Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La formazione. I metodi, Sintesi del corso di Metodologia del gioco

Riassunto di G.P. QUAGLINO (Introduzione e Capitoli:1, 2, 6, 7, 8, 15, 18, 23, 26, 30, 31, 34

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 29/11/2018

ilaria-spriveri
ilaria-spriveri 🇮🇹

4.3

(57)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La formazione. I metodi e più Sintesi del corso in PDF di Metodologia del gioco solo su Docsity! FORMAZIONE: I METODI Introduzione Fare formazione, era stato il libro che voleva essere il punto di arrivo, a metà anni Ottanta, di una modesta proposta di “teoria della formazione” capace di fissare confini e direttrici di quel territorio in rapida espansione che era ilo mondo della formazione degli adulti e più in particolare della formazione che si definiva, aziendale, manageriale, organizzativa, istituzionale. Fare formazione (preceduto e introdotto qualche anno prima da “Il processo di formazione”) voleva cosi essere riconoscibile anzitutto per l’affermazione della necessità di una storia della formazione che sembrava ancora non pienamente delineata e che invece pareva del tutto prioritaria per consolidare al meglio le vicende maturate sino a quel momento, e finalizzata a dare un consistente fondamento non solo di tecniche e strumenti, ma pure di principi e concetti indispensabili per ulteriori passi in avanti. Per quanto non mancassero modelli di riferimento, in larga misura presenti nel panorama anglosassone, Quaglino voleva proporre una prospettiva unitaria della formazione che fosse in più sintonia con il nostro contesto formativo. Quaglino definisce questa teoria integrata. Questa teoria integrata della formazione rappresenta una precisa opzione teorica derivata dall’incontro tra la via della complessità approfondita lungo l’itinerario tracciato da Edgars Morin (strada maestra dei primi anni di formazione nella formazione di Quaglino) e la via dell’action resarch lewiniana che era la strada altrettanto maestra di un certo modo di guardare la psicologia. L’introduzione della formazione all’interno del territorio della psicologia sociale era un segnale per testimoniare l’attenzione a cogliere non solo il piano di superficie dei comportamenti, ma quello più profondo delle istanze soggettive. Il tentativo di proporre, con Fare formazione, una qualunque teoria generale o integrata della formazione imponeva una lettura della soggettività. Quando Quaglino fa riferimento alla dimensione soggettiva, come punto di osservazione privilegiato per considerare la teoria e la pratica della formazione, la considera nella formula della “centralità del soggetto”. Il che significa, privilegiare nella lettura dei fatti i fenomeni formativi ciò che meglio qualifica la presenza del soggetto e cioè anzitutto cioè che faceva riferimento alla dimensione dell’apprendimento e dell’apprendere. Dieci anni fa Quaglino pensa a una nuova edizione del libro “Fare formazione” ma in seguito ha rinunciato a riscrivere in tutto o in parte il testo e in questo modo è rimasto esattamente quello di metà anni Ottanta. Quaglino si è limitato a una breve prefazione che riprendesse qualche aspetto del cammino successivo per dare il senso della continuità e della discontinuità di certe questioni, mentre ha riservato a una più lunga postfazione l’esplicitazione di un possibile oltre verso il quale gli sembrava di essere indirizzato. [Parole di Martin Heidegger] Non sempre negli ultimi vent’anni la formazione ha saputo mantenere la rotta con la stessa lucidità e continuità con la quale si era mossa nei vent’anni precedenti (dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta) finendo talvolta per ritrovarsi nelle secche di una routine più o meno regressiva, di una ripetizione di formule di comodo, di una imitazione di ciò che poteva essere stato elaborato in altri campi disciplinari, in una sorta di atteggiamento più esecutivo che propositivo rispetto alle istanza dell’apprendere di ciò i partecipanti ai corsi mostravano volta a volta di essere portatori. I processi formativi lasciavano poco spazio alla dimensione più propriamente esperienziale, accidentale, inventiva, che ogni apprendere non solo porta con sé ma dovrebbe valorizzare. Il vero apprendere ha anzitutto il carattere di imprevedibilità. [Parole di Franz Kafka] dunque un invito a non scambiare mai nessuna offerta formativa nel nome di una qualunque necessità di aggiornamento che riproducesse di fatto, più o meno esplicitamente, la formula di una qualsiasi “scuola dell’obbligo”, e invece rischiare tutta l’incertezza e 1 l’insicurezza che non solo la tensione al cambiamento e all’innovazione porta con sé, ma anche una qualunque leadership nei confronti del cosiddetto committente. Questo nella consapevolezza che, istruzione o formazione o educazione e addestramento compreso, se non c’è in quell’evento formativo un’inclinazione all’emancipazione del sapere, ma solo attenzione alla sua riproducibilità tecnica, la formazione non può che andare incontro nel peggior dei casi al fallimento di sé stessa, e nel migliore dei casi a un ripiegamento al ribasso della missione che le è propria. [Parole di Romeo Guardini] si proponeva di rafforzare l’idea guida della centralità del soggetto ricollocandola nelle mani di tutti che, essendo in formazione, hanno la vera padronanza dell’apprendimento e dell’apprendere e la possibilità unica di padroneggiare il compito di non cedere ad alcuna scorciatoia o semplificazione o agevolazione che possa essere suggerita da una qualunque convenienza esteriore, in nome di una qualsiasi presunta ottimizzazione che si rivelerà incapace di costruire saperi di medio-lungo periodo e finirà per risolversi in un convenzionale trasferimento di contenuti poco significante. Dieci anni dopo la postfazione si manteneva in bilico tra vecchio e nuovo. Da un lato vi era lo scenario dei tre principali indirizzi della formazione: alle competenze (ampiamente maggioritario), al