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La fine dell'Impero ottomano, G. Del Zanna, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del manuale 'La fine dell'Impero ottomano' di G. Del Zanna

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 07/02/2021

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Scarica La fine dell'Impero ottomano, G. Del Zanna e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! LA FINE DELL’IMPERO OTTOMANO G. Del Zanna 1) QUESTIONI D’ORIENTE 1. Lo spazio “intermedio” ottomano 1.1. La Russia in Oriente: Il 3 marzo 1878 venne firmato il Trattato di Santo Stefano con il quale si stabilì l’indipendenza di Serbia, Montenegro, Romania e Bulgaria, mentre solo pochi giorni prima il sultano Abdulhamid II aveva sancito la sospensione della Costituzione varata nel 1876. Il 1878 venne ricordato per tre motivi principali: la proiezione esterna della politica russa, la questione della nazionalità e il processo di modernizzazione dell’Impero Ottomano. Il 1878 è l’anno finale di un periodo che vide l’Impero zarista appropriarsi di molti territori che appartenevano agli ottomani , tra cui quello della Crimea (1774) che consentì così ai russi libertà di navigazione e di commercio all’interno del Mar Nero. È a questo trattato che risalgono le radici della “questione d’Oriente”. Questo problema deve essere analizzato tenendo conto del contesto geopolitico all’interno del quale si sviluppava l’Impero Ottomano. Esso faceva perno su due macroaree principali: la prima, di carattere territoriale, era l’area balcanico-anatolica, mentre la seconda, di carattere marittimo, era quella costituita dai bacini del Mar Nero e del Mar Egeo. La confluenza di queste due zone era data dalla città di Istanbul, città ubicata al confine tra l’Europa e l’Asia. Inoltre, esso deteneva il controllo di vari punti strategici, come quello del Mar Rosso. In questo quadro si inserisce anche la questione dei Balcani, che prende avvio dal Trattato di Berlino (1878), il quale aveva lo scopo di definire territorialmente una regione a maggioranza cristiana, ma da secoli dominio ottomano. Inoltre, il rapido processo di industrializzazione la elevò ad area strategica poiché era situata tra Europa, Nord Africa, Russia zarista e Medio Oriente e all’interno di tre importantissimi bacini portuali, l’Adriatico, l’Egeo e il Mar Nero, i quali permettevano un rapido scambio delle merci. Alla fine del XVIII secolo, l’Impero Ottomano aveva intrapreso un cammino di riforme che condusse ad una maggior centralizzazione degli apparati statali, accentuando così le analogie tra la Sublime Porta e l’Europa. È quindi comprensibile come la “questione d’Oriente” non deve essere vista come la conseguenza della crisi dell’Impero Ottomano, quanto piuttosto di una sempre più avanzata globalizzazione economica e culturale. 1.2. I nuovi Balcani: L’arrivo di Napoleone nella penisola balcanica e la sua conquista dell’Egitto (1798) portarono il sultano Selim III ad intraprendere una vasta azione riformatrice che coinvolse soprattutto l’esercito e l’amministrazione. Tale riforma conobbe l’opposizione dei notabili e dei giannizzeri, questi ultimi diventati sempre più simili ad una casta di piccoli signori locali che amministravano i propri possedimenti ubicati nelle zone balcaniche di frontiera. Questi terreni, divenuti privati, erano affidati a mezzadri di etnia serba che avevano anche perso la loro connotazione di contadini liberi: l’insostenibilità della situazione causò tra il 1804 e il 1812 le prime rivolte che ebbero come esito la secessione dello Stato serbo. Nel 1815 i capi delle comunità rurali serbe riuscirono a trattare con gli ottomani un accordo che prevedeva una doppia amministrazione dei loro territori: le campagne, a maggioranza serba, erano sotto il loro diretto controllo, mentre le città, a maggioranza musulmana, restarono in mano all’amministrazione turca. Questo accordo fu il punto di partenza tramite il quale le province serbe videro riconosciuta la loro autonomia, nonostante rimasero tributarie dell’Impero Ottomano. Nel 1830 uno dei capi serbi ottenne il titolo ereditario di principe e questo fatto, unito ad una rinegoziazione dei tributi e ad una definizione più precisa dei confini del principato, fu un ulteriore passo in avanti verso il riconoscimento dell’indipendenza. Nonostante il sultano ottomano continuò a riscuotere tributi e nonostante il mantenimento di un presidio territoriale, molte delle comunità serbe stanziate all’interno dell’Impero asburgico iniziarono a confluire in questo nuovo territorio introducendo i loro costumi e loro usanze. Negli anni Venti, poco dopo le prime rivolte serbe, scoppiò anche la guerra d’indipendenza greca, la quale trovò un vasto appoggio negli stati europei. Le vicende serbe e quelle greche furono l’inizio di un processo che vide l’espulsione dei turchi ottomani dai territori balcanici. È errato pensare che gli artefici di questo movimento per l’indipendenza della Grecia siano da rintracciare nei greci della diaspora o nei mercanti a contatto con l’Europa; essi erano molto integrati all’interno del sistema sociale ottomano e risultavano essere appartenenti al ceto più conservatore, alla stregua del clero ortodosso, apertamente filoimperiale. Il fulcro della rivolta greca è da rintracciarsi nell’area dell’Epiro, governato da un pascià albanese che creò un principato semiautonomo che controllava importanti vie commerciali. La rivolta scoppiò nel 1821 e si estese anche ad altre aree che godettero di una sostanziale autonomia sotto la dominazione turca; questa rivolta prese di mira i musulmani stanziati in quelle regioni e indusse il governo di Istanbul ad una feroce rappresaglia contro i greci stanziati nella capitale. Tra il 1825 e il 1826 le rivolte si spinsero anche nella zona del Peloponneso (a quel tempo definito Morea) e ciò costrinse il governo ottomano ad affidare il territorio all’allora governatore egiziano, cercando di limitare le ambizioni di quest’ultimo verso i territori di Siria e Palestina e, al contempo, di sedare le rivolte elleniche grazie all’ausilio del moderno esercito egiziano. Le potenze europee, nonostante il conflitto anglo-francese, inaugurarono un breve periodo di cooperazione che si concretizzò nell’allestimento di un blocco navale attorno al Peloponneso. Nel 1827, alla distruzione di parte della flotta ottomana presso Navarino, seguì un conflitto russo-ottomano chiuso con il trattato di Edirne (1829) e con il trattato di Londra (1830), con il quale si sancì l’indipendenza greca. Il nuovo Stato, il primo creato secondo un principio “etnico”, comprendeva un territorio