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LA FORMAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA DI SIMONETTA ORTAGGI, Sintesi del corso di Storia

La Ortaggi rintraccia il percorso di una ricerca storiografica benemerita per aver aperto questo campo di studi a scelte inedite di temi e a nuovi approdi della conoscenza. Arretrando l'indagine alla seconda metà del Settecento si è riscoperta la tradizione culturale dei ceti popolari, artigianato urbano e industria domiciliare rurale, e misurati gli effetti fecondi del suo travaso e persistenza in quella incipiente dei lavoratori di fabbrica.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 10/02/2020

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luisa_chirila 🇮🇹

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Scarica LA FORMAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA DI SIMONETTA ORTAGGI e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! La formazione della classe operaia- Simonetta Ortaggi (pag. 7- 54) 1. Le origini della classe operaia e la rivoluzione industriale Per mettere a fuoco la problematica storiografica della formazione della classe operaia bisogna risalire alla comparsa stessa, nella cultura europea del 19° secolo, del concetto di storia della classe operaia. Quindi bisogna risalire a Friedrich Engels e a il su libro La situazione della classe operaia in Inghilterra pubblicata a Lipsia nel 1845. Quest’opera di Engels, risalente ai suoi 24 anni, è l’elaborazione degli studi compiuti nel campo dell’economia politica e del pensiero di Adam Smith. È proprio a Smith ed all’elaborazione che a lui si deve un concetto moderno di classe operaia, che è necessario guardare se si vuole comprendere tutta la novità dell’impostazione di Engels. Al di là del linguaggio, ancora ancorato all’immagine dell’antico regime, a Smith serviva un parametro economico oggettivo per individuare un’intera categoria sociale- quella dei lavoratori dipendenti. Questo parametro era il salario. Il salario infatti identificava i lavoratori dipendenti- cioè quei lavoratori distinti dagli altri lavoratori in quanto costretti a dipendere, per l’anticipo delle materie prime, degli strumenti di lavoro, nonché della sussistenza (fino a che il lavoro non fosse terminato) da un padrone. Dunque, costretti a dividere con lui il frutto del lavoro. Adam Smith non esitava ad affermare l’assoluta prevalenza di questo gruppo rispetto all’altro, molto più e ristretto, dei lavoratori indipendenti. Quest’ultimi sono provvisti di un capitale sufficiente per acquistare i materiali e mantenersi finché questo lavoro non fosse compiuto. Potevano essere al tempo stesso padroni ed operai. Infatti, non erano frequenti. In ogni parte d’Europa per ogni operaio che è indipendente, ve ne sono venti che servono sotto un padrone. Adam Smith tuttavia non si curò di delineare le tappe storiche di quella separazione tra capitale e lavoro che aveva individuato a livello teorico. La separazione tra capitale e lavoro risulta in Smith come la rottura di uno stato di cose naturale e originario, non altrimenti definito nelle sue coordinate spazio- temporali. Nella fase originaria che precede l’appropriazione della terra e l’accumulazione del capitale, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore perché egli non ha né un proprietario né un padrone con cui dividerlo. Ma questo originario stato di cose, in cui il lavoratore godeva dell’intero prodotto del proprio lavoro non poté durare dopo la prima introduzione dell’appropriazione della terra e dell’accumulazione del capitale. Ad Adam Smith dobbiamo la prima elaborazione in senso moderno della nozione di classe operaia come insieme dei lavoratori salariati. Invece, ad Engels dobbiamo la storicizzazione di tale concetto. Nella “Situazione della classe operaia in Inghilterra “egli indicò nella scoperta e diffusione delle macchine il punto d’inizio di un processo storico nuovo- La Rivoluzione Industriale e l’atto di nascita di una classe sociale nuova rispetto al passato e al mondo del lavoro precedente. Cioè la classe operaia. La storia della classe operaia ha inizio in Inghilterra nella seconda metà del 700 con l’invenzione della macchina a vapore e delle macchine per la lavorazione del cotone. Engels con la sua opera si proponeva di denunciare al grande pubblico nel modo più obiettivo e documentato possibile le sofferenze inflitte dalla borghesia alla popolazione operaia. Traduceva, quindi, con una narrazione vivace e immediata il contenuto dei voluminosi rapporti ufficiali delle Commissioni d’inchiesta e delle osservazioni personali dirette dell’autore. L’introduzione rispetto alla vera e propria opera doveva dare all’immediata attualità uno spessore storico e politico. questo si condensava nel giudizio sulla natura rivoluzionaria del processo economico in atto in Inghilterra, processo di cui non solo la classe operaia ma tutta la società borghese erano figli. Queste invenzioni, diedero l’impulso ad una rivoluzione industriale. Una rivoluzione che in pari tempo trasformò tutta la società borghese. L’espressione “rivoluzione industriale” riceveva il suo significato dall’analogia con la rivoluzione che si era svolto in Francia. Una rivoluzione però con un esito meno rivoluzionario dal punto di vista sociale. L’idea di rivoluzione industriale introdotta da Engels, ed alla egli associava l’idea di una nascita della classe operaia, aveva un significato che non era solo economico ma anche politico. Evocava il carattere oggettivamente rivoluzionario delle trasformazioni economiche che si erano prodotte, come le nuove trasformazioni che erano destinate a prodursi per effetto di un rovesciamento dei rapporti sociali da parte della classe operaia. Engels, in verità era lontano dal credere che la rivoluzione industriale fosse nella stessa Inghilterra conclusa. Engels cercò il fenomeno che potesse considerarsi rappresentativo di tutto il processo storico e lo individuò nella trasformazione del lavoratore in proletario= una persona che non aveva altri fonti di sussistenza che il lavoro dipendente. Ed è proprio qui che sta la genialità della sua analisi. Sono celebri le pagine del suo libro, nel quale analizza la trasformazione del contadino-tessitore in un lavoratore salariato che non aveva neppure la proprietà apparente costituita da una semplice affittanza. Il discorso che fa Engels sulla nascita della classe operaia è più strettamente economico e politico piuttosto che storico. Egli da un nuovo significato al termine proletario- un lavoratore la cui caratteristica essenziale era la perenne insicurezza di un posto di lavoro e del pane per vivere. Con una geniale applicazione delle idee di Smith, Engels costruisce quella visione organizzata che sorregge la sua concezione di classe proletaria, una concezione saldamente unitaria e articolata al tempo stesso. Penetra la società industrializzata nel suo meccanismo interno e nella logica fondata sulla concorrenza. Il proletario, in senso stretto, cioè il lavoratore della fabbrica meccanizzata che non aveva più neppure una semplice affittanza per vivere, era l’espressione più genuina del sistema. In senso la lato per Engels facevano parte della classe operaia tante altre figure sociali diverse e lontane dal tipo puro di proletario, ma a queste legate come parti interdipendenti di uno stesso sistema. Come per esempio i lavoratori occasionali, i tessitori a mano (caduti in disgrazia a causa della concorrenza data dalle macchine), i lavoratori agricoli, gli immigrati irlandesi, i tanti lavoratori impegnati in lavorazioni concentrate ma non meccanizzate come i minatori, edili ecc. Poi abbiamo i calzettai- coloro che “nonostante tutto sono fieri di essere liberi e di non dover sottostare a nessuna campana di fabbrica che imponga loro il tempo per mangiare, dormire o lavorare.” Antico artigianato indipendente- lavoravano in officine sistemate nella propria casa, in grandi stabilimenti industriali suddivisi in piccole officine affittate singolarmente. Erano per metà padroni e per metà lavoratori- questo secondo Engels. Avevano una posizione intermedia a causa dell’esitazione ad unirsi alle agitazioni operaie e l’impossibilità per loro, secondo Engels, di resistere a lunga alla tendenza accentratrice del capitalismo. Invece gli artigiani erano del tutto partecipi delle condizioni lavoratori industriali come dei loro movimenti. Secondo Engels questo era il risultato della penetrazione del capitale e della divisione del lavoro nell’antico artigianato, ma anche con i rapporti che questi artigiani intrattenevano con i veri e propri operai dell’industria, con l’influenza delle abitudini di vita proprie delle grandi città, con le riduzioni di salario infine che non avevano mancato di colpire anche loro. La ricognizione sociale di Engels era tutta permeata dall’idea- che avrebbe riconosciuto nell’età matura- dell’immagine non tanto della macchina in sé ma quanto dei suoi effetti a livello sociale; la straordinaria concentrazione della ricchezza e della povertà, la polarizzazione della società in due classi- capitalisti e nullatenenti che non lasciava più spazio agli starti intermedi della piccola borghesia, l’eccezionale acuirsi del conflitto sociale che egli vedeva tanto violento. Erano questi fenomeni che lo colpivano e che lo portavano a descrivere e denunciare, soprattutto, non solo le condizioni di vita in fabbrica ma anche quelle di incredibile miseria e di degrado di un grande centro urbano cioè Manchester. In questo contesto va collocata molti motivi che dovevano alimentarne il malcontento nei confronti della borghesia. Il sentimento solo negativo del risentimento doveva svilupparsi negli operai in termini positivi cioè come consapevolezza di sé stessi in quanto classe- un insieme di persone unite da interessi e da ideali comuni. Doveva tradursi nella formazione di un partito indipendente della classe operaia. Era immanente in tale impostazione, il rischio che la nascita e la storia della classe operaia fossero identificate con l’emergere e il consolidarsi del movimento operaio organizzato o con l’affermarsi della grande industria. La storia della classe operaia, nata come