cambiamento (in rilevante consolidamento), e allo sviluppo personale (ancora residuale). E dall’altro la geografia dei differenti apprendimenti: riflessivo, trasformativo, da sé, attivo, dall’esperienza. Infine la proposta di una nuova formazione che fosse in realtà un ritorno alle origini. Tra prefazione e postfazione i quattro capitoli del testo restavano del tutto identici a quelli della prima edizione di Fare educazione: era riconfermato l’impianto complessivo di quella teoria della formazione che si era declinata e articolata a partire dalle 4 dimensioni principali degli obiettivi, dell’apprendimento, dei metodi e del formatore. Nella postfazione, quello che si indicava come “Manifesto per una nuova formazione” è diventato nel 2011 il “Manifesto della terza generazione” presentato con La scuola della vita. Con questo termine Quaglino non voleva intendere una nuova visone della formazione ma intendeva un nuovo possibile sentiero verso una formazione capace di interpretare al meglio quella formazione che si colloca nella dimensione più propria dello sviluppo personale. Dunque non una riformulazione teorica del campo della formazione ma uni dei possibili ambiti di applicazione. Cosi pure con l’espressione “scuola di vita”, egli voleva affermare il ritorno della formazione alla vocazione originaria che è l’apprendere nel corso della vita e dal corso della vita e quindi non rinvia il bisogno della presenza di un superiore o di un esterno. Per questo scuola di vita non è da intendersi come la scuola dei saperi ma piuttosto quella dei pensieri, e nemmeno come la scuola in cui si impara a vivere ma al massimo come l’esperienza di un prendere forma verso la quale ci si disponeva in osservazione, ascolto e interrogazione per come la vita opera all’interno della nostra storia. In sostanza la “scuola della vita” o “la terza formazione”, entrambi convergenti nella formula della coltivazione di sé, non vogliono essere altro che proposta ulteriore di una formazione costantemente alimentata dal bisogno di rispecchiare il proprio interlocutore e di accompagnarlo nella ricerca/scoperta personale piuttosto che diglielo. Quaglino è ritornato sul quarto capitolo di Fare educazione dedicato ai metodi, per verificare i passaggi da compiere in modo da aggiungere a una nuova tipologia o a un elenco aggiornato. In quel capitolo vi era una distinzione, che ormai è ampiamente superata, tra metodi tradizionali e metodi emergenti. Tra i metodi tradizionali venivano rubricati tutti quelli che oggi possiamo ancora riconoscere come i classici d’aula: lezione, lettura e discussione non possono più essere viste separatamente ma come delle fasi che oltrepassa lo schema rigido della passività imposta dalla condizione di puro ascolto. Mentre per quanro riguarda l’istruzione programmata siamo già molto 2 6. Forza dell’individuo: essa ha chiesto alla formazione di non operare secondo il principio ci conformità ma anche secondo quello di unicità, cioè di intervenire a ridurre la distanza tra sé e ciascuno dei sui interlocutori per un apprendere capace di adattarsi a esigenze particolare, di rispondere a problemi singolare 7. Forza della persona: è capace di restituire alla formazione l’accompagnamento a itinerari di ricerca, di conoscenza e di cura di sé al di la di ogni predeterminazione di ciò che si debba o sia preferibile “imparare per..” In questo manuale (il principale protagonista di queste sette azioni ->) il formatore poche volte sarà riconosciuto nel classico ruolo del docente, egli verrà visto come una figura di facilitatore, animatore, coordinatore, conduttore, guida di percorsi formativi che prima di ogni altra cosa sono eventi di apprendimento. Ogni metodo ha una sua identità plurale di possibili applicazioni in più direzioni, utilizzabile in contesti anche molto diversi tra loro. In tutti i casi nessuna istanza esteriore avrà mai la capacità di trasformare la formazione in apprendimento e che questa trasformazione sarà possibile solo per il libero gioco a cui si affideranno donne e uomini che credono e investono nell’apprendere per sé. (non vi è nessuna formazione per obbligo) Questo manuale dei metodi di formazione Qualino lo dedica a tutti i formatori di ieri, di oggi e di domani. Cap 1. ACTION LEARNING Nel corso del tempo è mutata la formazione degli adulti operanti nelle organizzazioni del nostro tempo. Il cambiamento ha segnato il passaggio dall’insegnamento all’apprendimento, dalla formazione indirizzata al ruolo alla formazione per sé. Il soggetto umano è diventato il centro della formazione, dell’apprendimento. L'action learning è un metodo ideato e sperimentato da Evans, l’idea si sviluppa a partire da 3 fonti di ispirazione: -la figura e l’attività paterna di E. (la ricerca istruttoria del padre sulle cause del disastro del Titanic contiene tutti gli elementi istituzionali dell’AL.) Il padre morì prematuramente, Evans fu influenzato anche dai suoi comportamenti e valori; -le sue esperienze professionali-manageriali antecedenti l’attività di docente universitario. Evans lavorò infatti in miniera dove ebbe occasione per confrontarsi con le dinamiche di apprendimento collaborative (lavorava in squadra e considerava i colleghi come compagni con i quali raggiungere obbiettivi); -la spiritualità quacchera e l’esperienza del Clearness Committee. Il quaccherismo è una fede religiosa caratterizzata da tolleranza e amore, dove l’assenza del clero esalta l’autonomia di ogni fedele. La pratica del CC nasce nella cultura quacchera nel 1970 e si basa sull’idea che “ogni essere umano affronta problemi personali nell’ipotesi di possedere risorse interne idonee a risolverli ma, contemporaneamente forze negative che ostacolano i processi di convinzione. L’attività del CC si struttura in diversi ruoli e processi quali: focus persone, testimone del problema da affrontare e il gruppo di persone scelte con il quale confrontarsi (committee), la dichiarazione 5 del committee della natura del problema, la