sono spiriti e liberi. Essendo dotati di libertà se separarsi da Dio e con quale intensità, tali sono gli angeli, mentre gli uomini sono spiriti imprigionati in corpi. L’anima può tuttavia tendere a ritrovare il calore del suo stato primitivo; per Origene le anime non sono altro che spiriti raffreddati. L’origine è per lui, come per Sant’Agostino, è misteriosa. La libertà non è considerata puramente un male, come per gli gnostici. Il mondo non è stato creato da un demiurgo inferiore, ma dalla semplice e pura bontà di Dio in cui il bene è la sua stessa essenza, invece le creature “possiedono” il bene in modo accidentale e dunque possono anche abbandonarlo. La materia, dunque, è in sé buona ma è cattivo per gli spiriti lasciarvisi rinchiudere. La “caduta” nasce da un peccato di orgoglio di quelle creature che vogliono affermare la propria individualità allontanandosi dalla fonte stessa del bene. Dunque descrive il male per negazione come “mancanza di bene”. Una delle dottrine più interessanti di Origene nasce dalla ripresa del tema stoico dei cicli cosmici: l’intera realtà una volta compiuto tutto il suo ciclo, di ridisporrebbe nelle condizioni di partenza e ripartirebbe, però lasciando ai singoli individui la possibilità di fare scelte diverse, il cui fine è la reintegrazione di tutte le cose in Dio. lOMoARcPSD|1338224 Tutte le creature razionali (uomini, angeli, lo stesso Satana) ridurrebbero la loro distanza da Dio espiando il loro peccato in una serie di vita in cicli successivi di realtà= dottrina dell’apocatàstasi (tesi per cui il ciclo caduta-redenzione e l’incarnazione e il sacrificio di Cristo si ripeta più volte) sarà condannato in concili ecclesiastici dei secoli seguenti, ma continuerà ad esercitare la sua influenza a lungo. 4.Dai grandi di Cappadocia a Teodoreto: Dal concilio di Nicea (325), riunitosi per sistemare la controversia trinitaria provocata da Ario, la chiesa definisce la sua dottrina in un simbolo: il simbolo/credo niceano. Dopo tale dichiarazione le speculazioni sul Verbo potevano consistere solamente nel commentarla, per questo i teologi greci, dopo ciò, paiono inizialmente diffidenti riguardo la speculazione filosofica. Tuttavia gli scrittori cristiani del IV secolo sono ancora in diretto contatto con la cultura classica greca. Scuola di Cesarea in Cappadocia, fondata da Origene dopo la sua fuga Eusebio di Cesarea: nato verso il 265 a Cesarea, in Palestina, morto vescovo della città nel 339/340. Era uno storico più che un filosofo; opere storiche: Chronica, Historia Ecclesiastica. Preparatio Evangelica: considerevole opera apologetica. Demonstratio Evangelica: giustificazioni della religione cristiana contro i pagani per dimostrare ai pagani che un cristiano può saperne quanto loro. Attraverso l’erudizione viene fuori l’idea di una reale parentela tra la verità cristiana e il meglio della filosofia greca, soprattutto Platone. Ricorda su ogni punto che Platone ha guastato la sua verità con qualche errore, ma che ha anche presentito il dogma della Trinità, insegnato l’immortalità dell’anima, riconosciuto lo stesso Dio di Mosè e descritto la creazione pressappoco come nella Bibbia. Bisogna sottolineare che con Eusebio siamo giunti all’epoca in cui con Platone si intende Plotino (muore 270), inoltre ci è nota la dottrina di Ammonio Sacca (maestro di Origene e Plotino) tramite Orgene. (Bisogna ricordare che non solo i Padri della Chiesa utilizzarono la filosofia per definire il dogma, ma anche i loro “avversari” usarono la filosofia cristiana per nutrirne la loro filosofia: l’eresia di Ario pare sorta dal desiderio di ricondurre la religione nei limiti della ragione. Gregorio, Basilio avevano innanzi un atteggiamento analogo a quello dei deisti del XVII secolo: una razionalizzazione del dogma cristiano fatta spontaneamente da spiriti sensibili al valore esplicativo della fede, MA preoccupati di ridurre i misteri di questa alle regole della conoscenza metafisica). La metafisica avrebbe assorbito il dogma o viceversa? Gregorio aveva un degno avversario nell’ariano Eunomio (morto verso 395), per cui i mondo dipendeva da un unico Dio concepito essenzialmente come essenza, sostanza o realtà (ουσία), assolutamente semplice esclude ogni pluralità di attributi, si può dire solo che “è assolutamente”. Caratterizzato dalla necessità di essere, come il dio di Ario e che aveva definito l’ουσία platonica, è “non divenuto/generato” da cui deriva che il Verbo, che è il Figlio che essendo generato è dissimile dal Padre e non a lui consustanziale. Questo Dio, di Eunomio, ha potuto fare del Figlio un Dio per adozione (come il demiurgo del Timeo), ma non realizzare la contraddizione di fare il generato della stessa sostanza dell’innascibile. Da ciò si comprendono le costanti e il significato dell’opera di Gregorio di Nanziano. Gregorio di Nanziano: 329-389, studiò prima presso la scuola di Cesarea poi ad Atene con un condiscepolo, che poi sarebbe stato San Basilio. Si fermò ad Atene per insegnarvi e ricevette il battesimo nel 367, tornato a Cesarea. Poi fu ordinato prima prete, poi elevato all’episcopato. Spesso chiamato Gregorio il Teologo per un gruppo di cinque sermoni (XXVII-XXXI), dei 45 suoi a noi giunti, chiamati: “Discorsi teologici” (del 380): esposizione del dogma della Trinità, poi divenuta classica, e della posizione intellettuale presa dai cristiani del tempo nei confronti di questa. Eunomio cercava di ricondurre il mistero sul piano intelligibile, la sua colpa è stata quella di svuotare il mistero in nome della logica; faceva del Demiurgo platonico il Padre del Verbo cristiano. Sermone XXXVI: intitolato Intorno a se stesso, spiegando perché gli ascoltatori di Costantinopoli si affollassero attorno alla sua cattedra adduce a principale motivo il fatto che in un tempo in cui la filosofia invade tutto lui ha attinto alle fonti della fede che pone come vero rimedio. Ai filosofi/ sofisti manca la saggezza. Sermone XXVII: apre la serie dei Theologica con pareri dello stesso tipo dei filosofi. Rivolgendosi ai seguaci di Eunomio li scongiura di tornare alla semplicità della fede, attenendosi alla meditazione della Scrittura, senza criticarla come i filosofi. Non è necessario rinunciare a filosofare, lo stesso Gregorio non lo fa, è più che legittimo. Sermone XXVIII: in fondo la Teologia non è altro che filosofare con moderazione, dopo essersi istruiti sulla Scrittura per poi istruire gli altri su questa. Poggiandosi sulla Scrittura e la ragione stabilisce, contro Epicuro, che Dio non è corpo, né circoscritto da alcuno spazio. Poi, scusandosi di sembrare anche lui cedere al furore, espone punto per punto la nozione cristiana di Dio, quale è concepibile alla luce di ciò che Dio stesso ce ne insegna. Solo partendo da questo presupposto Gregorio consente di speculare. Dunque l’esistenza di Dio può essere conosciuta attraverso l’ordine del mondo, di cui però non si spiegano razionalmente con il caso l’esistenza e la disposizione, bisogna ammettere un Logos per darne ragione. Si può sapere che Dio esiste ma non cosa Egli sia, il che ha una duplice valenza: insegna l’umiltà, incita alla ricerca. Non è possibile avere risultati, il corpo si interpone tra l’anima e Dio. Ciò che più può farci avvicinare ad una conoscenza esatta della natura divina è negare ciò che è manifestamente impossibile attribuirle. Gli unici attributi che si avvicinano maggiormente ad una conoscenza positiva di Dio sono quelli che lo determinano come essere: l’infinità e l’eternità. Dio stesso ha detto a Mosè di essere l’essere e Gregorio di Nanziano ha avuto il merito di dare positività a questa nozione. Gregorio paragona Dio a “un oceano di realtà (πέλαγος ουσίας) infinita e senza limiti, completamente affrancato dalla natura e dal tempo”. Nozioni della teologia naturale formulate qui per la prima volta da Gregorio, il quale comunque si arresta sempre alla soglia del mistero, si serve di termini filosofici per descrivere il mistero ma non pensa di poterlo chiarire. Accanirsi, come Eunomio, a ridurre il mistero alla logica, è dar prova di una certa ingenuità. E. Puech: “Gregorio è profondamente cristiano. Se certe idee neoplatoniche hanno contribuito a sviluppare la sua teologia, se ciò che di più elevato vi fu nel cinismo e nello stoicismo entra per una parte nel suo ideale ascetico, il suo pensiero e la sua vita sono stati sempre guidati dalla fede”. L’atteggiamento di Gregorio è quello dei tre grandi di Cappadocia (Gregorio di Nanziano, Basilio il Grande, Gregorio di Nissa fratello di Basilio). San Basilio/ Basilio il Grande: 330-379, nato a Cesarea in Cappadocia, fu condiscepolo di Gregorio di Nanziano con cui studiò poi anche ad Atene; egli vi fece medicina. Battezzato dal suo ritorno a Cesarea; visitò i più illustri asceti di Siria, Egitto e Palestina, fondò lui stesso un centro di vita monastica e compose la cosiddetta Regola di San Basilio. Ordinato prete succedette a Eusebio sul episcopale di Cesarea che occupò fino alla morte. Ai giovani sul modo di trarre profitto dalle lettere elleniche: breve trattato in cui Basilio risolve il problema di come istruire i giovani cristiani, essendo tutta la letteratura, morale, filosofia in lingua greca opera di pagani. Dà egli stesso l’esempio di un’opera fiorita di esempi e citazioni presi dall’antichità, ma animata da uno spirito integralmente cristiano. Mette in guardia contro le insidie che possono essere nascoste negli scritti dei pagani, ma al contempo invita anche ad essere imitatori degli esempi di virtù e buon gusto che danno. lOMoARcPSD|1338224 ad uno sforzo di ascesi morale il risultato è una purificazione dell’anima con conseguente riavvicinamento a Dio. Vi sono tre momenti della riunione dell'uomo con Dio: 1. la fede; 2. la carità, che impegna il fedele alla vita cristiana; 3.risultato dello sforzo: purificazione dell'anima e restaurazione della somiglianza divina. Non rimane altro che seguire il consiglio socratico: “conosci te stesso, perché conoscersi come immagine di Dio è conoscere Dio”; (l'essenziale di questa dottrina formerà l'armatura della teologia mistica di S. Bernardo di Chiaravalle). L'escatologia di Gregorio di Nissa, fortemente influenzata da Origene rimarrà la parte caduta della sua opera, preoccupato di risolvere il problema del male ammette che il mondo purificato ritroverà la sua prima perfezione, senza neanche escludere dannati e demoni (su questo punto sarà seguito da Giovanni Scoto Eriugena). Il Medioevo cadrà in molte confusioni scambiando i due Gregorio e/o le loro opere, attribuendo a questi anche opere non loro, come nel caso del trattato De natura hominis. Nemesio: vescovo di Emesa, di cui sappiamo solo che è l'autore del De natura hominis e che forse lo scrisse nel 400. Dà alla scienza della natura umana e in particolare dell'anima un posto centrale nel complesso dell'umano sapere. La chiama Πρέμνον φυσικόν: “tronco delle scienze naturali”. La natura stessa dell'uomo spiega il posto centrale della scienza che lo studia, egli è un microcosmo, è un caso particolare della continuità che si osserva tra ovunque nella natura che è essa stessa prova dell'esistenza di Dio. Il posto intermedio che l'uomo occupa definisce il problema del suo destino: diventerà simile a Dio o si degraderà. Tutto dipende dall'idea che ci si fa di anima: vengono a contrapporsi la dottrina di Platone per cui l'anima è una sostanza e quella di Aristotele e Dinarco che negano che lo sia. Dal primo capitolo del suo trattato Nemesio prende il partito di Platone, sostenendo che l'anima è sostanza incorporea completa in se stessa. Nel Medioevo l'argomentazione di Nemesio, unita a quella di Macrobio e di Avicenna (presentandosi sotto l'autorità di Gregorio di Nissa), incoraggerà il platonismo degli agostiniani contro una concezione aristotelica. Per chi sostiene che l'anima è forma è difficoltoso spiegare come questa possa sussistere dopo la morte senza corpo, per chi sostiene che è sostanza il problema sta nello spiegare come il composto di due sostanze, di cui una autosufficiente possa avere un'unità. Lo stesso Nemesio si è posto il problema di come sia possibile l'unione dell'anima con il corpo se questa è già completa (“l'abito non fa uno con chi lo porta”). Per risolverlo si è rifatto ad Ammonio Sacca, dunque a Plotino stesso: gli intelligibili sono di tale natura che possono unirsi a i corpi capaci di riceverla pur rimanendone distinti, senza alterarsi. Si allontana da Aristotele sulla natura dell'anima, ma rimanda a lui per la descrizione del corpo., accetta la teoria aristotelica dei quattro elementi (pur riportando Timeo a dottrina stoici). Ritiene che la narrazione biblica non sia interessata a tali controversie, parla solo della creazione ex nihilo e neanche vi è il termine “materia”. L'anima possiede tre facoltà: 1.immaginazione, 2.intelletto e 3.la memoria. 1.è una facoltà irrazionale, mossa da qualche immaginabile che è ciò che cade sotto la presa dell'immaginazione. Si possono produrre immagini alle quali non corrisponde nessun oggetto (φάντασμα). Si mostra sicuro che strumenti dell'immaginazione sono i ventricoli anteriori del cervello, gli spiriti animali che vi si trovano e i cinque sensi. 3. facoltà di ritenere e riprodurre i ricordi, la loro riproduzione dopo un periodo di oblio è la reminiscenza. Distingue l'anima in una parte razionale ed una irrazionale (con Aristotele). Nemesio si attiene a Platone affermando che l'anima stessa è l'intelletto. Per lo stesso motivo bisogna considerare la parte irrazionale dell'anima semplicemente come una facoltà di questa e non come un'anima separata. Questa stessa in sé ha due parti, quella che obbedisce alla ragione che si distingue in appetitiva e irascibile, sede delle passioni (genericamente una passione è un cambiamento imposto dall'esterno a ciò che lo subisce; le passioni appetitive fondamentali sono i piaceri e le pene). Nemesio classifica i piaceri, seguendo Epicuro, in naturali e necessari, naturali ma non necessari e né naturali né necessari. Al di sopra delle passioni animali le gioie spirituali (piacere: Passione; gioia: è un'azione). Sotto le pene e le affezioni si trova la parte irrazionale dell'anima che non obbedisce alla ragione. Azioni (più difficili da definire delle passioni): volontarie il cui principio è interno all'agente e si accompagna ad una conoscenza dettagliata delle circostanze dell'atto, involontarie il cui principio è esterno all'agente e spesso si accompagna a ignoranza e alle circostanze. Ciò che non è entrambi (es. digestione) faroma l acategoria del “non volontario”. Apollinare: vescovo di Laodicea (morto verso il 392) per interpretare il testo di S. Paolo (Tess. 5,23) ha ammesso la tripartizione platonica dell'uomo in corpo (σωμα), anima (ψυχή) e intelletto (πνεΰμα). L'influenza di Aristotele continua a farsi sentire nell'analisi dell'atto volontario, che comprende tre momenti : 1 deliberazione della ragione (consilium), giudizio (judicium), scelta (praeelectio). La stessa scelta è un atto misto nella cui determinazione entrano contemporaneamente giudizio e desiderio (deliberazione che desidera/desiderio deliberato), tale deliberazione poggia sugli sui mezzi per conseguire il desiderio, non sul desiderio in sé. È la ragione che delibera, dunque essa è la radice della libertà. Dunque l'uomo sostiene la responsabilità di una vita che dipende da lui. Nel Medioevo garantito dall'autorità di Gregorio di Nissa il Πρέμνον φυσικόν e Nyssenus, cioè Nemesio fu frequentemente ripreso (molto da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino); vi si vede il pensiero cristiano mutuare una metafisica da Platone e una scienza da Aristotele. V secolo: periodo di forte curiosità intellettuale e scambi tra culture diverse, in cui sono prodotti scritti originali e molto diversi tra loro. Omelie: raccolta di queste attribuita a Macario d'Egitto (morto nel 395), ma che oggi si datano al 420, dunque non sue. Il suo autore era materialista, nessuna differenza tra angeli, corpi, anime se non la sottigliezza di materia. Unica eccezione a ciò Dio, per il resto la sua fisica era quella di uno stoico, eppure ha sviluppato una mistica della somiglianza divina nell'anima. Sinesio: scolaro di Ipazia, con la quale rimase sempre in termini di amicizia, convertitosi al cristianesimo dal neoplatonismo. Però quando Teofilo, patriarca di Alessandria, gli offrì nel 409 di divenire vescovo di Tolemaide rifiutò dicendo di non voler essere un vescovo popolare e di essere un filosofo. Inni – Lettere: dimostrano ch'era tale; si evince ch'era fortemente influenzato da Plotino. Definisce Dio come la monade delle monadi, trascendente l'opposizione dei contrari, uno e trino, da lui nascono gli spiriti e ognuno deve fare uno sforzo per liberarsi dalla materia, dopo esservi disceso, e risalire verso Dio. Teodoreto: 386-458, arcivescovo di Ciro. Guarigione dalle malattie greche, o scoperta della verità evangelica partendo dalla filosofia greca: composta tra 429-437, si rifece a Eusebio. Si tratta per gli uomini di cultura greca di giustificarsi di credere nell'insegnamento dei Vangeli e dei Profeti. Opera in dodici libri, i primi sei più interessanti dal punto di vista filosofico. Gli avversari della fede sono saccenti che in realtà sanno ben poco di filosofia, Teodoreto tanta di guarirli con l'esempio dei veri filosofi (Socrate, Platone, Porfirio). Sottolinea che gli scolari condivisero la fede nella dottrina dei loro maestri perché fede e sapere sono inseparabili, la credenza precede la conoscenza e la conoscenza la accompagna. Mostra che dai migliori tra i filosofi son ostate presentite molte delle verità cristiane. Il migliore è Platone che ha insegnato l'esistenza di un solo Dio contro il politeismo del suo tempo. Numenio concorda con il detto di Eusebio: “ che cos'è Platone se non un Mosè che parla greco?”. Tutto questo trattato mette costantemente a profitto gli “Stromata” di Clemente Alessandrino e la “Preparazione evangelica” di Eusebio e chiude la serie di apologie scritte da cristiani per convincere i pagani. lOMoARcPSD|1338224 5.Da Dionigi a Giovanni Damasceno: Corpus Areopagiticum: una delle fonti più importanti del pensiero medievale. Comprende “Della gerarchia celeste”, “Della gerarchia ecclesiastica”, “Dei nomi divini”, “Teologia mistica” e dieci Lettere. L'autore si presenta come discepolo di S. Paolo e fornisce particolari che palesano la sua intenzione di presentarsi come discepolo degli Apostoli. Portando il nome Dionigi lo si è identificato con un membro dell'Areopago convertitosi dopo la predicazione di S. Paolo. Tali scritti compaiono dal 532 in appoggio alle tesi di questi, rifiutati come apocrifi dai Cattolici. Per com'è attualmente composto contiene frammenti presi da Proclo (411-485), dunque deve essere stato composto tra fine IV secolo e inizio V; per sottolineare il suo carattere apocrifo si è presa l'usanza di chiamare l'autore “Pseudo Dionigi”., ma non si sa neanche se si chiamasse così. L'opera è priva di controversie. Gli interessava più esporre la verità cristiana che confutare i Greci. VII lettera: dice che per conto suo non ha mai discusso contro quelli che sono nell'errore, persuaso che il solo modo per distruggerlo è stabilire la verità. Dei nomi divini: il trattato più ricco di dati filosofici giuntoci sotto il suo nome. Continuazione di “I fondamenti teologici” di cui parla più volte ma non ci sono pervenuti. Un'opera essenzialmente teologica, partendo dal fatto che la Scrittura attribuisce nomi multipli a Dio si chiede in che misura è legittimo attribuirglieli. Problema più volte ripreso (da Tommaso, Alessandro di Hales). L'idea è quella di non dire né pensare altro che quello contenuto nelle Sacre Scritture e da esse garantito, perché solo Dio si conosce. Decifrando la creazione alla luce delle Scritture si conosce Dio come causa, si restaura in se stessi la somiglianza divina cancellata. Per aiutarci in ciò le Scritture danno a Dio i nomi di cui fanno uso, tuttavia non sono adatti alla nostra condizione e nascondono l'intelligibile sotto il sensibile. Dio è assolutamente incomprensibile ai sensi della ragione (“I fondamenti teologici”). I fedeli ne parlano secondo i nomi delle Scritture (teologia affermativa), ma gli illuminati capaci di andare al di là della lettera parlano di Dio per negazione (teologia negativa) che è la cosa più giusta. Questi possono conciliarsi in un terzo atteggiamento che è quello di dire che Dio merita ciascuno di questi modi in un senso inconcepibile per la ragione umana (teologia superlativa). Doveva agire sulla speculazione teologica e filosofica per il suo porsi come intermedio. Dio vi si presenta prima come Bene e come tale Egli crea (assomiglia all'idea del Bene descritta da Platone nella Repubblica; paragone alla luce/sole). La luce divina e l'essere che essa costituisce si trasmettono attraverso una cascata di luce i cui gradi sono descritti nei trattati: “Della gerarchia celeste” e “Della gerarchia ecclesiastica”. Illuminazione che deve essere concepita come lo stesso essere delle creature. La creazione è l' effetto di una rivelazione di Dio nelle sue opere. Il mondo è una “teofania” che sola ci permette di conoscere il suo autore. Si dirà che Dio è Bene, poi lo si negherà, ma questa negazione diverrà a sua volta un'affermazione perché Dio è l'”iper-Bene”. Lo stesso metodo si applica a tutti gli altri nomi divini. Dionigi sente di dover giustificare il fatto di attribuire il nome di Amore a Dio, insiste sul diritto di poterlo fare, designa il movimento di carità di Dio. Sotto questo aspetto l'illuminazione universale appare più come un'immensa circolazione di amore. L'amore è la forza che trae gli uomini fuori di sé così che possano tornare a Dio ( si esprime dicendo che l'amore è ex-statico).La divinizzazioneè il suo effetto in questa vita e il fine nell'altra. Il male è non essere, l'apparenza di realtà che dà è dovuta al fatto che offre un'apparenza di bene. Dio non lo causa, ma lo tollera per non violentare la libertà. Il giusto giudizio di Dio: scritto andato perduto in cui dimostrava che un Dio perfettamente buono può punire i malvagi perché loro lo sono di loro spontanea volontà. Il nome che meno male gli si addice è l'Essere, in tale senso si può dire che è l'essere di tutto ciò che esiste. Tutte le forme di partecipazine considerate in Dio sono uno, come i raggi di un cerchio nel loro centro. Questi modelli divni si dicono “tipi” o “esemplari”, sono il prototipo di tutte le loro forma di partecipazione. Dionigi subordina le idee divine a Dio (mentre Agostino, Anselmo, Bonaventure e Tommaso le identificano con Dio: Eriugena invece vi cadrà). Dicendo che Dio è l'essere non dimentica che si tratta sempre solo di un “nome divino”. È perché le idee stesse sono forme di partecipazione all'essere che tutto ciò che partecipa delle idee comporta questa partecipazione all'essere come fondamento della struttura ontologica. Dio che comprende più argomenti ha un andamento scolastico. È uno dei più grandi intermediari tra la cultura dei Padri greci e la cultura latina dei teologi occidentali del Medioevo: i capitoli 22-28 sulla volontà, distinzione tra volontario e non volontario, il libero arbitrio hanno trasmesso molte nozioni al Medioevo. La patristica greca, pur avendo accettato anche elementi di provenienza stoica e aristotelica, sono stati principalmente e fortemente influenzati da Platone, tanto che si parla di “platonismo dei Padri”. Il problema oltrepassa la stessa patristica greca, dal momento che si pone anche per Agostino.bisogna sempre tenere presente che i Padri della Chiesa furono essenzialmente cristiani, per loro né il dogma, né la verità di fede dipendono in alcun modo dalla filosofia. La formula “platonismo dei Padri” resta legittima in un altro senso: in questo periodo Platone raccolse tra tutti i filosofi i maggiori e più importanti suffragi perché la sua filosofia era ispirata da un tale amore per la verità e la realtà divina che difficilmente s'immaginerebbe una filosofia, che senza essere una religione, è così vicina ad esserlo. Nel XII secolo Abelardo e molti della scuola di Chartres si applicheranno a sottolineare le concordanze tra platonismo e cristianesimo. Sant'Agostino l'ha avvertito profondamente. Durante questo lavoro di assimilazione si sono verificati degli errori, tanto più facilmente perché lo stesso dogma cristiano stava allora formulandosi. II.I Padri latini e la filosofia: Soltanto verso la metà del III secolo, quando il latino sostituirà il greco come lingua liturgica della comunità cristiana di Roma, si troverà instaurato definitivamente il suo uso come lingua letteraria cristiana. 1.Dagli apologisti a sant'Ambrogio: Tertulliano: nato a Cartagine verso il 160, lì si convertì al cristianesimo verso il 190, fu ordinato sacerdote, combatte per la sua fede con parole e scritti ma infine si convertì al montanismo nel 213, da allora si volse contro il cristianesimo. Insoddisfatto anche dal montanismo costruì una dottrina fondata sulla sua persona, morì nel 240, la comunità che portava il suo nome sopravvisse. I tertullianisti avevano una chiesa ancora ai tempi di Agostino che ebbe la gioia di riconciliarli con il cattolicesimo. Apologeticum, De praescriptione haereticum, trattato De Anima, le sue opere di maggior interesse per la storia della filosofia. Da giurista, più che da filosofo, in base al diritto di prescrizione del diritto romano “longae praescriptionis possessio”, applicandolo alle Scritture regola il problema del diritto esclusivo del cristianesimo di interpretarle. Ha ricondotto il problema sulla via della tradizione. Prende il cristianesimo come un tutto che si impone agli individui come semplice fede, a maggior ragione le interpretazioni metafisiche degli gnostici sono inaccetabili. Si è cristiani per la fede nella parola di Cristo. Tertulliano si impegna in un atteggiamento di opposizione radicale contro la filosofia, facendola colpevole del moltiplicarsi delle sette gnostiche. Il più illetterato dei cristiani se possiede la fede ha già trovato Dio, invece lo stesso Platone dichiara che no né facile scoprire l'artefice dell'universo. È vero che vi sono dottrine filosofiche simili a quella cristiana, ma per caso, come marinai sbattuti dalla tempesta trovano alla cieca un porto. L'antifilosofismo di Tertulliano trova le sue più celebri formule svilupandosi in antirazionalismo: riprende S. Paolo ( I Cor. 1, 18-25) rafforzandone l'idea: “che il figlio di Dio sia morto è veramente credibile perché assurdo. E che, sepolto, sia risuscitato, è certo perché è impossibile” ( V capitolo del “ De carne Christi). I posteri hanno sintetizzato il suo atteggiamento nella formula lapidari: “ Credo quia absurdum”, ma non si sa se intenderlo come “bisogna crederlo perché la fede si appoggia sull'incomprensibile” o “l'assurdità del dogma raccomanda l acredibilità della fede” alla lettera. La filosofia del Medioevo si definisce in contrapposizione al “credo quia absurdum”, e viene a configurarsi sul/come “ CREDO UT INTELLIGAM, INTELLIGO UT CREDAM”. Detestava la filosofia ed ogni volta che si è cimentato in questo campo l'ha usata erratamente, almeno in quanto cristiano. Trattando della natura dell'anima si esprime come un materialista e pensa come uno stoico, la considera un corpo tenue e sottilissimo con tre dimensioni. Si espande attraverso tutto il corpo di cui prende la forma, la trasmissione dell'anima, dopo Adamo, avviene dai genitori ai figli al momento del concepimento, così si è trasmesso il peccato originale sia la somiglianza a Dio (perciò si può dire che l'anima lOMoARcPSD|1338224 di ogni uomo è naturalmente cristiana). L'anima è l'uomo interiore di cui parla S. Paolo, di cui il corpo, uomo esteriore, è l'involucro. De testimonio animae: trattato in cui cerca il “testimonium animae naturaliter christianae” nel linguaggio naturale in cui gli appelli spontanei a Dio sembrano testimoniare la conoscenza confusa che ogni anima ha della sua orgine. Tutto ciò che esiste è corporeo, Dio esiste, dunque è corporeo, il corpo più tenue e estremamente brillante tanto da essere invisibile; si sa che è uno, che è naturalmente ragione e questa in lui fa tutt'uno con il bene. Nel momento di creare Dio generò da se stesso una sostanza spirituale, il Verbo che sta a Dio come i raggi al sole, è Dio da Dio, Luce da Luce, scaturisce dal Padre senza diminuirlo ma non è Lui, gli è inferiore (giustificando così il Verbo crede di provare agli stoici che la loro dottrina del λόγος conferma la verità cristiana. Lo Spirito Santo si aggiunge al Padre e al Verbo senza rompere l'unità di Dio, come il frutto fa tutt'uno con il fusto e la radice. La generazione del Verbo non è esattamente eterna poiché il Padre è vissuto prima e anche senza lui, eppure non si può neanche dire che abbia avuto luogo nel tempo, è una relazione che non sappiamo esprimere. Per il suo essere divenuto eretico e poi insoddisfatto di due chiese perché troppo indulgenti con le esigenze del corpo Tertulliano assomiglia stranamente a Taziano. Minucio Felice: vissuto tra II e III secolo. Octavius: dialogo di andamento ciceroniano, che ricorda Giustino. Non si è potuto determinare se la sua opera sia anteriore o posteriore a quella di Tertulliano, questione che deve la sua importanza al fatto che certamente una delle due fu certamente fonte dell'altra. Forse Minucio deve alcune delle sue idee a Tertulliano, ma certamente ha uno spirito completamente diverso (Tertulliano ha difeso vigorosamente la libertà religiosa DEI CRISTIANI in uno stato pagano, ma forse non avrebbe posto lo stesso vigore per difendere i pagani in uno stato cristiano). L' Octavius è interessante perché il suo autore è l'unico tra gli apologisti del III secolo ad aver presentato entrambi gli aspetti della questione. Fedele all'esempio ciceroniano riporta una conversazione immaginata che avrebbe avuto luogo in sua presenza ad Ostia, tra il pagano Cecilio Natale e il cristiano Ottavio. I due principali argomenti contro il cristianesimo sono quelli che avrebbe portato Cicerone: 1. nel dogmatismo della fede cristiana