disciplina non accademica e intimamente legata ad una volontà politica di risolvere la questione sociale, avrebbe continuato a svilupparsi fuori delle accademie e delle università per tutto l’800 e tutto il 900. Era inevitabile che si legasse alla storia e allo sviluppo del movimento operaio e delle sue organizzazioni politiche e sindacali nell’età della seconda e della terza internazionale. Il marxismo come complesso di pensiero di Marx ed Engels e dei loro interpreti, non ha cessato di costituire un referente fondamentale anche per gli studi nati in ambito accademico. Sia come polemica sia come stimolo positivo. In particolare, gli storici economici anglosassoni degli ultimi decenni del 800, che di Marx avevano criticato la teoria economica del valore, lo avevano però profondamente apprezzato come storico. L’influenza del pensiero marxista sugli studi di storia economica nell’Inghilterra del decennio del 1880 è un fatto di grande interesse che ha ricevuto luce grazie ad Eric Hobsbawn ed ha un momento significativo proprio nella storia della Rivoluzione industriale. Influenza molto forte durante l’età vittoriana. Economisti e storici avevano ignorato fino allora un fatto importante- quale la scomparsa di una popolazione rurale che ancora alla fine del 17° secolo costituiva un sesto della popolazione di tutta l’Inghilterra. Critiche nei confronti modello sociale connesso alla tradizione marxista- cioè di una centralità dei lavoratori della fabbrica meccanizzata nella storia della classe operaia. Revisione del marxismo si è sviluppata attraverso la storiografia sulla formazione della classe operaia nel decennio del 1980. L’ idea di rivoluzione industriale veniva invece considerata ancora valida nell’essenziale, dallo storico che ha più contribuito alcuni decenni fa a rinnovare gli studi sulla classe operaia- Edward P. Thompson. La più originale tra le ricostruzioni che sono state elaborate in un rapporto critico molto intenso con la tradizione marxista ed in particolare con il quadro che della situazione della classe operaia in Inghilterra aveva dato Engels, è dovuta ad Edward P. Thompson ed al suo libro The Making of the English Working Class, pubblicato nel 1963. È la più originale perché muove non da pregiudiziali di carattere ideologico o di schieramento politico, ma da una maturazione personale di problemi relativi alla tradizione marxista ed ai suoi riflessi sulla formazione dell’uomo in senso lato. Egli ha criticato le spiegazioni tradizionali sulle origini del giacobinismo inglese. Tuttavia, è soprattutto nei confronti della rivoluzione industriale come fattore esplicativo dell’agitazione giacobina degli anni 1790 che si orienta la sua critica. Gioca qui un aspetto della personalità culturale di Thompson che non è meno importante della sua attività di storico: è la preoccupazione di contestare gli elementi di falsa oggettività presenti a suo giudizio nelle interpretazioni che della nascita della classe operaia avevano dato il marxismo come gli osservatori contemporanei di parte conservatrice- interpretazioni opposte nella valutazione finale, ma convergenti secondo Thompson nel far derivare la nascita della classe operaia da un fattore oggettivo esterno ad essa, le macchine e la rivoluzione industriale . Nello studio sulla classe operaia Thompson ha dunque sviluppato un lavoro di ricerca storica da una parte, dall’altra una riflessione sul marxismo che era il suo modo di fare i conti con lo stalinismo. Riscoprire le tradizioni intellettuali dei ceti popolari ed artigiani significava dunque per lui recuperare il momento intellettuale e soggettivo della iniziativa popolare alla fine del 700, contestare il rapporto struttura- sovrastruttura proprio dello stalinismo, esplicitare ed integrare il pensiero di Marx in un punto fondamentale, quello delle “sanzioni non economiche” e delle norme invisibili che regolano i comportamenti degli uomini. Si verifica una coincidenza tra l’opinione di Engels e quella dei suoi contemporanei. Malgrado la diversità dei loro giudizi di valore, gli osservatori di parte conservatrice, radicale o socialista formulavano la stessa equazione- essi vedevano nei mezzi di produzione fisici l’origine diretta più o meno necessaria di nuovi rapporti sociali, istituti politici e forme di cultura. A rafforzare l’idea di una alterità tra il mondo che fu protagonista dei moti giacobini di fine secolo e la classe operaia della fabbrica meccanizzata, Edward P. Thompson ha ripreso e sviluppato un aspetto legato agli studi sulla sanculotteria parigina. La storiografia sulla rivoluzione francese aveva insistito a suo tempo sul carattere socialmente composito della massa popolare che era stata protagonista delle fasi cruciali della rivoluzione, ed aveva parlato a questo proposito di menu peuple, una folla composita in cui confluivano lavoratori dipendenti, piccoli padroni, bottegai. In questa composizione sociale eterogenea Albert Soboul aveva individuato la chiave esplicita dei comportamenti delle masse popolari parigine organizzate nelle sezioni sanculotte fortemente attive di fronte a problemi