gestione della riunione affidata ad un chairmain, lo scambio tra i membri del c. e la focus person. Possiamo considera l’ACTION LEARNING un’attività di formazione degli adulti operanti nelle organizzazioni, è stato utilizzato a partire dagli anni 80 in contesti differenti e ha subito diverse sperimentazioni e modifiche rispetto alla definizione e all’impostazione originaria data da Evans. Può essere definito un metodo per formare adulti operanti in organizzazioni, a partire da un approccio al lavoro e allo sviluppo attraverso l’affrontare un progetto o un problema reale proposto dal committente ed elaborato in setting educativi diversi, sempre caratterizzati dalla presenza di un gruppo di lavoro operante sia nel suo insieme che in sottogruppi, con l’assistenza di uno specialista della formazione degli adulti, all’interno di un patrimonio di risorse temporali predefinito, da investire da parte dei partecipanti e, un budget per eventuali richieste di assistenza/ consulenza specialistica. All’interno della definizione troviamo alcuni riferimenti specifici dell’action learning: si fonda su un credo pedagogico “apprendimento ed invenzione non sono avulsi dal lavoro e, dalla pratica quotidiana”, ovvero tutto ciò che impariamo proviene dal lavoro; per apprendere è necessario sviluppare una coscienza critica in grado di interrogarsi e di interrogare il mondo. Non è solo attraverso il fare che si apprende ma occorre transitare dall’azione-lavoro. (la coscienza critica nasce dalla riflessività nei setting della formazione); nei processi di apprendimento e nei setting relativi l’individuo incontra l’autonomia relazionale; AL può essere considerato un’organizzazione nell’organizzazione, in quanto fa dei partecipanti “un organizzazione a tempo” AL è dotato di una struttura che permette il raggiungimento di determinati obiettivi: -NATURA DEL PROBLEMA: il problema viene proposto dal committente ed è affrontato dal gruppo. Il problema proposto deve essere fattibile , alla portata delle capacità reali della maggior parte dei partecipanti e, rientrare nell’ambio delle capacità dell’organizzazione, in modo tale da consentire la comprensione del problema o il contesto. All’opposto, se il problema è troppo sfidante rispetto alle capacità del gruppo, si può generare un vissuto di sopraffazione e ansia persecutoria. Inoltre, il problema offre varie prospettive di soluzione, imponendo la scelta tra diverse possibilità e non connotate da un’unica soluzione possibile. - SET OPERATIVO: AL è un metodo di formazione relazionale caratterizzato dall’interscambio tra sé diversi, è un apprendimento sociale all’interno del quale coloro che vi sono impegnati imparano insieme agli e, dagli altri. Il set è quindi il cuore operativo del metodo. Il gruppo deve essere costituito da un minimo di 5 ad un massimo di 8 persone, idealmente esse dovrebbero avere esperienze e know-how diversi in modo tale da poter costruire una micro- organizzazione. La provenienza dei membri potrebbe essere dalla medesima organizzazione, nella quale occupano ruoli e, svolgono funzioni differenti, garantendo comunque un mix di esperienze e ruoli operativi. E’ auspicabile che siano presenti livelli gerarchici diversi. E’ nel setting che si svolge la CON-VERSAZIONE: ovvero il confronto anche conflittuale, dove si effettuano i tentativi esplorativi, investigativi e agiti del gruppo. E’ il contenitore delle emozioni, delle attività di sviluppo, ruolo fondamentale è quello del facilitatore/trainer. All’interno del set possono essere anche collocate le risorse a disposizione del gruppo, esse sono: risorse temporali, ogni persona ha a disposizione del tempo da investire nell’attività di al, libero ovviamente da impegni lavorativi, l’autogestione dello stesso è lasciata al gruppo di lavoro, solitamente il patrimonio temporale è fissato in 10/15 giorni full time per partecipante – risorse consulenziali, il gruppo può rivolgersi ad un consulente a sua scelta, esperto della materia utilizzando un budget-giornate di consulenza che abitualmente è fissato tra ¾ giorni full time – 6 ruoli operativi, oltre all’istituzione committente e i membri del gruppo, è presente anche il facilitatore/trainer e dello sponsor. Il clima deve essere rilassato e di reciproco riconoscimento. -IL PROCESSO DI LAVORO DI AL: il processo di lavoro si sviluppa attraverso le seguenti fasi: 1.ANALISI DELLA NATURA DEL PROBLEMA: il gruppo è posto direttamente a contatto con l’istituzione committente, ossia il management che porge e prospetta il problema. L’obiettivo è quello di porre i partecipanti dinanzi alla reale natura dei problemi che devono affrontare, in questa fase l’apprendimento può avvenire dal problema che viene affrontato, dalla scoperta di se stessi e della propria personalità manageriale e, dal processo dell’imparare ad imparare”. 2.RICERCA SUL TERRENO E COSTRUZIONE DELL’IPOTESI RISOLUTIVA: è il cuore del processo, qui il gruppo investe la maggior parte del tempo a disposizione, si confronta e cerca la soluzione del problema supportato dal facilitatore 3.PRESENETAZIONE DELLA PROPOSTA E CONFRONTO CON IL COMMITTENTE: è la fase finale del processo, durante la quale si esce dal set per rientrare nella vita organizzativa e, confrontarsi con l’autorità committente. L’occasione vera di apprendimento in questo caso è, il confronto del gruppo di lavoro con il proprio prodotto, ovvero la risposta risolutiva presentata al committente. MA QUAL E’ IL RUOLO DEL FACILITATORE E DEL TUTOR ALL’INTERNO DELL’AL? Facilitatore o trainer assiste il gruppo di lavoro nel processo di apprendimento durante le varie fasi dell’esperienza di AL. Svolge un’attività costante di contenimento, vigilanza, garantisce lo sviluppo del processo di apprendimento, non ha responsabilità in termini di risultati e contenuto ma, deve fornire spunti di riflessione, garantire un livello di informazione adeguata e assicurare una memoria storica dell’esperienza nell’ambito del gruppo; Tutor rappresenta l’autorità