vi era del fastidioso per un pagano colto, che anche schiavi e facchini (comunque uomini non colti) avessero la risposta a molti problemi che i massimi filosofi avevano considerato insolubili. Poi afferma che per un romano era cosa pia e giusta attenersi al culto degli dei che avevano fato grande Roma. 1.1. a queste obiezioni Ottavio risponde con cortesia affermando che non vi era ragione per cui la verità debba essere/restare patrimonio di pochi. Mostra che l'ordine del mondo suppone un ordinatore e che quanto agli dei di Roma, se sono come li figura la mitologia non possono aver fatto la grandezza dell'impero. Infine rispondendo alle accuse mosse ai cristiani mostra quanto si a puro il loro culto e come molte loro credenze erano già state presentite da molti filosofi e poeti pagani. Allora Cecilio abbraccia la religione di Ottavio; “ci separammo felici […] io per la fede dell'uno e per la vittoria dell'altro”. Arnobio: Sicca Veneria 260-327 (attuale Tunisia). Ha insegnato retorica nella sua città natale fino al 296 quando da avversario di Cristo si proclamò cristiano. Il vescovo di Sicca non voleva ammetterlo tra i catecumeni, così scrisse un'apologia della religione che desiderava abbracciare. Andversus nationes/Adversus gentes: bisogna tener presente che è principalmente la sua personale apologia dinanzi al vescovo di Sicca e che in generale un'apologia non è atta a esporre la fede cristiana. Vuole provare che la sua professione di fede è vera. Aiuta a vedere cosa un pagano convertito accoglieva inizialmente della nuova religione. Considera Cristo principalmente un maestro venuto a rivelare la verità sulla natura di Dio e il culto che gli è dovuto. Il cristianesimo era innanzitutto rivelazione del monoteismo attraverso Cristo che spiega all'uomo, insieme, la causa e la spiegazione ultima di tutto. Ciò che lo colpisce più di questa è che è una lezione di umiltà. In quest'opera si sono notate molte influenze di scetticismo/neo-accademismo, le quali si spiegano con l'esperienza personale di Arnobio che non poteva dimenticare che si era prostrato dinanzi ai dei pezzi di legno. Il favore supremo che Dio fa all'uomo è quello di elevarli dalla falsa religione alla vera e di mostrarci come siamo realmente. L'uomo di Arnobio non vede ciò che ha sotto gli occhi (poi ripreso da Montaigne, Charron, Pascal), si tratta più che un'epistemologia di un'osservazione moralista. Arnobio ebbe il merito di abbozzare i temi principali di un'apologia di questo tipo; il primo tema è sempre stato l'enumerazione dei problemi per gli spiriti umani (elenco nel II libro dell'Adversus), di cui però gli sfugge la soluzione. A questo tema segue il punto cruciale di tutta l'argomentazione: se su questi argomenti non sappiamo nulla, e tuttavia crediamo qualunque cosa, che c'è di straordinario e ridicolo in un atto di fede? La vita umana poggia su innumerevoli atti di fede ripetuti, ogni attività degli uomini poggia sulla convinzione che molti avvenimenti non mancheranno di verificarsi, anche se la ragione umana è incapace di dimostrarlo. Perché i cristiani non dovrebbero credere in qualcosa? È l'eterna forza e debolezza dell'argomento: prova che i cristiani non sono gli unici a credere in qualcosa; prova anche, come dimostrerà Montaigne, che molte credenze umane non sono meno straordinarie meno di quelle dei cristiani; inoltre è un argomento facile da ritorcere. Un terzo tema (familiare a quelli a volte chiamati “scettici cristiani”) è quello della svalutazione dell'uomo e il correlativo elogia degli animali; Arnobio ne fa grande uso. È persistente l'esitazione dei cristiani ad accettare la definizione aristotelica dell'anima perché esclude la conseguenza dell'immortalità, e molti saranno più propensi ad accettare la definizione platonica che invece la implica. Ma tra i primi apologisti cristiani vi è chi ha posto l'attenzione su un altro problema: in Platone l'immortalità dell'anima è solidale alla sua preesistenza, così facendone una sostanza spirituale di pieno diritto immortale, un Dio. Per questo Giustino e Taziano insistono sul fatto che l'anima non è immortale di per sé ma in quanto lo vuole Dio. Arnobio va oltre: insiste sul fatto che gli uomini non sono anime, ma animali. L'uomo ha saputo conquistare una certa conoscenza delle cose e dà prova di ingegno, con grande sforzo e ciò non ha portato le loro anime al cielo. Arnobio ricorre a una sorta di “esperimento mentale” che sarà ripreso dopo di lui: immaginiamo un fanciullo allevato nella solitudine tanto quanto si vuole supporre fino all'età adulta, non saprà nulla. Eppure se avesse ragione Platone (Menone) dovrebbe sapere da sé ciò che sanno gli altri; non lo si potrà neanche interrogare poiché non sarà in grado di comprendere. Ciò che si sa lo si sa perché lo si è imparato. (il sensismo francese del XVIII secolo e il materialismo di La Mettrie gli si rifaranno). Arnobio fermamente convinto della divinità di Cristo no sembra sappia un granché della Trinità; il Dio supremo di cui parla sembra sovrintendere a molti altri dei. Di certo non è considerabile un Padre della Chiesa, ma la sua opera è altamente istruttiva, anche per le sue lacune, per comprendere quale fosse la forza d'attrazione del cristianesimo alla fine del III secolo sugli spiriti colti. Lattanzio: Africa 250- Gallie 317 seguì l'insegnamento di Arnobio a Sicca. Professore di retorica a Nicomedia; convertito al cristianesimo nel 300, nel 316 incaricato da Costantino di educare suo figlio. Opere: “Divinae Institutiones” (307-311) rivolta a Costantino, “De opificio Dei” (305), due trattatti “De ira Dei”, “De mortibus persecutorum” (verso il 314) stile: eleganza uniforme,che non esclude fermezza. De mortibus persecutorum: spiega e commenta instancabilmente la verità che ama, con candido e sempre rinnovato stupore per la fortuna di essere cristiano. Divinae Institutiones: in sette libri. Contengono un capitolo memorabile sugli antipodi (III,23) in cui critica coloro che errano, partendo dal falso, pur di argomentare prettamente logicamente. Secondo cui, vedendo sempre immutato il ciclo sole-luna e alzandosi ogni giorno, pensano di vivere in circolo dunque la terra sarà tonda e vi saranno uomini che pendono con la testa in basso e dove la pioggia cade dal basso verso l'alto (antipodi). Questo lo vede come un esempio della stupidità a cui gli uomini si condannano con la loro stessa logica, partendo dal falso. Lattanzio è un testimone della sorpresa che ebbero i pagani nel trovare nella fede cristiana più razionalità che nella razionalità (per questo Giustino si era fatto cristiano e Ilario di Poitiers abbraccerà il cristianesimo). Il messaggio di Lattanzio ai suoi contemporanei: cos'è la felicità se non la conoscenza del vero? E lui la verità l'ha trovata nella fede cristiana. Rivolgendosi ai pagani del suo tempo pensa ai pagani del passato, Cicerone, Seneca che quando credono di aver trovato qualcosa si ingannano. Lattanzio cerca la causa di questi lOMoARcPSD|1338224 aprirla alle influenze divine. Le due formule sulle quali si può esitare sono quella di Platone, perché se l'anima è semovente non si vede perché debba cessare di esistere, e quella di Aristotele, per cui l'anima è atto di un corpo ben organizzato da cui non consegue necessariamente che debba essere interamente e eternamente in movimento: la scelta è importante perché decide dell'immortalità dell'anima. Timeo di Calcidio: traduzione frammentaria, tramite cui il Medioevo ha conosciuto quest'opera platonica, oltre che attraverso un frammento della traduzione di Cicerone. Il commento è ispirato a quello di Posidonio. Fu sicuramente cristiano, afferma che Mosè e il suo libero della Genesi siano stati ispirati da Dio, fa una precisa allusione alla Natività di Cristo. Una sua citazione a Origene (morto nel 254), fa datare la sua opera a fine III secolo, inzio IV. Calcidio distingue tre primi principi (initia): Dio, la materia e l'idea (Deus et silva et exemplum). Il Dio Supremo è il Bene Sovrano, al di là di ogni sostanza, incomprensibile, perfetto, autosufficiente e oggetto di un desiderio universale. Dopo questo viene la provvidenza , instancabilmente rivolta al bene, che i Greci chiamano Intelletto, da lei dipende il Destino (fatum), legge divina dalla quale sono retti tutti gli esseri. Questo destino è doppiamente cristianizzato, prima retto dalla provvidenza e poi rispetta le nature e le volontà. Natura, Fortuna, Caso e Angeli sono subordinati alla provvidenza e suoi ministri, al di sopra hanno l'Anima del mondo/ Seconda Intelligenza che vivifica e organizza l'anima dell'universo. “Al primo posto il Dio supremo origine di tutte le cose, al secondo la provvidenza legislatore dell'una e dell'altra vita, al terzo la sostanza che si chiama “secondo pensiero” e “Intelligenza” custode della vita eterna. Le anime razionali che obbediscono alla legge sono loro sottomesse e hanno come ministri Natura, Fortuna, Caso e demoni. Così Dio comanda, il secondo fissa l'ordine, il terzo ingiunge e le anime agiscono secondo la legge (a questa sintesi di Calcidio si rifaranno Bernardo Silvestre in “De mundi universitatae”, e Giovanni di Meun nel “Roman de la Rose”. Il mondo è opera di Dio, ma l'uno è nel tempo l'altro al di fuori, il mondo è eterno nelle sue cause, Dio è eterno nell'aevum (tempo) di cui il tempo non è che un'immagine fuggevole. Esistono due tipi di esseri, i modelli e le copie. Il mondo dei modelli (exempla) è il mondo intelligibile; quello delle copie, o immagini (simulacra) è il mondo sensibile (mundus sensibilis), prodotto a somiglianza del suo modello. Calcidio non esamina quante siano le idee, risolve, invece, li problema della loro origine: sono le opere proprie di Dio che le produce comprendendole. Le opere di Dio sono intellezioni, idee per i Greci; il mondo sensibile è eterno, cioè Dio pensa eternamente le idee di cui il mondo sensibile riproduce perpetuamente l'immagine nel tempo. Dunque le idee sono tutt'uno con Dio, principi si riducono a due: Dio e la materia. L'esistenza della materia si può dimostrare per analisi (resolutio), risalire dai fatti ai loro principi. Noi abbiamo due modi distinti di conoscere: i sensi e l'intelletto, anche i loro oggetti devono essere distinti in sensibili e intelligibili, gli ultimi sono anteriori ai primi per natura, i secondi sono più facilmente accessibili. Il metodo analitico risale dal sensibile alle sue condizioni, è più adatto a dimostrare l'esistenza della materia. Oppure si può dimostrare per analisi, ricomponendo progressivamente ciò che abbiamo separato, rimettendole insieme con l'ordine, l'armonia che hanno nella realtà, saremo condotti a spiegare questi con la provvidenza la quale non può esserci senza intelletto che non può esserci senza pensiero. Dunque il pensiero di Dio ha modellato e abbellito tutto ciò che forma i corpi, le intellezioni del pensiero divino sono le idee, la materia è semplice senza qualità, per questo è un principio ed è indissolubile. La materia è passiva e indeterminata nel senso che è possibilità pura. Tra la materia, puro ricettacolo, e le idee, la forma, vi è il mondo delle cose generato nella materia dalle idee. Queste cose hanno le loro proprie forme che nascono con i corpi, chiamate “species nativae”/ fomae nativae (da quelli della scuola di Chartres). L'idea esiste sotto due aspetti: in sé (come forma prima, primaria species), e nelle cose (secunda species) come forma nata dall'idea eterna. Poi viene la materia che ha il suo essere dalla sua forma propria. A questi tre gradi dell'essere corrispondono tre gradi della conoscenza: comprensibile con l'intelletto, l'idea è oggetto di scienza; di natura sensibile, la forma nativa è oggetto di opinione; la materia, né intelligibile né sensibile, non può essere né conosciuta né percepita. Calcidio rifiuta la definizione aristotelica dell'anima come forma del corpo perché equivarrebbe a farne una forma nativa, quindi un semplice accidente del corpo, peritura. La vera natura dell'anima è quella di essere una sostanza spirituale dotata di ragione. Mario Vittorino: nato nell'Africa proconsolare verso il 300, andò a insegnare retorica a Roma verso il 340, vi condusse un'attività polemica anticristiana. 355 si convertì, morto verso il 363, chiamato l'Africano per distinguerlo dai suoi omonimi. Ci resta una piccola parte delle sue numerose opere. Ci sono pervenuti i suoi commenti alle lettere ai Galati, ai Filippesi, agli Efesini e i suoi trattati teologici “Sulla generazione del Verbo” e “Contro Ario” (in 4 libri). Prima della conversione aveva tradotto le Enneadi di Plotino in cui Agostino doveva scoprire il Neoplatonismo. Diede un contributo alla controversia contro gli Ariani. Avversario l'ariano Candido gli aveva dedicato “Sulla generazione divina” in cui sono dedotte tutte le controversie che un vero filosofo incontra nel mistero della generazione di un Dio da parte di un Dio per l'incompatibilità tra l'essere generato e l'essere essere: se il Verbo è generato non è l'essere quindi non è Dio (stessa posizione di Eunomio). Ogni generazione è un cambiamento, ma Dio è immutabile. Dio è sostanza, non la riceve come non riceve né l'attitudine all'esistenza, né l'esistenza, ma esiste e basta, per la stessa ragione non deve essere concepito come ciò che riceve l'essere né l'entità. Pone Dio come assoluta semplicità dell'essere e escludendo ogni possibilità di divenire e generazione. Gesù Cristo, che è il Verbo, non è generato ma è effetto di un'operazione divina, la prima e principale opera di Dio. Candido ha configurato un cristianesimo senza misteri, una contraddizione in termini, permanente tentazione del deismo. Sulla generazione del Verbo divino: risposta di Mario Vittorino a Candido, oscura e impacciata. Il suo merito sta nel fatto che ha perseguito quanto poteva la formulazione filosofica del dogma rispettando questo nettamente. Identifica prima Dio con l’essere, poi con l’Uno, causa di ogni essere è anteriore all’essere stesso come la causa all’effetto. Da Dio tutto viene concepito sia per generazione che per produzione. Vittorino distingue tra: 1. Ciò che è veramente (intellectibilia) ; 2. Ciò che è (intellectualia/ intellettibilie realtà sopracelesti: intelletto, anima, le virtù, il λόγος; al di sopra esistenzialità, vitalità, intelligenzialità e al disopra di tutto l’essere soltanto e l’uno che è soltanto essere); 3. Ciò che non è veramente non essere; 4. Ciò che non è (ultime due concepibili in relazione alle prime due). Il 1 F E 6νο ς illumina l’anima e fa nascere in lei l’intelligenza; l’anima è sostanza perché sta sotto il 1 F E 6νο ς e lo Spirito Santo che l’illumina. Ogni essere ha un volto e una figura nell’esistenza, o la qualità; il senza-figura, senza-volto è il non essere (Vittorino concepisce non essere= privo di forma), dunque questo a suo modo esiste. Per avere l’assoluto non-essere bisogna distinguere “ciò che non è veramente” da “ciò che veramente non è” (aggiungendo così una quita classe). Dio sta al di là delle quattro classi, al di sopra di tutto è non-essere, ma non puro, che in parte è essere: non essere che per la sua potenza si è manifestato nell’essere. Dio, manifestazione di ciò che è nascosto, causa delle cose che sono. Nel “preessere” si nascondeva l’essere generato che il Logos, Gesù Cristo l’essere anteriore tramite il quale esiste tutto ciò che è. Vittorino oppone a Candido il concetto di un Verbo, l’essere e manifestazione di questo in Dio Figlio e nascosta in Dio Padre, eternamente generato dal Padre, il preessere, in tal senso si può dire che Dio è causa in primo luogo di se stesso, oltre che delle altre cose. Comprendere come il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio non è possibile, qui subentra la fede. La frattura tra cristianesimo e Arianesimo: la speculazione che si rinchiude nella fede e quella che rifiuta il mistero. Traduttore di Plotino ispira alla metafisica di questo la sua teologia configurando Dio come praeintelligentia, praeexistentia, praeexistens (teoria che fa presagire quelle di Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Scoto Eriugena e coloro che ritroveranno il pensiero di Plotino negli scritti di Proclo nel XIVsecolo). Sant’Agostino: VITA, nato a Tagaste nel 354 (morte: 430), lì fece i suoi primi studi, poi si recò a Madaura, poi a Cartagine dove studiò lettere e retorica e poi ve le insegnò. La madre gli aveva insegnato l’amore per Cristo, ma egli non era battezzato e conosceva male la dottrina cristiana. 373 lesse l’ Hortensius di Cicerone che lo infiammo di un amore per la sapienza, lo stesso anno si imbatté in dei manichei che si vantavano di dare una spiegazione puramente razionale del mondo dunque credette di potervi trovare la sapienza che cercava. Come manicheo tornò a Tagaste, poi a Cartagine, lì compose il suo primo trattato “ De pulchro et apto”, andato perduto. Uscì dalla setta, andò a Roma nel 383 per insegnarvi retorica, l’anno dopo grazie al prefetto Simmaco ottenne la cattedra municipale a Milano, l’ seguì le prediche del vescovo Ambrogio che lo colpirono, ma era inizialmente comunque dubbioso a riguardo. In questo periodo lesse scritti neoplatonici (Ennadi di Vittorino), così liberato dal materialismo dei Mani aveva, però, ancora difficoltà a confrontarsi con le sue passioni, a ciò trovò una risposta nelle Epistole di San Paolo. Si baserà sul capitale neoplatonico lOMoARcPSD|1338224 raccolto dal 385-386, non lo amplierà mai ma vi attingerà sempre e sempre meno invecchiando. Basandosi sul fatto che vi dev’essere un lavoro della ragione che precede l’assenso alle verità di fede, egli stesso fa precedere un intervento della ragione alla fede per poi poggiarsi su questa: le verità di fede non sono dimostrabili, ma si può dimostrare che c’è un motivo per crederle. Si basa su una traduzione, scorretta, che i Settanta avevano fatto di Isaia affermando che: bisogna accettare le verità rivelate per fede per poi poterne avere, dopo, qualche intelligenza intellige ut credas, crede ut intelligas (fides quearens intellectum, Sant’Anselmo). OPERE: Le prime hanno carattere maggiormente filosofico, quand’ancora era solo catecumeno. Contra Academicos, De beata vita, De ordine (386); Soliloquia, De immortalitate animae (387), De musica (387-391). Si battezzò nel 387, le opere più ricordate del 387-391 quand’è ordinato sacerdote sono: De quantitate animae (387-388), De Genesi contra Manichaeos (388-390), De libero arbitrio (388-395), De Magistro (389), De vera religione (389-391), De diversis quaestionibus 83 (389-396). Divenuto sacerdote: De utilitate credendi (391-392), De Genesi ad litteram, liber imperfectus (393-394), De doctrina Christiana (397), Confessioni (400), De Trinitate (400-416), De genesi ad litteram (fonte principale per lo studio della cosmologia), De Civitate Dei (413-426, teologia della storia). Opere essenzialmente religiose: Enarrationes in Psalmos (391-fine carriera), In Joannis Evangelium (416-417), De anima et eius origine (419-420), Rittrattazioni (426-427). Vi sono altre opere che sono andate perdute. Parte filosofica dell’opera agostiniana: sforzo di una fede che tenta di spingere il più avanti possibile i cui elementi principali sono ripresi dal neoplatonismo (es. “l’uomo è un’anima che si serve di un corpo” definizione platonica giustificata nell’”Alcibiade” poi ripresa da Plotino). Da cristiano ricorda che l’uomo è unità di anima e corpo, ma quando fa filosofia ricade nella definizione platonica con le conseguenze logiche che comporta tra cui la trascendenza gerarchica dell’anima sul corpo. L’anima è unita al corpo tramite l’azione che utilizza per vivificarlo ma superiore a questo non ne subisce l’influenza (l’inferiore non può agire sul superiore); le sensazioni sono azioni che l’anima compie, non passioni che subisce, alcune ci informano sui bisogni del corpo altre sugli oggetti che lo circondano il cui carattere distintivo è l’instabilità che tradisce una vera mancanza di essere e li esclude da ogni conoscenza propriamente detta. Infatti conoscere significa apprendere col pensiero un oggetto che non cambia. L’anima incontra in sé conoscenze di questo tipo che si apprendono come verità= è la scoperta di una regola da parte del pensiero che vi si sottomette perché non può essere altrimenti; necessità carattere fondamentale delle verità puramente intelligibili. La verità delle cose dipende dal loro possedere l’essere. Eppure in un certo senso tutte le nostre conoscenze derivano dalle sensazioni che non sono stabili, né necessarie. Dunque non sono gli oggetti sensibili la fonte delle mie conoscenze vere, né posso essere io altrettanto mutevole e contingente; la verità è, nella ragione, al di sopra della ragione. C’è nell’uomo qualcosa che supera l’uomo, Dio, vita della nostra vita più interiore a noi stessi di noi: per questo tute le vie agostiniane verso Dio seguono vie dall’esterno all’interno e viceversa. Così il Dio di Agostino si presenta come verità contemporaneamente intima al pensiero e trascendente questo. Tra tutti i nomi (impropri) che gli si possono dare il più consono è quello di essere, Egli è essere stesso, realtà piena e totale, pienamente l’esistenza è propria solo a lui dal momento che ogni cosa che cambia non esiste veramente perché ogni cambiamento comporta una mescolanza di essere e non-essere (essere veramente= essere sempre nello stesso modo). De Civitate Dei (VIII II): gli pare che “Colui che è” dell’Esodo corrisponda evidentemente al “Colui che è immutabile” che Platone chiama l’Essere che è tentato di pensare che il filosofo abbia conosciuto almeno in parte il AT. Concetto di Dio essentia eserciterà influenza su sant’Anselmo, Alessandro di Hales e san Bonaventura. Dottrina che fonda la vera conoscenza sull’illuminazione dell’intelletto da parte del Verbo sarà carattere distintivo dell’agostinismo medievale. che tratterà dei generi e delle specie dice che rimanderà la questione se queste sono sussistenti in sé o solo concezioni della mente, supponendo che siano realtà si rifiuta momentaneamente di dire se sono corporee o incorporee e infine supponendo che siano incorporee non esamina se esistono separate dalle entità sensibili o solo unite a queste (lo fa, da professore, per evitare di porre problemi di alta metafisica rivolgendosi a principianti). I medievali volevano capire in base a cosa scegliere Platone o Aristotele ma non li avevano a disposizione fino al XIII secolo. Due commenti all’Introduzione alle Categorie: Boezio non ha discrezione di Porfirio e in questa sua opera prevale la risposta di Aristotele. Prima dimostra l’impossibilità che le idee generali siano sostanze: es. genere animale, specie animale, generi e specie sono per definizione comuni a gruppi di individui, ciò che è comune a parecchi individui non può essere esso stesso un individuo; né può il genere appartenere interamente alla specie se essendo un essere il genere dovrebbe dividersi tra le sue diverse partecipazioni. Se si suppone, invece, che generi e specie rappresentati dalle nostre idee generali/universali non sono altro che nozioni della mente cioè supponiamo che niente nella realtà corrisponda alle idee che noi abbiamo dunque pensandole la nostra mente non pansa nulla: non è possibile, un pensiero senza oggetto non è un pensiero. Se ogni pensiero ha un oggetto bisogna che gli universali siano pensieri di qualcosa: così si pone il problema della loro natura. Boezio mutua la risposta da Alessandro d’Afrodisia: i sensi ci danno le cose in stato di confusione/ composizione, il nostro spirito (animus)capace di separare e ricomporre tali dati estrapola dai corpi proprietà che si trovano i essi in stato di mescolanza, tra questi i generi e le specie. O lo spirito li trova in essere incorporei, cioè li trova completamente astratti, o li trova in esseri corporei ed estrae da questi ciò che hanno di incorporeo. È ciò che noi facciamo traendo da individui concreti dati nell’esperienza le nozioni astratte di uomo e animale. Non è pensare ciò che non è, non c’è errore a pensare separato ciò che nella realtà è unito. L’errore sta nel pensare congiunte cose che non lo sono nella realtà (Aristotele, Metafisica, libro gamma?/ categorie?). Nulla impedisce di considerare separati generi e specie, sussistono in unione con le cose sensibili, ma li si conosce separatamente dai corpi. Boezio pone la questione in chiave aristotelica, ma ricordando anche la posizione di Platone, non risolve il problema (la teoria aristotelica dell’intelletto agente, che dà pieno significato alla nozione di astrazione spiegando come si possa pensare separatamente ciò che separatamente non esiste manca nel testo di Boezio). Dice solo che lo spirito preleva dal sensibile l’intelligibile senza spiegare la natura e la condizione di quest’operazione. V libro, De consolatione philosophiae: dottrina differente; un essere qualunque, es. l’uomo, è conosciuto in modi diversi, con i sensi, l’immaginazione, la ragione e l’intelligenza. Il senso vede una figura nella materia, l’immaginazione si rappresenta la figura senza materia, la ragione trascende la figura e coglie in generale la specie degli individui, l’intelligenza vede oltre contemplando la forma semplice in se stessa, in una pura veduta del pensiero. Per Boezio la realtà che corrisponde agli universali è quella dell’idea; per lui, come per Agostino, la sensazione è l’atto attraverso il quale l’anima giudica le passioni subite dal suo corpo, le impressioni sensibili ci invitano a volgerci verso le idee. Certamente Boezio era platonico, ma per lui la scienza più alta non è quella dell’intelligibile ma dell’ intellettibile oggetto del pensiero puro, l’intellettibile per eccellenza è Dio. Di Dio abbiamo una conoscenza innata come di bene supremo, un essere tale che non si può concepire nulla di migliore (lo riprenderà S. Anselmo nel suo Monologion). Boezio si basa su questo principio per stabilirne l’esistenza: l’imperfetto non può essere che una diminuzione dell’imperfetto dunque per esistere presuppone che esista anche il perfetto, e che l’esistenza di esseri imperfetti è manifesta dunque non si può dubitare dell’esistenza del perfetto cioè un bene fonte di tutti i beni. Si potrebbe evitare di dimostrare che il perfetto è Dio, perché se non lo fosse allora si dovrebbe ammettere un perfetto principio di Dio e a lui anteriore e ammettere un regresso all’infinito che è assurdo. Dio è il Bene e la beatitudine, in una formula: lo stato di perfezione che consiste nel possedere tutti i beni. Gli uomini non possono divenire beati se non partecipando di Dio, causa prima dell’universo Dio sfugge alle determinazioni del nostro pensiero. Assolutamente perfetto e assolutamente uno il Padre è Dio, il Figlio è Dio e lo Spirito Santo è Dio, la ragione della loro unità sta nella loro non-differenza (lo userà Guglielmo di Champeaux per spiegare come l’universale possa essere uno e comune a tutti). Boezio poi aggiunge che se è perfettamente uno sfugge a tutte le categorie (tesi sviluppata da Eriugena). Ciò che si può dire di Dio concerne il come amministra il mondo, non tanto lui, così si parlerà di lui come di colui che esercita su tutto la sua provvidenza, anche dicendo tutto ciò che di lui può dire comunque l’uomo non l’ha raggiunto. Queste nozioni teologiche, nel De consolatione philosophiae, si presentano senza l’appoggio delle Scritture perché è la filosofia che parla. Vi lOMoARcPSD|1338224 è solo un caso in cui parla del Bene supremo, lib. III pr. 12 in cui cita il Libro della Sapienza VIII 1, che aveva citato anche Agostino a cui Boezio si rifà anche nel preambolo del suo De Trinitate. Dopo l’intellettibile che è Dio vi è l’intelligibile che è l’anima; nel commento su Porfirio dice che le anime sono state unite agli angeli per cui sarebbero dovute preesistere ai corpi. Stessa dottrina è abbozzata in De cons. ph. Lib. III met. II pr.12 e collegata a quella della reminiscenza platonica; più tardi Alberto Magno nel De anima lo annovererà tra i sostenitori della preesistenza dell’anima. Boezio ha abbozzato la gerarchia delle attività conoscitive senza poi sviluppare l’argomento, invece ha sviluppato le sue vedute sulla volontà: (nel De consolatione) sviluppa l’allegoria della Ruota della Fortuna. Gli esseri naturali tendono naturalmente verso i luoghi naturali dove si preserverà la loro integrità, gli uomini devono farlo con la volontà, che è sinonimo di libertà. La volontà è libera solo in quanto Dio ha dotato l’uomo di ragione e della capacità di scegliere, meglio si fa uso della ragione più si è liberi. Dio e le sostanze intellettibili hanno una conoscenza perfetta, dunque il loro giudizio è infallibile: la loro libertà quindi è perfetta. Nell’uomo l’anima è più libera quanto più si regola sul pensiero divino, meno se si volge alla conoscenza delle cose sensibili, è schiava se vuole ciò che il corpo desidera. La felicità più alta è colere ciò che vuole Dio, amare ciò che ama Dio. Come conciliare la libertà umana con la previsione dei nostri atti da parte di Dio? Se le previsioni di Dio sono infallibili o la nostra volontà non può decidere diversamente da come ha previsto e non sarà libera, o è difettosa l’infallibilità della provvidenza divina: problema dei futuri contingenti, questione di logica in Aristotele che non insegnava la previsione divina degli atti umani e poneva un problema ai cristiani. Boezio risponde separando i due problemi: Dio prevede infallibilmente gli atti e li prevede come liberi, il fatto che siano previsti non implica che siano necessitati. Inoltre lo stesso problema è un’illusione poiché Dio è eterno e come tale vive in un perpetuo presente e ha una conoscenza del mondo immediata, presente, mentre il mondo dura nel tempo e in questo vi è un prima e un poi. Egli non prevede, ma provvede, vede eternamente il necessario come necessario e il libero come libero. Boezio interpreta in senso morale la mitologia del Fedro e ritiene che fin da questa vita l’uomo paghi e muti negativamente per le sue colpe. Dopo la psicologia viene la fisiologia/ scienza della natura, nel lib. III del De consolatione: è un riassunto