abbastanza piccole ed Atene fu proclamata capitale. Subito si inaugurò un processo di modernizzazione dello Stato che comprese la codificazione di nuove leggi, l’introduzione di un sistema scolastico e di una lingua unificata derivante da quella ottomana e quella slava. Nello stesso periodo si verificarono tensioni e cambiamenti anche nei due principati di Valacchia e Moldavia: i fanarioti, che governavano queste due province per conto del sultano ottomano, furono al centro delle ostilità del popolo rumeno. Poi, in seguito alla vittoria della Russia nel conflitto del 1828-29 e dopo il trattato di Edirne, la Valacchia e la Moldavia divennero una sorta di “protettorato” russo, godendo di fatto di una propria autonomia. I boiari, notabili locali, furono investiti della loro carica di governanti direttamente dal governo zarista, il quale si occupò anche di fornire questi territori di un apparato statale moderno ed efficiente. Nell’Impero Ottomano era la religione a definire le diverse identità collettive dal momento che in Oriente il concetto di “nazione” era del tutto estraneo. La società islamica risultava essere divisa in millet , ovvero raggruppamenti su base confessionale riconosciuti dalla Sublime Porta tra cui rientravano anche i non-musulmani. Gli appartenenti alle tre grandi religioni (zoroastriani, ebrei e cristiani) erano considerati dhimmi, ovvero protetti e garanti di una speciale tutela da parte del sultano. Al capo dei millet vi erano i capi religiosi, i quali possedevano anche poteri di carattere civile grazie ai quali riscuotevano le imposte, amministravano la giustizia e organizzavano la vita all’interno della comunità. Ogni millet possedeva una propria autonomia su alcuni aspetti della vita sociale e tale autonomia compensava la disparità sul piano giuridico che sussisteva tra dhimmi e le comunità musulmane , dal momento che i non-musulmani versavano al sultano una tassa sulle persone e erano esenti da alcuni privilegi sociali. I millet non possedevano definiti confini di tipo territoriale e l’etnia al loro interno era molto eterogenea. Su questo scenario incisero i cambiamenti che si verificarono durante il XIX secolo, i quali contribuirono a creare anche delle coscienze di tipo “identitario” nei Balcani: la crescita demografica portò uno spostamento della popolazione dalla campagna alla città con l’esito di un rimescolamento delle componenti etniche all’interno dei centri urbani, di solito più cosmopoliti. La modernizzazione promossa dall’Impero Ottomano faceva leva sui ceti urbani che acquistarono quindi una sempre più grande rilevanza sociale ed economica: il periodo del Tanzimat aprì la strada all’affermazione dei ceti cristiani, i quali conobbero un’impennata di tipo demografico, sociale ed economica. I cristiani assunsero importanza dal momento che l’Impero Ottomano si era inserito in scambi commerciali di tipo internazionali che consentirono loro di porsi come intermediari con le potenze europee. Inoltre, i cristiani ottomani, non potendo entrare nell’esercito e nella politica dell’Impero, si erano specializzati in altri campi che consentirono loro di arrivare ad assumere posizioni di rilievo. Nella seconda metà del XIX secolo, la componente cristiana all’interno dell’Impero Ottomano conobbe un notevole sviluppo grazie a migliori condizioni economiche, igienico-sanitarie e alla loro non partecipazione all’apparato militare dell’Impero, il quale subì, nel corso del secolo, pesanti perdite in termine di vite umane. Tuttavia è da sottolineare come l’ascesa dei cristiani non poteva in alcun modo intaccare gli assetti politico-istituzionali, i quali rimasero saldamente ancorati alla sfera religiosa e all’influenza del sultano. 2.3 Grandi potenze e piccole patrie: Ovviamente, nel quadro dei Balcani, vanno tenute in considerazione anche le grandi potenze europee. L’interesse delle cancellerie occidentali per i territori dei Balcani faceva leva sui loro interessi geopolitici. Il ruolo dell’Europa fu determinante soprattutto per l’iniziale debolezza dei movimenti nazionali, i quali riscuotevano seguito solo tra le élite locali e non intaccavano le popolazioni rurali. I leader dei movimenti nazionali capirono che aggrapparsi all’Europa era il solo modo per raggiungere una condizione di modernità. Questo processo di “Europeizzazione” portò alcuni scrittori balcanici a fornire racconti di carattere nazionale così come accadeva nel Vecchio Continente durante la cultura romantica. Questi romanzi possedevano un topos predefinito: l’odio contro il dominatore turco. La formazione degli stati balcanici ebbe come denominatore comune il fattore linguistico che ebbe il merito di costituire nuove identità collettive. Senza l’Europa le élite locali non sarebbero state in grado di portare avanti un’insurrezione di tipo nazionalistico, anche perché parte della classe aristocratica balcanica era ben integrata nel sistema amministrativo e politico ottomano. L’uso della forza e della violenza fu un fattore decisivo per rafforzare il sentimento nazionale presso la popolazione locale: se in un primo momento le differenze di carattere religioso non furono causa di dissidi, con l’aumentare della violenza anche questo fattore assunse un connotato politico di rilievo. Per comprendere la nascita e lo sviluppo degli stati balcanici bisogna tener presente anche il fatto che in Oriente la “nazione” era costituita da una diaspora, ovvero persone appartenenti allo stesso gruppo etnico sparse all’interno del vasto territorio ottomano. La costituzione di un territorio nazionale presupponeva la delimitazione di un confine territoriale che separasse le popolazioni in base ad un criterio etnico-religioso: di conseguenza, la coabitazione risultava essere un fattore di disturbo. Iniziò quindi il problema delle minoranze , che venne affrontato tramite massacri, emigrazioni forzate ed espulsioni. Tutti questi fattori furono alla base della costituzione della Grecia, della Serbia, del Montenegro, della Romania e della Bulgaria, i quali si affermarono inizialmente come entità territoriali autonome ed in seguito intrapresero politiche volte a “nazionalizzare” il loro territorio. 