dell’organizzazione committente e, presidia i confini dei rapporti con l’organizzazione nella fase di preparazione, garantendo al gruppo di lavoro le risorse per lo svolgimento dell’esercizio. Durante la fase della progettazione gestisce le problematiche della natura politica, verifica poi l’avanzamento dell’attività rispetto al piano iniziale. AL può essere un considerata una delle pratiche educative maggiormente caratterizzate da un approccio attivo allo sviluppo manageriale, colloca i processi di apprendimento all’interno dell’azione di lavoro, stimola una riflessione continua attraverso l’opera del facilitatore-trainer, sui processi di apprendimento, i pregiudizi di lavoro dei partecipanti. Inoltre, l’operare all’interno di un set va al di là dell’attività routinaria esecutiva, il gruppo è costantemente in contatto. Cap 2. AUTOCASO L’autocaso è collegabile alla narrazione = modo attraverso il quale gli individui si fanno presenti a sé stessi e agli altri e, allo stesso tempo è una metafora di base grazie alla quale possiamo comprendere il mondo, ed è la forma specifica del discorso attraverso la quale ha luogo la conoscenza. Quando parliamo di AUTOCASO infatti, ci riferiamo ad un prodotto culturale che nasce all’interno di questa prospettiva teorica-epistemologica. L’AC diventa quindi l’etichetta che viene data al racconto prodotto dal soggetto in formazione, di una sua personale storia e, della dinamica relazionale attraverso la quale viene “confezionato”. Sarà il narrante a mettere in relazione temporale e sequenziale gli eventi attorno ai quali si organizza la sua curiosità, il suo interesse a conoscere e comprendere, a partire dalle proprie caratteristiche personali, dal repertorio linguistico e tecnico, dalle sue abilità. In questa situazione l’interesse ed il desiderio sono attribuibili alla persona in formazione, in relazione con l’interlocutore che, lo sostiene nel suo percorso conoscitivo. Il valore di questa formazione è quindi la narrazione, la quale permette di 7 raccolte e, i titoli verranno scritti su una lavagna e, verrà scelto il caso da analizzare partendo da esso, in base a quello più pertinente e rilevante. Una volta scelto il caso, il partecipante farà una brevissima presentazione,spiegherà il significato del titolo, si considerano le varie opzioni e si cerca di capire se siano affrontabili o meno. Compito del docente sarà raccogliere le domande di approfondimento che i colleghi vorrebbero porre al partecipante, si procede poi con la discussione in plenaria. Se la “narrazione” è scritta, il docente lo leggerà e, avrà la possibilità costruire ipotesi interpretative in attesa dell’interpretazione che avverrà nel momento d’incontro con l’estensore del testo ed il suo gruppo di lavoro. L’analisi linguistica del senso e del significato del testo si concentra su diversi aspetti quali: i temi fondamentali, le metafore utilizzate, le dimensioni emozionali ed affettive, l’intenzionalità, le aspettative, le ambiguità, le chiarezze, le contraddizioni, la meta-comunicazione, il livello di precisione e confusione, le cose date per scontate, gli aspetti temporali, gli aspetti istituzionali, le persone coinvolte e i loro ruoli (scala gerarchica) ecc…; E’ importante che il clima e le relazioni del gruppo, portino lo stesso ad assomigliare ad una comunità di apprendimento dove grande attenzione verrà data al “testimone”, non sarà permesso nessun disturbo elettronico, l’intervallo verrà effettuato solo se un membro del gruppo ha necessità di mettersi in contatto con il mondo esterno, il racconto sarà interrotto se sono presenti problemi di chiarezza e, vi sarà la sospensione di comportamenti giudicanti e valutativi. Si deve diventare interpreti della storia, i dati non devo essere complessi, ci deve essere l’equilibrio tra le informazioni, il tempo dedicato all’analisi di un caso sarà diverso in base alla natura del tema (dalle 2 alle 4 ore, il rischio altrimenti è quello di risultare ridondanti e confusionari, noiosi). Fondamentale è anche la progettazione dello spazio per valutare ciò che resta, l’esperienza fatta nel percorso formativo, all’interno del quale si è usato l’autocaso. La riflessione può essere valutativa, sia degli apprendimenti che del processo che ha condotto ad essi, può essere una valutazione individuale che poi, sarà condivisa con il gruppo. E possibile fornire ai partecipanti una check-list nella quale si chiede che cosa si ha imparato, se non sono stati dati aiuti sufficienti, a cosa è servita l’esperienza ecc… La valutazione può essere anche effettuata telefonicamente, qualche mese a valle dell’esperienza formativa. Una possibilità di utilizzo dell’AUTOCASO è la RIPROGETTAZIONE, ovvero non ci si ferma alla rielaborazione del passato ma, si ipotizza il futuro, immaginandone la sperimentazione, si progetta una soluzione che può essere simulata. In questo caso il narratore dovrà dare un nuovo titolo al suo racconto. Il processo didattico è caratterizzato da 2 macrofasi: 1.La ricostruzione dal passato fino al presente (reframing): analisi e valutazione dell’esperienza, individuazione delle emozioni e delle rappresentazioni, rielaborazione delle stesse a livello cognitivo, per creare nuovi frame più adeguati per la risoluzione del problema; 2.Progettazione del futuro partendo dal presente, fase dell’empowering. Qui entra in gioco il role play: può essere considerato una variante dell’autocaso riprogettato, in quanto il protagonista simula il caso raccontato, adotterò la strategia e la tattica comportamentale messa a punto a valle del processo. Gli interlocutori saranno impersonati tra chi, nel gruppo, si sente più vicino al profilo degli attori che sono stati presentati nel racconto. Una variante può essere che, il protagonista invece, interpreti uno dei suoi interlocutori e, uno dei compagni di viaggio formativo vestirà i suoi panni. 