del Timeo commentato da Calcidio: Dio cedendo alla generosità della sua idea di bene orna di forma ad immagine delle idee una materia caotica. Scenario cosmologico che non ha nulla di originale, Boezio ne approfondisce due punti: il rapporto della provvidenza con il destino e la struttura metafisica degli esseri. Subordina alla provvidenza quello che chiama destino, d’accordo con Calcidio. L’ordine delle cose considerato nel pensiero ordinatore di Dio è la provvidenza, considerato come la legge interiore che regola dall’interno il corso delle cose è il destino. L’una sussiste eternamente, l’altra si svolge con le cosse nel tempo essendo legge di queste, il destino serve la provvidenza senza derogare la libertà umana. In una serie di cerchi concentrici in movimento il centro resta immobile e libero. Riguardo il secondo problema: identifica l’essere con il bene, il non-essere con il male (in accordo con Platone e S. Agostino). Per ogni cosa che è esiste è la medesima cosa l’essere e l’essere buono; le cose che sono sostanzialmente buone differiscono dal bene in sé, Boezio risponde con una formula (diversum est esse et id quod est) il cui significato è che nel composto c’è diversità tra l’essere è ciò che è, per il fatto di che ogni essere individuale è un gruppo di accidenti irriducibile ad ogni altro. Formato da questo insieme di determinazioni collegate “è ciò che è” (id quod est) il quale risulta dalle parti che lo compongono ma non è queste prese singolarmente; come luogo è anima e corpo non uno solo dei due, così in ogni parte non è ciò che è. In Dio, per la sua perfetta semplicità, sono tutt’uno il suo essere e ciò che egli è. Esse: l’essere è ciò che lega le parti di un composto in un tutto, è l’elemento costitutivo del tutto. Ogni composto è fatto di elementi determinati da un determinante. L’essere di una sostanza composta è la forma per cui questa è ciò che essa è. Ultimo determinato è materia, ultimo determinante è forma: l’uomo si compone di una materia organizzata in corpo e di un’anima che organizza questa materia in corpo. L’anima è ciò per cui l’uomo è ciò che è, il suo essere che non è sostanza totale, ma solo una parte che separatamente non esiste, dunque ciò che è proprio della sostanza composto, il suo esse, non è/ è solo un “quo est”. Boezio ha posto il problema del rapporto della sostanza con principio del suo essere sostanziale (non del rapporto tra essenza e esistenza). Da qui le formule su cui si soffermeranno molti filosofi nel Medioevo (es.: diversum est esse et id quod est). Il mondo dei corpi naturali: è un insieme di partecipazioni alle idee divine, ordinate dalla provvidenza, forme pure e immateriali che non possono unirsi alla materia ma da cui ne sono venute altre che sono nella materia e formano i corpi. Non forme ma immagini delle forme propriamente dette che sono le idee di Dio (De Trinitate, cap.II), queste formeimmagini sono quei principi attivi che si dicono nature e che sono le cause interne dei movimenti dei corpi e delle loro operazioni. INFLUENZA DI BOEZIO: • De insitutione musica, De insitutione arithmetica, De geometria (che riproduce quella di Euclide): manuali scolastici che rappresenteranno a lungo quasi tutto ciò che il Medioevo saprà su questi argomenti. • I suoi trattati scientifici hanno alimentato l’insegnamento del Quadrivium. • Le sue opere di logica hanno tenuto il posto di quelle di Aristotele per secoli. • Opuscoli: hanno dato l’esempio di una teologia che si costituirebbe come scienza e si dedurrebbe secondo regole. • De consolatione philosophiae: presente e operante in tutte le epoche. La sua composizione letteraria, in parte in versi in parte in prosa, contribuirà al successo del genere “cantafavole”. C’è molto di neoplatonismo del pensiero di Boezio, “tutta la sua dottrina è un esempio classico dell’applicazione dal precetto da egli stesso formulato la fede si può congiungere alla ragione” (Geyer), anche in ciò Boezio poteva richiamarsi a S. Agostino. Tradurre, commentare, conciliare e trasmettere era la prima intenzione di Boezio. Cassiodoro: nato tra il 477 e il 481 e morto verso il 570. Contende con Boezio il titolo di “ultimo dei romani”. Dopo la carriera politica fondò il monastero di Vivarium in Calabria e vi si ritirò, lì morì, lì scrisse il suo De anima e le Institutiones divinarum et secularium litterarum (544). De anima: ispirato ai trattati di Agostino sullo stesso argomento e al De statu animae composto da Claudiano Mamerto verso il 468. Se il pensiero cristiano all’origine aveva scarsa ripugnanza per il materialismo stoico questa tendenza scompare dove vi è l’influenza di Agostino. Claudiano aveva ammesso che come ogni essere creato l’anima dovesse rientrare sotto una o più categorie, l’aveva esclusa, però, dalla categoria di quantità, non concedendole altra grandezza che quella della conoscenza e della virtù. Ugualmente Cassiodoro afferma la spiritualità dell’anima, sostanza finita perché mutevole e creata, presenta interamente nel corpo ma immateriale perché capace di conoscere, immortale perché spirituale e semplice. Questo testo sarà più volte citato, e plagiato. Institutiones: lib. II spesso utilizzato come manuale nelle scuole monastiche, da solo costituisce una sorta di enciclopedia di ciò che deve sapere un monaco sulle arti liberali per studiare e insegnare con profitto le Scritture. Isidoro di Siviglia: morto nel 636. Opere: Origines, Etymologiae che formano un’enciclopedia in 20 libri. Isidoro è persuaso che la natura primitiva e l’essenza stessa delle cose si riconoscono dall’etimologia dei nomi che le designano, se non la si conosce se ne può inventare una ad propositum, per la necessità della causa. Altre sue opere permettevano di completare le informazioni sommarie fornite da parecchie parti della sua enciclopedia; manuali di teologia, una cosmologia, una cosmografia, una meteorologia, una storia universale e una storia moderna. Studi utili per capire come si è costituito il residuo di conoscenze generali preso dalla cultura classica latina. Martino di Bracara: morto nel 580, vescovo moralista che amava Seneca e a lui si ispirò senza copiarlo, per esempio nei suo De quattuor virtutibus De ira e De paupertate. lOMoARcPSD|1338224 L’impero romano aveva assorbito troppo sommariamente troppi popoli diversi per aver avuto il tempo di assimilarli, i legami, già lenti, si disfecero quando molti di quelli che vivevano nell’impero fattisi cristiani si videro esclusi da questo e perseguitati. Il Discorso vero di Celso sottolineò con forza che l’intemporalismo dei cristiani minacciasse l’integrità dell’impero accusandoli di non interessarsi agli affari pubblici. L’autore ignoto della Lettera a Diogneto, datata II secolo poco dopo l’opera di Giustino, esprime già l’idea d’un regno dei cieli interno alla patria terrena e che dall’interno la vivifica, non la sopprime. Posta dall’origine in un impero che la respingeva la chiesa s’è trincerata nella sua spiritualità essenziale non rivendicando altro che le funzioni di un’anima che vivificherebbe il corpo dello Stato. Dal momento della conversione di Costantino la posizione dei cristiani nell’impero divenne diversa: legato l’impero alla chiesa si è confusa la fedeltà all’uno con la fedeltà all’altra (es.: S. Ambrogio parla della chiesa come capo del mondo romano e afferma che l’eresia rompendo la fede verso Dio ha infranto anche la fede verso l’impero; Epistolae XI 4). Ciò ebbe il termine, nel 410 i Goti alla guida di Alarico invasero Roma e la saccheggiarono, catastrofe di immane portata tanto per l’impero quanto per la chiesa, fatto che rappresentava un trionfo per la tesi pagana. Per far fronte alle tesi anti-cristiane Agostino nel 413 cominciò a scrivere il De Civitate Dei: parla di una città, definita chiaramente dall’inizio dell’opera, si cui Dio è fondatore, vive quaggiù per la fede, in pellegrinaggio tra gli empi, la fine del suo pellegrinaggio è il cielo. La Civitas Dei è provvisoriamente confusa con quella terrena, i cristiani fanno parte di entrambe e per amore verso Dio si comportano da cittadini irreprensibili, per motivi diversi dai soli cittadini della città terrestre ma questo non impedisce l’accordo di fatto, nella pratica, delle virtù sociali. I pagani hanno avuto una certa probità morale, questo aveva fatto la grandezza di Roma, non c’è ragione per cui le due città non debbano accordarsi. La Città di Dio deve condurre a quella felicità che tutti cercano e che la città terrestre è incapace di dare, incapacità testimoniata dai suoi stessi dottori, i filosofi che hanno condotto la loro ricerca con l’aiuto della sola ragione. Ciò che di vero hanno detto i filosofi lo dicono i profeti ma scevro di ogni errore. Ciò che nella città terrena non è che una libera opinione nella Città di Dio diviene rottura del legame dottrinale che costituisce la sua unità. La contrapposizione delle essenze delle due città non ne esclude né la coabitazione né la collaborazione, sottolinea Agostino pur distinguendole. Le disgrazie di Roma significano solamente che la felicità non è di questo mondo. Agostino incita l’imperatore ad adoperarsi per l’espansione della chiesa, ma non si appoggia più, come Prudenzio, all’impero per il trionfo della chiesa. L’espressione “agostinismo politico” può designare tre diversi oggetti: 1. Principio stesso si una società soprannaturale distinta essenzialmente dallo stato ma con esso compatibile; 2. Conseguenze pratiche tratte poi dallo stesso Agostino da questi stessi principi dopo il sacco di Roma; 3. Conseguenze pratiche tratte da questi stessi principi da altri pensatori cristiani in differenti circostanze politiche. Agostino per parte sua si figura la politica dei cristiani in modo simi le a ciò che descriveva la Lettera a Diogneto. Agostino chiese ad un sacerdote spagnolo Paolo Orosio di scrivere di tutte le sventure di cui avevano sofferto in passato i popoli pagani, in questa teologia della storia afferma che ogni potenza viene da Dio, in primo luogo quella dei re e tanta di dimostrare che l’impero abbia tratto vantaggio dal divenire cristiano. Ritiene che Dio abbia destinato l’impero a preparare la pace del mondo e metterla a disposizione di Cristo, con Prudenzio, ma ritiene anche che l’impero sia stato punito per i suoi errori, con Agostino. Le Historiae di Orosio arrivano fin quasi il 418, questo quadro della successione provvidenziale degli imperi resterà sotto gli occhi degli storici del Medioevo; il Bousset sarà il continuatore di Orosio, più che di Agostino. Gelasio I: papa dal 492 al 496; fa osservare che l’imperatore è figlio della chiesa, non suo capo. Comunque ritiene distinti potere temporale e spirituale. Il re è sottomesso al vescovo nell’ordine spirituale, il vescovo sottomesso al re nell’ordine temporale. Il dualismo che sostiene Gelasio è collegato alla dottrina che sosterrà Dante nel suo De Monarchia: i due poteri sono coordinati allo stesso ultimo fine. Quando la Città di Dio viene a confondersi con la chiesa questa può rivendicare i suoi diritti sul temporale. Nulla fa pensare che Agostino avesse previsto quest’evoluzione, ma questa senza la sua nuova nozione di corpo sociale non sarebbe stata possibile. I Padri della chiesa ripresero da Seneca e da Cicerone certe nozioni relative all’origine dello Stato, alla sua natura e all’universalità del diritto, ma non hanno avuto una concezione cristiana dell’origine della società. 5.La cultura patristica latina: La differenza tra la patristica latina e quella greca è espressione di quella tra le due culture. Nella letteratura latina la metafisica non è mai stata altro che un argomento di importazione, ma Roma ha prodotto notevoli moralisti: fatto importante perché dalla letteratura latina ha origine la cultura dell’alto Medioevo. Questa si era comunque ampiamente dischiusa alle influenza greca. La più chiara espressione dell’ideale che domina questa cultura si trova nelle opere di Cicerone. Lui ritiene l’uomo distinto dagli animali per il linguaggio: è un animale parlante. Chi coltiva l’eloquenza coltiva la propria umanità. Però sia nel De inventione rhetorica che nel De oratore ha denunciato l’errore di chi pensa di acquisire l’eloquenza imparando la retorica. Sedotti dal fascino della sapienza gli uomini poi decideranno di dedicarsi solo a questa, Socrate patriarca di questi disertori e responsabile del divorzio tra sapienza ed eloquenza. Bisogna reinsegnare ai filosofi ad essere eloquenti e agli oratori a pensare: il modello deve essere quello del doctus orator, poiché si può essere filosofi senza essere eloquenti ma non eloquenti senza essere filosofi. Deve essere istruito in quelle che poi saranno le sette arti liberali del Medioevo: grammatica, retorica, filosofia/dialettica (trivio) e le matematiche (aritmetica, geometria, musica, astronomia; quadrivio). A queste ha aggiunto tutte le conoscenze che convengono ad un avvocato e ad un oratore politico, i quali devono parlare un po’ di tutto, dunque si richiede all’oratore una cultura generale che deve andare ad aggiungersi alla conoscenza delle sette arti liberali. Dopo il trionfo di Giulio Cesare, sotto una dittatura militare, l’eloquenza si trova nelle sue opere filosofiche. Anche Quintiliano, nella sua Institutio oratoria 93-95, reclama l’alleanza tra eloquenza e filosofia ma per altri fini, formare un uomo dabbene che sapesse esprimersi con proprietà. Filosofia: per Cicerone fonte dell’eloquenza; per Quintiliano faceva tutt’uno con la lettura dei moralisti ed era una questione di educazione più che di insegnamento. È di grande rilievo il fatto che tutti i Padri della chiesa latina, la cui autorità dominerà il pensiero del Medioevo, abbiano dapprima subito la formazione intellettuale preconizzata da Cicerone e codificata da Quintiliano. Per Agostino la tecnica della cultura classica era ancora buona (Enarrationes in Psalmos; gli stessi salmi sono poesie), bisognava solo modificarne lo spirito. Il cristiano posto dinanzi al testo della Scrittura, come il grammatico dinanzi Omero e Virgilio, doveva comprenderlo per poterlo spiegare e per comprendere il testo si richiedevano tutte le risorse delle arti liberali. Agostino cita Cicerone esplicitamente descrivendo il tipo di eloquenza e stile che conviene al cristiano (De doctrina christiana). L’appello di Agostino fu ascoltato: rifare l’opera di Varrone ad uso dei cristiani sarà l’ambizione dopo che di Isidoro di Siviglia di Beda, di Rabano Mauro e altri. Il tipo di cultura trasmessa dai Padri latini al Medioevo era una specie di eloquentia christiana, eloquenza in senso ciceroniano dove la sapienza cristiana rimpiazza quella dei filosofi. Questa sopravviverà fino alla metà del XIII secolo, quando si presenteranno variazioni saranno dovute alle irruzioni di qualche influenza metafisica greca. III. Dalla rinascenza carolingia al X secolo: Le origini del movimento filosofico medievale sono legate allo sforzo di Carlomagno per migliorare la situazione intellettuale e morale dei popoli che governa; l’impero carolingio amava considerarsi un prolungamento nel tempo dell’antico impero romano. L’impero romano è morto ma la chiesa cattolica salverà la sua cultura dal disastro imponendola ai popoli d’Occidente. 1.La trasmissione della cultura latina: lOMoARcPSD|1338224 Roma aveva inviato missionari in Gran Bretagna già prima dell’invasione degli Anglosassoni. I Bretoni furono negligenti nell’insegnare la fede ai Sassoni, di cui Beda gliene fa una colpa. Cronaca anglosassone nota nel 596: “Quest’anno il papa Gregorio inviò Agostino in Bretagna con molti monaci, per predicare agli inglesi la parola di Dio”; Beda racconta il successo che ebbe dall’inizio: questi sono gli inizi della storia della cultura intellettuale dell’Europa medievale. Si imponeva di reclutare un clero indigeno: dal 644 un prete inglese divenne vescovo di East Anglia, anche il suo successore sarà un anglosassone. Nel 655 un sassone succedette ad Agostino a Canterbury. Per prima cosa fu necessario insegnare la lingua della chiesa: così ha avuto inizio l’importazione di un rudimento di cultura latina presso in Inghilterra. Metà VIII secolo: Roma riteneva utile inviare in Inghilterra dei missionari che fossero anche delle persone colte. Alla morte del successore di Agostino fu inviato Teodoro, monaco greco, con l’abate africano Adriano a cui affidò il monastero di Canterbury. I due insegnavano oltre alle Scritture anche il greco; la conoscenza del greco cominciò a diffondersi in Inghilterra, ma non era una conoscenza profonda di questo. Il monachesimo irlandese ha esercitato un’influenza profonda nell’assetto della vita religiosa e delle arti sacre. Adelmo di Malmesbury: 639-709. La sua formazione testimonia che vi era differenza di impostazione degli studi tra Malmesbury e Canterbury, avendo studiato nella prima arrivato nella seconda si rese conto di dover ancora imparare tutto. Nella seconda era insegnato il Diritto Romano, metrica, prosodia, figure retoriche secondo il concetto ciceroniano, quasi fosse dovuto divenire doctus orator. Lo spirito che animava questa cultura: Adelmo in una lettera scrive che lo studio delle lettere profane deve servire da mezzo per comprendere meglio le Sacre Scritture. Vinfrith: giovane sassone dell’ovest. Studiò a Nursling che lasciò prima per andare in Frisia, poi a Roma per poi andare in Germania ad evangelizzare, ebbe talmente tanto successo che papa Gregorio II lo richiamò a Roma nel 722 e lo consacrò primo vescovo dei popoli germanici. Poi divenne vescovo di Magonza e morì martirizzato nel 758. Nella storia della chiesa è chiamato “san Bonifacio, apostolo della Germania”. 742 Carlomagno (che nel 747 abdicherà per farsi religioso) lo invitò a riorganizzare la chiesa nel suo ducato di Austrasia, lui accettò. A riguardo scrisse una lettere all’amico Zaccaria lamentando che la religione si era persa, vi erano sacerdoti che non sapevano più battezzare, altri che abitavano con concubine e chi, comunque, non aveva affatto variato il proprio stile di vita, ma piuttosto aveva continuato a ubriacarsi e uccidere, indifferentemente pagani o cristiani. Benedetto Biscop: ministro del re Oswy, quando decise a 25 anni di divenire ministro di Dio. A Roma conclude i suo studi a tempo del papa Vitaliano. Completa i suoi studi a Roma; sta due anni nel monastero di Lerins, in cui consegue l’ordine di S. Benedetto. Accompagnò Teodoro e Adriano a Canterbury, assunse la direzione del monastero di San Pietro che poi lasciò ad Adriano. Tornò a Roma per la quarta volta, portando con sé molti libri di cultura religiosa. A Vienna prende altri libri radunati per lui che porta nel Northumberland dove riceve un terreno dal re Egfrido nelle vicinanze del fiume Were, da cui il nome del monastero che vi fonda: san Pietro di Wearmouth. Dopo un anno si reca in Gallia con muratori e vetrai perché possano costruirvi una chiesa. Poi tornò a Roma per la quinta volta, di lì porta con sé un maestro di canto liturgico e innumerevoli libri d’ogni specie. Poi ottenne dal re Egfrido altri terreni in cui fondò un altro monastero dedicato a san Paolo. I due monasteri per lui dovevano costituire un’unica fondazione religiosa. Tornò a Roma per la sesta volta per portarne indietro paramenti liturgici, reliquie e libri per il monastero di S. Paolo: questa fu l’origine di Jarrow nella cui biblioteca, formata da Biscop, si stava per formare l’opera di Beda. La personalità storica Attraverso S. Agostino, Giovanni Scoto si ricollega al più genuino spirito della ricerca filosofica, quale era apparso nell'età classica della Grecia. Egli è consapevole delle esigenze sovrane della ricerca e le afferma recisamente. Quando si urta davanti alla realtà incomprensibile di Dio o dell'essenza delle cose non ripiega le sue armi dialettiche né prescrive l'abbandono alla fede, ma ricomprende la stessa incomprensibilità nell'ambito della ricerca, la dialettizza e ne fa un elemento di chiarezza. L'opera di Giovanni Scoto ha avuto un'importanza decisiva per l'ulteriore corso della scolastica. Le sue fonti principali sono le opere di S. Agostino, dello Pseudo-Dionigi (che Giovanni stesso tradusse dal greco che è impossibile che imparò in Irlanda, più probabilmente a Parigi dove vi soggiornavano molti monaci greci in quest’epoca; e dove tradusse quest’opera), e dei Padri della Chiesa, specialmente di S. Gregorio e di S. Massimo. Nella speculazione posteriore non c'è filosofo della scolastica che non si ricolleghi a lui o direttamente o polemicamente. Il papa Onorio III, con una bolla del 23 gennaio 1225, condannava il suo capolavoro: De divisione naturae. Molti dottori scolastici, prima e dopo la condanna, polemizzano contro le sue affermazioni, ma la sua speculazione segna su tutti i punti una pietra miliare della scolastica. La vita e le opere GIOVANNI SCOTO è detto ERIUGENA dalla sua regione nativa, l'Irlanda (Eriu = Erin, Irlanda). La sua data di nascita deve cadere intorno all'810. Non si sa con precisione l'anno in cui si recò in Francia alla corte di Carlo il Calvo, ma dovette essere nei primi anni del regno di questo re, prima dell’847. Egli partecipò, infatti, alla controversia teologica suscitata dalle tesi del monaco Gotescalco intorno alla predestinazione; ora la condanna di Gotescalco avvenne nell'853, dopo lunghi e solenni dibattiti. Da Carlo il Calvo, Giovanni fu posto a capo dell'Accademia di Palazzo o Schola Palatina, a Parigi; per invito dello stesso re tradusse le opere di Dionigi l'Areopagita di cui l'imperatore bizantino Michele Balbo aveva fatto dono a Ludovico il Pio nell'827. Il papa Nicolò I si lamentò presso il re che Giovanni non avesse sottoposto questa traduzione alla censura ecclesiastica prima di pubblicarla e volle istituire un processo contro le eresie in essa contenute. Dopo la morte del re Carlo nell'877 non si hanno più notizie sicure di Giovanni. Secondo alcuni, egli è morto in Francia quell'anno stesso, secondo altri tornato in Inghilterra dopo la morte di Carlo il Calvo, a insegnare all’Abbazia di Malmesbury, lì sarebbe stato assassinato dai suoi scolari. L'attività filosofica di Scoto si può distinguere in due periodi. In un primo periodo si è ispirato soprattutto ai Padri latini, cioè a Gregorio Magno, a Isidoro e specialmente a S. Agostino. A tale periodo appartiene lo scritto contro il monaco Gotescalco: De praedestinatione (851). In un secondo periodo, Giovanni ha subito l'influsso dei teologi e filosofi greci. Nell'858 egli tradusse gli scritti dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita, nell'864 gli Ambigua di Massimo Confessore e lo scritto De hominis opificio di Gregorio di Nissa. Questi studi lo guidarono nella elaborazione del capolavoro, il De divisione naturae, in 5 libri. Quest'opera, scritta in forma di dialogo fra maestro e scolaro, è il primo grande scritto speculativo del Medio Evo. Essa mostra già in atto il carattere della ricerca scolastica: il metodo aprioristico o deduttivo, che l'autore maneggia con grande maestria. Le glosse di Giovanni agli Opuscula theologica di Boezio, sono il più antico commentario degli scritti teologici di Boezio. Molto conosciute nel Medio Evo ma mai stampate, devono essere state composte negli ultimi anni, intorno all'870, e stanno alla Divisio naturae nello stesso rapporto in cui le Retractationes stanno alle altre opere di S. Agostino. La cultura e la capacità speculativa di Giovanni Scoto lo pongono molto al disopra del livello dei suoi contemporanei. Non solo egli conosce il greco e traduce da questa lingua, ma desume dagli scrittori e dallo spirito greco una grande libertà di ricerca e di indirizzo speculativo. Fede e ragione lOMoARcPSD|1338224 Il presupposto della ricerca di Giovanni Scoto è l'accordo intrinseco tra ragione e fede, tra la verità cui giunge la ricerca libera e quella rivelata all'uomo dall'autorità degli scritti sacri e degli scrittori ispirati: «Non vi è salvezza per le anime dei fedeli se non nel credere a ciò che si dice con verità intorno all'unico principio delle cose e nell'intendere ciò che con verità si crede» (De div. nat., II, 20). L'autorità delle Sacre Scritture è indubbiamente indispensabile all'uomo perché esse sole possono condurlo ai recessi segreti in cui abita la verità (I, 64). Ma il peso dell'autorità non deve in nessun modo distoglierlo da ciò di cui lo persuade la retta ragione: «La vera autorità non ostacola la retta ragione né la retta ragione ostacola l'autorità. Non c'è dubbio che entrambe emanano da una unica fonte, cioè dalla sapienza divina». Ma la dignità maggiore e la priorità di natura spettano alla ragione, non all'autorità. La ragione è nata all'inizio dei tempi insieme con la natura: l'autorità è nata dopo. L'autorità deve essere approvata dalla ragione, altrimenti appare malferma; la ragione non ha bisogno di essere appoggiata o corroborata da alcuna autorità. Infine l'autorità stessa nasce dalla ragione, giacché la vera autorità non è altro che la verità trovata per virtù di ragione dai santi Padri e da essi tramandata in iscritto per il vantaggio dei posteri. E Giovanni fa pronunciare dal Maestro, che è l'interlocutore principale del dialogo, un energico invito alla libera ricerca: «Noi dobbiamo seguire la ragione che cerca la verità e non è oppressa da alcuna autorità e in alcun modo impedisce che sia pubblicamente diffuso ed esposto ciò che i filosofi assiduamente cercano e laboriosamente giungono a trovare». Questa decisa affermazione della libertà della ricerca, che fa di Giovanni Scoto un superstite antesignano dello spirito filosofico dei Greci, non implica in lui nessuna limitazione o negazione della religione. Giacché la religione non si identifica con l'autorità, ma con la ricerca. Religione e filosofia sono tutt'uno: «Che significa trattare di filosofia se non esporre le regole della vera religione per cui la somma e principale causa di tutte le cose, cioè Dio, è umilmente adorata e razionalmente investigata?». Giovanni è, qui, vicinissimo allo spirito della ricerca agostiniana, per il quale la fede è un punto d'arrivo più che un punto di partenza, è al termine della lunga e laboriosa via della ricerca, anziché all'inizio ed è piuttosto la direzione e la guida della ricerca anziché un limite e un impaccio. E difatti il presupposto agostiniano della Verità suprema, che si rivela e si afferma nella ricerca umana, ritorna in Giovanni. La natura umana per sé considerata è una sostanza tenebrosa, capace però di partecipare della luce della sapienza. Quando l'aria partecipa del raggio solare non è luminosa di per sé, ma per lo splendore del sole che appare in essa; così la parte razionale della nostra natura, quando partecipa del Verbo, cioè della Verità divina, non intende di per sé le cose intellegibili e Dio, ma solo le conosce per il lume divino che è in essa. Nella ricerca umana chi trova non è l'uomo che cerca, ma la luce divina che nell'uomo cerca. La parola di Gesù secondo S. Giovanni: «Non siete voi che parlate, ma Dio che parla in voi,» è intesa da Scoto come se dicesse: «Non siete voi che intendete me, ma io che intendo me stesso in voi attraverso lo spirito mio». Le quattro nature Il titolo dell'opera principale di Giovanni Scoto: La divisione della natura, è di schietta origine platonica. La «divisione», cui esso allude è l'operazione fondamentale della dialettica platonica, operazione che l'Eriugena ritiene costituisca la struttura stessa della natura; e la «natura», è, secondo gli insegnamenti del Parmenide e del Sofista, l'insieme dell'essere e del non essere. Prendendo lo spunto da un luogo di S. Agostino (De civ. Dei, V, 9) Eriugena divide la natura in quattro parti. La prima natura crea e non è creata; ed è la causa di tutto ciò che è e non è. La seconda è creata e crea; ed è l'insieme delle cause primordiali. La terza è creata e non crea ed è l'insieme di tutto ciò che si genera nello spazio e nel tempo. La quarta non crea e non è creata ed è Dio stesso come fine ultimo della creazione. Fa parte di queste quattro nature non solo tutto ciò che è, ma anche tutto ciò che non è. Per non-essere non s'intende il nulla, ma soltanto la negazione delle varie determinazioni possibili dell'essere. Così si può dire che non sono le cose che sfuggono ai sensi e all'intelletto; o le cose inferiori, nei confronti delle cose superiori e celesti, o le cose future che non ancora sono; o quelle che nascono e muoiono; o infine quelle che trascendono l'intelletto e la ragione. Tutte le cose di questo genere in qualche modo non sono: non si identificano però col nulla e rientrano nella realtà universale, che Scoto chiama natura. Le quattro nature costituiscono il circolo vitale dell'essere divino: «In primo luogo Dio discende dalla superessenzialità della sua natura, nella quale deve dirsi che egli non è, e da se stesso creato nelle cause primordiali diventa il principio di ogni essenza, di ogni vita, di ogni intelligenza e di tutto ciò che la teoria gnostica considera come cause primordiali. In secondo luogo, egli discende alle cause primordiali che stanno in mezzo fra Dio e la creatura, fra l'ineffabile superessenzialità di Dio che trascende ogni intelletto e la natura che si manifesta a coloro che hanno lo spirito puro; diviene negli effetti delle cause primordiali e si manifesta apertamente nelle sue teofanie. In terzo luogo, procede attraverso le forme molteplici di tali effetti sino all'ultimo ordine dell'intera natura che contiene i corpi. Così ordinatamente giungendo in tutte le cose, crea tutte le cose e diventa tutto in tutto; e ritorna in se stesso, richiamando in sé tutto e, mentre diviene in tutto, non cessa di essere al di sopra di tutto». Questa circolarità, per la quale la vita divina procede a costituirsi costituendo le cose e con esse ritornando a se stessa, è il pensiero fondamentale di Giovanni Scoto. In esso è implicita la determinazione del rapporto fra Dio e il mondo. Il mondo è Dio stesso, in quanto teofania o manifestazione di Dio; ma Dio non è il mondo perché creandosi e divenendo col mondo, rimane al di sopra di esso. La prima natura: Dio La prima natura è Dio in quanto è privo di