quali il prezzo del pane, insensibili invece alle questioni del prezzo del lavoro e del salario. Thompson richiamandosi esplicitamente a questa corrente storiografica, esalta il momento non rigidamente classista dei moti popolari che percossero la società inglese nei decenni 1780 e 1790. La London Corresponding Society, fondata da Thomas Hardy e spesso considerata la prima organizzazione politica decisamente operaia era un’associazione non tanto operaia quanto radical popolare, composta di lavoranti e piccoli padroni, cosi come lavoranti, piccoli padroni e bottegai si trovavano mescolati nelle altre società e nelle iniziative popolari. Ma al tempo stesso Thompson riconosce il ruolo svolto in quei movimenti dai lavoratori dipendenti- attribuendogli il carattere di una tragedia nazionale. L’isolamento in cui questi rimasero per colpa della borghesia media e degli stessi intellettuali che in un primo tempo avevano appoggiato i moti giacobini. La contrapposizione tra artigiani e operai di fabbrica viene sviluppata per il decennio 1830 in implicita polemica con Engels e non senza forzature. In definitiva, l’insistenza di Thompson sulla villa multiforme di artigiani che popolavano Londra ancora nel 1831 (calzolai e darti in primo luogo) e sull’alterità tra questi e gli operai di fabbrica rischia di oscurare proprio il fato fondamentale che li accomunava: la condizione cioè di lavoratori salariati. La documentazione che viene offerta al lettore è molto ricca- abbiamo infatti petizioni, lettere e proteste che ci mettono continuamente davanti agli occhi figure di lavoratori salariati che avanzavano richieste di equità sociale e proteste contro lo sfruttamento. La continuità tra il giacobinismo e il cartismo resta senz’altro affidata, nell’opera di Thompson a questa precocità nella radicalizzazione del conflitto sociale. Una radicalizzazione che se risaliva all’epoca di Cromwell riceveva tuttavia nuovo alimento in quei decenni dalle trasformazioni economiche e sociali legate alla rivoluzione industriale. La continuità fra la tradizione radical popolare alla fine del 700 e il cartismo riceve viva luce dalle pagine che Thompson dedica a spiegare il progressivo fondersi di due filoni illegali- quello giacobino e quello tradeunionista che si realizzò negli anni di repressione e nei più cupi anni di guerra quando nacquero decine e decine di società di mutuo soccorso. Uno dei risultati più fecondi del libro di Thompson per lo studio delle prime esperienze operaie nei paesi del continente consiste nell’aver rinnovato in modo radicale l’idea di tradizione artigiana rispetto alle interpretazioni che hanno dominato in passato e che in Francia come in Italia e in Germania risentivano fortemente dei dibattiti e delle polemiche interne al movimento operaio all’epoca della Seconda Internazionale. L’abolizione delle corporazioni e subito dopo la proibizione delle associazioni operaie che avevano caratterizzato questi paesi, pur con scansioni temporali e le caratteristiche diverse avevano creato, tra le agitazioni popolari della fine del 700 e la Restaurazione, una sorta di lungo intervallo. La tradizione era stata generalmente identificata con il movimento che aveva espresso, nei decenni successi, le società di mutuo soccorso o con la diffusione negli anni 1870-1880 delle idee socialiste ad opera di garzoni o artigiani che in qualche modo rinnovano con i loro movimenti migratori nei vari paesi europei la tradizione antica degli artigiani migranti. Le stesse società artigiane si erano trasformate nelle associazioni di resistenza socialiste. Tale esito, cioè l’affermarsi alla fine del secolo dei partiti socialisti e delle loro organizzazioni, aveva contribuito a convogliare nella storiografia giudizi che avevano avuto una loro ragion d’esser vivo nella lotta politica, come la accuse di egoismo corporativo. Tale schema di giudizio è stato definitivamente superato con le numerose ricerche che hanno rivisitato i temi della storia politica. Profondamente innovativa, è la ricerca dello storico americano William Sewell, che ha studiato il mondo del lavoro in Francia in un arco di tempo che va dall’abolizione delle corporazioni alla rivoluzione del 1848. Il suo libro: Work and Revolution mostra le capacità interpretative di un arretramento dell’indagine agli ultimi decenni del Settecento e di una strumentazione problematica fondata sul linguaggio. Lo storico è rimasto colpito dalle analogie tra il linguaggio di classe usato in Francia nel 1830 e quello di tipo corporativo proprio dell’ancien regime, egli ha percorso a ritroso il processo storico culminato nella rivoluzione del 1848, giungendo a ricongiungere la coscienza di classe maturata nei movimenti rivoluzionari dei decenni 1830 e 1840 alle esperienze vissute dai lavoratori nel corso della Rivoluzione del 1789. Dalla rivoluzione del 1789 Sewell ha rivalutato la presenza di un movimento conflittuale nei rapporti tra padronato e lavoratori dipendenti, mostrando come in forme e con linguaggio ancora del mondo corporativo, si esprimesse nei lavoratori una chiara coscienza dei propri