10 Quando invece il metodo dell’autocaso vede alternare il lavoro d’aula con il lavoro sul campo, i partecipanti devono vivere l’intermezzo tra gli incontri come uni spazio sperimentale di attivazione di nuovi comportamenti. A facilitare questa modalità di apprendimento troviamo l’attivazione di forum dove depositare materiale didattico, attraverso la creazione di una classe virtuale e, la possibilità dei partecipanti di usufruire di colloqui individuali di coaching o di mentoring. IL RUOLO DEL FORMATORE: il formatore può essere un consulente, docente, animatore, agente di consapevolezza impegnato a fare un esame di realtà con il portatore del caso, tra lui, il testimone ed il gruppo si deve creare un’alleanza di apprendimento. I vertici di osservazione da presidiare sono: quello organizzativo dove si colloca l’evento formativo e, il sottosistema soggetto dell’autocaso, di gruppo ed individuale. Il docente deve essere abile nel improvvisare la progettazione, alleggerire la pesantezza che può nascere dalla scoperta di sé, dalle proprie ambivalenze e contraddizioni. Lievità e anche severità: in quanto non deve consentire a nessuno di esimersi dall’esercitazione. I VANTAGGI ED I LIMITI DELL’UTILIZZO DELL’AUTOCASO: VANTAGGI: il vantaggio evidente è quello di realizzare il passaggio dalla teoria alla pratica, portando in aula la realtà così come viene vissuta dai partecipanti, con le su sfaccettature e problematicità. Le persone sono coinvolte direttamente e attivamente. RISCHI: nel tentativo di mantenere un buon livello di efficacia: se il partecipante-testimone non è esaustivo nell’esposizione, il problema non suscita interesse nei colleghi, i partecipanti non sono esperti del problema e, quello rappresentato chiede il dominio di determinate teorie, il livello di sicurezza dei partecipanti è inferiore a quanto ipotizzato, vi è conflitti all’interno del gruppo. LIMITI: la difficoltà del docente di programmare una gradualità di situazioni e la completezza delle questioni che gli obiettivi dell’incontro formativo comportano, la possibilità che il partecipante incrementi le proprie difese, la presunzione di sapere che la realtà raccontata sia stata espressa nella sua profondità, vi è il rischio quindi essere superficiali. Se è scritto il racconto, è frutto di una selezione, mentre se è orale, falsa sempre la realtà. Sottile all’interno di questo metodo il confine tra FORMAZIONE E CONSULENZA: la formazione che utilizza in un percorso formativo l’autocaso è sovrapponibile alla consulenza, se è presente in attività formative all’interno di cataloghi di offerte formative non si possono sovrapporre. In determinate situazioni l’applicazione dell’autocaso è utile: quando la formazione accompagna processi organizzativi di cambiamento o ristrutturazione, l’occasione formativa si svolge a nuovi ruoli o funzioni o gruppi di lavoro in organizzazione; i cambiamenti in atto sono legati a conseguenze sul piano individuale, relativi a cambiamenti di ruolo, nell’identità professionale e nella relazione con altre figure professionali. Vi sono poi dei temi, delle questioni, adatte, ad essere affrontate con il metodo dell’autocaso: situazioni dove è in gioco la storia personale dell’individuo, il cambiamento, l’esercizio del potere, la gestione dei conflitti e dello stress, le dinamiche relazionali duali e di gruppo, la comprensione emotiva, il benessere, lo stress… Cap 6. CASO Il metodo del “caso” in ambito formativo ha una storia antica. Inizialmente sembra sia stato proposto da Christopher Langdell, preside alla Scuola di legge di Harvard nel 1870, e che, abbia influenzato la formazione dei giuristi americani. Copland lo sviluppò nel 1920, pubblicando il primo libro contenente casi relativi al marketing. 11 In Italia arrivò negli anni ’50 per iniziativa delle grandi industrie che lo utilizzarono nei programmi di formazione, soprattutto manageriale. Inizialmente, furono inseriti alcuni casi nelle lezioni tradizionali, da far analizzare individualmente o in gruppo, in modo tale da far imparare il processo di diagnosi dei problemi e poi di risolverli attraverso una scelta decisionale. Il caso, rappresenta il primo passo verso la strada dell’“imparare facendo”, in quanto già all’epoca consentiva di affrontare temi complessi da trasferire attraverso le lezioni. DEFINIZIONE: è una descrizione più o meno breve di una situazione reale o immaginaria, presentata con alcuni o molti dettagli, del tutto inventata o ricostruita a partire dai dati reali; questo metodo consiste nel far analizzare ai partecipanti una situazione problematica che richiede una soluzione, sovente non univoca. Deve essere un caso coinvolgente e ben dettagliato in modo da far emergere un’ampia gamma di opinioni. L’approccio non è direttivo perché il docente che presenta il caso problematico da del tempo agli studenti per studiarlo e, crea un ambiente favorevole alla discussione di gruppo. Il case study, a partire dagli anni 80, si basa sull’idea che sia più incisivo della lezione tradizionale per trasmettere norme e comportamenti. Infatti, presenta un’esperienza specifica o un episodio, punta a renderlo generalizzabile per poi risolverlo, attraverso un processo di proiezione di sé nella situazione. Tutti devono essere loro stessi e di portare il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze, il proprio ruolo organizzativo come elementi per arricchire la discussione e fornire chiavi di lettura diverse. Il metodo didattico che ne consegue, punta sull’attivazione di processi di analisi di fatti e dati di un determinato contesto organizzativo e sulla ricerca di risposte a interrogativi come “cosa è successo?” o “cosa fare?”