principio, ed è la causa principale di tutto ciò che da esso e per esso è creato e il fine unico di tutto ciò che da lui discende. Dio è infatti il principio, il mezzo e il fine: è principio in quanto da lui derivano tutte le cose che partecipano della sua essenza; è il mezzo, in quanto in lui e per lui sussistono e si muovono tutte le cose; è il fine, in quanto tutte le cose si muovono verso di lui, in cerca della quiete del suo movimento e della stabilità della sua perfezione. Come principio, mezzo e fine, la natura divina non solo crea, ma anche è creata. È creata da se stessa nelle cose che essa stessa crea, al modo in cui il nostro intelletto crea se stesso nei pensieri che formula e nelle immagini che riceve dai sensi. Dio è increato nel senso che non è creato da altro e come tale è al disopra di tutti gli esseri e non può essere né compreso né definito adeguatamente. Esso è unità, ma unità ineffabile che non si chiude sterilmente nella sua singolarità ma si articola in tre sostanze: la sostanza ingenita o Padre, la sostanza genita o Figlio, la sostanza procedente dall'ingenita e dalla genita o Spirito Santo. Giovanni desume dallo PseudoDionigi la distinzione delle due teologie, la positiva e la negativa. La prima afferma di Dio tutti gli attributi che gli competono. L'altra nega che la sostanza divina possa essere determinata con i caratteri delle cose che sono, cioè che possa comunque essere compresa od espressa. Ma gli stessi caratteri che la teologia positiva attribuisce a Dio assumono in questo riferimento un valore diverso da quello che hanno quando sono riferiti alle cose create. Dio non è propriamente essenza, ma superessenza: non è verità ma superverità: e lo stesso si dica di tutti i caratteri positivi che si possono predicare di Dio. Sicché anche la teologia positiva è in realtà negativa, a meno che non si voglia dire positiva e negativa insieme; giacché dire che Dio è superessenza equivale ad affermare e negare nello stesso tempo che egli sia essenza. Certo è che a Dio non si può attribuire nessuna delle categorie aristoteliche, le quali riferite a lui acquistano un significato diverso. Se Dio cadesse nell'ambito di qualcuna delle categorie, egli sarebbe un genere (come, ad es., animale) mentre egli non è né genere né specie né accidente e così nessuna categoria può propriamente qualificarlo. La conclusione è che tutto ciò che la ragione umana può fare nei confronti di Dio è di dimostrare che nulla si può propriamente affermare di lui. «Egli supera ogni intelletto e ogni significato sensibile e intellegibile, talché lo si conosce ignorandolo e l'ignoranza di Lui è la vera sapienza». Ma se Dio è inaccessibile come natura superessenziale, si rivela da sé nella creazione, che è una continua manifestazione di lui o teofania. La divina essenza, di per sé incomprensibile, appare nelle creature intellettuali ed è possibile conoscerla in esse. Teofania è il processo che da Dio discende all'uomo attraverso la grazia per ritornare attraverso l'uomo a Dio con l'amore. Teofania è anche ogni opera della creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa visibile in essa e attraverso di essa. lOMoARcPSD|1338224 per avvicinarsi a Dio non è l'affermazione ma la negazione, non la conoscenza ma l'ignoranza, perché Dio, essendo privo di limiti, non si può definire e restringere in un'essenza determinata; così, se fosse possibile per l'anima conoscere la sua propria essenza, ciò significherebbe la possibilità di circoscriverla e implicherebbe la sua difformità dal Creatore. Divinità dell'uomo Circola in tutta l'opera di Giovanni Scoto il senso del valore superiore e divino dell'uomo. Il pessimismo proprio degli scrittori cristiani e dello stesso Agostino intorno alla natura e ai destini dell'uomo si attenua in lui sino a trasformarsi nell'esaltazione dell'uomo, delle sue capacità e della sua ultima riuscita. «Non immeritatamente, egli dice, l'uomo è stato chiamato l'officina di tutte le creature: difatti tutte le creature si contengono in lui. Egli intende come l'angelo, ragiona come uomo, sente come l'animale irragionevole, vive come il germe, consiste di anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata». In un certo senso l'uomo è superiore all'angelo stesso il quale, privo come è di corpo, manca di sensibilità e di movimento vitale. Molto significative sono le considerazioni che Scoto svolge con visibile compiacenza intorno al tema ,«se l'uomo non peccasse...». Se l'uomo non peccasse, sarebbe certo onnipotente come Dio. Nulla infatti lo dividerebbe da Dio ed egli, che di Dio è immagine, parteciperebbe in pieno alla perfezione del suo originale. Per Io stesso motivo, sarebbe onnisciente perché, come Dio, conoscerebbe nelle loro cause primordiali tutte le cose create. Se il primo uomo non avesse peccato, la somiglianza tra la natura angelica e la natura umana si sarebbe trasformata in identità e l'uomo e l'angelo sarebbero diventati la stessa cosa. E ciò si spiega, giacché la stessa identità si stabilisce tra uomo e uomo quando reciprocamente si intendono. «Se, dice Scoto, io intendo ciò che tu intendi, divento lo stesso tuo intelletto e in qualche modo ineffabile divento te stesso. E quando tu intendi ciò che io intendo, tu diventi il mio intelletto e di due intelletti se ne fa uno, costituito da ciò che entrambi sinceramente e compiutamente intendiamo. Giacché l'uomo è veramente il suo intelletto, il quale è reso specifico e individuato dalla contemplazione della verità» . La perfezione dell'uomo è tale che neppure il peccato originale basta a distruggerla. Con esso l'uomo non perdette la sua natura che, in quanto immagine di Dio, è necessariamente incorruttibile: perdette solo la felicità alla quale sarebbe stato destinato se non avesse disprezzato il comando divino. «Bisogna dire, afferma Giovanni, che la natura umana, che è fatta ad immagine di Dio, non perdette mai la forza della sua bellezza e l'integrità della sua essenza e mai può perderli. Una forma divina, come è l'anima, rimane sempre incorruttibile; al più, diventa capace di sopportare la pena del peccato». Con lo stesso ottimismo Giovanni considera il destino ultimo dell'uomo. La morte è per l'uomo il principio di una ascesa che lo porta a identificarsi con Dio. Non c'è morte per l'uomo, ma ritorno ad uno stato antico, che egli aveva perduto peccando. La prima fase di questo ritorno a Dio si ha quando il corpo si dissolve nei quattro elementi dai quali è composto. La seconda fase è la risurrezione, con la quale ognuno riceverà di nuovo il suo corpo per la riunione dei quattro elementi. Nella terza fase, il corpo si trasformerà in spirito. Nella quarta, l'intera natura umana ritornerà alle sue cause primordiali che sussistono immutabilmente in Dio. Nella quinta fase, la natura umana, insieme con le sue cause si muoverà in Dio «come l'aria si muove nella luce». Questo trionfo finale della natura umana non sarà dunque l'annullamento in Dio. L'annegamento mistico e panteistico dell'uomo in Dio è escluso da Giovanni Scoto. Il destino della natura umana non è quello di perdersi nell'essere divino, ma di rimanere nella sua vera sostanza, di integrarla nelle sue cause primordiali e di sussistere nella sua compiutezza nell'ambito dell'essere divino, come l'aria nella luce. Il misticismo neoplatonico viene qui corretto dal senso del carattere irreducibile della natura umana, carattere per il quale essa conserva anche di fronte a Dio, e in virtù di Dio, la sua autonomia sostanziale. Il male e la libertà umana Questo stesso atteggiamento conduce Giovanni a modificare la dottrina agostiniana della libertà umana. Da S. Agostino egli prende lo spunto per la sua dottrina del male. Che il male non sia realtà, ma negazione di realtà, è per Giovanni un presupposto evidente. Da questo presupposto egli trae la conclusione che Dio non conosce il male. La conoscenza divina è infatti immediatamente creatrice: Dio non conosce le cose che sono, perché sono: ma le cose sono, perché Dio le conosce. La causa della loro essenza è la scienza divina. Tutto ciò che è, è pensiero divino. L'uomo è definito da Scoto come «una nozione intellettuale eternamente creata nella mente divina»; e la stessa definizione si applica a tutto ciò che esiste. Da ciò si vede che, se Dio conoscesse il male, se il male fosse un pensiero divino, esso sarebbe reale nel mondo. Ma il male non è reale. Esso non è nulla di sostanziale e le stesse apparenze seducenti di cui si riveste di fronte agli uomini malvagi non sono cattive di per se stesse. Un oggetto bello e prezioso che ispira cupidigia nell'avaro ispira invece ammirazione disinteressata al saggio. Non è dunque la bella apparenza che fa peccare ed è male in se stessa, ma la cattiva disposizione di chi la considera. Del male, che non è realtà, non c'è dunque prescienza in Dio; e neppure predestinazione. La pena cui va incontro colui che pecca non è predestinata da Dio: giacché anch'essa è dolore e mancanza, non realtà positiva. La pena è la conseguenza del peccato e lo segue come se gli fosse legata da una catena; ma né pena né peccato sussistono nella mente divina, nella quale trovano posto soltanto l'essere e il bene. Quando le sacre scritture parlano di predestinazione o di prescienza divina del male, bisogna intendere queste espressioni nel senso in cui noi diciamo di sapere che, dopo il tramonto del sole, vengono le tenebre, che il silenzio viene dopo l'acclamazione e la tristezza dopo la gioia. Ma le tenebre, il silenzio, la tristezza, non sono altro che nozioni negative e indicano solo l'assenza delle realtà positive corrispondenti. Per Scoto, come per S. Agostino, il male si riduce dunque al peccato, a deficienza o assenza di volontà. Ma mentre per S. Agostino la volontà libera è soltanto la volontà del bene, per Giovanni Scoto la volontà libera è il libero arbitrio capace di decidersi sia per il bene sia per il male. Certamente la causa del peccato è la mutevolezza della volontà. Questa mutevolezza, che è causa del male, è certamente essa stessa un male. Ma senza di essa l'uomo non sarebbe veramente e pienamente libero. Se Dio avesse dato all'uomo soltanto la capacità di volere il bene e di vivere secondo giustizia, in modo che l'uomo potesse muoversi solo in un modo, l'uomo non sarebbe assolutamente libero, ma libero solo in parte ed in parte non libero. Ora una libertà parziale non è possibile. Se anche in minima parte l'uomo non è libero, è assolutamente non-libero. Un libero arbitrio che zoppica, non sta in piedi. Se si risponde che non sarebbe nociuto all'uomo avere un libero arbitrio claudicante, bisogna ribattere che senza un vero e totale libero arbitrio la giustizia divina non avrebbe potuto esplicarsi. Giacché la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo e, da parte di Dio, nel riconoscere a ciascun uomo il merito di avere obbedito ai suoi comandi. Ma quale significato avrebbero questi comandi per un uomo che non potesse fare altro che il bene? Dio dunque dovette dare all'uomo un libero arbitrio per il quale potesse peccare o non peccare. Soltanto un libero arbitrio siffatto mette l'uomo in grado di usufruire liberamente dell'aiuto offertogli dalla grazia divina. La libertà dell'uomo è dunque possibilità di peccare o non peccare, perché solo tale possibilità rende l'uomo suscettibile di essere premiato o punito secondo il giudizio. E poiché soltanto la volontà dotata di libero arbitrio è responsabile del peccato, soltanto la volontà è punita da Dio. Anche i giudici umani, se non sono mossi da sete di vendetta, hanno in vista la correzione dei rei e puniscono, non la loro natura, ma solo il loro delitto. Allo stesso modo la punizione divina del peccato si rivolge soltanto alla volontà che ha commesso il peccato, ma lascia integra e salva la natura del peccatore, che rimane capace di ritornare a Dio nel trionfo finale. A questo trionfo l'uomo è aiutato insieme dalla sua natura e dalla grazia divina. Alla propria natura l'uomo deve essere tratto dal nulla e il durare, alla grazia deve la sua deificatio, per la quale ritorna alla sostanza divina. La natura è data, la grazia è un dono gratuito, concesso dalla divina bontà senza merito da parte dell'uomo. La logica Conformemente all'indirizzo platonizzante del sistema, la logica di Scoto Eriugena è realistica: presuppone la realtà oggettiva di tutte le determinazioni logiche universali, di tutti i concetti di genere e di specie. E nello spirito di tale logica che quanto più un concetto è universale, tanto maggiore è la sua realtà oggettiva; così i concetti dei generi generalissimi sono più reali di quelli dei generi meno estesi; e i concetti di genere sono più reali dei concetti di specie in cui ogni genere si suddivide; infine le specie specialissime, cioè gli individui, hanno minore realtà delle specie superiori o più estese. Commentando un passo biblico, Scoto afferma che Dio creò prima il genere, perché in esso sono contenute e stanno insieme tutte le specie; il genere poi si divide e si moltiplica nelle forme generali e nelle specie specialissime. Da ciò egli trae una considerazione fondamentale sul valore oggettivo della dialettica: «Quell'arte che divide i generi nelle specie lOMoARcPSD|1338224 e risolve le specie e i generi, la dialettica, non è stata creata da accorgimenti umani, ma è fondata nella natura stessa, è stata creata dall'Autore di tutte le arti che sono veramente arti, scoperta dai sapienti ed usata per il vantaggio di ogni solerte indagine sulle cose». E così la tavola logica dei concetti disposti secondo l'ordine della loro universalità, si identifica, secondo Scoto, con l'ordine metafisico delle determinazioni dell'essere. La più universale determinazione logica, quindi la più reale determinazione oggettiva, è l'essenza (ousìa) che è incorporea, semplice ed indivisibile. L'essenza esiste nei generi e nelle specie, ma non si divide in essi, bensì rimane immoltiplicata, pur moltiplicandosi nei generi, nelle specie e negli individui. «L'essenza sussiste tutta insieme, è eternamente e immutabilmente nelle sue suddivisioni e tutte le sue suddivisioni costituiscono simultaneamente e sempre, in essa, un'unità inseparabile». Perciò l'essenza di tutte le cose è in realtà una sola, ed è Dio stesso. Essa è inconoscibile e incomprensibile come Dio stesso; ciò che si percepisce coi sensi o si comprende con l'intelletto in ogni creatura è solo qualche accidente dell'incomprensibile essenza. La logica di Scoto, nata due secoli prima che la disputa sugli universali diventasse il problema fondamentale della dialettica, presenta in anticipo la soluzione tipicamente realistica di tale problema ed è la fonte di tutte le soluzioni dello stesso tipo che furono adottate in seguito. Essa rappresenta anche il termine di confronto polemico per le scuole antirealistiche. 3.Da Eirico d’Auxerre a Gerberto d’Aurillac: Centri di cultura latina furono nei monasteri di Saint-Martin di Tours, Fulda, San Gallo, Ferrières e Corbie. A questi aggiungiamo la scuola benedettina di Auxerre. Eirico d’Auxerre: 841-876. Monaco dell’abbazia benedettina di Saint-Germain studiò poi a Auxerre, poi a Ferrières sotto Servato Lupo, poi a Laon dove ebbe per maestro l’irlandese Elia. Eirico era un poeta latina al quale dobbiamo una raccolta di estratti di autori classici e parecchi commenti grammaticali. Come maestro di dialettica ha lasciato delle glosse dell’apocrifo Agostino; considerava le Categoriae decem non un trattazione letterale ma un libero adattamento di Sant’Agostino. Dalle sue glosse si riconosce l’influenza di Scoto Eriugena. Eirico adotta la nozione eriugeniana di natura che connota tutto ciò che è e ciò che non è e Dio stesso. Definisce essere: ogni essenza semplice e immutabile creata da Dio come Animale (nel senso di “genere animale”) e gli elementi semplici; al contrario ciò che è composto dai quattro elementi si dissolve, perisce e i suoi elementi si risolvono nel tutto da cui provengono. Rifiuta esplicitamente il realismo dei generi e delle specie (ha dovuto indovinare Aristotele dai commenti di Boezio), per lui ciò che costituisce la realtà concreta è la sostanza particolare, gli individui sono gli unici esseri sostanziali, generi e specie non indicano delle sostanza distinte. Come questo empirismo si concilia nel suo pensiero con il suo eriugenismo? Eirico interpreta gli universali come dei nomi che permettono al pensiero, ingombrato dalla moltitudine degli individui, di riassumerli sotto termini la cui comprensione è sempre più ristretta e l’estensione sempre più larga: cavallo specie, animale genere e essere che, infine, contiene tutto. Suo allievo che prenderà la sua cattedra ad Auxerre è Remigio d’Auxerre, anch’egli prepotentemente influenzato da Eriugene, legge Boezio alla luce del platonismo cristiano di Eriugena, il che gli è criticato anche dal suo storico più recente Courcelle. Abbone di Cluny: morto nel 1004, dirige la scuola claustrale di Fleury-sur-Loire, abiente di cultura letteraria, filosofica e teologica più fiorente in questo periodo. Vi insegnava oltre alla dottrina dei Padri la dice, non cerca di scrutarla con l'argomentazione e di concepirla con la ragione; preferisce prestar fede ai misteri celesti piuttosto che affaticarsi vanamente, mettendo in disparte la fede, a comprendere ciò che non può essere compreso». Ma nonostante queste affermazioni, Lanfranco fu egli stesso un dialettico. Se la dialettica, abbandonata a sé, fallisce nel campo dei misteri della fede, guidata e sorretta dalla fede può rendere utili servigi alla fede stessa. In questo spirito egli commentò le lettere di S. Paolo come ci è testimoniato da Sigberto di Gembloux (De script. eccles., c. 155, in Patr. Lat., 160°, 582 c.): «Lanfranco, dialettico e arcivescovo di Canterbury, espose le lettere dell'apostolo Paolo: ed ovunque se ne presentò l'opportunità presentò le sue tesi, i suoi argomenti e le sue conclusioni secondo le regole della dialettica». Si può dire che nel rapporto tra la ragione e la fede, Lanfranco abbia assunto lo stesso atteggiamento che fu poi proprio del suo grande discepolo, Anselmo d'Aosta. Contro i dialettici polemizza PIER DAMIANI, nato nel 1007 a Ravenna. Nel 1035 si ritirò in eremitaggio a Fonte Avellana e di lì fu chiamato nel 1057 per essere consacrato vescovo cardinale di Aosta. Morì a Faenza nel 1072. La maggior parte dell'opera di Pier Damiani è dedicata all'ascesi monastica e a questioni ecclesiastiche. Il suo atteggiamento di fronte alla dialettica e alle scienze mondane è fissato nello scritto composto nel 1067, De divina omnipotentia. «Spesso, egli dice, la divina virtù distrugge i sillogismi armati dei dialettici e le loro sottigliezze e confonde gli argomenti che sono stati dai filosofi giudicati necessari e inevitabili» (De div. omnip., 10). Perciò la dialettica, e in generale ogni arte o perizia umana, non deve assumersi arrogantemente il compito principale ma deve seguire l'insegnamento delle Sacre Scritture «come una serva la sua padrona, con il debito ossequio» (velut ancilla dominae quodam famulatus ossequio.). La tesi tipica di Pier Damiani è l'assoluta superiorità dell'onnipotenza divina nei confronti della natura e della storia. Poiché le leggi sono date alla natura da Dio, le cose naturali obbediscono alle loro leggi finché Dio lo vuole; ma, quando egli non vuole, dimenticano la loro natura ed obbediscono a lui. L'onnipotenza divina non trova un limite neppure nel passato: giacché Dio può fare che le cose accadute non siano accadute: per quanto il può (al tempo presente) si riferisce alla volontà di Dio che è eterna quindi fuori del tempo; e noi dovremmo piuttosto dire che poteva non farle accadere. A molti degli stessi Scolastici considerazioni simili sembrarono implicare la tesi della superiorità dell'onnipotenza divina rispetto allo stesso principio di contraddizione: quella tesi si può esprimere infatti dicendo che Dio può fare che non siano accadute le cose accadute. Comunque, Pier Damiani si serviva della tesi dell'onnipotenza divina per togliere validità autonoma all'intero mondo della natura e dell'uomo; ed anche nel campo politico (come ci testimoniano le considerazioni svolte nella sua Disceptatio sinodalis) la sua preoccupazione dominante era quella di togliere all'imperatore ogni dignità di potenza autonoma e di considerarlo come un semplice delegato del papa. 2.Roscellino e il nominalismo: Nato a Compiègne verso il 1050, studiò nella provincia ecclesiastica in cui era nato. Ebbe per maestro un tale Giovanni il Sofista, insegnò come canonico a Compiègne fu accusato davanti al concilio di Soissons di insegnare che ci sono tre dei, abiurò quest’errore e poi riprese l’insegnamento a Tours, a Loches dove abbe Abelardo come discepolo. Dovette morire verso il 1120. Si è soliti considerarlo instauratore del nominalismo, che nel secolo XI apportò una nuova soluzione al problema degli universali. Bisogna comunque notare che anche nell’epoca precedente in cui dominava nettamente il realismo si incontrano filosofi che ricordavano che la logica di Porfirio, Boezio e Aristotele verte sulle parole (voces), e non sulle cose (res). La concezione di Eirico d’Auxerre vi si avvicina; lo Pseudo Rabano afferma che Porfirio nel suo Isagoge parla di 5 termini, non di 5 cose; ma questi non hanno posto il problema degli universali con sufficiente coscienza della sua complessità. È difficile stabilire con esattezza la sua posizione filosofica considerando che di lui abbiamo poche opere distinguendo ciò che ha insegnato da ciò che gli avversari lo accusarono di insegnare. L’unico punto lOMoARcPSD|1338224 indubbio: Roscellino rimane per i suoi contemporanei e i posteri rappresentante di un gruppo di filosofi che confondevano l’idea generale con la parola con cui la si designa. Per i filosofi che facevano dell’idea generale una realtà la specie stessa costituiva necessariamente una realtà, invece se l’idea generale non è che un nome la vera realtà si trova negli individui che costituiscono la specie. Per un realista l’umanità è una realtà, mentre per un nominalista di reale non ci sono che gli individui umani. Roscellino aderisce alla seconda, per lui il termine “uomo” non designa alcuna realtà che sarebbe quella della specie umana. “Uomo” corrisponde a due realtà concrete, quella fisica del termine stesso come emissione di fiato; dall’altro ci sono gli individui umani che questo termine ha il compito di significare. Non vi è nient’altro dietro ai termini di cui ci serviamo. Non applicò il suo nominalismo alla dialettica, piuttosto alla teologia, più celebra applicazione a questa riguarda la sua interpretazione triteista del dogma della Trinità. Non aveva intenzione di affermare che esistono tre dei piuttosto che in Dio, come nelle cose create, sono gli individui ad essere reali, le tre persone che costituiscono Dio. Scrive ad Abelardo che dire che “il Figlio è il Padre, e il Padre è il Figlio” vuol dire confondere in una singola cosa entità che invece sono ognuna unica e distinta, comunque la Trinità ha una sola potenza e una sola volontà. Ha comunque intenzione di attenersi al dogma, egli ebbe semplicemente l’imprudenza di andare contro la terminologia acquisita chiamando “sostanza” ciò che era chiamato “persone”. 3.Anselmo di Canterbury: Anselmo d'Aosta rappresenta la prima grande affermazione della ricerca nel Medio Evo. Ma la ricerca ha in lui un valore religioso e trascendente, più che umano. Con accenti agostiniani, egli ne abbandona a Dio l'iniziativa e la guida; e non vede nello sforzo di accedere alla verità rivelata se non la progressiva azione illuminatrice della verità stessa. «Insegnami a cercarti, – egli dice – e mostrati a me che ti cerco. lo non posso cercarti, se tu non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti, che ri desideri cercandoti, che ti trovi amandoti, e che ti ami trovandoti. lo ti riconosco, Signore, e ti ringrazio di aver creato in me questa tua immagine affinché di te sia memore, ti pensi e ti ami; ma essa è così consunta dal logorio dei vizi, così offuscata dal cumulo dei peccati, che non può far quello per cui fu fatta, se tu non la rinnovi e non la ricostituisci. Non tento, o Signore, di penetrare la tua altezza perché non paragono affatto ad essa il mio intelletto, ma desidero in qualche modo di intendere la tua volontà, che il mio cuore crede ed ama. Né cerco di intendere per credere; ma credo per intendere. E anche questo credo: che se prima non crederò, non potrò intendere». La priorità della fede sull'intendere esprime chiaramente il carattere religioso della ricerca di Anselmo, come la priorità dell'intendere sulla fede esprimerà il carattere filosofico della ricerca di Abelardo. Questa religiosità trova la sua migliore espressione nel punto culminante della speculazione di Anselmo, la prova ontologica dell'esistenza di Dio. Come Anselmo stesso riconosce nella sua risposta a Gaunilone, il presupposto della prova è la fede. La fede sola trasforma in affermazione indubitabile la possibilità di pensare l'essere maggiore di tutti. Se si può pensare quest'essere, si deve pensarlo esistente; ma si può veramente pensarlo soltanto nella fede. La prova ontologica è la fede stessa che si chiarisce nel suo principio e diventa certezza intellettuale. Vita e scritti ANSELMO nacque nel 1033 ad Aosta. Entrò nel monastero di Bec in Normandia e ne divenne priore nel 1063, abate nel 1078. La maggior parte delle sue opere sono il risultato delle discussioni che dirigeva nel monastero. Dal 1093 sino al 1109, anno della morte, fu arcivescovo di Canterbury. Abbiamo dal suo segretario Eadmer un dettagliato racconto della sua vita. Di natura mite e contemplativa, Anselmo fu spinto alla vita del chiostro dal bisogno di raccoglimento e di meditazione. La sua fama di santo gli attribuì ben presto poteri soprannaturali. Guarì e portò alla penitenza un vecchio monaco, di cui previde la morte che si verificò al tempo e nel modo che egli aveva predetto. Spense l'incendio d'una casa vicina al chiostro, facendo il segno della croce rivolto alle fiamme. E una volta che era nella cella a meditare sul dono della profezia, vide attraverso i muri i frati preparare nella chiesa l'ufficio di mezzanotte. Tolto contro sua volontà alla vita contemplativa, dovette occuparsi di affari e di politica, dapprima come abate di Bec, poi come arcivescovo di Canterbury. Per quest'ultima qualità si trovò coinvolto nelle vicende agitate della Chiesa inglese, all'epoca del re Guglielmo il Rosso, che pretendeva subordinare ai suoi voleri il clero inglese e sottrarsi all'autorità papale. Anselmo si recò a Roma a cercar appoggio e conforto presso Urbano II. Ritornato in Inghilterra, venne in contrasto anche col nuovo re Enrico I, che voleva conservare il diritto di investire i vescovi con la croce e l'anello. Si venne a un compromesso, per il quale il re rinunciava a conferire l'investitura, e i vescovi gli facevano omaggio (1106). Qualche anno dopo Anselmo, che non aveva mai trascurato le sue meditazioni, moriva mentre cercava di concludere le sue ricerche sull'origine dell'anima. Tra il 1070 e il 1078 Anselmo compose il Monologion, il cui primo titolo era Exemplum meditandi de ratione fidei: poi il Proslogion che dapprima si intitolava Fides quaerens intellectum e la sua appendice polemica Liber apologeticus contra Gaunilonem; in seguito compose i quattro dialoghi De veritate, De libero arbitrio, De casu diabuli, De gramatico. Negli ultimi anni della vita scrisse il Cur Deus homo e la sua appendice De concepiti virginali. Altre sue opere sono: De fide trinitatis, De concordia praescientiae et praedestinationis, Meditationes; ed inoltre, omelie, orazioni e lettere. Fede e ragione Il motto che esprime l'atteggiamento di Anselmo sul problema scolastico è: credo ut intelligam. La fede è il punto di partenza della ricerca filosofica. Non si può intendere nulla, se non si ha fede; ma la fede sola non basta, occorre confermarla e dimostrarla. Questa conferma è possibile. «Ciò che crediamo per fede intorno alla natura divina e alle persone di essa, all'infuori dell'incarnazione, può essere dimostrato con ragioni necessarie, senza ricorrere all'autorità delle scritture». E poiché è possibile è doverosa: «È negligenza non cercare di intendere ciò che si crede, dopo che ci si è confermati nella fede». L'incarnazione stessa è presentata da Anselmo, nello scritto che ha dedicato all'argomento, come una verità cui la ragione può giungere da sola: non c'è dubbio infatti che gli uomini non avrebbero potuto salvarsi, se Dio stesso non si fosse incarnato e non fosse morto per essi. Così Anselmo ritiene l'accordo tra ragione e fede intrinseco ed essenziale. Certo, se un contrasto apparisse, non bisognerebbe ammettere la verità del ragionamento, anche se questo sembrasse imbattibile: ma Anselmo è intimamente sicuro che non può esserci un vero contrasto, perché l'intelletto e illuminato dalla luce divina, esattamente come la fede. Ciò non implica d'altronde che la verità sia interamente a portata dell'uomo. «Checché l'uomo possa dire o sapere, dice Anselmo, le ragioni più alte dei misteri della fede gli rimingono sempre nascoste. A chi indaga una realtà incomprensibile, come è la Trinità, basti di giungere col ragionamento a conoscere che essa ci sia, anche se non intende in che modo essa sia. Anselmo ha così affermato in limiti estesi il valore della ricerca. Egli distingue la verità della conoscenza, la verità del volere e la verità della cosa. La verità della conoscenza consiste nella conformità della conoscenza con la cosa e si ha quando si conosce la cosa come essa è. Questa verità viene definita da Anselmo come rectitudo cognitionis. La verità della volontà è, analogamente, rectitudo voluntatis. Agire secondo la verità, significa fare il bene, far quello che si deve fare. Ma anche qui il criterio è obiettivo; la misura è nell'oggetto, cioè nella cosa. Il fondamento di ogni verità è la verità della cosa, la rectitudo rei. Ma questa verità a sua volta è fondata nella verità eterna, che è Dio: le cose sono lOMoARcPSD|1338224 determinati, puramente esteriori, come quando