3. L’Impero trasformato 3.1 Dall’Impero allo Stato: Alla fine del ‘700 l’Impero Ottomano riscontrava una forte frammentazione dal punto di vista territoriale ed amministrativo e non era in possesso di un forte sistema fiscale. L’economia era basata sull’agricoltura, il cui commercio però risentiva del monopolio detenuto dall’Europa. Inoltre, le continue perdite territoriali inficiavano pesantemente sulle entrate statali. Urgevano riferme. Questa dinamica innovatrice ebbe un rapido sviluppo nella seconda metà del XVIII secolo, durante il quale l’Impero Ottomano sviluppò una rete di rappresentanze diplomatiche all’interno dei maggiori paesi europei. Fu con il sultano Selim III, salito al potere nel 1789, che si avviò un vasto programma riformatore (L’Ordine Nuovo) teso a rafforzare gli organi centrali dello Stato. Nel 1795 vi fu la riforma dell’amministrazione provinciale che rafforzò notevolmente i poteri del governo centrale nei confronti dei territori periferici imperiali. Questa prima fase di riforme fu fortemente voluta da una confraternita sufi che sosteneva la superiorità della legge islamica (seriat) nella società e nello Stato. Le riforme portate avanti nell’Ordine Nuovo conobbero però un arresto dovuto alla scarsa liquidità economica dello Stato e all’opposizione portata avanti dagli ambienti militari, nonostante essi conobbero un ammodernamento grazie a istruttori europei che furono chiamati ad addestrare l’esercito. Il programma di accentramento statale e di ammodernamento dell’esercito, il quale faceva leva ancora sul corpo dei giannizzeri, fu portato avanti da Mahmud II (1808-1839). Le riforme che riguardarono l’esercito innescarono a loro volta ulteriori provvedimenti, tra i quali il potenziamento delle infrastrutture e del sistema educativo. Venne riorganizzata anche la burocrazia imperiale con la creazione di una classe di funzionari specializzati. I poteri statali furono consolidati tramite la creazione di moderni ministeri con proprie specifiche funzioni, mentre furono soppressi tutti i corpi intermedi che agivano come centri alternativi all’autorità statale. È in questo contesto che si deve collocare la soppressione del corpo dei giannizzeri nel 1826. Alla fine del regno di Mahmud II, nonostante la perdita di alcuni territori (Algeria e Grecia) e il formarsi di forti correnti indipendentiste nei Balcani, l’Impero Ottomano uscì fortemente rinnovato e trasformato: tra le maggiori novità fu anche il mutamento della base della legittimità del sovrano, la quale non era più quella religiosa, bensì quella di diritto. 3.2 Il “Tanzimat” e l’ottomanismo: Le riforme portate avanti in questo periodo aprirono il terreno per quel periodo che prende il nome di Tanzimat che va dal 1839 al 1876. La novità di quest’epoca riguardò i principi ispiratori delle riforme e coloro che li misero in atto. Il baricentro dell’azione governativa passò dal sultano alla Sublime Porta: lo Stato non si occupò più di proteggersi dagli attacchi esterni e di mantenere l’ordine interno, bensì iniziò ad ampliare le sue competenze nei campi economici e sociali; al potere assoluto del sultano fu posto un limite, mentre fu rafforzata la supremazia della legge che si basava sulla seriat e sul kanun, ovvero sul corpus di leggi statali. Ad avviare il periodo del Tanzimat fu un decreto promosso nel 1839 nel quale si alludeva alla necessità di grandi trasformazioni nel campo giudiziario, amministrativo, fiscale e militare. Il decreto aveva come obiettivo primario la definizione su nuove basi del rapporto tra lo Stato e i suoi sudditi, cercando anche di coinvolgere nelle attività pubbliche i non-musulmani. Tale editto venne aggiornato nel 1856 con l’obiettivo di far sì che l’Impero Ottomano entrasse all’interno dell’ambiente europeo. La nuova trascrizione stabilì la pari uguaglianza tra i sudditi per quanto riguarda la fiscalità, ma anche la parità nei confronti degli obblighi militari e il libero accesso alle funzioni pubbliche: ciò fece sì che anche i non-musulmani divennero arruolabili nell’esercito, anche se potevano pagare una tassa di esenzione che compensava l’abolizione di quella pagata precedentemente dai dhimmi. Venne poi riorganizzato lo statuto dei millet: essi godevano ancora di un’autonomia religiosa, ma si pose fine all’amministrazione separata della giustizia esercitata da tribunali a carattere misto. Il decreto del 1856 fu un grande passo in avanti per un “ottomanismo” di matrice a-islamica, in cui ad ogni suddito venivano concessi uguali diritti e garanzie: in questa ottica nel 1869 fu proclamata una legge che assegnava ai sudditi l’identità legale “ottomana”, la quale andava a scardinare il vecchio principio di divisione tra musulmani e dhimmi, cercando così di eliminare ogni forma di distinzione confessionale. Nonostante ciò, questo provvedimento di eguaglianza rimase eluso da quei cristiani che partecipavano ormai da tempo alle lotte per l’indipendenza nazionale appoggiati dalle potenze europee. L’azione riformatrice conobbe anche le resistenze delle gerarchie ecclesiastiche che temevano un superamento del sistema dei millet, mentre l’atteggiamento degli Stati europei era ambivalente: se da una parte chiedevano i pari diritti per i cristiani, dall’altra sostenevano gli stessi cristiani e il sistema dei millet per paura di perdere i loro vantaggi e privilegi. Ma, cosa più importante, questo decreto urtava i sentimenti delle masse islamiche e di una parte dell’apparato statale che rimanevano fedeli agli assetti di tipo tradizionale: tra le voci più importanti dell’opposizione si collocano i Giovani Ottomani, un movimento fondato da intellettuali e da funzionari pubblici, i quali ritenevano l’Islam il fondamento basilare per una politica riformatrice e auspicavano un governo monarchico-costituzionale che frenasse le ambizioni della classe burocratica. Alla metà degli anni ’70, le continue tensioni interne spinsero il governo riformatore alla deposizione del sultano Abdulaziz (30 maggio 1876) e alla salita al trono di Abdulhamid II. Gli eventi spinsero anche il Gran Consiglio alla redazione di una carta costituzionale: la Costituzione, fedele ai principi dell’ottomanismo, si basava sulla libertà di uguaglianza dei sudditi di fronte alla legge e sui loro uguali doveri nei confronti dello Stato. L’Islam fu dichiarata religione di stato, ma i Abdulhamid II diede anche il via a profonde trasformazioni che riguardarono l’istruzione e il campo giudiziario che voleva rendere liberi dalla morsa della sfera religiosa: durante il suo regno furono promosse trasformazioni che resero il sistema scolastico ottomano un settore all’avanguardia, capace di formare un ceto di professionisti dei quali la società aveva bisogno. La riforma scolastica fece sì che si abbassò il tasso di analfabetizzazione e permise una maggior circolazione dei periodici e dei giornali, consentendo così uno sviluppo del settore editoriale e favorendo scambi di tipo culturale all’interno delle diverse comunità ottomane. Tuttavia, durante il periodo del Tanzimat, la stampa godeva di una libertà pressoché assoluta, mentre nel periodo hamidiano essa subì una vasta attività di censura che la costrinse a propagandare l’immagine dell’Impero Ottomano come uno Stato aperto all’innovazione. 