. E’ una metodologia attiva che si colloca in una posizione intermedia tra lezione accademica e metodi più attivi come il role play o il business game, fornendo un’alternativa efficace alla lezione. E’ necessario fare una distinzione tra CASE STUDY, è la semplice descrizione di una situazione, METODO DEI CASI quando all’interno del caso stesso vi sono delle informazioni adatte per essere utilizzato come paradigma di insegnamento. A seconda dell’obiettivo possiamo distinguere differenti tipologie di casi: -Casi diagnostici: la situazione è complessa, sono presenti molte variabili e informazioni, che richiedono la formulazione di una diagnosi selezionando ed interpretando i dati forniti. Punta allo sviluppo della capacità di analisi critica ( i partecipanti devono individuare il quadro della situazione e gli aspetti principali) -Casi decisionali: descrivono una situazione critica iniziale, per la quale i partecipanti devono trovare la soluzione individuando le modalità adeguate e prevedendo i rischi. Si punta a migliorare la capacità di decisione e la rapidità decisionale. -Casi relazionali: riproducono situazioni di gestione delle relazioni e, non prevedono una soluzione unica e corretta, prescindendo dalla logica di problem solving. Si punta allo sviluppo delle capacità di affrontare i problemi complessi ed aumentare la consapevolezza tra i partecipanti della pluralità di strade possibili per affrontare le criticità relazionali da affrontare in modo descrittivo. Per tutti questi casi formatore e partecipanti sono visti come soggetti che esprimono punti di vista di pari dignità. Jacques invece nel 2009 categorizza i casi in base alle modalità attraverso la quale sono costruiti: field cases scritti con i contributi di dirigenti e direttori esperti degli eventi dei problemi descritti; library case basati su informazioni aziendali pubbliche senza un accesso diretto all’organizzazione stessa, armchair cases, documenti artefatti scritti da formatori, non realmente avvenuti. Tipologie diverse di casi fanno vedere un utilizzo diverso non solo in base ai temi ma agli obiettivi. OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO: 12 utilizzare metodi alternativi per conseguire vari obiettivi, utilizzare formatori in grado di stimolare e consolidare l’apprendimento attraverso la loro passione e competenza. Un limite evidente è la necessità che i formatori abbiano esperienza organizzativa almeno parziale, che consenta a loro di cogliere i vari livelli problematici. L’EVOLUZIONE DEL METODO DEI CASI: vi sono diverse linee evolutive, metodo dei casi in tempo reale, si basa sul tradizionale metodo dei casi, la differenza fondamentale si manifesta attraverso la tecnologia, che modifica le attività di apprendimento e i materiali del caso, emergono nuove caratteristiche: l’interattività in tempo reale ed una copertura estesa (per un semestre o più). Insegnamento basato sui problemi: utilizzato da decenni per in insegnare ai futuri medici, ma anche in campo manageriale. Il valore di tale modalità è stimolare la riflessione sulle diverse possibilità di affrontare un problema. Casi interrotti: il docente svela di volta in volta alla classe varie parti del problema, man mano che la discussione va avanti con l’obiettivo, di far cogliere ai partecipanti che il loro processo di decisione dipende dalla tipologia di informazioni in loro possesso. Casi dialogici: si colloca nel filone dell’apprendimento organizzativo Casi di successo: usati per valutare gli esiti della formazione manageriale e il loro essere allineati con la linea manageriale. Attraverso interviste e questionari si individuando i casi di successo, punta a far emergere le condizioni ottimali per il trasferimento degli apprendimenti. Casi diretti: sono nati recentemente, in particolare per insegnare temi scientifici. Casi estesi: utilizzati in etnografia Interessante è il managment versus consultant case method di uslay, 2007, si differenzia dalla modalità tradizionale perché prevede la divisione dell’aula in due gruppi di partecipanti, uno svolge il ruolo di manager e l’altro di consulenti. Il primo analizza il caso e ne scrive l’analisi e l’ipotesi di intervento che, sono presentate all’altro gruppo. Quest’ultimo ha un paio di giorni per analizzare quanto presentato dai compagni e, per fornire una proposta di intervento diversa, magari migliorata rispetto a quella dei manager. Le fasi discussione servono a migliorare capacità comunicative (discussioni) e le competenze relazionali (lavoro di gruppo). L’utilità di qeusto metodo sembra la possibilità di introdurre il role play in una parte delle attività, che consente di concretizzarne i risultati. Il metodo dei casi è anche stato utilizzato come strumento di ricerca, alcuni autori hanno anche colto che un ambito evolutivo del caso è lo storytelling, modalità di fare formazione attraverso il racconto di storie organizzative, in connessione con l’approccio alla cultura organizzativa, basato su miti e saghe aziendali e, all’etnografia organizzativa, che può essere definita come “il raccontare per iscritto un’organizzazione”. Brugoyne e Munford, 2001 tracciano una sintesi del metodo, mettendo in evidenza lo scarso riferimento ma allo stesso tempo ne confermano il valore concreto. Non sembra infatti essere riconducibile ad una teoria dell’apprendimento, le esperienze dimostrano la sua efficacia anche se non è presente un modello che descrive come e perché il processo funzioni in termini di apprendimento. In ambito manageriale può essere considerato come un testo che fa da pretesto, in grado di far ragionare gli adulti sulla complessità del mondo in cui operano e stimolando in loro un apprendimento riflessivo e facendo da spunto per raccontare i casi propri, simili a quelli presentati dalla docenza in un processo di condivisione che è anche crescita. 