si dice che essa è maggiore di tutte le altre mature. Solo in questi limiti la categoria dell'accidentale non contraddice alla natura divina. La creazione Poiché Dio e l'essere e le cose sono solo per partecipazione all'essere, ogni cosa deriva il suo essere da Dio. Tale derivazione è una creazione dal nulla. E difatti, le cose create non possono derivare da una materia. Questa a sua volto dovrebbe derivare da sé, il che è impossibile, o dalla nitura divina. In questo caso, la natura divina sarebbe la materia delle cose mutevoli e soggiacerebbe alla mutevolezza e alla corruzione di esse. Essa, che è il Sommo Bene, andrebbe in esse soggetta a mutevolezza e o corruzione; ma il Bene Sommo non può cessare di essere tale. La materia delle cose create non può essere né da sé né da Dio; non c'è dunque una materia delle cose create. Non resta allora che ammettere che esse sono create dal nulla. Contro l'interpretazione (che si trova, per esempio, in Eriugena) che il «nulla» da cui le cose derivano sia alcunché di positivo, per esempio una causa materiale o una realtà potenziale, Anselmo ha cura di aggiungere che esso non è né una materia né altra cosa reale; e che l'espressione «creazione dal nulla» significa soltanto che il mondo prima non c'era ed ora c'e. L'espressione «creazione dal nulla,» è identica a quella che si adopera dicendo che , «si è fatto dal nulla» un uomo che ora e ricco e potente e prima non lo era. Essa indica il salto dal nulla a qualche cosa. Il mondo è stato, tuttavia, razionalmente prodotto e niente può essere prodotto in tal modo senza supporre nella ragione di chi produce un esemplare della cosa da prodursi, cioè una forma, similitudine o regola di essa. Deve cioè esserci, nella mente divina, il modello o l'idea della cosa prodotta, come nella mente dell'artefice umano c'è il concetto dell'opera da prodursi: con la differenza che l'artefice ha bisogno di una materia esterna per effettuare la sua opera e Dio no, e che il primo deve ricavare dalle cose esterne il concetto stesso dell'opera; mentre Dio crea da sé l'idea esemplare. Nell'uno e nell'altro caso, però, l'idea dell'opera è una specie di parola interiore; Dio si esprime nelle idee, come l'artefice nel suo concetto: né l'espressione è una parola esterna, una voce; è la cosa stessa, alla quale si rivolge l'acume della mente creatrice. La creazione dal nulla è appunto questa articolazione interiore della parola divina. Senza l'attività creatrice di Dio, nulla è e nulla dura; Dio non solo porta all'essere le cose, ma le conserva e le fa durare continuando la sua azione creatrice. La creazione è continua. Da ciò segue che Dio è e deve essere dappertutto; dove egli non è, nulla è e nulla sta in piedi. Questo non vuol dire, certo, che egli sia condizionato dallo spazio e dal tempo. In lui non c'è un alto né un basso, né un prima, né un dopo; ma Egli è tutto in tutte le cose esistenti e in ciascuna di esse e vive di una vita interminabile che è tutta insieme (totum simut) presente e perfetta. La Trinità La parola interiore di Dio non è suono di voce, ma essenza creatrice. Questo è il punto di partenza della speculazione trinitaria di S. Anselmo. Quella parola interiore è la divina Sapienza, il Verbo di Dio: per esso tutto è stato detto e tutto è stato fatto. Il Verbo da un lato è identico con l'essenza di Dio, dall'altro identico con l'essenza della creatura. E identico con l'essenza di Dio, perché non è creatura ma principio della creatura e perché è in Dio, in cui non sussiste diversità né molteplicità. Dall'altro lato, è l'essenza stessa delle cose create: giacché di che cosa sarebbe Verbo se non fosse verbo di esse? Ogni verbo è verbo di qualche cosa. Bisogna forse intendere allora che non ci sarebbe il Verbo, se non ci fossero le creature? La cosa è inconcepibile, perché il Verbo è necessario ed eterno come Dio stesso. Ma d'altronde, se le creature non ci fossero, come potrebbe, esso, esser verbo di ciò che non è? La soluzione è che il Verbo è in primo luogo l'intelligenza che Dio ha di sé. Come la mente umana conosce e intende se stessa, così Dio: il Verbo è dunque coeterno con Dio perché è l'eterna intelligenza che Dio ha di sé. Ma nello stesso tempo è anche il verbo delle cose create. «Con un solo e medesimo Verbo il Sommo Spirito dice se stesso e tutte le cose create,». Se tali cose in se stesse sono mutevoli, sono tuttavia immutabili nella loro essenza e nel loro fondamento, che è nel Verbo divino; ed esistono tanto più veramente quanto più sono simili a tale fondamento. Dal suo canto, il Verbo, pur nella sua identità col Sommo Spirito, si distingue da esso: essi sono due sebbene non possa esprimersi in che modo lo sono. Essi sono distinti dalla reciproca relazione, in quanto l'uno è il Padre, l'altro il Figlio; e sono invece identici nella sostanza, in quanto c'è nel Padre l'essenza del Figlio e nel Figlio l'essenza del Padre. Unica e indivisibile è infatti l'essenza di entrambi. Ora se il Sommo Spirito si riconosce e si intende nel Figlio, deve anche amarsi; inutile sarebbe infatti l'intelligenza senza l'amore. L'amore dipende dunque dall'intelligenza che il Sommo Spirito ha di sé: cioè dipende insieme dal Padre e dal Figlio. Questa dipendenza non è generazione: l'amore non è figlio. E' tuttavia una dipendenza che implica partecipazione alla loro comune natura; e poiché tale natura è spirito, l'amore si chiama Spirito. Ognuna delle tre persone divine, partecipando dell'intera natura divina, ricorda, intende e ama, senza bisogno dell'altra. Benché sia proprio del Padre la memoria, del Figlio l'intelligenza, dello Spirito l'amore, ognuno di essi è essenzialmente memoria, intelligenza ed amore. Né dalla memoria, dall'intelligenza e dall'amore di ciascuno di essi derivano altri figli e :litri spiriti: in ciò è il mistero inesplicabile della Trinità divina. S. Anselmo ha cercato di chiarire con un'immagine questo mistero. Consideriamo, egli dice una sorgente il fiume che nasce da essa e il lago in cui le sue acque si raccolgono: noi diamo all'insieme di queste tre cose il nome di Nilo. Si tratta di tre cose distinte l'una dall'altra: eppure noi chiamiamo Nilo la sorgente, Nilo il fiume, Nilo il lago e Nilo infine tutto l'insieme. Non parliamo di tre Nili, per quanto siano tre cose tra loro distinte. Sono tre, la sorgente, il fiume e il lago; eppure è sempre l'unico e stesso Nilo, un solo flusso, una sola acqua, una sola natura. C'è qui una trinità in uno e un'unità in tre, che è l'immagine della Trinità divina. La libertà La ricerca istituita da Anselmo nel Monologion e nel Proslogion mira a comprendere Dio nella sua esistenza e nella sua essen:a. Anselmo tenta di tradurre con essa la certezza della fede in verità filosofica; e con ciò di offrire una via di accesso alla verità rivelata, tale che l'uomo possa giungerle il più vicino possibile. Ma parallelamente a questa ricerca, Anselmo ne conduce un'altra, indirizzata all'uomo questa, e alle sue possibilità di innalzarsi a Dio. Il tema di questa ricerca è la libertà. Ad essa Anselmo ha dedicato due opere; il De libero arbitrio e il De concordici praescentiae et praedestinationis nec non et gratiae Dei cum libero arbitrio, composta, quest'ultima, nel 1109, dopo il suo ritorno in Inghilterra. La libertà suppone, in primo luogo, due condizioni negative: che la volontà sia libera dalla costrizione di ogni causa esterna e che sia libera dalla necessità naturale interna, quale è l'istinto negli animali. La libertà è essenzialmente libertà di scelta e la scelta manca dove c'è costrizione e necessità. Posto ciò Anselmo esclude che la libertà possa definirsi (come aveva fatto l'Eriugena) quale possibilità di scegliere tra il peccare e il non peccare. Se così fosse, né Dio né gli angeli, che non possono peccare, sarebbero liberi. In ogni caso poi è più libero chi non può perdere ciò che gli giova, di chi lo può perdere; ed è così più libero chi non può allontanarsi dalla rettitudine del non peccare, di chi può farlo. La capacità di peccare non aumenta, ma diminuisce la libertà; perciò non è parte o elemento della libertà. Il primo uomo ha ricevuto da Dio originariamente la rettitudine della volontà, cioè la giustizia. Avrebbe potuto e dovuto conservarla; ed a questo fine appunto gli tu data la libertà. La quale dunque non e arbitrio di indifferenza, cioè volontà che si decide indifferentemente tra il bene e il male; è la capacità positiva di conservare la giustizia originaria e di conservarla per la stessa giustizia, e non in vista di un motivo estraneo. Questo potere in cui consiste la libertà non viene perduto dall'uomo in nessun caso, e neppure con il peccato. Come chi non vede più un oggetto, conserva la capacità di vederlo perché il non vederlo dipende dalla lontananza dell'oggetto e non dalla perdita della vista; così la capacità di conservare la rettitudine della volontà permane nell'uomo anche attraverso il peccato ed entra in azione appena Dio restituisce la rettitudine della volontà all'uomo che l'ha perduta. Ora l'uomo può perderla solo per un atto della sua volontà e mai per cause esterne. Dio stesso non può toglierla all'uomo. Poiché essa consiste nel volere ciò che Dio vuole che si voglia, se Dio la togliesse all'uomo, non vorrebbe che l'uomo volesse quello che Egli vuole che voglia. Poiché questo è impensabile, Dio non può togliere all'uomo la volontà giusta; l'uomo solo può perderla. Niente è dunque più libero della volontà. A ciò non contraddice il detto biblico che l'uomo che pecca diventa «schiavo del peccato». Che diventi schiavo del peccato significa solo che perde la rettitudine della volontà e che non ha la capacità di riacquistarla, se non per dono gratuito lOMoARcPSD|1338224 di Dio. La servitù del peccato è l'impotentia non pecccandi: l'uomo che ha perduto la rettitudine della volontà non può non peccare, ma con ciò rimane libero, perché conserva la possibilità di conservare quella rettitudine, se essa gli viene ridata. Già risulta da questo che Anselmo, come S. Agostino, pone uno stretto rapporto tra la libertà umana e la grazia divina. Non c'è dubbio che la volontà vuole rettamente soltanto perché è retta. Ma come la vista non è buona perché vede bene, ma vede bene perché è buona, così la volontà non è retta perché vuole rettamente, ma vuole rettamente perché è retta. Ciò vuol dire che la volontà riceve la sua rettitudine, non da se stessa (dal momento che ogni suo singolo atto retto la presuppone) ma dalla grazia divina. L'ultima condizione della libertà umana è dunque la grazia divina. Come capacità di conservare la giustizia originaria, la libertà umana è condizionata dal possesso di questa giustizia; e tale possesso può venirle solo da Dio. Prescienza e predestinazione Come la libertà umana non si oppone per nulla alla grazia divina, così nessun limite o restrizione apportano alla libertà stessa la prescienza e la predeterminazione divina. Certamente Dio prevede tutte le azioni future degli uomini; ma questa previsione non impedisce che le azioni siano effettuate liberamente. Dio infatti prevede le azioni degli uomini nella libertà, che ne è l'attributo fondamentale. Non bisogna dire, dice S. Anselmo, «Dio prevede che io peccherò o che io non peccherò» ma bisogna aggiungere che egli prevede che io peccherò o non peccherò senza necessità; e così, sia che io pecchi, sia che io non pecchi, l'una e l'altra cosa sarà libera, perché Dio stesso prevede che ciò avverrà senza necessità. Vi è una necessità duplice; l'una che precede l'effetto, l'altra che segue alla realizzazione di una cosa. La prima è veramente determinante, la seconda non lo è. La prima è, per esempio, implicita nell'affermazione «I cieli necessariamente girano», la seconda è implicita nell'affermazione «Tu parlerai». Difatti la necessità naturale costringe i cieli a muoversi, mentre non c'e necessità che costringa un uomo a parlare. Anche in questo caso la previsione si verificherà ed è quindi certa; la sua certezza però non annulla né diminuisce la libertà del fatto previsto. Indubbiamente ciò che è, è impossibile che non sia. Un'azione libera, una volta verificatasi, ha quindi una necessità di fatto, che costringe a riconoscerla per quella che è. Ma questa necessità di fatto non ne annulla la libertà, sebbene la renda prevedibile con assoluta certezza da parte di Dio. Considerazioni analoghe valgono per la predestinazione. Dio predestina alla salvezza gli eletti, e quelli che non predestina sono dannati. Si può dunque parlare di una predestinazione anche dei dannati, in quanto Dio permette la loro dannazione: sebbene la predestinazione sia positiva ed effettiva soltanto per gli eletti. La predestinazione tiene conto della libertà. Dio non predestina nessuno facendo violenza alla sua volontà, ma lascia sempre la salvezza in potere del predestinato. Come la prescienza, che non si inganna mai, sa in anticipo tutto ciò che avverrà, sia che avvenga necessariamente sia che avvenga liberamente, così la predestinazione, che non muta mai, non predestina se non in virtù ed in conformità della prescienza. Sono predestinati alla salvezza solo coloro di cui Dio conosce in anticipo la buona volontà. Il male A concetti agostiniani si riporta la trattazione di Anselmo del problema del male. Come ci sono due specie fondamentali di bene, la giustizia e l'utile, così ci sono due specie fondamentali di male: l'ingiustizia (malum injustitiae) e il danno (malum incommodi). Il male vero e proprio è soltanto l'ingiustizia. L'ingiustizia è sempre alcunché di negativo; essa è la pura e semplice negazione di ciò che deve essere, cioè della giustizia. E poiché il bene e veramente solo la giustizia, il male non ha in nessun case realtà positiva: è una pura negazione e può a buon diritto essere chiamato il nulla. Quanto al danno, cioè al male fisico, anche esso e, nella sua essenza, negazione; ma qualche volta gli si accompagna una qualche azione positiva, alla quale in realtà si pensa quando lo si chiami male. Così non c'e dubbio che la cecità, per esempio, è semplice privazione della vista; ma ad essa si accompagnano tristezza e dolore, che sono realtà positive e costituiscono l'aspetto pauroso del male. Tuttavia la tristezza, il dolore e l'orrore che queste cose determinano nell'anima seguono alla privazione del bene, che è il vero fondamento di ogni male. Il vero e unico bene è la giustizia per la quale sono buoni, cioè giusti, gli angeli e gli uomini e per la quale la volontà stessa e buona L’imperatore è come un figlio amatissimo nelle braccia del padre, ma è il papa ad avere la dignità e l’autorità paterna. Pier Damiani non si è mai chiesto come la fede potrebbe entrare in rapporto con la ragione, perché per lui la ragione non aveva diritto ad uno statuto separato dalla fede. Non si conoscono scritti specificamente dedicati a dare un fondamento dottrinale alla nozione di “Cristianità”, ma Gregorio VII ne fa liberamente uso come faranno anche i suoi successori. In un primo luogo la Cristianità si presenta come la società formata da tutti i cristiani sparsi nel mondo (così sembra non differire dalla chiesa) la determinazione che la caratterizza è il fatto che i cristiani formano una società religiosa di essenza soprannaturale, ma per il solo fatto di che sono esseri umani viventi nello spazio e nel tempo formano una società temporale e di conseguenza un popolo che non si confonde con nessuno dei corpi politici esistenti e questo stesso non è un corpo politico. Così definita la Cristianità non poteva confondersi con l’impero, poiché includeva tutti i cristiani, e c’erano dei cristiani al di fuori dell’impero. V. La filosofia nel secolo XII: 1.La scuola di Chartres: Il naturalismo chartrense Il problema degli universali, fin dalle sue prime impostazioni, costituisce il segno di un nuovo interesse per l'uomo e in particolare per i suoi poteri conoscitivi; e il risultato immediato di quest'interesse è una più estesa autonomia riconosciuta a tali poteri. Ma il secolo XII ci offre anche, in taluni indirizzi filosofici, l'esempio di un nuovo interesse per il mondo della natura; ed anche in questo caso il risultato di questo interesse è il riconoscimento di una più estesa autonomia della natura nei confronti del suo stesso creatore. Questo secondo aspetto della Scolastica del XII secolo costituisce l'indirizzo seguito dai filosofi che insegnarono alla Scuola cattedrale di Chartres, che era stata fondata, alla fine del secolo X, da FULBERTO (morto nel 1028). Ma accanto all'interesse naturalistico, la scuola di Chartres coltivò pure l'interesse per gli studi letterari e grammaticali e per la logica: sicché essa ci offre la migliore documentazione della svolta che la filosofia scolastica subì nel secolo XII: una svolta per la quale l'intero mondo dell'uomo viene scrutato e guardato con rinnovato interesse, pur nel posto subordinato che esso conserva di fronte alle forze trascendenti che lo reggono. I temi di filosofia naturale, che i filosofi di Chartres preferirono, sono molto semplici e tutti si riconnettono col tentativo di Abelardo di inserire il Timeo platonico sul tronco della teologia cristiana. Abelardo aveva identificato la platonica Anima del mondo con lo Spirito Santo. Quest'identificazione viene mantenuta dai filosofi di Chartres, ma essi identificano pure l'Anima del mondo con la Natura. Con ciò, la natura diventa la forza motrice, ordinatrice e vivificatrice del mondo; e in questa azione acquista una dignità ed una potenza autonoma. La natura è detta la forza universale (vigor universalis) che non solo fa essere ogni singola cosa ma la fa essere quella che in particolare essa è. E nelle composizioni letterarie che esprimono immaginosamente e secondo i modelli classici questi stessi concetti, viene personificata ed esaltata come la figlia di Dio, la genitrice di tutte le cose, l'ordine, lo splendore e l'armonia del mondo. Ma l'importante è che, riconosciuta alla natura questa dignità, si rende possibile riconoscerle anche una certa autonomia: si rende cioè possibile spiegare la natura con la natura; e i filosofi di Chartres, utilizzando le fonti classiche e patristiche (e specialmente Cicerone), ricorrono volentieri a dottrine epicuree e stoiche per le loro spiegazioni cosmologiche. Ovviamente, l'utilizzazione di dottrine così eterogenee –platonismo, epicureismo, stoicismo, mescolate insieme nella storta della teologia lOMoARcPSD|1338224 abelardiana – dà luogo a costruzioni concettuali eterogenee e confuse che hanno scarso valore scientifico e filosofico. Ma l'importanza di questi tentativi non è nei loro risultati, bensì piuttosto nell'indirizzo filosofico che delineano: un indirizzo deciso a fare un conto sempre maggiore della natura e dell'uomo, anche se la natura e l'uomo vengono concepiti, non in opposizione al trascendente, ma come manifestazioni del trascendente medesimo. L'indirizzo che trova nella scuola di Chartres la sua più ricca espressione filosofica era stato preparato, sin dal secolo precedente, da una certa ripresa delle conoscenze scientifiche dovuta soprattutto ai contatti con gli Arabi. Fin verso la metà dell'XI secolo, per ciò che riguarda la scienza naturale e la medicina, la cultura medievale era rimasta ferma all'opera di Gerberto di Aurillac. Verso la metà di quel secolo, il medico COSTANTINO AFRICANO porta a conoscenza del mondo occidentale, con numerose traduzioni, la scienza e la medicina greco-araba. Costantino era nato a Cartagine e aveva viaggiato in Oriente e in Egitto. Nel 1060 si fermò a Salerno dove fioriva una grande scuola di medicina. Più tardi divenne monaco nel chiostro di Montecassino. Egli tradusse dall'arabo due libri di medicina intitolati Pantegni e Viaticum che furono in seguito attribuiti anche al medico ebreo Isacco e stampati sotto il suo nome (Lugduni, 1515). In seguito Costantino tradusse opere mediche dello stesso Isacco e dei grandi medici greci Ippocrate e Galeno. Egli richiamò inoltre l'attenzione sulla teoria atomica. Continuò l'opera di Costantino l'inglese ADELARDO DI BATH (nato verso il 1090) che insegnò per qualche anno a Laon, alla scuola di Anselmo, e viaggiò nell'Italia meridionale, in Spagna e nell'Asia minore, per ritornare dopo sette anni in Inghilterra a far conoscere ciò che aveva appreso dagli Arabi. Tradusse allora gli Elementi di Euclide e scritti arabi di aritmetica e di astronomia; e compose due libri di cui uno, Quaestiones naturales, è un'opera di fisica; l'altro, De eodem et diverso, ha la forma di una lettera ad un nipote ed è un'allegoria nella quale la filosofia e la filocosmia si disputano il giovane Adelardo vantando ognuna i propri meriti. Nelle Quaestiones naturales Adelardo esplicitamente contrappone la ragione all'autorità per quel che riguarda l'indagine del mondo naturale. In questa indagine, egli afferma, ciò che bisogna afferrare e conoscere è la ragione delle cose (Quaest. nat., 6). Né questo procedimento toglie nulla alla potenza di Dio; perché Dio fa tutto, ma non fa nulla senza ragione: ed è appunto a conoscere tale ragione che deve tendere la scienza umana. Nella ricerca di questa ragione Adelardo fa spesso ricorso alla teoria atomica che probabilmente desumeva da Costantino Africano e che in questo periodo viene spesso invocata, sebbene sia conosciuta, più che attraverso Lucrezio, attraverso gli accenni di scrittori patristici: Calcidio (In Tim., 279), Ambrogio (In Hexam., 1, 2), S. Agostino (Ep., 118, 4, 28) e Isidoro (Etim., 13, 2, 1 sgg.). Inoltre egli ha per la prima volta introdotta nell'Occidente latino la prova aristotelica dell'esistenza di Dio, dedotta dal movimento (Quaest. nat., 60). Da questo può forse desumersi che aveva conosciuto presso gli Arabi la Fisica di Aristotele, che era ancora inaccessibile ai filosofi dell'Occidente, ed egli cita in un punto. Quanto al problemi degli universali, Abelardo fa sua la soluzione d'Abelardo esprimendola solo in modo diverso. I nomi «genere», «specie», «individuo» sono imposti alla stessa sostanza ma da un diverso punto di vista. Così il nome di genere «animale» designa un soggetto dotato di sensibilità e di anima; il nome di specie «uomo» designa questo stesso soggetto con in più la ragionevolezza e la mortalità; il nome individuale «Socrate» designa tutte le cose precedenti con in più una distinzione numerica dovuta a caratteri accidentali. Adelardo conclude che aveva ragione Aristotele nel dire che i generi e le specie esistono solo nelle cose sensibili; ma aggiunge che aveva anche ragione Platone a dire che essi esistono nella loro purezza, come forme senza materia, nella mente divina. Tutti questi temi e motivi passano nella scuola di Chartres il cui primo rappresentante importante fu BERNARDO, dal 1114 al 1119 maestro nella scuola cattedrale e dal 1119 al 1124 cancelliere del Chiostro. Di lui non possediamo scritti ma conosciamo la sua dottrina dalle testimonianze di Giovanni di Salisbury che nel suo Metalogicus (IV, 35) lo chiama «il più perfetto tra i platonici del suo secolo». Ciò che sappiamo delle sue dottrine appare desunto dal Timeo platonico, visto attraverso Abelardo. Bernardo identificò i generi e le specie con le idee platoniche e ritenne che, come le idee, essi sono eterni. Non sono tuttavia coeterni con Dio nel senso in cui sono coeterne tra loro le persone della Trinità. Le idee, in quanto sussistenti nella mente divina sono prive di materia e non sono soggette al movimento: nella materia ci sono soltanto, impresse da Dio, le immagini di queste forme ideali, immagini che Bernardo chiama forme native e che ritiene seguano il destino delle cose singole. Ma Bernardo fu soprattutto (a quanto ne sappiamo) un grammatico e un letterato, entusiasta ammiratore degli autori antichi: egli diceva che noi siamo, rispetto agli antichi, come nani sulle spalle dei giganti: possiamo vedere più in là di essi solo perché possiamo sollevarci alla loro altezza. Il fratello minore di Bernardo, TEODORICO DI CHARTRES, fu verso il 1121 insegnante a Chartres; verso il 1140 insegnava a Parigi dove Giovanni di Salisbury fu suo scolaro e nel 1141 fu cancelliere di Chartres e nello stesso tempo arcidiacono di Dreux. Morì verso il 1150. Teodorico è autore di un Heptateucon o manuale delle sette arti liberali di cui si servi per il suo insegnamento e che è un documento del materiale di studio di cui si servivano le scuole nella prima metà del XII secolo; di un commentario alla genesi Hexaemeron o De septem diebus e di un commentario al De Trinitate di Boezio. E' sensibile, nella speculazione di Teodorico, l'influsso dell'opera di Scoto Eriugena. Come quest'ultimo, Teodorico distingue quattro cause che sono poi quattro fasi del processo di autorealizzazione di Dio nel mondo: la causa efficiente, che è Dio padre; la causa formale che è la Sapienza o il Figlio di Dio, che ordina la materia; la causa finale che è lo Spirito Santo che anima e vivifica la materia già formata e disposta; e infine la causa materiale che sono i quattro elementi che Dio stesso creò dal nulla in principio. Come si vede Teodorico identifica, con Abelardo, lo Spirito Santo con l'Anima del mondo e nella sua opera ritorna frequente l'insistenza neoplatonica (desunta da Scoto Eriugena) sul primato ontologico dell'Unità, che è Dio stesso. Anzi Teodorico insiste tanto sulla nozione di unità da considerare Dio, nel suo commento al De Trinitate di Boezio, come l'unica forma dell'essere (forma essendi) di cui partecipano tutte le cose esistenti, come dell'unica materia partecipano tutte le cose materiali. E probabile che questa dottrina non avesse, per Teodorico, il significato panteistico che essa a prima vista presenta; ma a tale significato poteva essere tratta e fu tratta da alcuni scolastici. E' poi caratteristica di Teodorico (come di tutti i filosofi di Chartres) la tesi che l'opera miracolosamente creativa di Dio si esaurisce con la produzione dei quattro elementi; creati i quattro elementi, l'azione naturale delle capacità loro proprie produce l'ordinamento del mondo e la disposizione delle sue parti: in quest'azione ha gran parte il fuoco con il suo potere illuminante e riscaldante. Si tratta della vecchia dottrina stoica, desunta dalla tradizione neoplatonica. Scolaro di Bernardo fu GUGLIELMO DI CONCHES, di cui sappiamo pochissimo. Nacque, forse, verso il 1090, era ancora vivo nel 1154 e fu insegnante di grammatica a Chartres. Scrisse una Philosophia che è la sua prima opera sistematica; un Dragmaticon, composto tra il 1144 e il 1149 che può ritenersi la sua opera più matura. Estratti dal Dragmaticon sono il De secunda e il De tertia philosophia. Scrisse anche Glosse a Boezio, Glosse al Timeo, e un trattato di etica Moralium dogma philosophorum che è una raccolta di massime morali tratte da autori pagani e ordinate sistematicamente. A Guglielmo viene pure talvolta attribuito un Compendium philosophiae in sei libri che viene anche dall'altro lato attribuito a Ugo di S. Vittore, ma che è probabilmente l'opera di un compilatore anonimo. In tutti questi scritti si ritrovano, pur con qualche oscillazione o pentimento, le dottrine tipiche della scuola di Chartres. Nelle Glosse al Timeo che si ritengono anteriori alla Philosophia e che sono state pubblicate recentemente, Guglielmo dice: «L'anima del mondo è il vigore naturale per il quale soltanto alcune cose hanno il movimento, altre la crescita, altre il sentire, altre il discernere. E a me sembra che questo vigore naturale è lo Spirito Santo cioè la divina e benigna concordia la quale è ciò da cui tutte le cose hanno l'essere, il muoversi, il crescere, il sentire, il lOMoARcPSD|1338224 ragione. Di lui non si può dire se non che la singolarità e semplicità della sua essenza impediscono ogni altra attribuzione. Dio dunque è intelligibile, ma non comprensibile. Sulla distinzione tra essenza e sostanza, tra sussistenza e sussistente, è fondata la dottrina di Gilberto sulla Trinità. Gilberto distingue tra deità e Dio. Deità e l'unica essenza divina della quale partecipano le tre persone diverse del Padre, del Figlio e dello Spinto Santo. Le tre persone sono tre realtà singole, numericamente distinte: la loro unità è la forma comune della deità, di cui tutte partecipano. In virtù della forma di deità ognuna di esse è ciò che è, e ognuna di esse è Dio. La formula di Gilberto è: «Dio è il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo». L'essenza divina che costituisce la loro unità e veramente reale soltanto nelle tre persone distinte. Questa dottrina trinitaria si attirò la condanna della Chiesa. Dopo la chiusura del Concilio di Sens, due arcidiaconi di Poitiers si recarono dal papa Eugenio III e gli denunciarono il loro vescovo come fautore di novità teologiche ereticali. In seguito si recarono a Chiaravalle e interessarono S. Bernardo della questione. Il risultato fu che nel Concilio di Parigi del 1147 e in quello di Reims del 1148 l'interpreta:ione trinitaria di Gilberto fu condannata. S. Bernardo combattè la distinzione tra deitas e deus; e il suo segretario Gautredo scrisse contro Gilberto il suo Libellus contra capitula Gilberti Porretani. L'accusa principale di Gautredo contro Gilberto è che la sua dottrina equivale ad ammettere non più una trinità, ma una quaternità divina. Da un lato ci sarebbe la forma della deità, dall'altro le tre persone di Dio. Queste tre persone sarebbero distinte l'una dall'altra dalle loro redazioni diverse, per le quali l'una è il Padre, l'altra il Figlio, la terza il comune Spirito santificante; ma queste relazioni sarebbero estranee all'unica essenza divina che quindi rimarrebbe come una quarta realtà, aggiunta alla trinità delle persone. Gilberto spiegava il dogma dell'incarnazione ritenendo che solo la persona divina, cioè Cristo, ma non la natura divina, cioè la forma della deità, ha assunto la natura umana. Questa dottrina era conseguenza naturale della distinzione tra la deità e Dio. La stessa distinzione si trova nella dottrina antropologica di Gilberto. L'essere dell'anima e l'essere del corpo costituiscono nella loro unità la sussistenza, il quo est, dell'uomo; mentre l'uomo stesso come un tutto è il quod est, la sostanza