1.2 La politica dell’Islam: A partire dagli anni Settanta del XIX secolo , gli strati contadini della popolazione ottomana aderirono a correnti “revivaliste” : un movimento che aveva come fine ultimo rigenerare la società islamica e che assunse sempre di più il profilo di una nuova ideologia politica contrapposta a quella del Tanzimat . L’affermazione del movimento “revivalista” fu anche l’esito del malcontento delle masse musulmane: nel dibattito pubblico prese così forma l’idea di una purificazione della società islamica ottomana a fronte di una crescente ostilità nei confronti dell’Europa. In alcuni circoli, come quello dei Giovani Ottomani, circolavano idee di stampo antieuropeista che vedevano in una ridefinizione dell’identità islamica la chiave per liberarsi della sudditanza dell’Occidente, soprattutto in seguito alle diaspore verificatesi dopo i movimenti secessionistici dei Balcani. È in questo clima che si sviluppò il tema dell’unità dei musulmani per fronteggiare questo momento critico: il movimento panislamico nacque negli anni Settanta del XIX secolo e tra i suoi aderenti vi era anche Namik Kemal , il leader dei Giovani Ottomani, il quale aspirava ad un rafforzamento dei poteri del sultano, l’unico uomo che poteva governare l’ umma islamica. La crisi del 1878 e la perdita dell’Egitto e della Tunisia alimentò l’ostilità nei confronti dei paesi europei. La situazione era ulteriormente aggravata dalla costante ingerenza delle potenze d’Europa che finanziavano la costruzione di scuole e fondavano giornali a favore delle comunità cristiane; inoltre, vi era la tendenza di accomunare l’imperialismo esercitato dall’Europa con l’azione missionaria dei cristiani in terra ottomana, generando così un forte risentimento da parte dei musulmani. Nonostante ciò, Abdulhamid II non condusse una politica di odio verso la comunità cristiana e ne è una prova i buoni rapporti che egli aveva con la Chiesa di Roma e con papa Leone XIII. Dopo la conquista inglese dell’Egitto (1882), Abdulhamid si convinse che vi era la necessità impellente di rinsaldare la coesione dell’Impero attorno all’Islam, facendo sì che la tolleranza verso le comunità musulmane andasse di pari passo con un più forte rafforzamento della componente islamica. Si definì dunque la politica “panislamista” hamidiana che cercava di rinsaldare la spinta verso l’unità islamica richiesta dai ceti più alti con il movimento “revivalista” dei ceti più bassi: si cercò di legare tra loro fede politica e fede religiosa. Di notevole importanza fu la questione del califfato: il titolo di califfo apparteneva al mondo arabo ed era qualcosa di estraneo alla sfera ottomana. Tuttavia, alcune scuole giuridiche, sostenevano la possibilità di accomunare il titolo di califfo con quello di sultano, in quanto quest’ultimo era alla guida dell’intera umma musulmana, tra cui quella araba, che fu sottomessa dall’Impero nel XVI secolo. Secondo altri, invece, fregiarsi del titolo di califfo equivaleva ad un’usurpazione. A peggiorare il quadro complessivo, c’era il fatto che gli ottomani avevano sempre nutrito un senso di superiorità nei confronti del mondo arabo. Durante il sultanato di Abdulhamid II, a causa anche dello spostamento del baricentro dell’Impero verso il Medio Oriente, si instaurò una politica filoaraba riservando ai nobili arabi un trattamento di tutto rispetto e riservando una maggiore attenzione a queste province. Dopo il Congresso di Berlino fu chiaro alla dirigenza ottomana la necessità di rinsaldare quanto più possibile i legami con le province più periferiche dell’Impero. Inoltre, si cercò di favorire l’adesione della popolazione araba all’organismo statale, tanto che molte personalità di spicco di quel mondo furono chiamate a ricoprire importanti incarichi all’interno dell’amministrazione ottomana. Nonostante l’apertura al mondo arabo di Abdulhamid, lo squilibrio tra l’entità ottomana e quella medio-orientale era ben evidente, soprattutto sotto il profilo economico. Ulteriore fattore che peggiorò le cose, era la costante influenza delle élite cristiane arabe, istruite ed economicamente influenti, che collaborarono ad una visione più globale dell’identità araba che sarà alla base dei successivi moti nazionali. Per cercare di imporre una dottrina islamica unica, la Sublime Porta prese misure valide affinché la stampa del Corano fosse posta sotto il controllo di uno speciale organo, mentre contemporaneamente fu portata avanti una dura battaglia contro le eresie di stampo musulmano. All’interno dell’Impero si acquistò un maggior senso identitario, grazie anche all’introduzione di simboli, immagini e riti di tipo “nazional-imperiale”, alla stregua delle maggiori potenze europee. Anche il sistema scolastico e giornalistico collaborarono verso quest’obiettivo che fu di assoluta rilevanza poiché è da questo substrato che nascerà il movimento dei Giovani Turchi. 1.3 Panislamismo e sistema internazionale: La politica panislamica di Abdulhamid II ebbe ricadute anche sul profilo internazionale, dal momento che l’Impero Ottomano era visto come l’unica potenza in grado di arginare lo strapotere degli Stati europei, sempre più imperialisti . Inoltre, questo tipo di politica sultanale, giungeva in un periodo in cui le dinastie più importanti di tutto l’Oriente islamico (es: i Moghul in India) cessarono, e ciò contribuì ad una forte solidarietà interislamica che vedeva nel califfo ottomano l’ultimo grande baluardo ancora esistente. Il panislamismo di Abdulhamid II era rivolto più verso l’interno, ovvero come un qualcosa che mirava alla coesione ottomana. Fu adottato un tipo di politica di stampo “modernista” e per realizzarlo il sultano si affidò soprattutto alla classe emergente intermedia musulmana. Questo sforzo non fu però sufficiente a contrastare le difficoltà dell’Impero Ottomano su piano estero: nel 1885 la Rumelia venne annessa alla Bulgaria. Inoltre, un mutato contesto internazionale vedeva la Russia espandersi nell’Asia Centrale, mentre l’India si prefigurava come uno dei territori vitali dell’Impero Britannico. In tutto questo l’Impero Ottomano ricopriva un’importante funzione perché occupava ancora una serie di punti vitali di interesse strategico . Infatti, oltre all’occupazione del canale di Suez da parte degli inglesi, in questo lasso di tempo vi fu anche l’occupazione italiana dell’Eritrea (1890), mentre scoppiarono tensioni per il controllo della città di Aden e dell’isola di Creta (1897). Inoltre, la guerra anglo-russa del Caucaso fece