15 Cap 7. CINEMA il cinema si è qualificato a tutti gli effetti come un metodo di formazione è il suo utilizzo è cresciuto sia in termini quantitativi che in termini qualitativi. Però bisogna precisare che il cinema è si un metodo ma è anche un supporto per altri metodi. Il cinema viene utilizzato in tutti i contesti che intendono promuovere l’apprendimento e il cambiamento degli adulti. Inoltre è importante fare una distinzione tra materiali tratti dal “cinema vero e proprio” e materiali audiovisivi di tipo diverso. I primi sono costituiti da quelle opere cinematografiche che vengono proiettate nelle sale, mentre tra i secondo possono essere citati i filmati didattici, i documentari, i serial, gli show, i cortometraggi, gli spot pubblicitari ecc.. che vengono trasmessi su piattaforma televisiva oppure proposti sul web. Tra il 1985- anno della diffusione di massa del personal computer- e il 1996- avvio della rivoluzione di internet – si è affermata la generazione dei nativi digitali molto diversa dalla generazione che l’ha preceduta. Ai giorni d’oggi i nativi digitali sono adulti e iniziano a fare il loro ingresso nelle aule di formazione e questa presenza obbliga il formatore a ripensare i propri materiali e metodi, da un lato rendono ancora più importante l’utilizzo dei materiali narrativi in forma audiovisiva oggetto di questo contributo, ma dall’altro obbliga a progettarne le modalità d’uso in modo più puntuale e mirato. Per questo pubblico, infatti, la presenza di immagini non risulta di per sé una ragione di uscita dal quotidiano e di stimolazione intellettuale come era invece per la generazione precedente. IL CINEMA PER L’APPRENDIMENTO E IL CAMBIAMENTO Il cinema come metodo di formazione degli adulti si colloca nell’ambito dei una più ampia categoria di metodi basati sull’arte. il cinema viene utilizzato nell’ambito della formazione degli adulti con finalità molto diverse, che vanno ben oltre il classico apprendimento delle lingue straniere, quali per esempio: la sensibilizzazione culturale, la formazione psicoterapia, la formazione ai comportamenti organizzativi. L’efficacia del cinema nel favorire l’apprendimento e il cambiamento va ricercata nella sua specificità artistica: le differenti tecniche di produzione utilizzate ne fanno un mezzo capace di immergere lo spettatore in un’esperienza da un lato estremamente realista, dall’altro capace di superare la realtà sia per estensione che per intensità. Il film offre l’occasione per fare esperienza di una realtà che non appartiene allo spettatore, una realtà differente, in cui egli può a tratti riconoscersi e specchiarsi, come invece sentirsi estraneo, o meglio distanziato, seppur in qualche modo partecipante. All’interno di questa esperienza lo spettatore non è passivo fruitore di un prodotto, ma la sua risposta contribuisce alla creazione del film stesso, in quanto attivamente osserva e percepisce, coglie e interpreta, sino a diventare egli stesso protagonista essenziale. In sintesi l’utilizzo del materiale filmico sollecita una elevata attivazione dell’individuo, sul fronte cognitivo cosi come su quello emozionale: è proprio questo duplice ordine di stimolazioni a creare le condizioni per l’avvio di un significativo processo di apprendimento. L’attivazione cognitiva che deriva dalla visione di un materiale filmico è sia di tipo generale sia di tipo specifico. Sul piano generale, le scienze cognitive hanno da tempo dimostrato come l’uso di molteplici media per presentare lo stesso concetto abbia effetti positivi per la comprensione in funzione del fatto che vengono sollecitate diverse aree/funzioni nervose. Sul piano specifico, la letteratura riconosce anzitutto come il cinema possa sostenere la concretizzazione. Un secondo contributo di tipo specifico riguarda l’apprendimento di abilità relative all’esplorazione di una situazione da differenti punti di vista. I film e i video possono essere veicoli davvero efficaci per insegnare la flessibilità concettuale e l’abilità a cambiare prospettiva. Un ultimo tipo di attivazione 16 cognitiva specifica ha che fare con la messa a fuoco dei processi di costruzione della realtà e di attribuzione di significato. Sul fronte dell’attivazione emozionale; il cinema ha la capacità di suscitare emozioni, attraverso differenti strategie di ripresa e montaggio il cinema riesce ad attivare intensamente l’affettività, catturando il soggetto nel suo gioco di fiction nel quale il soggetto stesso riesce a trovare parti di sé rimosse o semplicemente dimenticate. Proprio questa possibilità di sollecitare reazioni emotive e facilitare l’immaginazione costituisca il principale vantaggio in termini di apprendimento che deriva dall’utilizzo dei film. L’UTILIZZO DEL CINEMA: PROCESSO E MODALITA I passaggi che è necessario compiere quando ci si propone di utilizzare i materiali filmici nelle attività di formazione degli adulti sono quattro: la selezione del film/della sequenza, la progettazione della modalità di utilizzo, la messa a punto dei materiali e l’azione in aula. Alla quarta fase si aggiungerà successivamente la valutazione dei risultati, a fine giornata o al termine del corso, secondo le modalità definite al momento della progettazione complessiva dell’intervento di formazione. La selezione dei film/o sequenza: “quale film o sequenza può essere utilizzato per promuovere l’apprendimento di un particolare contenuto all’interno di uno specifico percorso formativo?” la fase di selezione confronta il formatore con la necessità di individuare il materiale da utilizzare in aula recuperando un insieme di riferimenti, visionandoli e scegliendo ciò che appare più efficace rispetto al raggiungimento degli obiettivi di formazione. È opportuno distinguere tra due tipi di formatori: da un lato abbiamo i formatori che hanno una spiccata cultura personale in ambito cinematografico e nel tempo stesso si sono costruiti un archivio di titoli e riferimenti utili per la loro attività professionale che alimentano progressivamente ; dall’altro vi sono quei formatori che non dispongono di tali conoscenze in campo cinematografico e dunque si trovano a voler utilizzare i film senza l’archivio di titoli e vanno alla ricerca delle informazioni e dei suggerimenti presenti in quelle rassegne che elencano una serie di materiali filmici classificati in funzione dei contenuti di apprendimento. La progettazione dell’utilizzo: il passaggio della progettazione mette a confronto il formatore con tre scelte cruciali relative a: • Che cosa: ovvero l’ampiezza del materiale, l’intero