diritti e la volontà di ottenerne il rispetto da parte dei padroni. Tutte associazioni nel mondo corporativo, le quali esprimevano un movimento di emancipazione dei lavoratori dipendenti. Tutti affrontarono un conflitto che andava a parare a una riduzione delle ore di lavoro e ad aumento di salario. Tali associazionismo riceveva il suo impulso dal moto rivoluzionario in atto. Sewell vede nel movimento dei lavoratori una contraddizione tra l’adesione al regime rivoluzionario e l’appartenenza ad organismi che del mondo corporativo assumevano forme e linguaggio che la Rivoluzione aveva fermamente bandito. Sewell riconosce che per i lavoratori quel fermento associativo non solo era pienamente compatibile con il nuovo ordine rivoluzionario ma era probabilmente la sostanza stessa di quel ordine nuovo. Il nuovo ordine di cose rivoluzionario era pienamente compatibile con e forse addirittura l’esistenza di associazioni solidali di lavoratori uniti insieme dal mestiere per assicurare collettivamente il bene della loro arte. Questa ide si dilata in una conclusione interpretava di lunga durata e di ampia portata- le associazioni operaie dei primi 1830 differivano in modo significativo dalle società di mutuo soccorso della Restaurazione e invece assomigliavano alle società operaie organizzate a Parigi negli anni della Rivoluzione, quali quelle dei tipografi e carpentieri. È una conclusione che coincide in modo assai significativo con la continuità affermata da Thompson tra la rivoluzione giacobina del decennio 1790 e il cartismo del decennio 1830. Sottolinea la crisi di un modello interpretativo fondato sulla dicotomia tra l’esperienza inglese dominata dalla rivoluzione industriale e quella francese dominata da una rivoluzione solo politica. In Francia la rivoluzione era stata l’incunabolo del moderno movimento operaio. Altro studioso che ha voluto spostare l’attenzione dai temi della vita politica a quelli della vita quotidiana e del tempo libero, è stato lo fabbrica è stato un evento traumatico per i tessitori e si poneva l’accento sugli aspetti di continuità tra la comunità preindustriale e la comunità operaia sviluppatasi intorno alla fabbrica. Si è verificata anche una forte rottura del legame con la terra. Ramella però in un saggio del 1975 aveva trascurato un aspetto della realtà dei piccoli operai rurali che era ben in evidenza nelle pagine di Marx. Il carattere, quindi, sussidiario che in tutta una serie di situazioni aveva il lavoro agricolo rispetto ad un’attività manifatturiera che aveva ormai assunto un carattere di specializzazione. Ramella nel suo libro ha voluto esaltare l’importanza per la società biellese dell’agricoltura rispetto alla produzione manifatturiera. Nel suo libro, dunque il passaggio dalla comunità preindustriale alla comunità di fabbrica viene rappresentata in primo luogo sotto l’aspetto della radicale frattura del legame con la terra. Il mutare della prospettiva si collega al mutamento intervenuto nei primi anni Ottanta nei referenti storiografici e culturali dello studioso ed in particolare ad un abbandono del marxismo che tuttavia non è sostituito da una vera teoria alternativa L’impostazione di Ramella non coincide neppure con la teoria della proto-industria, il cui presupposto essenziale è la contestazione di una crisi della società contadina nel rapporto con la terra. Nello stesso Biellese questa crisi era di gran lunga precedente all’accentramento in fabbrica dei telai manuali. La terra per quei tessitori del Biellese serviva essenzialmente per integrare il magro reddito del lavoro industriale e la specializzazione del lavoro di tessitura si era accentuata nei decenni 1815-1835 poiché l’impianto delle macchine di filatura aveva fatto aumentare l’attività dei tessitori a domicilio. Proprio in quei decenni la terra servì ai più fortunati per assumere una dimensione imprenditoriale facendoli diventare lavoratori in proprio assuntori di lavoro altrui. Di qui una dipendenza dei tessitori più poveri da quelli più ricchi che sei esprimevano nell’indebitamento dei primi nei confronti dei secondi. Tutti questi fatti si inseriscono bene nella cornice marxiana che prendeva in considerazione comunità di piccoli produttori rurali per i quali il lavoro agricolo aveva un carattere solo sussidiario rispetto ad un’attività manifatturiera già specializzata e che secondo Marx non potevano resistere una volta che la produzione fosse stata metanizzata. È questo ciò che accade nel Biellese e merito di Ramella è di aver sostituito a questo processo la sua concreta dinamica. Ha mostrato la fitta rete di rapporti famigliari e comunitari di cui si sostanziano i meccanismi produttivi come le consuetudini del mestiere, riportando alla luce di un’antica comunità manifatturiera, l’antico attaccamento contadino alla terra. L’approdo di Ramella conclude una fase della storiografia italiana che era stata caratterizzata dal proposito di interpretare in termini marxiani il processo di industrializzazione e di formazione della classe operaia in Italia, assumendone come tratto specifico quello di un processo