emergere in primo piano la questione armena, poiché in questa popolazione iniziò a prevalere l’idea di una secessione dall’Impero. Però, a differenza di ciò che era avvenuto nei Balcani, non solo essi non erano la maggioranza nei territori anatolici orientali, ma erano situati in un territorio posto a cavallo tra l’Impero Ottomano e quello zarista. Nel 1890 il nazionalismo armeno si fece più forte e la speranza di porre nelle questioni internazionali la loro nazionalizzazione, preoccupò la classe dirigente ottomana che aveva il timore di perdere i loro territori dell’Anatolia orientale. Il sultano quindi ordinò massacri su ampia scala che si verificarono tra il 1894 e il 1896 e che minarono tanto le pretese nazionali armene, quanto il sistema di coabitazione ottomano: i cristiani si resero conto che convivere con i gruppi musulmani sarebbe stato sempre più difficile, mentre questi ultimi ritenevano che le comunità cristiane non erano fedeli all’Impero. In questo periodo un ulteriore scossone all’Impero fu causato dalla guerra greco-ottomana scoppiato per il controllo dell’isola di Creta nel 1897 : nonostante la vittoria ottomana in Tessaglia, l’isola fu di fatto accorpata al territorio greco grazie alla pressione esercitata dalle potenze internazionali. La perdita di Creta segnò anche l’inizio di un’ulteriore ondata migratoria musulmana verso i centri dell’Impero. A causa di queste due vicende, presero ancora più corpo i movimenti nazionalisti dei cristiani ottomani (soprattutto di quelli albanesi) e degli arabi ottomani: i primi avevano timore di una spartizione del loro territorio tra le varie nazioni vicine, mentre i secondi si resero sempre più conto dell’incapacità da parte dell’Impero Ottomano di preservarli dalle spinte imperialistiche occidentali. 2. Unione e progresso 2.1 Una generazione emergente: All’inizio del XX secolo , un ulteriore campo di scontro all’interno dell’Impero Ottomano fu il territorio macedone, il più vasto possedimento europeo rimasto in mano all’Impero dopo il 1878 . La Macedonia si presentava come un mosaico eterogeneo di etnie e confessioni. Un focolaio di tensioni era rappresentato dalla contrapposizione tra i bulgari e i greci ortodossi: ciò voleva dire una guerra tra il Fanar ortodosso e l’Esarcato bulgaro che possedeva una chiesa autocefala dal 1870. Su questo sfondo di carattere religioso agivano anche soggetti di tipo politico: da una parte vi erano i Comitati bulgaro-macedoni, con la propria base a Salonicco, che puntavano all’indipendenza dall’Impero Ottomano per poi aggregarsi al territorio di Sofia, mentre dall’altra vi erano i nazionalisti ellenici, che appoggiati da Atene, chiedevano la totale indipendenza del territorio. La guerra tra bande richiamò immediatamente l’attenzione internazionale su questo territorio, mentre il governo ottomano rinforzò i presidi militari. Salonicco, uno dei principali centri ottomani, fu l’epicentro di determinati moti politico-culturali che furono l’esito di grandi trasformazioni che la città visse nel XIX secolo e che la rese una dei centri cosmopoliti più importanti. Tale cosmopolitismo accentuò però le manifestazioni di tipo nazionalistico e fu una delle cause della disgregazione dell’Impero. Nel 1906 venne fondata l’Associazione della Libertà Ottomana, un’organizzazione segreta che aveva lo scopo di ripristinare la Costituzione sospesa nel 1878. A questa associazione si aggregarono soprattutto molti studenti delle moderne scuole superiori che avevano capito quanto ormai fosse impotente il governo ottomano nelle vicende di politica internazionale. Nel 1889 alcuni studenti dell’accademia medica militare fondarono l’Associazione per l’Unità ottomana, con l’obiettivo di ripristinare l’antico regime parlamentare, mentre contemporaneamente un ingegnere, Ahmet Riza, ispirato dal centenario della Rivoluzione Francese, iniziò a promuovere un movimento liberal-costituzionale all’interno dell’Impero. Negli anni seguenti questi movimenti arrivarono sino nelle maggiori città, tra cui Salonicco ed Edirne, finché si decise, nel 1896 , di 2.3 Ottomani, musulmani e turchi: Durante la crisi del 1909 il CUP era riuscito a preservare il potere solo grazie all’intervento delle forze armate, ma il quadro politico era assai instabile: uno dei tanti problemi era proprio rappresentato dalla relazione tra il movimento e l’esercito, dal momento che all’interno del CUP molte posizioni di rilievo erano occupate da militari e ciò era un elemento che si prestava bene agli attacchi delle opposizioni. Tutto ciò spinse gli esponenti del movimento a dare al CUP le forme di un moderno partito politico: si rafforzarono gli organi e le gerarchie interne, ma non si riuscì a dare al CUP una precisa impronta politica, facendo in modo che il movimento rimase un “organizzazione politica militarizzata”. Dopo il 1908 le preoccupazioni dei Giovani Turchi per cercare di far rimaner unito l’Impero erano due: da un lato una rapida modernizzazione dello Stato in modo da poter competere con i rivali europei, mentre dall’altro la definizione delle basi sul quale edificare l’Impero stesso. In questo ambito può essere collocata la questione del nazionalismo “turco”, del quale si iniziò a parlare alla fine del XIX secolo quando gruppi di scienziati iniziarono a parlare di turchi e popolazioni turcofone. Nel corso dei secoli, a causa del sistema dei millet, l’identità dei turchi ottomani confluì in quella più generale dell’Islam. L’Impero Ottomano, infatti, pregno di un insieme eterogeneo di etnie e confessioni, tendeva a dare una priorità al piano religioso. Nemmeno la lingua costituiva di fatto un marker etnico poiché l’idioma turco-ottomano era utilizzato nel campo dell’amministrazione ed era di fatto utilizzato solo nell’ambito dei rapporti con lo Stato. La dimensione imperiale ottomana tendeva a primeggiare su ogni tipo di particolarismo e ciò impedì che le identità etniche raggiungessero un loro spessore politico. Dopo il 1908 però si fece evidente la comparsa di uno spirito nazionale all’interno di alcune comunità ottomane, tra cui armeni, greci e bulgari. Un segnale in questo senso venne dalla reazione delle comunità bulgare e greche in seguito all’istituzione della coscrizione obbligatoria nel 1909. I cristiani ritenevano inaccettabile sottostare agli ordini di ufficiali musulmani e per questo preferivano pagare l’esenzione o cambiare cittadinanza. Questa situazione creò una profonda spaccatura tra le comunità cristiane e il CUP. Nel 1911 , all’interno del Congresso del movimento, iniziò a farsi strada l’idea del “nazionalismo” inteso come alternativa alla politica del Tanzimat e a quella