esistente come tale. Perciò l'uomo non è veramente né l'anima né il corpo, per sé considerati. Con la morte, l'uomo come tale cessa di esistere, anche se la sua parte fondamentale, l'anima, non perde la sua esistenza. L'anima è infatti non una forma priva di sostanza o entelechia, ma piuttosto una sussistenza reale, una essenza sussistente. Tuttavia l'anima come tale non è persona; la personalità appartiene soltanto all'uomo come un tutto. Gilberto faceva così valere con logica rigorosa, in tutte le parti del suo sistema, la distinzione tra sussistenza e sussistente, essenza e sostanza. E' evidente come nella sua ricerca la soluzione del problema degli universali influisca su quella di tutti gli altri problemi. Gilberto è soprattutto un logico e nell'intero corso del suo pensiero obbedisce ai principi e alle esigenze della sua dottrina logica. E proprio le sue ricerche logiche hanno esercitato sulla scolastica posteriore la maggiore influenza. Il suo scritto De sex principiis si fonda sulla pretesa differenza fra le prime quattro e le altre sei categorie aristoteliche. Le prime quattro (sostanza, qualità, quantità, relazione) designerebbero, oltre la sostanza, ciò che è assolutamente inerente alla sostanza, e sarebbero quindi forme inerenti. Le ultime sei designerebbero invece modalità esterne, che interverrebbero a cambiare la condizione della sostanza senza tuttavia unirsi ad essa e sarebbero perciò forme assistenti. Appunto di queste forme assistenti (azione, passione, dove, quando, giacere, avere) si occupa lo scritto di Gilberto. Giovanni di Salisbury Alla scuola di Chartres GIOVANNI DI SALISRURY si collega non solo per i rapporti che ebbe con alcuni maestri di quella scuola ma anche per l'entusiasmo verso gli studi umanistici e per l'indipendenza di pensiero che condivise con essi. Non ebbe invece con essi in comune le dottrine teologiche e cosmologiche: le quali furono al di là dei suoi interessi perché ritenute da lui al di là dei limiti della capacità umana. Giovanni nacque nella vecchia Salisbury in Inghilterra tra il 1115 e il 1120. Si recò in Francia assai giovane, verso il 1136 e vi rimase fino al 1148: la sua educazione filosofica si compì qui, tra Parigi, dove insegnava Abelardo, e Chartres, dove fu discepolo di Guglielmo di Conches e Gilberto de la Porrée. Nel 1151 tornò in Inghilterra e divenne cappellano del primate di Canterbury, Teobaldo; dopo la morte di costui, fu segretario del suo successore Tommaso Becket, con il quale era da tempo in amicizia. In seguito, fu nominato vescovo di Chartres (1176) e in questa città visse sino alla morte (1180). L'interesse umanistico di Giovanni è evidente nel suo Entheticus sive de dogmate philosophorum (1155), un poema in distici, che è un manuale di insegnamento la cui prima parte è costituita da una storia della filosofia greco-romana. Giovanni scrisse pure numerose Epistolae, una Historia pontificalis, di cui abbiamo un frammento, una Vita di Anselmo di Canterbury e una Vita di Tommaso Becket. Verso il 1159, cioè più di vent'anni dopo l'inizio dei suoi studi, compose le sue opere principali: il Policraticus, che è la prima opera medievale di teoria politica e il Metalogicus che si presenta come una difesa del valore e dell'utilità della logica contro un tale che egli designa con il nome fittizio di Cornificio. In Cornificio è stato talora veduto, da interpreti moderni, colui (o coloro) che avversava gli studi umanistici in favore della fisica; o che proponeva un'estensione dell'indagine logica dalle parole alle cose. Ma, stando alle dichiarazioni di Giovanni, Cornificio era un sofista che derideva il sapere autentico e le tecniche delle arti per darsi a esercitazioni confutatorie e alla discussione di questioni come questa: «Se il porco condotto al mercato sia tenuto dall'uomo o dalla corda» (Metal., I, 3). L'intera dottrina di Giovanni è animata da uno spirito autenticamente critico: il suo scopo è quello di stabilire chiaramente i limiti e i fondamenti delle possibilità conoscitive umane. Giovanni si proclama accademico e ritiene che la ricerca si debba contentare, il più delle volte, del probabile: «Come accademico, in tutte le cose che possono essere per il filosofo oggetto di dubbio, non giuro affatto che è vero ciò che dico: ma, vero o falso che sia, mi contento della sola probabilità». E ancora: «Preferisco dubitare con gli Accademici intorno alle cose singole, piuttosto che definire temerariamente, con consapevole e perniciosa simulazione, quello che rimane ignoto e nascosto» Questo prudente atteggiamento viene giustificato da Giovanni con la limitazione propria della scienza umana, alla quale si sottraggono le cose future. «So con certezza che la pietra o la saetta che lancio verso le nuvole dovrà ricadere a terra, perché così esige la sua natura; ma tuttavia non so se essa possa soltanto ricadere in terra e perché: potrebbe infatti sia ricadere, sia no. Anche l'altra alternativa è vera, sebbene non necessariamente, come è vera quella che so che si verificherà... Di ciò che non è ancora, non c'è scienza, ma soltanto opinione» (Policrat., II, 21). Da ciò deriva che tutte le affermazioni che implicitamente ed esplicitamente concernono il futuro hanno valore probabile, non necessario: la loro probabilità è fondata sulla indeterminazione del loro oggetto ed è perciò ineliminabile. Si deve intatti chiamare probabile ciò che accade frequentissimamente: ciò che non accade mai altrimenti è ancora più probabile: ciò che si crede non possa accadere altrimenti assume il nome di necessario (Metal., 111, 9). Dove si vede che il «necessario» secondo Giovanni è limitato alla «credenza»; mentre il «probabile» esprime l'uniformità oggettiva degli eventi ed è fondato sulla frequenza del loro accadimento. Giovanni trae tutte le conseguenze implicite in questo punto di vista. La dialettica, come logica del probabile, è lo strumento indispensabile di tutte le discipline (Metal., Il, 13). La pretesa dell'astronomia divinatoria di predire infallibilmente il futuro è assurda perché il futuro non è necessariamente determinato ed è quindi imprevedibile (Policrat., II, 19). L'infallibile prescienza che Dio ha delle cose future non implica minimamente la loro necessità (Ib., II, 21). Tuttavia se la conoscenza umana rimanesse chiusa nel cerchio del probabile sembrerebbe a Giovanni abbandonata al dubbio radicale dello scetticismo. Qualche punto fermo ci deve essere, sul quale possa lOMoARcPSD|1338224 poggiare l'edificio delle sue limitate certezze. I sensi, la ragione e la fede forniscono qualche punto fermo di questa natura. Dice Giovanni: «Ci sono alcune cose che l'autorità del senso, della ragione e della religione persuade ad ammettere; e il dubbio intorno ad esse ha il carattere della malattia, dell'errore o del crimine. Chiedere se il sole splenda, se la neve sia bianca, se il fuoco riscaldi, è proprio dell'uomo privo di sensibilità. Chiedere se il tre sia maggiore del due, se il tutto contenga la metà, se il quadruplo sia il doppio del doppio, è proprio di chi non ha discernimento o la cui ragione è oziosa o manca del tutto. Chi pone in questione se Dio ci sia e se sia potente, sapiente e buono è non soltanto irreligioso ma perfido e meritevole di una pena che lo corregga» (Policrat., VII, 7). I primi principi delle scienze sono tra queste cose indubitabili; e tra le scienze, la matematica è la sola che attinge la necessità per il suo carattere dimostrativo (Metal., II, 13). Per ciò che riguarda la religione, Giovanni ritiene che è così impossibile dimostrare l'esistenza di Dio come negarla. Egli riconosce tuttavia il valore della prova cosmologica che risale di causa in causa fino alla causa prima (Policrat., III, 8); e ritiene inoltre che l'ordine finalistico del mondo riveli chiaramente la saggezza e la bontà del creatore (Metal., IV, 41). Che Dio sia potente, sapiente, buono, venerabile e amabile è il principio unico di tutte le religioni, principio che ognuno ammette gratuitamente, senza prova, per puro spirito di religiosità (Policrat., VII, 7). Ma altre determinazioni sono irraggiungibili. La stessa Trinità divina è per la ragione umana un mistero impenetrabile (Ib., II, 26). Si può riconoscere tuttavia che Dio è il fondamento dell'ordine del mondo; ma non si può concepire quest'ordine come un latro ineluttabile, secondo la concezione dccli Stoici, perché esso non esclude la mobilità delle cose e la libertà della volontà umana. Giovinni insiste sul carattere pratico e impegnativo della fede religiosa. Come l'anima è la vita del corpo,così Dio è la vita dell'anima. Come il corpo muore se l'anima lo lascia così anche l'anima perde la sua vera vita se Dio l'abbandona. Perciò il destino dell'anima e la sua felicità consistono nell'aprirsi all'azione della grazia di Dio (Policrat., III, 1). Come si vede, Giovanni ha introdotto drastiche limitazioni alla speculazione teologica e cosmologica o per dir meglio ne ha impugnato in linea di principio la possibilità e l'efficacia. Rimangono tre campi in cui la ricerca umana può applicarsi con una certa possibilità di successo: la matematica, la logica, la politica. Di questi tre campi, le opere principali di Giovanni hanno coperto gli ultimi due. Il Metalogicus è il documento dell'interesse che Giovanni portava ai problemi logici del suo tempo: fra l'altro, per la prima volta in quest'opera, vengono utilizzati i libri Topici di Aristotele. Rispetto al problema degli universali, Giovanni in primo luogo ci dà notizia delle soluzioni più importanti e in tal modo ci dà ragguagli utilissimi sulle scuole logiche del tempo. La sua posizione personale di fronte a questo problema è eclettica, ma inclina verso la dottrina di Abelardo. Considera gli universali come forme o qualità comuni immanenti nelle cose, forme che l'intelletto astrae dalle cose stesse. Gli universali (generi e specie) non sono sostanze che esistano in natura; in realtà esistono solo le sostanze singole, che Aristotele chiamò sostanze prime, e che sono oggetto della conoscenza sensibile. I generi e le specie sono prodotti dall'astrazione, figmenta rationis, che la ragione crea per procedere meglio nella ricerca intorno alle cose naturali (Metal., II, 20). Essi tuttavia non sono privi di verità oggettiva, perché corrispondono ad una conformità effettiva delle cose singole tra loro; e perciò Aristotele li chiamò sostanze seconde, volendo indicare che, per quanto insussistenti come realtà singole, sono tuttavia alcunché di reale. Agli universali l'intelletto umano può sollevarsi soltanto per via di induzione, partendo dalle cose sensibili. Giovanni si rifà qui alla dottrina aristotelica, di cui evidentemente accetta il risultato: «I concetti comuni hanno origine per induzione dalle cose singole. E' impossibile infatti giungere alla considerazione degli universali se non attraverso l'induzione, giacché solo attraverso induzioni ci divengono note tutte le nozioni astratte. Ma è impossibile indurre a chi è sprovvisto di sensibilità. Il senso infatti è la conoscenza delle cose singole e non è possibile avere scienza delle cose singole se non attraverso gli universali raggiunti per induzione; né è possibile l'induzione senza la sensibilità. Dal senso infatti deriva la memoria, dalla memoria frequentemente ripetuta l'esperimento, dagli esperimenti il principio della scienza o dell'arte... E così il senso corporeo, che è la prima forza e il primo esercizio dell'anima, getta i fondamenti di tutte le arti e forma la conoscenza preesistente, che non solo apre la via ai primi principi, ma anche li genera». Si tratta, come è evidente, delle stesse considerazioni che chiudono i Secondi Analitici di Aristotele, considerazione di cui Giovanni sottolinea il significato empiristico. Il Policraticus è l'unico libro di filosofia politica medievale anteriore alla riscoperta della Politica di Aristotele. Le fonti delle teorie che vi sono esposte sono Cicerone, Seneca e i testi patristici e la base della GIOACCHINO DA FIORE nacque nel 1145 a Dorfe Ceico presso Cosenza. Dal 1191 tu abate del chiostro da lui fondato in San Giovanni in Fiore in Calabria e qui morì nel 1202. La leggenda si è impadronita di questo abate profetico, i cui dati storici sono scarsissimi. Secondo la biografia tessuta da un monaco del Seicento, Giacomo Greco, che attinse le sue notizie dalle carte del vecchio cenobio di Fiore, ma certamente le modificò e trasfigurò, Gioacchino fece un pellegrinaggio in Terra Santa e passò per Costantinopoli; sfuggito qui miracolosamente ad una epidemia, si convertì all'ascetismo. Ritornato in patria, entrò nel cenobio cistercense di Sambucina e poi in quello di Corazzo, di cui divenne abate. Nel 1191 Gioacchino si ritirò a far vita di anacoreta e fondò allora il cenobio di S. Giovanni in Fiore. Egli avrebbe anche in qualche modo partecipato alle agitate vicende storiche del tempo. Si sarebbe recato fino a Napoli a minacciare per le sue crudeltà Enrico VI che assediava la città; e avrebbe costretto l'imperatrice Costanza a prostrarsi ai suoi piedi per ottenere il perdono delle sue colpe. Gioacchino ha scritto tre grandi opere che si completano a vicenda: Concordici Novi et Veteris Testamenti, Expositio in Apocalypsim, Psalterium decem cordarum.. Oltre queste, compose uno scritto teologico polemico contro Pietro Lombardo De unitate seu essentia Trinitatis, andato perduto; uno scritto contro gli ebrei, Adversus Judaeos; un'esposizione sommaria della fede cattolica, De articulis fidei; i Tractatus super quattuor Evangelia. Sulla autenticità di un Testamento spirituale sussiste qualche dubbio. L'interesse fondamentale dell'opera di Gioacchino è nel suo messaggio profetico. Dalla sua visione della storia egli trae l'annunzio di un rinnovamento imminente: L'avvento del regno dello Spirito Santo. Ma la sua visione della storia è fondata su un concetto della Trinità cristiana; le sue speculazioni trinitarie si saldano così al suo messaggio profetico. Tali speculazioni presentano una certa affinità con quelle di Gilberto Porretano: per quanto non possa, forse, parlarsi di vera derivazione, data anche la diversità di temperamento spirituale tra il teologo Gilberto e il profetico abate calabrese. La teologia di Gioacchino è elaborata in vista della sua filosofia della storia: insiste sulla distinzione e l'autonomia delle persone divine, per fondare la distinzione delle tre grandi epoche storiche e per dare il necessario rilievo alla terza, che è quella futura, il regno dello Spirito. «Poiché anche lo Spirito in se stesso è Dio vero, come il Padre e il Figlio, occorre che anch'egli compia qualcosa a immagine e somiglianza propria, a norma di quello che ha operato il Padre e di quel che ha operato il Figlio» (Concordia, IV, 35). Il salterio da cui si intitola una delle opere di Gioacchino, è appunto l'immagine della Trinità, nella distinzione delle Persone e nell'unità che le lega. «Un altissimo posto occupa il salterio dalle dieci corde fra le opere di Dio che suggeriscono il mistero della Trinità. E' infatti uno strumento musicale unitario. Può essere diviso in parti perché fatto di materia, ma non può esserlo rimanendo salterio. Come strumento è uno; ma è triangolare ed è mirabilmente collegato nei suoi tre lati. L'unità indivisa vincola i tre lati così strettamente che essi sembrano uno solo e ognuno si rifrange nei tre» (Psalt., fol. 230). L'unità di Dio non deve essere dunque intesa in modo che annulli la diversità delle persone: non si comprenderebbe, in questo caso, la diversità delle opere e delle epoche storiche e mancherebbe ogni fondamento alla speranza di un'epoca di giustizia e di salvezza (Conc., fol. 8 sgg.). Alle tre persone della Trinità corrispondono le tre grandi epoche della storia. Il primo dei tre stati è quello che si svolse sotto il dominio della legge, quando il popolo del Signore, ancora per un po' infante, serviva sotto gli elementi di questo mondo, incapace di raggiungere quella libertà dello Spirito, destinata a sfolgorare quando fosse apparso Colui che disse: «Se il Figlio vi avrà liberati, sarete veramente liberi». Il secondo dei tre stati è quello iniziatosi col Vangelo, e tuttora perdurante, in libertà senza dubbio, se si confronta con lo stato precedente, ma non in libertà se si pensa all'avvenire. «Perciò dice l'Apostolo (S. Paolo, I Cor., XIII, 12) "conosciamo ora solo in parte e solo in parte profetiamo: ma quando sia venuta la perfezione, tutto quello che è parziale sarà annullato". Il terzo stato si inizierà verso la fine del secolo, non più sotto il velo opaco della lettera, bensì nella piena libertà dello spirito... lOMoARcPSD|1338224 Come la lettera del primo Testamento in virtù di una certa analogia sembra appartenere al Padre, e la lettera del Nuovo al Figlio, così l'intelligenza spirituale, che procede dall'uno e dall'altro, appartiene allo Spirito Santo. E come l'ordine dei coniugati, in virtù di un'analogia evidente, appartiene al padre e l'ordine dei predicatori al Figlio, così l'ordine dei monaci, al quale sono stati assegnati i grandi tempi finali, appartiene allo Spirito Santo» (Expositio, fol. 5 sgg.). Il terzo stato a venire sarà dunque caratterizzato da una intelligenza della parola divina, non più letterale, ma spirituale; gli uomini conosceranno veramente il suo significato reale. C'è un vangelo eterno che è la stessa parola di Dio, al di sotto della lettera delle espressioni evangeliche. Gli stessi sacramenti sono simboli provvisori (ma non perciò meno necessari) di quella realtà con cui, nel terzo stato, l'uomo entrerà direttamente in comunicazione (Super quattuor evang., p. 8, 6). «Il primo stato visse di conoscenza: il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella pienezza dell'intelligenza. Nel primo regnò il servaggio; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato trascorse nei flagelli; il secondo nell'azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il primo visse nell'atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella verità» (Cons., V, 84, 112). Nel terzo stato, non solo le anime, ma i corpi saranno trasfigurati; il cielo e la terra avranno una nuova bellezza e la morte e il dolore scompariranno. 2.Pietro Abelardo e i suoi avversari: La figura storica Abelardo è la prima grande affermazione medievale del valore umano della ricerca. Questa figura che neppure la tradizione medievale ha potuto ridurre allo schema stereotipato del sapiente o del santo; quest'uomo che ha peccato e sofferto ed ha posto l'intero significato della sua vita nella ricerca; questo maestro geniale, che ha fatto nei secoli la fortuna e la fama dell'Università di Parigi, incarna, per la prima volta nel Medio Evo, la filosofia nella sua libertà e nel suo significato umano. Dotato di grande prestanza fisica (Eloisa ci testimonia, che quando si recava alle lezioni o ne ritornava, con lo sguardo fiero e la testa alta, riscuoteva l'ammirazione di tutti), di una eloquenza precisa e tagliente, di una straordinaria potenza dialettica che lo rendeva invincibile nelle dispute, era destinato al successo, che gli arrise difatti, portandogli invidia, persecuzioni e condanne. Ma il centro della sua personalità è l'esigenza della ricerca: la necessità di risolvere in motivi razionali ogni verità che sia o voglia essere tale per l'uomo, di affrontare con le armi della dialettica tutti i problemi per portarli sul piano di una comprensione umana effettiva. Per Abelardo, la fede in ciò che non si può intendere è una fede puramente verbale, priva di sostanza spirituale ed umana. La fede che è atto di vita, è intelligenza di ciò che si crede: all'intendere devono dunque essere protese tutte le forze dell'uomo. In questa convinzione, è la forza della sua speculazione e il suo fascino di maestro. In lui diventa chiaro il significato, altrimenti incerto e malfermo, della ratio medievale. La ragione è per l'uomo la sola guida possibile; e l'esercizio della ragione, che è proprio della filosofia, e l'attività più alta dell'uomo. Pertanto, se la fede non è un impegno cieco che può dirigersi anche pregiudizi e a errori, dev'essere essa stessa sottoposta al vaglio della ragione. Da questo punto di vista, non sussiste una differenza radicale tra filosofi pagani e filosofi cristiani; se il cristianesimo costituisce la perfezione dell'uomo, anche i filosofi pagani, in quanto filosofi, sono stati cristiani nella vita e nelle dottrine. Vita e scritti Le movimentate vicende della vita di Abelardo sono narrate da lui stesso in una lettera che porta il titolo Historia calamitarum. PIETRO ABELARDO era nato presso Nantes nel 1079 e aveva studiato dialettica con Guglielmo di Champeaux, di cui divenne ben presto contraddittore ed emulo. Insegnò dapprima dialettica in varie località della Francia, poi, dal 1113, teologia presso la scuola cattedrale di Parigi. Il suo insegnamento si svolse tra dispute clamorose e polemiche violente suscitate dalla sua intemperanza dialettica e dall'invidia che il suo successo provocava. A Parigi si innamorò di Eloisa, la nipote di un tal canonico Fulberto, che era bella e coltissima, ed ebbe da lei un figlio, Astrolabio. Sposatala per placare le ire dello zio, volle tenere nascosto il matrimonio, temendo che nuocesse alla sua fama e alla sua carriera di maestro, e mandò Eloisa nel convento di Argenteuil, presso Parigi, dove ella era stata educata da bambina. Ma lo zio e i parenti della moglie, credendo che egli volesse sbarazzarsi di lei, si vendicarono facendolo evirare nel sonno. Vergognoso per l'oltraggio subito, Abelardo entrò in un convento; e i due sposi si consacrarono insieme a Dio: Abelardo nell'abbazia di S. Dionigi presso Parigi, Eloisa nel monastero di Argenteuil. Nell'epistolario di Abelardo sono conservate alcune lettere di Eloisa, riboccanti di affetto e di forza rassegnata. Dopo l'infortunio, Abelardo riprese, con rinnovato entusiasmo, il suo insegnamento, in un luogo isolato a Nogent-sur-Seine, dove i discepoli lo seguirono e gli costruirono un oratorio che egli intitolò allo Spirito Santo o Paracleto. Nel 1136 riapparve a Parigi, e riprese le sue lezioni sulla montagna di S. Genoveffa, dove aveva avuto i suoi primi successi di maestro. Esaltato dai discepoli per la sua eloquenza e per l'ardore della sua dialettica, invidiato dagli altri maestri, Abelardo prestò spesso il fianco alle accuse di eresia. Il Concilio di Soissons condannò la sua dottrina trinitaria e lo costrinse a bruciare di sua mano il libro De unitate et trinitate divina (1121). Negli ultimi anni della vita fu in polemica con S. Bernardo, il quale provocò contro di lui una condanna nel Sinodo di Sens (1140). Abelardo si appellò al papa e voleva recarsi a Roma a sostenere la sua causa, ma l'abate Pietro di Cluny lo convinse a rimanere a Cluny e a riconciliarsi con la Chiesa, con il papa e con S. Bernardo. Abelardo compose in questa occasione una Apologia e passò gli ultimi giorni della vita nell'abbazia di St.-Marcel. Qui morì il 20 aprile del 1142, a 63 anni. La sua salma fu sepolta al Paracleto e lì fu portata e messa accanto, 21 anni dopo, quella di Eloisa (1164). Abelardo è autore di una Dialectica, composta verso il 1121 e di numerose opere logiche costituite da commenti (Glossae) agli scritti logici di Porfirio e Boezio. Il Sic et non è la tipica espressione del suo metodo. Egli ha scritto, inoltre, tre opere sul problema trinitario: Tractatus de unìtate et trinitate divina, Introductio ad theologiam, Theologia christiana. I riferimenti contenuti in queste opere permettono di congetturare che la Theologia christiana è stata composta posteriormente al De unitate, e probabilmente fra il 1123-24, e che l'Introductio non è che la prima parte della Theologia, condannata al Concilio di Sens. In seguito egli compose un Commentario sulla Epistola ai Romani e l'Etica o Scito te ipsum. Posteriori ancora sono le Lettere ad Eloisa, i Sermoni, gli Inni, i Problemata, l'Expositio in Exameron. La lettera che porta il titolo Historia calamitatum fu scritta fra il 1133 e il 1136. Agli ultimi anni, trascorsi a Cluny, appartengono il Carmen ad Astrolabium e il Dialogus inter iudaeum, philosophum et christianum (1141-42). Il metodo Abelardo ha esercitato sullo sviluppo della filosofia medievale un'influenza potentissima. Questa influenza è dovuta in primo luogo al suo fascino di maestro. Egli è stato, se non il fondatore, almeno il precursore dell'Università di Parigi. Il suo prestigio di professore, la superiorità del suo metodo, consacrarono la celebrità della scuola di Parigi e prepararono la formazione dell'Università. L'opera nella quale ha meglio chiarito e messo in pratica il suo metodo di ricerca è il Sic et non. Si tratta di una raccolta di opinioni (sententiae) di Padri della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come risposte positive o negative del problema proposto (donde il titolo, che suona sì e no). Il procedimento minacciava di gettare il discredito sulla unità della tradizione ecclesiastica, facendone vedere i contrasti in modo lampante; ma lo scopo di Abelardo era quello di porre nettamente i problemi per mostrare la necessità di risolverli. A questo scopo egli dà nel prologo dell'opera un certo numero di regole. Comincia con il distinguere i testi del Vecchio e Nuovo Testamento e i testi patristici. lOMoARcPSD|1338224 Conformemente a questi presupposti, la trattazione razionale del dogma trinitario è da Abelardo condotta col mostrare l'accordo sostanziale dei filosofi, e in particolare di Platone e dei neoplatonici, con la rivelazione cristiana. Anche i filosofi pagani hanno, intatti, secondo Abelardo, conosciuta la Trinità. Essi hanno ammesso che l'Intelletto divino o Nous è nato da Dio ed è coeterno con lui; ed hanno inoltre considerato l'Anima del mondo come una terza persona, che procede da Dio ed è la vita e la salvezza del mondo. «Platone, dice Abelardo, riconobbe esplicitamente lo Spirito Santo come l'Anima del mondo e quasi la vita del tutto. Giacché nella bontà divina tutto in qualche modo vive; ed ogni cosa è viva e nessuna è morta in Dio; il che vuol dire che nulla è inutile, neppure i mali, i quali sono disposti nel modo migliore per la bontà dell'insieme». Se Platone dice che l'Anima del mondo è in parte indivisibile e immutabile, in parte divisibile e mutevole, in quanto si divide e moltiplica nei vari corpi, ciò va inteso nel senso che lo Spirito Santo rimane in se stesso indivisibile ma, in quanto moltiplica i suoi doni, appare in qualche modo diviso nella sua azione vivificatrice. Quando Platone dice che l'Anima è stata situata da Dio nel mezzo del mondo e che di lì essa si distende ugualmente per tutto il globo dell'orbe, intende indicare bellamente che la grazia di Dio è offerta ugualmente a tutti e che in questa sua casa o tempio, che è il mondo, essa dispone tutto in modo salutevole e giusto. La dottrina platonica coincide così sostanzialmente con la fede nella Trinità; e se Platone dice che la Mente e l'Anima del mondo sono state create, è questa una espressione impropria per indicare il generarsi o il procedere delle due persone divine dal Padre. La Trinità divina Queste analogie guidano Abelardo nelle sue interpretazioni trinitarie. La distinzione delle tre persone è fondata sulla distinzione degli attributi. Con il nome del Padre si indica la potenza della maestà divina per la quale essa può fare tutto ciò che vuole. Con il nome del Figlio o Verbo si designa la sapienza di Dio, per la quale egli può conoscere tutto e in nessun modo essere ingannato. Con il nome di Spirito Santo si esprime la carità o benignità divina, per la quale Dio vuole che tutto sia disposto nel modo migliore e indirizzato al miglior fine. Questi tre momenti della Trinità garantiscono la perfezione divina, giacché non è perfetto in tutto chi è impotente in qualche cosa, né è perfettamente beato chi in qualche cosa può ingannarsi, né perfettamente benigno chi non vuole che tutto sia disposto nel modo migliore. I tre attributi di Dio, espressi dalle tre persone della Trinità, si presuppongono e si richiamano l'un l'altro. Sicché per quanto la sapienza spetti al Figlio e la carità allo Spirito Santo, tuttavia tanto il Padre quanto lo Spirito Santo sono l'intera sapienza; e similmente tanto il Padre quanto il Figlio sono carità. Proprio per questa unità degli attributi divini, le varie persone derivano l'una dall'altra. Il Padre, che è la potenza, genera da sé la sua sapienza, che è il Figlio, in quanto la stessa sapienza divina è una potenza cioè un potere di Dio: il potere di discernere il modo di evitare ogni inganno od errore, sì che nulla si nasconda alla conoscenza di Dio. Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, in quanto la bontà che è propria dello Spirito, in tanto ha modo di produrre i suoi effetti, in quanto deriva dalla potenza e dalla sapienza di Dio: giacché se non derivasse dalla potenza sarebbe priva di efficacia e se non derivasse dalla sapienza non conoscerebbe il modo migliore di esplicarsi e di produrre i suoi effetti. Ora lo Spirito Santo designa appunto il procedere di Dio da sé verso le creature, che hanno bisogno dei benefici della grazia divina, procedere che è dettato dall'amore di Dio. Il Figlio e lo Spirito Santo differiscono tuttavia nella loro derivazione da Dio Padre: il Figlio è generato dal Padre, ed è della stessa sostanza del Padre perché la sapienza è una determinata potenza; lo Spirito invece non è della stessa sostanza del Padre e del Figlio perché la carità, che ne è l'attributo, non è né potenza né sapienza, sebbene sia condizionata nella sua efficacia dall'una e dall'altra. Si parla dunque di generazione del Figlio dal Padre, ma di processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. La relazione tra le persone divine e la loro generazione o processione è illustrata da Abelardo con un paragone. La divina Sapienza è un aspetto determinato della divina Potenza al modo in cui un sigillo di bronzo è una determinata parte di bronzo. La divina Sapienza riceve il suo essere dalla divina Potenza come il sigillo di bronzo riceve il suo essere dal bronzo di cui è formato. Affinché ci sia un sigillo di bronzo, è necessario che ci sia il bronzo; così la divina Sapienza, che è la potenza di conoscere, esige necessariamente che ci sia la divina Potenza, di cui è formata. E come il bronzo si chiama la sostanza del sigillo, così la divina Potenza è la sostanza della divina Sapienza. In questa similitudine, lo Spirito Santo è colui che si serve del sigillo e che quindi presuppone l'essere del sigillo stesso e del bronzo che lo costituisce. Come colui che sigilla, in quanto sigilla, si serve di qualche cosa di molle su cui imprimere l'immagine che è nella sostanza del sigillo, così lo Spirito Santo, con la distribuzione dei suoi doni, ricostituisce in noi l'immagine distrutta di Dio, affinché di nuovo siamo resi conformi all'immagine del Figlio di Dio, cioè di Cristo. Infine come il bronzo, il sigillo e l'atto del sigillare sono una sola cosa nella loro essenza, eppure sono tre cose distinte l'una dall'altra; così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una unica essenza, ma sono distinti l'uno dall'altro dai loro tributi personali, così che nessuna persona può essere sostituita dall'altra. Il bronzo come materia non è la forma del sigillo e reciprocamente. Così il Padre non è il Figlio, e la Potenza divina non è la divina Sapienza; e reciprocamente. Queste speculazioni trinitarie di Abelardo suscitarono le critiche di S. Bernardo che interpretò gli attributi con cui Abelardo caratterizza le tre persone divine come se fossero onnipotenza, semipotenza, nessuna potenza. E in realtà esse sono teologicamente improprie, perché non salvano la sostanzalità delle persone divine che sono ridotte, secondo lo schema di Scoto Eriugena, a tre momenti della vita divina (modalismo). Ma d'altronde la speculazione di Abelardo ha un'intenzionalità cosmologica più che teologica. Lo scopo di essa è di chiarire la struttura e la costituzione del mondo e il rapporto tra il mondo e Dio, più che quello di chiarire la natura di Dio. E in questa sua intenzionalità cosmologica fu intesa e utilizzata dai filosofi posteriori, specialmente dalla scuola di Chartres. L'unità divina Per ciò che riguarda la natura di Dio in se stessa, Abelardo ripete la speculazione negativa di Scoto Eriugena. Non è possibile definire l'essenza di Dio, perché Dio è inesprimibile. Dio è al di fuori del novero delle cose perché non è nessuna di esse. Ogni cosa appartiene o alla categoria della sostanza o a qualche altra categoria. Ma ciò che non è sostanza non può sussistere in sé. Ora Dio è il principio e il fondamento di tutto, dunque non può appartenere al novero di quelle cose che non sono sostanza. Ma non può neppure essere annoverato fra le sostanze. Difatti il proprio della sostanza è di rimanere numericamente una ed identica, pur potendo ricevere in sé determinazioni diverse ed opposte. Ma Dio non può ricevere nessuna di tali determinazioni, perché in lui non vi è nulla di accidentale e di mutevole. Perciò, meglio che sostanza, si deve chiamarlo essenza, dato che in lui l'essere e il sussistere sono assolutamente identici. Nessun nome, nessuna parola riferita a Dio conserva il significato nel quale è riferita alle cose create. La natura divina si può esprimere solo con parabole o metafore. Noi distinguiamo, per esempio, nella sostanza dell'uomo la vita animale, la ragione, la mortalità, ecc., sebbene l'essenza dell'uomo rimanga numericamente una ed identica. Allo stesso modo possiamo supporre che nella divina Sostanza si possano distinguere attributi diversi, costitutivi di tre persone diverse, pur rimanendo quella sostanza una ed identica. Ad intendere l'unità delle persone divine giova un'altra immagine che Abelardo desume dalla grammatica. La grammatica distingue tre persone: quella che parla, quella alla quale si parla e quella di cui si parla; ma riconosce che queste tre persone possono essere attribuite a uno stesso soggetto. Giacché una persona può parlare a sé di se stessa; in questo caso allo stesso soggetto si riferiscono tutte e tre le persone della grammatica. Inoltre la prima persona è il fondamento delle altre, giacché dove non c'è nessuno che parla, non vi è neppure nessuno al quale si parla e nessuno di cui si parla. Infine la terza persona dipende da entrambe le precedenti poiché soltanto tra due persone che parlano si può parlare di una terza persona. In tutto ciò, c'è l'immagine dell'unità divina: anche in essa infatti la seconda persona presuppone la prima e la terza le altre due. E come un solo e stesso uomo può essere prima, seconda lOMoARcPSD|1338224 e terza persona grammaticale, senza che queste tre persone si confondano e si annullino; così in Dio la stessa essenza può essere le tre persone, senza che le tre persone si identifichino l'una con l'altra. Dio e il mondo I rapporti tra Dio e il mondo sono chiariti da Abelardo sul fondamento degli attributi divini e in primo luogo dell'onnipotenza, che è l'attributo proprio del Padre. La conclusione a cui Abelardo giunge proposito di questo attributo è che Dio non può fare né più né meno di ciò che fa e che perciò la sua azione è necessaria. Dio può fare soltanto il bene. Dio fa quello che vuole, ma vuole quello che è bene. Il principio della sua azione non è il sic volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas: egli vuole che accada solo ciò che è bene che accada. È chiaro quindi che di tutto ciò che Dio fa o tralascia di fare, c'è una giusta causa. Tutto ciò che egli fa, deve farlo, perché se è giusto che qualcosa accada, è ingiusto che essa sia tralasciata. Né si può dire che, se Dio avesse fatto alcunché di diverso da quello che ha fatto, questo alcunché sarebbe altrettanto buono, in quanto fatto da lui; giacché se ciò che non ha fatto fosse buono come ciò che fa, non vi sarebbe fondamento per la sua scelta né motivo di operare quello e di tralasciare questo. Se ciò che fa è soltanto il bene, egli può fare soltanto ciò che fa. Aveva dunque ragione Platone di dire che Dio non poteva creare un mondo migliore di quello che ha creato. In Dio, possibilità e volontà fanno tutto uno: è vero che egli può tutto ciò che vuole, ma è vero pure che non può, se non ciò che vuole. Questa dottrina di Abelardo implica la necessità della creazione del mondo e l'ottimismo metafisico. Il mondo è stato necessariamente voluto e creato da Dio. Tutto ciò che Dio vuole lo vuole necessariamente, né la sua volontà può rimanere inefficace; necessariamente dunque egli conduce a termine tutto ciò che vuole. La necessita del mondo non implica l'assenza della libertà in Dio. La libertà non consiste nello scegliere indifferentemente di fare una cosa o l'altra, ma piuttosto nell'eseguire senza costrizione e con piena indipendenza ciò che si è deciso consapevolmente e ragionevolmente. Questa libertà appartiene anche a Dio: poiché tutto ciò che egli fa, lo fa soltanto di sua volontà, e quindi senza essere necessitato da alcuna costrizione (Intr. ad theol., III, 5). All'uomo, Dio ha concesso la possibilità di peccare e di fare il male affinché, a confronto della nostra debolezza, appaia a noi nella sua gloria, egli che assolutamente non può peccare; e affinché, quando ci allontaniamo dal peccato, non attribuiamo ciò alla nostra natura, ma all'aiuto della sua grazia che dispone per la sua gloria non solo i beni ma anche i mali. La necessità che è propria di Dio si riflette nell'azione di Dio nel mondo. Dio prevede tutto: e sebbene la sua previsione non sia necessariamente determinante rispetto ai singoli avvenimenti, non può tuttavia essere smentita ed essi debbono rientrare nell'ordine della sua previsione. In questo ordine rientra anche la predeterminazione. Dio predestina gli eletti alla salvezza, ma anche quelli che egli non predestina e che perciò sono dannati rientrano nell'ordine provvidenziale del mondo. L'azione di Dio non è mai senza motivo anche se il motivo rimane nascosto agli uomini. Anche il tradimento di Giuda rientra nell'ordine provvidenziale, perché senza di esso non sarebbe stata possibile la redenzione dell'umanità. E come il tradimento di Giuda, tutti i mali che possono accadere o accadono, sono ordinati dalla Provvidenza divina al meglio, ed hanno un loro motivo e un loro risultato inevitabile, anche se all'uomo è impossibile rendersene conto. L'uomo L'anima umana è, secondo Abelardo, una essenza semplice e distinta dal corpo. C'è un senso in cui si può dire che anche le creature intellettuali, come l'anima o l'angelo, sono corporee, in quanto sono limitate dallo spazio; ma è un senso improprio, che deriva da un concetto fallace della corporeità. L'anima è tutta presente in tutte le parti del corpo ed è il principio della vita corporea. Il corpo solo attraverso l'anima è quello che è. Come natura spirituale l'anima porta in sé l'immagine della Trinità divina. Ciò che nell'anima è la sostanza, è nella Trinità la persona del Padre; ciò che nell'anima è virtù e sapienza è nella Trinità il Figlio, che è la Virtù Trattato teologico di san Bernardo di Chiaravalle (1091-1153). L'operetta fu indirizzata a Guglielmo, abate di san Teodorico, che viene invitato a leggerlo per giudicare l'opportunità di renderla pubblica. L'autore sostiene che, perchè l'uomo possa agire correttamente, devono concorrere due elementi indispensabili: la grazia e il libero arbitrio. La grazia è donata da Dio, ma il libero arbitrio l'aiuta, consentendo a essa. L'uomo è infatti dotato di una libera volontà, che può consentire agli istinti animali, ma può anche non consentirvi: è in questa libera volontà il libero arbitrio. La volontà è sempre accompagnata dalla ragione, che sola può garantire la libertà. Quest'ultima si realizza in triplice modo: libertà di natura, che lo è dal peccato, libertà della grazia, che lo è dalla miseria, libertà di vita, che lo è dalla necessità. In questo terzo grado si attua la beatitudine: "Passeremo in libertà della gloria del Figliuolo di Dio, con la quale libertà ci libererà Cristo, quando egli ci darà reame a Dio e al Padre". La grazia è però indispensabile a volere il bene. Per il libero arbitrio l'uomo vuole, teme e ama, ma solo per l'intervento della grazia vuole bene, teme e ama Dio. Infatti perchè la volontà sia perfetta occorrono una vera sapienza e un perfetto potere, che non ci possono venire altro che dalla grazia. L'uomo è stato creato a immagine e similitudine di Dio, proprio in quanto è stato dotato della libertà, che però è stata traviata dal peccato fin quando la redenzione dell'umanità operata da Cristo non ha ricostruito nell'uomo la somiglianza con la divina immagine. Il merito dell'uomo sta tutto dunque nell'aiuto che la volontà dà alla grazia divina, che è a sua volta l'aiuto indispensabile all'agire bene: "Dio aiuta il merito, e congiunge la volontà all'opera e l'opera alla volontà ... Se quelli che noi chiamiamo meriti sono chiamati propriamente, devono essere detti piuttosto semi di speranza, accendimenti di carità ... Alla fine io ti dico che egli non trova nessun uomo giusto; ma fagli giusti: chè Iddio ha magnificati coloro, che egli ha fatto giusti e non coloro che egli ha trovati". La conoscenza mistica La difficoltà esperita nell'affrontare la dottrina trinitaria fece sì che Bernardo si rivolgesse per consiglio a Riccardo di San Vittore, il quale nella sua risposta si appellò alla impossibilità di parlare di Dio con il linguaggio degli uomini (argomento che ha la sua fonte originaria nello pseudo-Dionigi). Questo tipo di soluzione era congeniale all'inclinazione mistica di Bernardo. Il fine della scienza, la salvezza, è quello che definisce limiti e validità del sapere, che in se stesso non è che vana e superba curiosità. Nei sermoni sul Cantico dei cantici la conoscenza è definita come l'insieme dei luoghi che l' anima può occupare nella camera dello sposo: la conoscenza di Dio come autore del mondo creato, il timore di Dio come giudice, la contemplazione mistica di Dio. Sapientia viene da sapor: dal gusto provato nel momento in cui l' anima è in contatto (afficitur) con il divino. La riflessione teologica di Bernardo non può dunque che partire dall' amore, fonte di verità e di certezza, e attingere il suo frutto più alto nell' esperienza mistica. L’amore basta a se stesso ed è disinteressato (De diligendo Deo). Il cammino d’amore, quale appunto si delinea nel De diligendo Deo è scandito in quattro gradi: il primo è quando l’uomo ama se stesso per se stesso (amore carnale); il secondo è quando l’uomo ama Dio per sé; il terzo è quando Dio è amato per se stesso; il quarto grado è esperito solo dai martiri e ai santi, e per un attimo, ed è quel momento della vita spirituale in cui l’uomo giunge di nuovo ad amare se stesso ma solo per Dio. La ricerca mistica non è per Bernardo un modo per ritrarsi dal mondo; così come non lo è per Guglielmo di Saint-Thierry, che pure nella Lettera d' oro ci ha lasciato una delle più ampie descrizione dei gradi di introduzione a tale esperienza. Bernardo e Guglielmo costituiscono infatti le due figure più rilevanti di quella "filosofia monastica" che, profondamente avversa all'evoluzione verso le speculazioni razionali astratte delle scuole, si impegnò sia in una battaglia contro il sapere come vana curiositas, sia in una elaborazione dell'esperienza monastica, in cui sapienza e pratiche di vita erano strettamente legate. Altri aspetti della spiritualità e della mistica bernardina lOMoARcPSD|1338224 Oltre al tema del sapor, della conoscenza mistica, la riflessione di Bernardo è incentrata anche su altri temi. In primo luogo la centralità della figura del Cristo, vero tramite dell’incontro fra l’uomo e Dio. Nel Sermone 74 sul Cantico dei Cantici Bernardo sviluppa, sebbene non in forma sistematica, una complessa riflessione cristologia, in cui riveste particolare importanza la funzione mediatrice del Figlio di Dio, che costituisce l’unica via che può condurre al Padre. Non è di poco conto, inoltre, sottolineare il debito della mistica bernardina nei confronti dello Pseudo-Dionigi e soprattutto di Massimo il Confessore, dal quale mutua il termine excessus nel senso di estasi. GUGLIELMO DI SAN TEODORICO: morto nel 1148, per lungo tempo oscurato dalla gloria di Bernardo, suo contemporaneo, le dottrine dei due sono in intimo accordo ma non per questo bisogna confonderle. Opere: “Epistola aurea” opera più celebre, “De contemplando Deo”, “De natura et dignitate amoris”. La sua dottrina, come quella si S. Bernardo si sviluppa interamente nel quadro della vita monastica; è una dottrina che vuole insegnare l’amore divino, contro l’amore profano insegnato secondo l’ Ars amatoria di Ovidio. Differisce da quella di S. Bernardo per il ruolo più importante che vi gioca la dottrina agostiniana della memoria. L’amore di Dio è stato da lui naturalmente inserito nel cuore della sua creatura, dunque l’amore umano dovrebbe altrettanto naturalmente tendere verso Dio, ma il peccato originale lo distoglie da ciò. Scopo della vita monastica è ricondurre l’amore dell’uomo verso il suo creatore. Metodo da seguire: 1. Uno sforzo per conoscere se stesso. 2. L’anima conosce se stessa conoscendosi come fatta a immagine di Dio nel suo pensiero (mens). 3. Nello stesso pensiero si trova l’impronta che Dio vi ha lasciato perché possiamo ricordarci di lui. Sant’Agostino chiama “memoria” questo recesso profondissimo del pensiero. La “memoria” segreta genera la ragione e la volontà procede dall’una all’altra. Trinità creata che rappresenta la trinità creatrice in noi: memoria= Padre, ragione= Figlio/Verbo, volontà= Spirito Santo. Ragione e volontà generate dalla memoria che è l’impronta di Dio sull’uomo; l’effetto della grazia divina è quello di raddrizzare le facoltà dell’anima guastate dal peccato. Più l’anima recupera la somiglianza con Dio meglio lo conosce conoscendo se stessa: la somiglianza dell’anima con Dio costituisce la sua conoscenza di Dio. Dopo S. Bernardo e Guglielmo di san Teodorico la grande spinta mistica cistercense perde il suo vigore e i suoi continuatori si orientano piuttosto verso il moralismo religioso. Isacco/ Isacco Stella: abate del monastero circense della Stella dal 1147 al 1169, le cui opere sono l’espressione di una speculazione orientata verso la mistica. Ci ha lasciato una serie di Sermoni sul Cantico dei cantici, ma cerca Dio meno attraverso l’estasi che attraverso la metafisica. Otto sermoni (XIX-XXVI): eleva il pensiero fino a Dio con un’analisi dialettica ad un tempo solida e sottile della nozione di sostanza. Tipo perfetto di una teologia fondata sulla nozione di Dio come pura essenza. (Influenze: Anselmo, Dionigi, Boezio, Gilberto della Porrée). Queste pagine sono testimonianza della diffusione, metà XII secolo, di una specie di platonismo astratto , per il quale la manipolazione dialettica delle essenze costituiva la spiegazione razionale tipo della realtà. Epistola ad quemdam familiarem suum de anima: opera più celebre e influente di Isacco, scritta su richiesta di Alchiero di Chiaravalle. È un trattato sull’anima. Vi sono tre realtà: corpo, anima, Dio. Non conosciamo l’essenza di nessuna di queste realtà. Anima, fatta da Dio, “similitudo omnium”, e posta tra Dio e il corpo conviene in qualcosa con l’uno e con l’altro e per la sua posizione intermedia ha una parte bassa (immaginazione imparentata con la parte più elevata del corpo, la sensibilità), un centro e una sommità. La parte più elevata dell’anima è l’intelligenza ed è imparentata con Dio. Tra queste due facoltà estreme si dispongono tutte le altre in ordine; la ragione è quella facoltà dell’anima che percepisce le forme incorporee delle cose corporee. Non considerava gli universali né come cose né come nomi. Per intellectus intende la facoltà dell’anima che percepisce le cose veramente incorporee, per intelligentia la facoltà di conoscere il solo supremo e incorporeo che è Dio. Tutti i temi neoplatonici convergono in questo punto della sua dottrina; “intelligentia” da Boezio, attraverso Agostino eredita da Plotino la sua attitudine a ricevere l’illuminazione, attraverso Eriugena eredita da Massimo e da Gregorio le “teofanie” che discendono in lei da Dio. Il secondo focolare della mistica speculativa nel XII secolo è l’abbazia parigina dei canonici agostiniani di san Vittore. UGO DI SAN VITTORE: Vita e opere: Ugo di San Vittore, nato nel 1096 ad Hartingam in Sassonia, formatosi nel chiostro di Hamersleben presso Halberstadt, fu nel chiostro di San Vittore a Parigi dal 1115 di cui divenne priore verso il 1135, fino all’anno della sua morte, il 1141. Tra gli scritti riguardanti l’insegnamento della filosofia possiamo annoverare il Didascalicon o Eruditionis didascalicae libri VII; Epitome in philosophiam; De unione corporis et spiritus. Fra gli scritti di contenuto mistico il De arca Noe morali; De arca Noe mystica; Soliloquium de arrha animae; De vanitate mundi. Ugo è inoltre autore della prima grande summa teologica medievale, la Summa de sacramentis, e di un commento al De coelesti hyerarchia dello pseudo-Dionigi. Le scienze: Per il vittorino il valore delle scienze è rapportato al ruolo limitato del sapere umano nella comprensione di Dio: ma in questo ambito tutte le conoscenze dell'uomo presentano una loro validità. Nel Didascalicon il compito della filosofia non è di ordine esclusivamente razionale-teoretico, perché essa deve fungere da supporto nella conquista della sapienza. L’atteggiamento di Ugo è molto diverso rispetto a quello di Bernardo: nulla di inutile è presente nel sapere. Invece di contrapporre la scienza profana e la scienza sacra, la fede mistica e la ricerca razionale, il vittorino cerca di stabilire fra loro un equilibrio armonico e di coordinarle in un unico sistema. L'origine della filosofia sta in una "scintilla" del fuoco eterno, che è la sorgente luminosa che la mente umana deve sforzarsi di ritrovare. Non si tratta di un compito facile, avvolto com'è nelle tenebre dell'ignoranza l'uomo erede del peccato originale. La conoscenza: Ugo classificò gli oggetti della conoscenza in quattro categorie: le cose che derivano dalla ragione sono necessarie, quelle conformi alla ragione probabili, quelle al disopra della ragione mirabili e quelle contrarie alla ragione impossibili. Le prime e le ultime escludono la fede. A questa classificazione degli oggetti della conoscenza corrispondono quattro atteggiamenti: la negazione, l’opinione, la fede, la scienza. La scienza è la sola conoscenza necessaria (Didascalicon). Nella "conoscenza delle cose" non trovano dunque il loro posto soltanto le arti liberali, ma anche le attività che nel Medioevo venivano definite "meccaniche", cioè adulterine secondo l'etimologia greca della parola. Accanto all'opera di Dio e della natura, si riconosce con ciò un valore proprio all'opera dell'uomo; e la tripartizione di origine platonica della filosofia in logica, etica e teorica, che era stata enunciata fra gli altri da Guglielmo di Conches e Teodorico di Chartres, viene rimpiazzata nell'opera di Ugo da una quadripartizione, in cui accanto alle tre parti indicate si colloca la "meccanica". Le due teologie: Nelle opere teologiche Ugo elabora una sistemazione razionale di temi tradizionali e un'analisi dell' esperienza mistica, indicando nella rivelazione la fonte della certezza, della beatitudine e della comprensione della realtà. La lettura simbolica del mondo, e dunque la possibilità di accedere dalla natura a Dio, è lOMoARcPSD|1338224 Comincia qui la distinzione tra il dominio della ragione e il dominio della fede che riceverà la sua più chiara formulazione in S. Tommaso. La pretesa d'intendere le verità di fede nella loro necessità, di dimostrarle come se fossero verità di ragione, pretesa che appare, per esempio, in S. Anselmo, è qui abbandonata. Ciò che è oggetto di fede non può essere compreso e quindi non è oggetto di scienza. «Niente si può conoscere, che non si possa intendere, ma noi non apprendiamo Dio con l'intelletto, dunque non vi è scienza di Dio. Siamo bensì indotti dalla ragione a presumere che c'è Dio, ma non lo sappiamo con certezza, bensì lo crediamo soltanto. Questa è la fede; una presunzione che nasce da ragioni certe, ma non sufficienti a costituire scienza. Come tale, la fede è al disopra dell'opinione, ma al disotto della scienza». La distinzione tra la scienza e la fede si è qui fatta chiarissima. La fede deve conservare il suo merito di conoscenza certa ma non dimostrativamente necessaria, quindi diversa dalla scienza. Tuttavia Alano ha cercato di organizzare scientificamente la teologia proprio sul modello della scienza più rigorosa, la matematica. Nello scritto intitolato Regulae o Maximae theologicae ha formulato i principi della teologia, partendo dal presupposto che «ogni scienza si fonda sui suoi principi come sui propri fondamenti»; e ha quindi fissato le regole fondamentali della scienza teologica raccogliendo e sistemando i risultati della speculazione teologica precedente. Di queste regole, la prima è l'affermazione energica dell'unità di Dio: «La monade è ciò per cui ogni ente è uno»: affermazione che ovviamente è nient'altro che il luogo comune neoplatonico ma che assume un particolare rilievo negli scritti di Alano, dato lo schieramento polemico cui questi scritti obbediscono. Tale schieramento è diretto infatti in primo luogo contro le sette ereticali cosiddette dei Catari, da cui dottrina fondamentale consisteva nel riconoscimento di un dualismo fondamentale di principi: uno ottimo e creatore dell'ordine e della perfezione dei mondo, l'altro pessimo e creatore del disordine, della lotta e del male. Di questo secondo principio la Hyle, di cui parlano i poemi chartrensi, informe, caotica e maligna, e una buona espressione: per quanto, in quei poemi, la Hyle non abbia la forza di contrapporsi a Dio ma è da Dio stesso creata, e soggiogata e portata all'ordine dell'Anima del mondo-Natura. Contro questo dualismo (che poi implicava anche quello di dannazione e salvezza, considerate come due stati non mediabili tra loro neppure con i mezzi carismatici della Chiesa) l'affermazione fatta da Alano dell'unità di Dio come monade prima e assoluta, pur nel suo carattere filosofico trito, acquista un valore di novità polemica. E non è del tutto un caso che Alano utilizzi e citi (con il titolo di Aphorismi de essentia summae bonitatis, Contra haeret., I,30,31) il Liber de causisi il testo di Proclo che è rigorosamente imperniato intorno al concetto di Dio come assoluta unità doveva apparire ad Alano come il migliore antidoto contro ogni concezione dualistica. Alano infatti afferma che la causa prima, in quanto assolutamente semplice, è assoluta unità, è, anzi, la stessa unità assoluta; e che riferiti a tale unità gli attributi diversi esprimono sempre la stessa essenza semplicissima (Reg. theol., 11). Come Abelardo e molti dei maestri di Chartres, Alano è anche convinto che già i filosofi pagani conoscevano questa verità e che, per esempio, la conoscevano Aristotele ed Ermete Trismegisto (Contra haeret., III, 3; Reg. theol., 3). Nicola di Amiens: autore del “De arte catholicae fidei”; prima erroneamente attribuita ad Alano di Lilla. Sa che gli eretici non tengono conto degli argomenti fondati sull’autorità e che le testimonianze delle Sacre Scritture li lasciano completamente indifferenti. Bisogna fare appello alla ragione con avversari di questo tipo. Per questo ha ordinato delle ragioni probabili in favore della fede, pur non essendo convinto che queste siano capaci di penetrare a fondo e di illuminare completamente il contenuto della fede. Le presenta sotto forma di definizioni, distinzioni e proposizioni concatenate secondo un ordine intenzionale. Il piano generale dell’opera è quello che Scoto Eriugena e Anselmo di Laon avevano già seguito, a grandi linee: Dio, il mondo, la creazione degli angeli e degli uomini, il Redentore, i sacramenti e la resurrezione. Tutta la sua opera si fonda su definizioni, postulati e assiomi. Le definizioni stabiliscono il significato dei termini, i postulati sono delle verità indimostrabili, gli assiomi proposizionali tali che non si può sentirli enunciare senza ammetterli. Il vantaggio incontestabile di questo metodo è che evita inutili sviluppi. La teologia di Nicola è suddivisa in cinque brevi capitoli in cui pone in seguito tre postulati e sette assiomi con cui costruisce la serie dei suoi teoremi secondo le regole ordinarie della geometria. Questa ambizione di costruire una Arte della dimostrazione cristiana valida per tutti gli uomini e capace di allargare la chiesa alle dimensioni del mondo senza usare la forza ispirerà l’ Ars magna di Raimondo Lullo. VI. Le filosofia orientali: Alcune filosofie arabe ed ebraiche hanno influenzato direttamente le grandi dottrine occidentali del XII secolo. Alcuni intellettuali musulmani dell’epoca si sono appropriati della cultura greca divenendone i più avanzati continuatori (dal IX al XII). Il fenomeno deve essere inquadrato nell’espansione del dominio musulmano verso quei territori dove era ancora viva la tradizione culturale greca. La religione musulmana era ancora giovanissima ( il profeta Muhammad era morto nel 632) quando gli arabi del VII secolo Siria, Palestina ed Egitto. Anche in Persia, conquistata dagli arabi, era diffusa la filosofia greca, introdotta dai neoplatonici Simplicio e Damascio emigrati dopo il 529. Dunque vi erano molte zone di incontro tra fede coranica e sapere greco. Passaggio decisivo nel 749 quando il califfato passa agli Abbàsidi, questi spostano la capitale da Damasco a Baghdad e favoriscono un organico processo di acculturazione del mondo musulmano, promuovendo la traduzione in arabo di buona parte dei testi greci di filosofia, medicina e scientifici. Sotto il califfo al-Mamun conosce il massimo splendore la biblioteca califfale di Baghdad, chiamata “Casa della Sapienza”. Il progetto abbàside si iscrive in un più ampio progetto politico: porre la civiltà araba come la vera continuatrice della civiltà greca. Fàlsafa: versione arabizzata della filosofia greca; trasformò notevolmente la cultura araba. Quando il Medioevo latino riscoprirà, tra fine XII secolo e metà del XIII, la filosofia greca (soprattutto Aristotele) lo farà attraverso le traduzioni dall’arabo. 