fortemente legato all’industria domestica rurale. Stefano Merli= nel 1972 ha pubblicato il libro Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Merli aveva affermato la necessità di studiare il capitalismo italiano come un insieme di forme intermedie che andavano dalla manifattura e dal lavoro a domicilio nelle campagne alla fabbrica meccanizzata, forme destinate tendenzialmente ad approdare alla grande fabbrica e comunque dominate dalla presenza del capitale industriale. Questo lo aveva condotto a rivalutare il ruolo delle industrie tessili e a considerare con tale sviluppo la persistenza di un legame tenace con la terra che in effetti quasi ovunque le caratterizzava. Egli aveva messo in primo piano la massa di lavoratori di origine rurale che avevano reso possibile la prima industrializzazione italiana. Non quella degli ultimi anni del secolo, legata allo sviluppo dell’industria meccanica, ma l’altra che si era avviata nel decennio 1880, in connessione con lo sviluppo dell’industria tessile e dei grandi lavori edilizi e ferroviari. Erano i lavoratori, per la maggior parte donne e fanciulli che popolavano le filande e le fabbriche tessili, gli immigrati in città lavoravano come muratori o ferrovieri. Merli non aveva difficoltà a considerare questa popolazione prevalentemente rurale come una classe operaia vera e propria- la coscienza di classe si sviluppava infatti, a suo giudizio, non già a partire da una originaria tradizione contadina ma dalla condizione attuale di sfruttamento. Uno sfruttamento che il capitalismo italiano spingeva ai limiti estremi, per compensare l’arretratezza tecnologica e la scarsità di capitali. Alcune categorie di operai, come gli edili, svolgevano una funzione di raccordo tra il mondo rurale e quello urbano, tra la popolazione contadina e quella operaia. Erano lavoratori che avevano rotto il loro legame con la terra e con il mondo patriarcale e in questo senso potevano essere considerati una classe di operai industriali veri e propri. Però, nonostante questo mantenevano un rapporto con il mondo di origine e portavano nel mondo contadino nuove idee e modi di vivere, contribuivano a disgregarlo. Tale impianto concettuale finiva però con l’essere oscurato dall’insistenza di Stefano Merli sul carattere di una vera e propria industria e di una vera classe operaia che andava attribuito a questa base manifatturiera tessile, in larga parte all’agricoltura ed alla manodopera che vi lavorava. Già nel 1976 Andreina de Clementi aveva reinterpretato lo schema leniniano utilizzato da Merli attraverso le categorie analitiche della proto-industria. Nell’affermare l’origine decisamente contadina della classe operaia, l’autrice richiamava l’integrazione tra agricoltura e industria proprio delle economie pre-industriali e proto- industriali e di quella italiana in particolare, e spiegava con le caratteristiche di tale integrazione, ovvero la forte mobilità del territorio, la facilità nel passare da lavoro agricolo a quello manifatturiero, la consuetudine dell’emigrazione stagionale, la natura contadina ed operaia al tempo stesso di tale proletariato. La formazione di una coscienza di classe operaia sarebbe stata in definitiva resa possibile dall’estrema intersettoriale. L’arco cronologico preso in considerazione dalla De Clementi restava tuttavia quello già assunto, da Stefano Merli, degli ultimi due decenni dell’Ottocento. Continuava cioè a rimanere in ombra- la “preistoria” del movimento operaio. Altro studioso estraneo alle polemiche che avevano travagliato la storiografia italiana e d’altra parte profondo conoscitore della storia sociale italiana ed europea, abbiamo Stuart Woolf. Il quale riprendeva la problematica sulla formazione del proletariato in Italia tracciando un limpido profilo dei fenomeni di protoindustrializzazione che si svolsero in Italia tra fine Settecento e primo Ottocento, in decenni densi di sconvolgimenti politici e di trasformazioni economiche. Nelle campagne, l’erosione dei margini di autonomia dell’economia contadina spingeva un numero sempre maggiore di famiglie a cercare nel lavoro industriale un’integrazione che risultava tuttavia in molti casi ancora insufficiente alla semplice sopravvivenza. Nei centri urbani la crisi dell’antica industria della lana e della seta accresceva il numero dei senza lavoro ed aumentava per gli occupati la precarietà dell’occupazione. Di qui la necessità, spiegava Stuart Woolf di studiare la natura e le interrelazioni tra sussistenza e povertà sia nelle città che nelle campagne per poter studiare la formazione del proletariato. Entrando poi nel merito del dibattito storiografico, egli indicava- come Andreina De Clementi, che attribuiva ai contadini poveri il ruolo principale nella formazione della classe operaia- i pregi ma anche i limiti. Stuart Woolf richiamava a questo proposito, i risultati della storiografia europea che con Thompson, Sewell e altri studiosi, avevano mostrato l’importanza degli artigiani nella formazione della classe operaia e nello sviluppo del movimento operai e segnalava la necessità di riprendere l’analisi