basata sulla cittadinanza giuridica e alla coesione etnico-sociale. Al centro della visione del CUP vi era lo Stato ottomano che era visto come minacciato dai moti nazionalisti delle diverse comunità al suo interno, in primis quelle che non erano ritenute fedeli all’Impero, prime tra tutte quelle cristiane, ma in seguitò investì anche alcune comunità musulmane ed ebree. L’atteggiamento ideologico del CUP comportò alcune tensioni, una tra tutte quella albanese (1910). Tale situazione andò peggiorando quando nel 1911 l’Italia occupò la Tripolitania e i membri del CUP furono accusati dai partiti d’opposizione di aver perso anche quei pochi territori che l’Impero ottomano deteneva in Nord Africa. Ciò comportò le dimissioni del governo esistente e un rafforzamento dei partiti antiunionisti. Il CUP, di tutta risposta, reagì con lo scioglimento del parlamento e con nuove elezioni previste nel 1912 dove riuscì a prevalere. Nuove tensioni e un ammutinamento dei contingenti di stanza in Albania comportarono la caduta del nuovo governo. 3) FINE DI UN MONDO? 1. Salvare l’Impero 1.1 Le periferie perdute: La Macedonia rimaneva un paese altamente instabile e approfittando del caos interno dell’Impero Ottomano, Grecia, Serbia e Bulgaria si coalizzarono per strappare al sultano l’ultimo territorio europeo rimasto nelle sue mani. Il 2 ottobre 1912 mandarono un ultimatum a Mehmet V intimandolo di apportare riforme nelle province macedoni e chiedevano di stabilire in esse un mandato internazionale. Le richieste furono inconcepibili per la Sublime porta: si avviò il conflitto balcanico (1912-1913) che fu il prologo per lo scoppio della Grande Guerra. Lo scoppio di questo conflitto arrivò in una situazione in cui ad Istanbul regnava il caos a causa dei forti dissidi interni tra unionisti ed oppositori. La sconfitta fu inevitabile: l’Impero capitolò dopo appena 40 giorni di guerra. Tutti i territori ottomani in Europa furono persi. Gli stati europei, temendo un attrito tra Austria e Russia, fecero pressione per il cessate il fuoco. Le trattative di pace furono sottoscritte a Londra nel gennaio 1913 : le divisioni degli Stati vincitori da una parte e la ferma opposizione ottomana dall’altra condussero le trattative allo stallo, eccezion fatta per l’ottenimento dell’indipendenza dell’Albania. Tra le proposte della trattativa si formulò anche l’ipotesi che Edirne, antica capitale imperiale, fosse concessa alla Bulgaria, fomentando di fatto una vivida opposizione nell’ambiente politico di Istanbul: ciò portò ad un colpo di mano da parte degli unionisti del CUP, i quali il 23 gennaio 1913 deposero il governo e ne formarono un altro che aveva come obiettivo la ripresa della guerra. Intanto, al tavolo dei negoziati, l’ostilità fra Russia ed Austria riaccese i conflitti nei Balcani: Grecia e Serbia si coalizzarono ai danni della Bulgaria, la quale uscì dal conflitto rafforzata territorialmente. Ne seguì un ulteriore conflitto: il 30 giugno 1913, armate serbe e greche attaccarono il territorio bulgaro, un mese dopo anche la Romania fece lo stesso, mentre l’Impero Ottomano ne approfittò per rioccupare Edirne e la Tracia. Un mese dopo l’inizio del conflitto la Bulgaria si arrese. La pace di Bucarest (1913) confermò le conquiste territoriali di Grecia, Serbia e Romania e il territorio macedone venne spartito, mentre Salonicco tornò in mano greca. Il contenzioso ottomano-bulgaro venne invece appianato con una seconda pace firmata ad Istanbul , che confermò l’indipendenza albanese e pose fine alle mire espansionistiche dell’Impero in Macedonia. La Sublime porta conservò solo la Tracia orientale ed Edirne. Giunse così alla fine il dominio ottomano in Europa, con la perdita gravosa dell’Albania. A rendere ancor più difficile la situazione vi furono crudeli processi di “de-ottomanizzazione” che consistettero in feroci ritorsioni contro la popolazione civile musulmana che fu costretta alla fuga verso Istanbul. La perdita di questi territori fu un durissimo colpo dal punto di vista economico e geopolitico: la perdita del territorio europeo comportò la perdita della posizione baricentrica della stessa Istanbul e per questo motivo si meditò anche di cambiare la capitale dell’Impero. Inoltre, le numerose diserzioni dei soldati cristiani ottomani verificatesi nei primi giorni di guerra alimentò l’odio e fece incrementare il nazionalismo turco-ottomano. Di conseguenza, le comunità cristiane che risiedevano ancora all’interno dell’Impero (ormai a maggioranza musulmana) iniziarono ad essere viste con sospetto e dal 1913 tra i Giovani Turchi iniziò a farsi strada l’idea che la sopravvivenza dell’Impero doveva passare attraverso la drastica riduzione del numero dei cristiani. La perdita dei Balcani costrinse i Giovani Turchi ad investire le loro risorse per preservare ciò che rimaneva dell’Impero: la difesa dei territori anatolici fu la prerogativa più importante dei Giovani Turchi, convinti più che mai che si dovesse perseguire una politica di omogeneizzazione della popolazione musulmana a danno di quella cristiana. Questa politica fu portata avanti con il programma di “Economia Nazionale” che aveva come obiettivo il rimpiazzamento della vecchia classe imprenditrice non-musulmana e l’introduzione della lingua ottomana anche nel settore dei commerci. Tutto questo fu accompagnato da una speciale campagna di pulizia etnica che fu guidata dai membri dell’Organizzazione Speciale che aveva il compito di cacciare tutte le componenti non-musulmane dalle regioni. Inoltre, il 1 ottobre 1914 fu decretata l’abolizione delle Capitolazioni, ovvero quella serie di trattati commerciali stipulati con gli Stati europei che garantivano un regime privilegiato ai cristiani ottomani: questa mossa intrapresa dai Giovani Turchi era volta a “nazionalizzare” l’economia danneggiando una componente religiosa che negli ultimi decenni si era rafforzata fin troppo e che ora era vista come “straniera”. 