1.La filosofia araba: 529 d. C., chiusura delle scuole filosofiche di Atene, decretata da Giustiniano. In Mesopotamia e Siria la speculazione ellenica beneficò della diffusione della religione cristiana. Mesopotamia: scuola di Edessa importante. La filosofia nell’Islam ha avuto due grandi poli di irradiazione: quello “orientale” di Baghdad i cui massimi esponenti sono al-Kindī, al-Fārābī e Avicenna, e quello “occidentale” della Spagna musulmana (l’Andalusia), figura di spicco Averroè. La filosofia nel mondo islamico si pone in linea di continuità con la filosofia greca tardoantica, della quale adotta la tendenza a ricollocare le dottrine aristoteliche antro un quadro di riferimento platonico (come avevano fatto i neoplatonici, soprattutto quelli anche commentatori di Aristotele). Da queste differenti matrici filosofiche deriva una visione in cui si coniuga la prospettiva metafisica, sulla struttura intelligibile della realtà, con quella cosmologica, che riguarda la gerarchia del cosmo. Al vertice Dio, causa prima della realtà, a cui si attribuiscono tratti al contempo aristotelici e neoplatonici. Vi sono inseriti anche aspetti prettamente religiosi, tipici delle tradizioni monoteiste (creazione, Provvidenza). Nel clima di conciliazione aristotelico-platonica della cultura araba circolano opere di contenuto neoplatonico sotto una falsa attribuzione ad Aristotele, esempi più importanti: Teologia di Aristotele (parafrasi araba delle ultime tre Enneadi di Plotino); Liber de causis (compilazione di estratti dagli “Elementi di teologia” di Proclo e da Plotino). Al-Kindī: nato a Bassora, nell’attuale Iraq, nell’800 e morto nell’873; contemporaneo di Scoto Eriugena. Con lui prende avvio il ripensamento arabo della filosofia aristotelica. Scrive un breve trattato Sull’intelletto con cui iniziano i tentativi islamici di mettere in ordine nella dottrina aristotelica del nous come testimoniano le opere di al-Fārābī, Avicenna e Averroè. È in anzitutto un enciclopedista i cui scritti coprono tutti i campi del lOMoARcPSD|1338224 sapere greco. De intellectu/ Sull’intelletto: ispirato a una sezione del De anima di Alessandro d’Afrodisia, isolata dal suo contesto e considerata un’opera a parte, che il Medioevo conoscerà come il De intellectu et intellecto. Il De intellectu ha lo scopo di chiarire la distinzione fatta da Aristotele tra intelletto possibile e intelletto agente. Distingue l’intelletto sempre in atto, l’intelletto in potenza, l’intelletto che passa dalla potenza all’atto e l’intelletto che si chiama dimostrativo. Considera “l’intelletto sempre in atto” come un’intelligenza, cioè una sostanza spirituale distinta dall’anima e ad essa superiore e che su di essa agisce per da intelligente in potenza intelligente in atto. Il pensiero arabo ha ammesso dalle origini, sotto l’influenza di Alessandro d’Afrodisia, che vi è una sola intelligenza agente per tutti gli uomini; ogni individuo ha un intelletto in potenza che è mutato in atto dall’intelligenza agente che è unica per tutti gli uomini. al- Fārābī: 870-950. Studiò e insegnò a Baghdad, nel X secolo in cui si era formato un circolo di intellettuali musulmani e cristiani impegnati nello studio di Aristotele e della filosofia greca. La successiva tradizione filosofica arabo-islamica lo onorerà come “maestro secondo solo ad Aristotele”; l’Occidente latino lo conoscerà come “Abumaser” dalle prime parole del suo nome islamico, “ abu Nasr”. Opere maggiori: “L’armonia tra le opinioni di Platone e Aristotele”, “Epistola sull’Intelletto”, “La città virtuosa”; ha scritto anche opuscoli su vari temi filosofici e introduzioni e commenti a trattati aristotelici e dialoghi platonici. Struttura gerarchica della realtà: come Porfirio e Boezio, anche al- Fārābī è convinto della compatibilità tra tradizione platonica e aristotelica; tenta una sintesi tra cosmologia aristotelica e emanazionismo neoplatonico. Interpreta il rapporto di Dio e creature nei termini neoplatonici di una relazione tra Principio Primo/ Essere Primo/ Causa Prima e gerarchia discendente dei gradi della sua emanazione; dà al Principio Primo alcuni tratti del motore immobile di Aristotele, come la perfetta e continua autocontemplazione, cioè il pensiero di pensiero. Dal principio primo agli intelletti e alle realtà terrestri: dall’autocontemplazione del Primo comincia un processo di emanazione che, neoplatonicamente, non avviene per un atto di volontà, ma in modo necessario, in virtù della sovrabbondanza dell’essere. Così dal Primo emana un secondo grado di realtà (il Primo Intelletto) che per l’atto di contemplare il Primo genera un terzo grado di realtà (il Secondo Intelletto), ma per l’atto di auotocontemplazione genera la sfera del primo cielo. Con processi dello stesso tipo , atti di pensiero che generano livelli di realtà, vengono prodotti i successivi Intelletti, a ciascuno dei quali corrisponde una sfera celeste. La Luna, nono intelletto, ne emana un decimo che è l’Intelletto attivo detto “datore di forme” per il suo duplice ruolo di 1. Attivare il nostro processo conoscitivo e 2. Dare le forme a tutti gli enti sublunari. Trasformazione dei capisaldi della fede coranica: questo sistema della realtà apporta profonde trasformazioni ad alcuni capisaldi della fede coranica: la creazione dal nulla è reinterpretata in termini di emanazione neoplatonica; Dio non agisce direttamente, ma lo fa attraverso il digradare dei livelli di emanazione, cosicché nel mondo sublunare il ruolo attivo è riservato al “datore di forme”/10°intelletto. L’intero processo di emanazione non nasce dalla libera volontà di Dio, ma necessariamente. La ripresa della teoria della conoscenza aristotelica: “Epistola sull’Intelletto”, e in altre opere, cerca di riorganizzare le parti della dottrina dell’Intelletto in Aristotele (Aristotele aveva introdotto le nozioni di intelletto attivo e intelletto passivo per esprimere il passaggio dalla capacità puramente potenziale di conoscere gli intellegibili (forme presenti nelle cose) a una conoscenza attuale. Per al-Fārābī l’Intelletto attivo (o agente, dal latino agens) è separato e unico per tutti gli uomini, la sua funzione è quella di illuminare l’intelletto passivo/potenziale/possibile, che è individuale. Con l’illuminazione si compie il processo conoscitivo: le forme delle cose che l’intelletto in potenza aveva ottenuto mediante la percezione sono così portate all’attualità. Se il nostro intelletto divien intelletto in atto rispetto a tutti gli intelligibili (condizione di pochi) allora diviene “intelletto acquisito” e si autocontempla, califfo illuminato Abu Yaqub Yusuf (11631184) ha dato un particolare impulso alle arti, alle scienze e alla filosofia. Avempace: (Ibn-Bāggiah) morto nel 1138, un arabo di Spagna, versato e nelle scienze e nella filosofia. Ha scritto trattati di logica, un libro “Sull’anima”, la “Guida del solitario” e uno scritto “Sul legame dell’intelletto con l’uomo” (citato da Alberto come “Continuatio intellectus cum homine”). Problema principale allora: stabilire il contatto tra l’individuo razionale e l’Intelletto agente separato da cui egli trae la sua beatitudine. “La guida del solitario”: itinerario dell’anima verso l’Intelletto agente per il quale l’uomo si unisce al mondo divino. Dottrina che sosteneva che per l’uomo fosse possibile elevarsi progressivamente dalla conoscenza delle cose a quella di una sostanza separata da ogni materia. Riteneva che lo studio di ogni scienza ha come fine conoscere le essenze degli oggetti sui quali verte (molto aristotelico). Per evitare il regresso all’infinito non si può pensare che dalle essenze delle cose si possano astrarre infinitamente altre essenze, dunque vi sarà un’essenza che non ha in sé un’altra essenza ed è l’essenza della sostanza separata da cui dipende la nostra coscienza. La conoscenza di un intelligibile qualunque raggiunge di colpo una sostanza separata; l’uomo è capace di farlo poiché lo fa. Queste ragioni che assimilano la conoscenza di un’essenza astratta del sensibile a quella di una sostanza intelligibile sembrano frivole a S. Tommaso; ne parlerà in “Contra Gentiles” affermando che è un problema. Ibn Tufail e il romanzo filosofico: si incontra in Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e altri come “Abubacer”, nato a Cadice nel 1100 e morto in Marocco nel 1185. Medico e filosofo dal sapere enciclopedico, autore di un romanzo filosofico intitolato “Il vivente figlio del desto”. Immagina un bambino che nasce per generazione spontanea dall’argilla di un’isola e lì impara da sé, solo con l’immaginazione e la ragione, a conoscere il mondo che lo circonda e poi a innalzarsi alla contemplazione delle realtà metafisiche fino ad arrivare, ormai cinquantenne, alla congiunzione mistica con l’intelletto divino. Quando un giorno un saggio gli fa visita e gli parla dei contenuti della religione insegnata da un profeta (cioè l’Islam), quest’uomo solitario si rende conto del profondo accordo tra filosofia e fede islamica. L’opera verrà poi tradotta in varie lingue europee e probabilmente suggerirà a Daniel Defoe il personaggio di Robinson Crusoe. Averroè: maggior pensatore arabo-andaluso del XII secolo, nato a Cordova nel 1126, nome arabo Ibn Rushd. Filosofo, medico e giurista, noto per i suoi commenti alle opere di Aristotele che, tradotti in latino, saranno utilizzati in tutte le università europee per i 4 secoli successivi; per questo ricordato come il “Commentatore”, anche da Dante “Averoìs, che ‘l gran comento feo” (Inferno, 4, 144). Tra i suoi scritti: trattato di medicina “Colliget”, trattati filosofico-teologici “ La distruzione della distruzione”, “Trattato decisivo sull’accordo della Legge rivelata con la filosofia”. Liberare Aristotele dal neoplatonismo: carattere distintivo del peripatetismo islamico orientale era la fusione si aristotelismo e neoplatonismo (al- Fārābī e Avicenna). Al contrario Averroè propone di interpretare l’autentico pensiero aristotelico liberandolo da ogni elemento neoplatonico. Lo fa nei suoi commenti; sono di tre tipi: 1. Commenti brevi (sommari); 2. Commenti medi; 3.commenti grandi. (2 e 3 il commento letterale si accompagna all’approfondimento teorico). Ci sono pervenuti quasi tutti i suoi commenti in entrambi i formati. Unicità dell’intelletto passivo e attivo: nel commento grande al De anima di Aristotele affronta la teoria dell’intelletto e avanza la sua tesi più famosa: Intelletto agente e Intelletto passivo entrambi UNICI E SOVRASENSIBILI. Per comprenderla bisogna ripensare alla dottrina della conoscenza in Aristotele: avvenuta la percezione nell’immaginazione si costituisce una copia mentale dell’oggetto sensibile. Immagine mentale che non è ancora universale, perché ancora radicata nell’individualità del soggetto conoscente; lOMoARcPSD|1338224 ognuno ha le sue immagini mentali delle cose. Il processo intellettivo prevede la presenza di un Intelletto attivo e di un Intelletto passivo, sulla cui natura (uno?molteplice?) Aristotele non si pronuncia chiaramente. Per al- Fārābī e Avicenna è una facoltà sovrumana unica ed eterna da identificare con Dio: Averroè, invece, propone l’ipotesi che anche l’Intelletto passivo sia unico ed eterno e dunque una sostanza sovraindividuale. In quest’interazione super-individuale tra Intelletto attivo unico e Intelletto passivo unico, il nostro ruolo umano p di offrire le immagini mentali ricavate dall’esperienza. Queste sono intelligibili in potenza e passano all’atto per opera dell’Intelletto attivo e così vengono recepite dall’Intelletto passivo. Conoscenza come attualizzazione dell’Intelletto unico: ruolo delle facoltà sensibili e dell’immaginazione importante perché collegano pensiero e realtà. Piena realizzazione intellettuale, per Averroè: non avviene nei singoli, ma nell’attualizzazione dell’Intelletto unico, separato ed eterno, al quale ognuno partecipa occasionalmente e accidentalmente =ciò che rimane eternamente è il pensiero sovraindividuale, mentre il mio o il tuo contributo è limitato alle nostre immagini mentali, legate al corpo e che con esso periscono. La mortalità dell’anima: la teoria appena esposta la presenta come perfezionabile, non come definitiva, e indebolisce molto il ruolo dell’anima umana individuale e sembra negare la sua immortalità (vanificando sistema di premi e pene eterni). Nel pensiero latino del XII secolo questa tesi troverà sostenitori, Sigeri di Brabante, e avversari come Tommado d’Aquino. Fede e ragione: fraintendendo il pensiero di Averroè la cultura latina dei secoli successivi gli attribuirà la “dottrina della doppia verità” (la tesi, cioè, che la verità della fede e quella della ragione siano diverse e inconciliabili). In realtà la posizione del filosofo andaluso è alltra, ben esposta nel “Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia” (che la cultura occidentale non conoscerà): in essa tenta di definire il rapporto tra attività dei filosofi e collettività sociale. Aristotele insegna che ci sono tre tipi di discorso: scientifico (risponde alle regole della dimostrazione sillogistica), dialettico (in cui si parte da premesse solo probabili), retorico (ricorre al linguaggio figurato, ha come fine la persuasione). Analogamente vi sono tre tipi umani e tre approcci alla realtà: i filosofi, che conoscono la vera struttura della realtà e l’articolano scientificamente nel discorso dimostrativo; i teologi delle varie scuole che girano a vuoto nel confronto di opinioni egualmente probabili e non sanno cogliere la verità della Scrittura dietro il velo allegorico; il popolo, che dalla comprensione del livello letterale del Corano riceve un’istruzione adeguata al proprio livello cognitivo. Una sola verità, sue approcci adeguati: esiste una sola verità che Dio, in modo provvidenziale ha comunicato a tutti gli uomini attraverso il Corano. Dianzi quest’unica verità si danno due approcci, entrambi adeguati: 1. Della massa, si attiene al registro persuasivo del livello letterale del testo sacro, 2. Dei filosofi, che sanno riformulare con rigore scientifico le profonde verità presenti nel Corano, in forma allegorica. L’approccio inadeguato, inconcludente è quello dei teologi, perché non hanno un metodo rigoroso per dirimere le questioni. Al-Mansur e l’eclissi dell’opera di Averroè nel mondo musulmano: negli ultimi anni di vita di Averroè il nuovo califfo al-Mansur si avvicina ai teologi tradizionalisti e antifilosofici=eclissi dell’opera di Averroè nel mondo musulmano insieme al venir meno del progetto almohade che l’aveva ispirata. Essa piuttosto da lì a poco grande rinonanza nella cultura universitaria latina, in cui accompagnerà la ricezione di Aristotele fino al pieno Rinascimento, suscitando adesioni e avversioni. 2. La filosofia ebraica: Il giudaismo medievale, diffuso in molte zone del Mediterraneo, ha avuto molti pensatori di rilievo, a partire da Isaac Israeli (IX-X secolo), fautore di una sintesi tra neoplatonismo e aristotelismo che richiama l’impostazione di al-Kindi. Ishaq Isrāīli: 865-955, esercitò la medicina alla corte dei califfi di Kairun. Lo si può considerare un compilatore, severi giudizi di Maimonide su di lui, alcuni giustificati. Suoi meriti: grande medico e aver dato primo impulso agli studi filosofici ebraici. “Libro delle definizioni”, “Il libro degli elementi”, “Il libro dello spirito e dell’anima”: mescolanza di speculazioni mediche, filosofiche, fisiche. In lui preponderanti influenze neoplatoniche, nella sua concezione emanatistica dell’origine e la sua dottrina dell’anima. Non si è preoccupato di mettere d’accordo la sua dottrina con quella della Bibbia, leggendolo ci si rende conto a malapena che è ebreo. Sa’adyāh ben Yōsēf di Fayum: 892-942. Opere essenziali: “Commento del libro di Egire”, “Libro delle credenze e opinioni”. Si propone di costruire una filosofia propriamente ebraica sulla base di un accordo tra i dati della scienza e quelli della tradizione religiosa. Esempio dei filosofi arabi nel cui ambiente vive a suggerirgli questo disegno. Per provare l’esistenza di Dio: bisogna prima provare che il mondo no è eterno, ma ha avuto inizio nel tempo. È così perché l’universo è finito, composto si sostanza e accidenti= incompatibili con l’eternità; l’idea di un infinito tempo passato ora trascorso è contraddittoria;= il mondo ha avuto inizio nel tempo. Stabilisce la creazione ex nihilo e combatte la teoria neoplatonica dell’emanazione. Dio incorporeo, dotato di attributi, i 3 principali Vita, Potenza e Sapienza che ha senza che la sua unità sia alterata. È un’unità che non esclude attributi metafisici, ma la trinità cristiana. Riguardo l’anima: combatte la dottrina platonica della sua preesistenza; la considera creata da Dio insieme al corpo al quale è unita naturalmente, si addormenta dopo la morte, l’ultimo giorno resusciterà con il corpo per essere giudicata. Dottrina giudaica, ma molto vicina alla scolastica cristiana del XIII secolo. ibn Gĕbīrōl: ebreo andaluso (XI secolo, 1021-1058), noto ai latini come “Avicebron”. “La fonte di vita”: sua opera maggiore; un trattato di metafisico e cosmologia composto in arabo, che ha circolato a lungo tradotto in varie lingue. Sostiene la dottrina dell’ilemorfismo universale, cioè la convinzione che, a parte Dio, tutti i livelli della realtà sono composti di materia e forma (hyle, morphè). Qui “materia” non è sinonimo di “corpo”, ma va inteso nel senso più ampio di principio di pura passività, che insieme alla forma dà vita ai enti che occupano ogni livello del reale, da quelli corporei a quelli incorporei. Tutti gli enti fatti da forma e materia, ma quest’ultima è di diversa natura a seconda della loro nobiltà. La teoria dell’ilemorfismo universale gli permette di distinguere con chiarezza la semplicità della causa prima dalla natura composta (di materia, in senso ampio, e forma) di tutti i gradi di realtà successivi a essa. XIII secolo, ilemorfismo: avversato da S. Tommaso, ripreso dai pensatori francescani, come Bonaventura; da Guglielmo d’Auvergne e da Raimondo Lullo. È legittimo considerare la usa opera elemento integrante dell’ “agostinismo medievale”. Nel XII secolo: vengono elaborate da ogni pensatore di questo periodo una serie di prove a favore dell’esistenza di Dio. Ibn Pākūdā dimostra questa tesi partendo dal fatto che il mondo è composto; Ibn Cadiq di Cordova dimostra nel suo “Microcosmo” l’esistenza di Dio con la contingenza del mondo; Ibn Dāwūd di Toledo la dimostra fondandosi sulla necessità di un primo motore e sulla distinzione tra il possibile e il necessario. Jeudah Hallēvī: promotore di una reazione teologica e nazionalista, contro questo movimento che tende a un’interpretazione razionale della tradizione religiosa. Il suo celebre libro “ha-Khazarī” preconizza un’apologetica puramente ebraica e il meno possibile filosofica. Mosè Maimonide: nato a Cordova nel 1138, trascorse la sua vita adulta tra Marocco, Palestina ed Egitto; dagli interessi enciclopedici, ha scritto opere filosofiche, giuridiche, mediche e di esegesi biblica. lOMoARcPSD|1338224 Cambridge, e quella di Padova nel 1222 da maestri che avevano lasciato Bologna. Molte sedi universitarie si distinguevano per l’eccellenza dei in una particolare disciplina: Salerno e Montpellier erano rinomate per la medicina, bologna per lo studio del diritto, Parigi e Oxford per gli studi filosofici e teologici. Ogni sede aveva carattere internazionale con maestri e studenti di ogni nazionalità europea, uniti dall’uso tecnico della latino, lingua culturale sovranazionale, impiegata ad ogni livello dell’attività didattica, amministrativa e giuridica. Composizione sociale degli universitari e i salari dei professori: gli studenti provenivano da diverse realtà sociali, piccola nobiltà, borghesia, artigianato, alcuni anche della piccola nobiltà rurale per cui l’università rappresentava una possibile promozione sociale ed economica. Gli studenti più poveri (numerosi soprattutto nelle facoltà delle Arti e di Teologia) erano dispensati dalle tasse universitarie. La Sorbona era in origine un collegio per studenti di teologia poveri; nonostante ciò per molti l’indigenza continuava, costava molto studiare (libri, onorario dei professori), c’era chi doveva mettersi al servizio di uno studente o di un professore. La situazione salariale media dei docenti era paragonabile a quella di un operaio, anche se il corpo universitario godeva del privilegio dell’esenzione fiscale. Situazione più delicata quella dei maestri delle Arti, mentre i giuristi e i medici avevano una situazione privilegiata perché godevano anche degli introiti che gli venivano dall’attività professionale extraunivesitaria. La condizione clericale della popolazione universitaria: tratto distintivo della popolazione universitaria era la condizione clericale. Nel Medioevo “clero” non è sinonimo di “insieme di sacerdoti”, piuttosto indica coloro che hanno ricevuto la tonsura clericale, cioè un taglio rituale di 5 ciocche con cui si diviene da laici chierici. Premessa per l’accesso agli ordini religiosi, ma di per sé non comportava particolari obblighi. Piuttosto era un privilegio: i chierici non erano soggetti alla giustizia civile, solo in parte a quella episcopale (potevano appellarsi al papa). Una minoranza dei chierici accedeva al sacerdozio, la maggior parte vivevano da laici, senza rinunciare neanche al matrimonio. La differenza principale tra chierici e laici, i primi avevano accesso a una formazione culturale, erano “litterati”; pda qui l’identificazione che nel XIII secolo vedeva accomunare le figure del “chierico” e dell’ “intellettuale”. Irruzione di Aristotele nel sistema universitario: nel sistema universitario medievale non esisteva una facoltà di filosofia, questa era insegnata nella facoltà delle Arti, dove presto viene integrato il sistema tradizionale delle arti liberali e poi soppiantato dall’irruzione delle opere di Aristotele, che saranno adottate come libri di testo nei vari settori. Le ragioni del successo delle opere di Aristotele nelle università medievali (anche con le difficoltà dell’essere opere “esoteriche”): sono trattati nati dall’insegnamento, riguardano quasi tutti gli ambiti del sapere (logico, fisico, metafisico ed etico-politico), mostrano tra loro collegamenti metodologici e nel linguaggio (si pensi all’impiego pervasivo delle coppie concettuali materia/forma, potenza/atto, sostanza/ accidente). Insegnare filosofia significava commentare i testi di Aristotele, considerato il Filosofo per antonomasia. Non vi era un rapporto servile e ripetitivo nei suoi confronti, i commentatori potevano prendersi la libertà di esprimere il proprio dissenso. Molte delle dottrine più interessanti del XIII secolo comportano revisioni profonde, se non superamenti, del pensiero di Aristotele, da cui tutti partivano. Il metodo: letteratura filosofica del XIII (e dei tre secoli successivi) secolo influenzata dalle tecniche di insegnamento da cui deriva. L’università medievale perfeziona forme altamente strutturate di analisi testuale (lectio) e di discussione teorica (disputatio), da cui derivano rispettivamente i generi letterali del commento e della quaestio. Lectio: è l’analisi sistematica di un testo fondamentale secondo tre livelli di approfondimento progressivo: 1. Spiegazione letterale (littera); 2. Prima parafrasi del suo significato (sensus); 3.approfondimento della posizione teorica dell’autore (sententia). La spiegazione letterale era un momento cruciale dal momento che si avevano dinanzi traduzione estremamente letterali che rendevano necessari chiarimenti grammaticali e lessicali. La disputa e la quaestio: altra pratica intellettuale tipica dell’università medievale è la disputa. In ogni facoltà si tenevano si tenevano dispute accuratamente strutturate intorno ai temi più rilevanti e problematici di ogni area disciplinare. Si partiva da un quesito del maestro formulato come interrogativa disgiuntiva (es. :”l’umiltà è una virtù o no?”). poi entravano in gioco due gruppi di studenti divisi nel “gruppo del no” e nel “gruppo del si” che dovevano formulare i diversi argomenti rispettivamente contro e a favore. A questo punto il maestro offriva la propria soluzione, replicando anche gli argomenti contrari avanzati nel dibattito. Sul modello orale delle dispute nasce la quaestio (anche se non tutte quelle che ci sono giunte sono nate da discussione realmente avvenute). La svolta tra XII e XIII secolo: Severino Boezio aveva lasciato all’Alto Medioevo le traduzioni commentate di alcuni scritti logici di Aristotele (Categorie; De interpretatione). Grazie al suo lavoro dal VI all’XI secolo l’Occidente latino conosce un Aristotele essenzialmente logico, collegabile alle discipline del trivio (grammatica, dialettica, retorica). Le cose cambiano tra XII e XIII secolo in cui i traduttori latinizzano il resto dell’Organon e opere fisiche e metafisiche (oltre agli scritti filosofici-scientifici arabi in cui si fa ricorso alla produzione aristotelica). Avicenna e l’interpretazione platonizzante di Aristotele: nei primi tentavi di interpretazione di questa nuova filosofia si verifica un fenomeno di “precomprensione” nel senso che prima di ciò che aveva effettivamente detto Aristotele ci si poggi sulle informazioni “di parte” date da Avicenna . a causa di tale precomprensione inizialmente le novità aristoteliche sembrano più facilmente armonizzabili con il bagaglio culturale neoplatonico-agostiniano della tradizione cristiana occidentale. Inconciliabilità di alcune teorie aristoteliche con il cristianesimo: chiarendosi, però, la portata di alcune teorie aristoteliche (come quella dell’eternità dell’universo) risultò evidente la loro inconciliabilità con alcuni capisaldi della fede cristiana. L’insieme delle opere aristoteliche aveva mostrato un intero sistema della realtà coerente e del tutto indipendente dai contenuti della rivelazione religiosa. Censura della Metafisica, dei libri naturali di Aristotele e dei relativi commenti: ai conflitti tra ragione e fede, avvertiti particolarmente nell’università di Parigi, si risponde diversamente: l’autorità ecclesiastica (che aveva ancora il controllo dei programmi di studi) risponde con la censura; gli statuti dell’università di Parigi, redatti nel 1215,vietano l’uso didattico della Metafisica, dei libri naturali di Aristotele ( Fisica, il Cielo, De anima, e gli altri) e dei loro commenti arabi. Il conflitto parigino tra vescovo e maestri: dopo il divieto si manifesta il conflitto tra autorità episcopale e maestri. Per evitare le conseguenze del malcontento di maestri e studenti (molti lasciano Parigi per Tolosa, dove Aristotele si poteva leggere più liberamente) intervine papa Gregorio IX nel 1231 con la bolla “Parens scientiarum” (madre delle scienze, riferito a Parigi). Con questa consente di insegnare i “libri naturali” dei filosofi , prima però esaminati e purificati dagli errori da una commissione, che in realtà non hai mai concluso i propri lavori superata degli eventi. Liberalizzazione dello studio di Aristotele: statuti del 1255 della facoltà delle Arti di Parigi prevedono lo studio sistematico dell’intera opera aristotelica che così viene a coincidere con il percorso di formazione filosofica. Corrispone al periodo di massima produttività di maestri di teologia, i domenicano Alberto e Tommaso e dei maestri di Arti come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. VIII. La filosofia nel secolo XIII: 1.Da Guglielmo d’Auvergne a Enrico di Gand: Studi filosofici da parte dei teologi del XIII secolo, anche dopo l’ammonimento di Gregorio IX ai teologi di Parigi (di insegnare teologia scevra da ogni influenza del secolo, 7/06/1228): • Primi sforzi, fine XII secolo: “Glosse”, “Commento alle sentenze” di Pietro di Poitiers, ha insegnato a Parigi dal 1167 al 1205, fa allusione alla Metafisica; “Summa teologica” di Simone di Tournai che conosce già la Fisica; acora opere quasi solo teologiche; lOMoARcPSD|1338224 • “Summa aurea” di Guglielmo d’Auxerre, morto nel 1231, tratto originalmente il libero arbitrio, le virtù, il diritto naturale; • “Summa de Bono” di Filippo il Cancelliere, morto nel 1236, scrisse il primo trattato sulle proprietà trascendentali dell’essere: l’uno, il vero, il bene. L’uso che fa di Aristotele e dei filosofi arabi è prova del fatto che i teologi cristiani non possono più sfuggire al confronto. Guglielmo d’Auvergne: nato nel 1180 ad Aurillac, professore di teologia a Parigi, consacrato vescovo di Parigi nel 1228 da Gregorio IX, muore nel 1249. Scritti più interessanti per la storia della filosofia: “De primo principio” 1228, De anima 1230, De universo tra 1231 e 1236. Non scrive in funzione dell’insegnamento. La sua è la riflessione critica di un teologo della vecchia scuola sulle filosofie arabe che si erano appena scoperte. Vide chiaramente che non si possono combattere le idee che non si conoscono e che si può trionfare della filosofia solo da filosofi (come faranno Alberto e Tommaso). Critica gli intellettuali cristiani che discutono delle nuove teorie senza conoscerle/conoscendole male. Ha visto l’importanza di Avicenna e l’interesse per un teologo cristiano nella sua distinzione tra essenza ed esistenza. Esse, due significati: 1°, essenza/sostanza in se stessa priva dei suoi accidenti, cioè l’essere che la definizione significa; 2°, ciò che il verbo est designa quando lo si predica di una qual cosa, in questo non significa esse né significa l’essenza che la definizione esprime, gli è estraneo. Distingue anch’egli essenza ed esistenza, come da al-Fārābī ad Avicenna e poi d’Aquino, e ne fa la base delle sue prove dell’esistenza di Dio. Ogni essere è tale che nelle sua essenza sia inclusa l’esistenza o meno, dunque ogni essere è tale che esista per se stesso o per altro, ma non possono esistere solo esseri che esistono per altro, chi è “l’altro” che ne causa l’esistenza? Ci sono tre possibilità: o ammettere che vi è una serie infinita di esseri che esistono per altro, il che non è possibile né risolutivo; ammettere una serie circolari di esseri che si causano l’un l’altro, ma sarebbe come a dire che si causano da se stessi; ammettere l’esistenza di un essere che esiste per sé, che possiede l’esistenza per essenza che è Dio. Guglielmo così supera il piano ontologico di S. Anselmo, “su suggerimento di Avicenna” in questo senso si può dire che ha preparato le vie per S. Tommaso. Dio è assolutamente semplice per come lo concepisce. Guglielmo spiega che l’esse delle cose è una partecipazione dell’esse divino, in questo si distingua da Avicenna per cui l’esistenza delle cose è partecipazione a qualche essere precedentemente emanato. “Dio è l’essere per cui tutte le cose sono, e non ciò che esse sono”, Guglielmo paragona il rapporto che vi è tra anima e corpo a quello che vi è tra esse divino con le essenza create.; formula la cui completa portata apparirà solo in Alberto Magno e in Eckhart. L’esistenza vale e più dell’accidente e più della sostanza poiché perdendola si perde tutto. Nella dottrina di Guglielmo Dio presta l’esistenza alla creatura piuttosto che darla, questa povertà della creatura intacca la sua cosmogonia e cosmologia. Si oppone alla tesi avicenniana dell’eterna emanazione dei possibili retta dalla necessità dell’intelletto divino. La volontà di Dio è eterna, ma libera, eterne le sue decisioni, ma non per questo lo sono anche le conseguenze di queste. L’esistenza o meno del mondo, che è stato creato liberamente ed eternamente da Dio dal nulla nel e col tempo, non cambia nulla in Dio che l’ah creato ma non perché già esisteva (Avicenna) piuttosto perché 2.Da Alessandro di Hales a Raimondo Lullo: Maestro francescano all'Università di Parigi, ove insegnò teologia, Alessandro (1170 circa1245) entrò tardivamente, nel 1236, nell'ordine dei Minori, inaugurando così la prima cattedra francescana di teologia a Parigi. Forse allievo, sicuramente amico, di Roberto Grossatesta, Alessandro è rimasto famoso per la vasta Summa theologica, della cui paternità peraltro già Ruggero Bacone dubitava.
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