anche in questa direzione. A tutt’oggi i due filoni che la ricerca ha individuato come fondamentali- l’industria domestica da un lato, la tradizione corporativa da un altro, si sono sviluppati in modo separato senza integrarsi in una visione organica complessiva. Questa separatezza si è ulteriormente accentata negli anni Ottanta, segnati da una ripresa d’interesse per il tema dell’artigianato urbano e dell’approfondimento in senso proto-industriale dei problemi dello sviluppo economico e della classe operaia. Nello stesso Ramella il nuovo interesse per il contesto rurale e per le radici famigliari dell’attività manifatturiera ha fatto venir meno l’interesse originario per la dimensione artigiana della comunità preindustriale, inducendolo a trascurare il carattere di specializzazione che l’attività tessile aveva assunto in quelle vallate. Alla fine degli anni Settanta, d’altra parte, la caduta d’interesse per la tradizione artigiana come momento di passaggio alla formazione di una classe operaia rientrava in un fenomeno più generale di un cambiamento storico/culturale. Nello stesso Thompson, le intuizioni sull’importanza di quella tradizione evolvevano in una direzione che portava sempre più lontano dall’interesse originario per la storia della classe operaia, incentrandosi piuttosto sulla società preindustriale e sulla cultura popolare nel 18° secolo ed aprendosi in modo più deciso all’antropologia. A riprendere la problematica sulla formazione della classe operaia, non senza critiche nei confronti dell’impostazione di Thompson, fu lo studioso tedesco Jurgen Kocka. Riferita a un paese come la Germania, dove il contesto economico rimase largamente rurale fino al 1870 e dove la tradizione corporativa sopravvisse molto a lungo. La sua analisi presenta un forte interesse metodologico e può aiutare a risolvere una serie di difficoltà concettuale dello stesso caso italiano. 4. Storia della classe operaia e storia sociale Alla fine del decennio 1970, mentre Edward Thompson andava precisando le sue idee in senso sempre più antropologico e la sua voce era rafforzata da un coro di storici che sviluppavano in questa direzione le sue indagini sulla cultura popolare, uno studioso di formazione non marxista come questo Jurgen Kocka, si propose di chiarire le ambiguità del suo pensiero e di recuperare della ricerca sulla formazione del proletariato, il momento oggettivo. Occasione importante a tale chiarimento fu il seminario “Storia sociale e storia del movimento operaio” promosso dalla Fondazione Basso e svoltosi a Roma nel 1978. Kocka muoveva dalla contestazione che la chiarificazione storiografica promossa da Thompson rispetto agli inquinamenti politici ed ideologici del marxismo era stata ottenuta a prezzo della rinuncia ad elaborare una definizione socioeconomica della classe operaia e che ciò creava il pericolo di scambiare la classe operaia con la cultura operaia. La permanenza di tradizioni preindustriali nella società borghese e capitalistica e nel movimento operaio organizzato era a suo giudizio un dato indiscuttibile. In particolare, per la Germania dove tali tradizioni avevano permeato il movimento sindacale fino ai primi del Novecento. Kocka ha elaborato una definizione di capitalismo che ne individua l’elemento caratterizzante nel generalizzarsi dello status di lavoratore salariato. Tale definizione recupera del marxismo l’dea che la rivoluzione industriale, il capitalismo industriale, modifica profondamente le condizioni economiche, politiche e social ed al tempo stesso evita le difficoltà di un’identificazione tra classe operaia e fabbrica meccanizzata. Applicata alla realtà tedesca dei primi quarti dell’Ottocento questo quadro concettuale ha ispirato un grande affresco della formazione della classe operaia. Gli antichi lavoratori dipendenti, i lavoranti hanno per Kocka un posto senz’altro privilegiato tra i progenitori della classe operaia. Le confraternite che essi avevano costituito all’interno delle organizzazioni corporative padronali già negli anni dell’ancien regime, e che i governi tedeschi avevano cercato di distruggere agli inizi dell’800 con l’aiuto del padronato, nell’ambito di una politica di modernizzazione anti-corporativa, sopravvissero in qualche caso a quella politica. Altre volte morirono per poi rinascere e insomma talvolta direttamente- come ad Amburgo, in altri caso in modo indiretto nelle craft unions del 1860. Kocka giunge cosi a mostrare infatti gli studiosi di storia della classe operaia nell’America di quegli anni. Era il clima prodotto dagli eventi del Sessantotto -metamorfosi della sinistra americana nei confronti del mondo del lavoro. Montgomery, studioso americano, ha individuato il tentativo di trovare una via d’uscita dalla razionalità capitalistica nell’esercizio da parte dei lavoratori di un controllo sui ritmi del proprio lavoro. Resistendo in fabbrica alle prescrizioni e imposizioni dei capi e delle direzioni aziendali sulle quantità da produrre e sulle modalità di esecuzione del lavoro, gli operai si opponevano al capitalismo in nome dei valori che erano innanzitutto