1.2 La guerra “totale”: Con lo scoppio della prima guerra mondiale, il CUP era messo di fronte ad un dilemma: erano consci della loro impreparazione per una guerra su vasca scala, ma il rimanere neutrali avrebbe comportato la dissoluzione dell’Impero. La potenza verso cui si guardava con maggior paura era la Russia. Verso questo problema sorsero posizioni differenti: alcuni esponenti del CUP spingevano per un accordo con l’Intesa, altri, che guardavano con ammirazione la Germania, pressavano per un’alleanza con essa. Russia, Inghilterra e Francia respinsero la richiesta di alleanza ottomana, ragion per cui il CUP si schierò a favore della Germania. Entrambi gli Stati avevano interessi in comune: l’interesse della Germania nello spodestare l’egemonia franco-inglese in Medio Oriente andava di pari passo con la volontà ottomana di porre freno all’imperialismo delle due potenze europee; inoltre, i due paesi erano legati da trattati economici stipulati a fine XIX secolo e nutrivano forti preoccupazioni verso l’espansionismo russo. Il 31 luglio 1914 l’Impero fece pressione sulla Germania affinché stipulasse un trattato difensivo che doveva salvaguardare lo Stato ottomano dall’invasione zarista; il 2 agosto fu firmata ad Istanbul l’alleanza tra l’Impero Ottomano e gli Imperi centrali: l’accordo aveva carattere difensivo e prevedeva la neutralità delle due potenze nell’ambito del conflitto austro- serbo, mentre in caso di attacco russo alla Germania l’Impero ottomano sarebbe entrato in guerra in cambio dell’assistenza tedesca. In questa maniera il governo ottomano sperava di riprendere possesso di quei territori persi nel corso dei decenni successivi al 1878. Il 25 ottobre 1914 l’Impero Ottomano attaccò la flotta russa di stanza nel Mar Nero e due settimane più tardi esso entrò in guerra contro Francia e Inghilterra. Durante il primo anno di guerra fu inefficace il tentativo ottomano di prendere possesso del canale di Suez, mentre molto più importante fu la difesa che esso contrappose in Mesopotamia contro l’esercito inglese. stessa Inghilterra, per salvaguardare i propri interessi nell’area del Golfo Persico, favorì la creazione di uno stato arabo indipendente guidato dai sauditi. Fu nel corso del 1919, durante i congressi della Società per la Difesa dei Diritti Nazionali, i quali riscossero successo soprattutto nella parte centrale dell’Anatolia, che si distinse Mustafa Kemal. Nel 1920, il movimento nazionale fece passi in avanti per portare a compimento i propri progetti esplicati nel “Patto Nazionale”: nel documento si rivendica la sovranità politica ed economica dell’Impero, nonché l’indivisibilità territoriale delle zone comprese entro la linea dell’armistizio poiché abitate dalla “maggioranza ottomana musulmana”. Nel Congresso di Erzurum (17 giugno 1919) si era accennato di musulmani come “unica nazione “ composta da turchi e curdi. Era chiaro come ormai l’entità territoriale dell’Impero fosse concepita come spazio dominato dalla maggioranza musulmana. Ma nei discorsi di Mustafa Kemal si coglieva come egli stesso concepiva lo spazio imperiale come qualcosa di “ibrido”, cioè sempre appartenente alla comunità ottomana, ma non strettamente turco. Il criterio per la definizione della nazione fu quindi basato su concezioni storico-politiche: il territorio era quello delineato dall’armistizio, all’interno del quale vivevano popoli dominanti come turchi e curdi . Gli arabi erano visti come “fratelli”, ma non partecipi della stessa nazione a causa dei moti secessionisti che avevano precedentemente espresso. Con il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) si sancì di fatto la fine del potere ottomano in Medio Oriente: l’Impero conservò Istanbul, un enclave in mezzo a territori in mano europea, mentre in Anatolia Orientale venne costituito uno stato indipendente armeno. Le forze vincitrici, consce dei risentimenti nazionalisti che tali condizioni avrebbero provocato in Anatolia, optarono per l’occupazione della capitale, ma, a causa dell’esiguità delle truppe anglo-francesi, esse incaricarono la Grecia di controllare che le condizioni imposte venissero rispettate. Questa decisione fu alla base del nuovo conflitto greco-ottomano. Nell’estate 1920, mentre i greci rafforzarono il loro controllo su alcune determinate aree, la resistenza ottomana crebbe notevolmente in regioni come quelle della Cilicia in cui gli armeni vennero espulsi. La politica di resistenza venne continuata anche nei territori dell’Anatolia Orientale con attacchi verso il nuovo stato armeno seguiti anche da eccidi di massa. La situazione mutò agli inizi del 1921 quando si crearono le premesse per un accordo sovietico-ottomano, con il quale la Russia si assicurò un coinvolgimento diretto nella questione degli stretti in cambio del sostegno finanziario alla resistenza ottomana. Questo trattato fu importante perché consentì agli ottomani di stabilizzare le frontiere orientali e concentrarsi sui greci nella parte occidentale. I risultati raggiunti a Sèvres sembravano essere compromessi, tanto da convocare una conferenza a Londra (1921) dove fece la sua comparsa una delegazione nazionalista ottomana, la quale strinse anche trattati con Francia e Italia convincendo le due nazioni a ritirare le truppe dall’Anatolia in cambio di concessioni economiche. La guerra contro le forze greche continuava: le truppe elleniche cercano di sfondare in direzione di Ankara, città in cui si era stabilita la Grande Assemblea Nazionale, ma l’attacco venne respinto dalle forze ottomane guidate da Mustafa Kemal. I greci cominciarono a ripiegare, ma solamente nel 1922 le forze ottomane ebbero la meglio costringendo gli ellenici a lasciare l’Asia Minore. La ritirata greca lasciò sul campo una serie di devastazioni e i greci ancora in territorio anatolico, per paura di ritorsioni, iniziarono a seguire l’esercito ellenico durante la sua ritirata. Questa situazione ebbe nella città di Smirne il suo apice: occupata dagli ottomani, essi iniziarono a saccheggiare i quartieri cristiani della città e a massacrarli. Questo fu il clima in cui si andò a concludere il trattato di Losanna: il movimento nazionale, appoggiato politicamente dalla popolazione ottomana, godeva di un ampio consenso. Il governo ottomano fu sciolto e il sultano fu mandato in esilio: dell’ancien régime rimaneva solamente la carica simbolica di califfo. I nazionalisti presentarono un piano per il recupero dei territori perduti (Tracia, Cilicia ed isole egee in primis), ma fu una proposta difficile da accettare. Inoltre, si tentò di ovviare alle tensioni greco-ottomane con uno scambio di popolazione tra le due fazioni, ad eccezione dei musulmano-ottomani di stanza in Tracia (la regione voleva essere annessa al territorio ottomano tramite un referendum). Con una Convenzione firmata il 30 gennaio 1923, greci ed ottomani iniziarono lo scambio delle rispettive popolazioni ed è rilevante constatare come i criteri per tale scambio furono di carattere religioso. La firma del trattato di Losanna arrivò il 24 luglio 1923 e fu un successo per i nazionalisti turchi poiché, nonostante non furono riconosciuti tutti i territori da loro chiesti, ciò significò la nascita di un nuovo Stato pienamente sovrano dei territori dell’Anatolia e della Tracia. Anche le vecchie capitolazioni erano state abrogate: dai resti dell’Impero Ottomano nacque la Turchia. 2. Una complessa eredità 2.1 Pluralismo e nazionalismo: Il 29 ottobre 1923 venne proclamata la Repubblica di Turchia. Gli ultimi decenni avevano contributo alla formazione della nuova classe dirigente kemalista e avevano influenzato lo Stato che i nazionalisti intendevano rifondare. Un aspetto cruciale del neo stato turco è la questione dei confini: a Losanna si utilizzò lo stesso criterio adottato nel 1878 e nel 1913, ovvero si tenne in considerazione l’effettivo territorio controllato dallo Stato dopo l’armistizio, senza tenere in considerazione criteri etnico-nazionali. Si trattò di fatto di un criterio diverso rispetto a quello adottato per i nuovi Stati nati dalla dissoluzione degli Imperi Centrali, per i quali vennero utilizzati i criteri “wilsoniani”. La Turchia si presentò come uno Stato altamente multietnico, con una forte componente turca e una parte rilevante di curdi ed arabi. A causa della guerra mondiale, delle altre guerre, dei massacri e delle deportazioni, la Turchia perse circa il 20% della sua popolazione risultando di fatto un paese spopolato, soprattutto nelle campagne. L’eccidio e l’emigrazione di greci ed armeni contribuì a mutare drasticamente il quadro confessionale della regione: i musulmani ora rappresentavano il 98% della popolazione. Sul piano culturale, i gruppi linguistici prevalenti erano quelli dei turchi e dei curdi, ma il paese si trovò in una situazione economica molto ristagnante a causa della perdita della borghesia urbana composta per la maggior parte da cristiani. La Turchia si trovò dunque senza le figure professionali atte alla sua modernizzazione. Nonostante essa facesse parte di quegli Stati nati dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, per certi versi ebbe uno sviluppo diverso poiché le redini del paese vennero assunte dalla comunità etnica dominante, fornendo così buona parte della classe dirigente; inoltre, territorialmente ereditò il centro culturale e politico dell’ex-Impero ottomano e non centri di carattere periferico. Obiettivo primario per i kemalisti, una volta consolidato territorialmente il nuovo Stato, fu quello di rendere la Turchia un paese moderno a tutti gli effetti. Essi erano consapevoli che una modernizzazione dello Stato dovesse obbligatoriamente passare per la sua laicizzazione. Da questo momento iniziò il processo di “turchizzazione”: l’Art. 88 della Costituzione del 1924 definiva “turchi” i nativi della Turchia, senza distinzioni etniche e confessionali. Per favorire il processo di “nazionalizzazione” dei cittadini fu escluso ogni tipo di autonomismo, compreso quello curdo. Fu imposta la lingua turca, la quale venne riformata nel 1928. Difficile, in questo senso, dare una spiegazione circa l’identità nazionale turca: la politica kemalista non s’indirizzò contro le minoranze in modo indifferenziato, ma minacciò quelle che minavano la compattezza dello Stato. Ad esempio i curdi, i quali furono protagonisti di varie rivolte e che si tentò di assimilare con una legge speciale nel 1934 che prevedeva la riduzione della loro presenza nell’Anatolia occidentale grazie all’inserimento di nuclei di popolazione turca. Nell’ampio discorso di definizione di “identità turca”, Tekin Alp, in un testo chiamato Le Kemalism (1937) accostò la questione dell’identità a fattori di tipo biologico, avvicinandola così al concetto di razza, escludendo di fatto tutte le altre minoranze. A Losanna, il partito nazionalista si progettò di garantire a qualunque comunità etnica e religiosa pieni diritti e pari uguaglianza, in quanto cittadini ottomani. Ciò comportava trascurare tutte quelle differenze etniche e culturali delle minoranze presenti sul territorio; tuttavia, le potenze europee stilarono una serie di articoli che imponevano uno statuto particolare per le minoranze presenti e che è valido ancora oggi. Questo accordo però creò alcune ripercussioni sulle stesse comunità poiché determinò esiti controproducenti per la loro integrazione all’interno dello Stato turco. 2.2 Tra laicità e islamismo: Il processo di laicizzazione della Turchia è stato lungo e complesso. Nonostante gli studiosi siano concordi ad assegnare alla politica kemalista il merito di questo traguardo, essi non sono d’accordo sugli esiti di tale politica: alcuni sostengono che le riforme di Mustafa Kemal hanno fatto sì che si ottenesse una netta separazione tra Stato e religione, altri sostengono che il fattore religioso sia rimasto nell’organizzazione sociale del paese. Questo diverbio nasce anche dalla difficoltà di capire cosa si intendesse per laicità all’interno dello Stato turco, dal momento che nella lingua ottomana non esisteva un termine per indicarne il concetto. L’assenza del termine si può spiegare dalle particolari caratteristiche del sistema ottomano, nel quale il sistema del diritto non seguiva norme esclusivamente di tipo religioso e, inoltre, lo stesso sultano non aveva la suprema istanza in materia religiosa: lo stato ottomano presentava una distinzione tra sfera politica e sfera religiosa più marcata rispetto agli altri Stati europei, anche grazie al pluralismo etnico-religioso che si ritrovava al suo interno. Non a caso, la questione della laicità dello Stato è venuta alla ribalta quando cessò il rapporto di coabitazione e le istituzioni religiose si costituirono come l’unico potere antagonista a quello repubblicano. Per attuare il progetto di “laicizzazione” i kemalisti presero a modello la Francia, nonostante ci fossero alcune contraddizioni interne allo Stato: da una parte, con la nascita della Turchia, l’Islam fu proclamata religione di Stato, mentre dall’altra si introdussero misure che riducevano lo spazio della religione nella società e nelle istituzioni turche. Secondo i kemalisti, l’Islam era qualcosa che frenava la modernizzazione dello Stato. Per ovviare a ciò, lo Stato turco abolì il califfato, unico elemento ancora rimasto in piedi del sistema ottomano, non senza la paura che l’ultimo califfo rimasto potesse coagulare presso di sé le forze antikemaliste dal momento che egli, fuori la Turchia, rimaneva ancora il legittimo capo dello Stato. Il giorno stesso dell’abolizione del califfato, una legge confiscò i beni, privò della cittadinanza turca e decretò l’espulsione dei membri della dinastia osmanli. Questa misura destò la preoccupazione di quanti in Turchia temevano il venir meno di un potere capace di controbilanciare quello del presidente della repubblica; inoltre, l’abolizione di tale carica lasciò il mondo islamico privo di una figura centrale riconosciuta universalmente come punto di coesione.
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