la difesa e la salvaguardia della propria professionalità e dignità umana. Questi si esprimevano nel modo più semplice e immediato a livello individuale, ma ispiravano anche forme più propriamente politiche di protesta e di militanza. I suoi studi sul controllo operaio hanno cosi aperto una via originale di ricerca, che dà voce ai lavoratori, alla loro esigenza di trovare una via d’uscita dalla logica capitalistica, senza ignorare né le radici individuali immediate di tale esigenza, né il suo momento consapevole ed organizzato. Lo stesso equilibrio e la stessa misura caratterizzano l’impostazione che Montgomery dà al problema dell’esistenza o meno di una classe operaia in senso soggettivo. Egli mette in luce infatti un processo di formazione della coscienza operaia che è stratificato e discontinuo- non solo il controllo operaio sulla produzione non è conquista che possa realizzarsi una volta per tutte, ma le stesse forme di tale controllo non si collocano, egli ha spiegato, quanto piuttosto si sovrappongono l’una all’altra in uno stesso momento, in una stessa industria, in una stessa località. L’idea che la formazione della classe operaia sia un processo mai concluso, risultante dal sovrapporsi- nel tempo e nello spazio- di strati sociale diversi come di diversi stadi di coscienza, si è via via irrobustita e si si è svincolata sempre di più da un quadro storico del processo sociale e per avvicinarsi piuttosto a concezioni di tipo sociologico e antropologico, a mano a mano che si sono indagati e si sono rivalutati della classe i momenti di socializzazione e di socialità legati alla vita quotidiana e familiare. I momenti soggettivi legati alla fede religiosa. Una rivalutazione che è stata carica di valenza critica- più o meno esplicita- nei confronti dell’attenzione esclusiva che la tradizione marxista aveva prestato all’ambiente di lavoro, alla fabbrica ed ai suoi problemi: tempo di lavoro e salario. Si è rivendicata in definitiva alla classe operaia una dimensione esistenziale, indagando sotto questa luce anche il momento in apparenza più organizzato e politicizzato della vita operaia cioè lo sciopero. La categoria di cultura operaia ha cosi messo insieme filoni d’interesse diversi accomunati da un riferimento più o meno intenso ad Edward P. Thompson e dall’esigenza di toccare gli operai come individui nella loro concretezza. Dunque, in un contesto sociale che prima di essere la “classe” è la famiglia, il quartiere, la bottega, la fabbrica e in una dimensione soggettiva che prima che la “coscienza di classe”, è la loro realtà di padri e madri, di coniugi e figli. Gli studi sulla famiglia, le problematiche sulle relazioni tra uomo e donna e sulla specificità della posizione femminile nel mondo del lavoro come in altre aree della vita sociale e nella sfera degli affetti, lo sviluppo della storia orale e la raccolta di interviste e autobiografie, hanno enormemente arricchito ed ampliato le nostre conoscenze anche su mondo operaio portando alla luce conflitti interni, non dissimili nella sostanza di quelli che attraversano le altre classi sociali. Tali indagini hanno ravvicinato fortemente la classe operaia alla lente degli studiosi. Prima la nozione di classe operaia era definita da un parametro oggettivo cioè la condizione di dipendenza dei suoi membri (un’idea che prima di Marx era stata di Smith). Viene cosi sacrificato un aspetto che è parte essenziale di una condizione non solo economica ma anche esistenziale. Invece, adesso l’antropologia storica, come ha ricordato Michelle Perot, ha offerto possibilità conoscitive nuove in direzioni molteplici, legate al sesso, all’età, alla famiglia. Il rilievo che essa dà all’appartenenza dell’operaio a circuiti culturali diversi ed alla possibilità di una contraddizione tra la sfera della vita privata e quella della vita politica mette in ombra la precedente nozione di classe operaia. Si verifica una manifestazione dell’esistenzialismo. Un aspetto che fino allora è stato tralasciato. Inoltre, c’è stata un’influenza nelle diverse tradizioni storiografiche nazionali ed il loro intreccio con il marxismo. Un tratto accomuna le storiografie degli anni sessanta in poi, le quali hanno riscoperto la classe operaia mettendo da parte la storia delle organizzazioni politiche o sindacali ufficiali del movimento operaio- il vedere nella resistenza operaia e dei lavoratori allo sfruttamento, la manifestazione di risorse insite nella loro natura di esseri umani. Oggi la storia sociale – che tanto impulso aveva ricevuto negli anni Sessanta- dall’esigenza degli intellettuali di avvicinarsi al mondo del lavoro, ha abbandonato questo campo di ricerca e d’indagine per avvicinarsi ad altri ambiti come quello della classe borghese. Meno esplorato e più promettente in termini di novità e di scoperte. Jurgen Kocka ha spiegato questo mutamento con il clima di mutamento che ha caratterizzato gli anni Ottanta. Con l’affievolirsi delle attese di emancipazione e di riforma, con il venir meno della speranza nel movimento e nel socialismo.
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