film oppure uno spezzone • Quando: ovvero il momento all’interno del percorso formativo, nel corso del vero e proprio lavoro d’aula o nei momenti completamenti di ulteriore confronto e riflessione per esempio nelle serate di un corso residenziale • Come: ovvero le modalità di utilizzo, precisando il significato che viene attribuito al momento di visioni del materiale Golde individua cinque principali modalità di utilizzo del materiale cinematografico: 1. Il riscaldamento: il materiale cinematografico può rappresentare un momento di riscaldamento, in tre distinte eccezioni: la prima ha che fare con l’energia è importante aiutare i partecipanti ad avere una partecipazione attiva- il materiale cinematografico è in grado di suscitare questo effetto sia perché crea una netta separazione tra ciò che sta per accadere e ciò che è accaduto prima; la seconda riguarda la possibilità di entrare in tema – il materiale cinematografico consente di prendere contatto con un concetto, un’idea, una problematica; la terza rinvia al fare gruppo condividere la visione e la riflessione su un 17 e viene solitamente utilizzata dai formatori al fine di arricchire il corso con la presenza di un grande esperto del tema approfondito ì, cui poi seguirà un dibattito dal formatore stesso. In qualche caso le lezioni, conferenze o spezzoni utilizzabili nella formazione sono disponibili gratuitamente online, per esempio su YouTube 2. Video testimonianze: si tratta di filmati didattici che raccolgono racconti di personalità di spicco del mondo business utilizzabili sia con finalità di apprendimento sia in ottica di intrattenimento. 3. Video casi: questo genere di filmati didattici propone storie di eccellenza che si distinguono per il successo ottenuto nell’ambito di uno specifico processo organizzativo, mentre altre volte i video approfondiscono le vicende di un’intera organizzazione 4. Video narrativi: propongono riflessioni sul mondo delle organizzazioni, accompagnate da racconti animati o immagini allegoriche che rappresentano le stesse tematiche in una versione ad alto contenuto metaforico/ ironico. Obiettivo specifico si questo genere di materiali filmici è attivare momenti di discussione a 360 gradi su temi proposti proprio a partire da un mix tra racconti diretti ed evocazioni visive capaci di sollecitare un registro di pensiero meno razionale 5. Video workshop: si tratta di video anche piuttosto lunghi dedicati a un unico tema che propongono attività di problem solving commentate da un esperto che sostiene il gruppo in apprendimento sia nell’individuazione di errori nel processo di lavoro sia nella scelta degli approcci più efficaci per fronteggiare la situazione illustrata. Insieme al video vengono anche forniti una guida per il facilitatore, una check-list per gli osservatori e una rassegna bibliografica -> si tratta di strumenti progettati per un utilizzo in gruppo, che intendono ricreare l’atmosfera di un workshop comprendendo talvolta anche lezioni di esperti. 6. Video sportivi: i materiali filmici ispirati allo sport traggono spunto da eventi agonistici per evidenziare dimensioni d’azione con valenza organizzativa. Al di là dell’ostacolo relativo alla lingua di produzione, l’utilizzo dei filmatici didattici può presentare almeno due svantaggi 1) il filmato didattico potrebbe non aggiungere molto a ciò che il formatore stesso non sarebbe in grado di offrire ai partecipanti 2) i punti di analogia con la concreta esperienza di lavoro vissuta dai partecipanti sono decisamente minori: l’artificialità dei contesti e delle situazioni presente all’interno dei filmati didattici contrapposta alla ricchezza di riferimenti alla vita reale presenti nel materiale filmico può far ritenere non trasferibili i modi di fare e di essere che vengono proposti e dunque addirittura inibire l’apprendimento. Se i filmati didattici non vengono realizzati con la medesima cura destinata alla realizzazione di un vero e proprio film, per esempio in termini di qualità audio e video, ritmo di montaggio, non si potranno ottenere quei vantaggi in termini di attivazione cognitiva ed emozionale che l’uso di materiali audiovisivi è in grado di produrre. Un secondo tipo di materiali è costituito dai documentari, dalle serie televisive e dagli show tramessi dalle società radiotelevisivo e spesso disponibili anche su piattaforma web e su YouTube. Il formatore può trovare i materiali necessari attraverso un’occasione casuale o il suggerimento di un collega, inoltre la rete offre un enorme numero di brevi filmati a volte in forma di cartoni animati- estratti da spot pubblicitari o da trasmissioni di altro genere che descrivono tematiche organizzative inerenti il gruppo, il potere ecc.. in rete è possibile rintracciare dei portali che offrono gratuitamente il link a sequenze cinematografiche utilizzabili per la formazione degli adulti; vi sono anche degli archi online dove si possono trovare filmati -> il più noto sito è YouTube definito come “archivio infinito”. YouTube è utilizzabile da un lato come archivio di materiali filmici 20 tradizionali e dall’altro come repertorio di materiali televisivi e di filmati amatoriali che possono risultare utili al formatore-> tutto ciò con un duplice vantaggio: non c’è bisogno di alcun supporto (dvd, chiavetta usb, hard-disk esterno ecc) per il trasporto del materiale basta solamente un collegamento internet nell’aula via cavo o mediante wi-fi UN ESEMPIO DI SCHEDA DI DESCRIOZNE La scheda di descrizione del materiale cinematografico può essere realizzata da terzi. Questa scheda contiene già un numero di indicazioni relative all’utilizzo del materiale-> il formatore trova indicate le sequenze, i personaggi, i comportamenti che presenti con una certa modalità potranno favorire l’apprendimento. Sia la scheda che la chek-list sono strumenti che possono facilitare la comunicazione tra formatori impegnati a utilizzare un determinato materiale cinematografico, facilitando lo scambio e il confronto circa le ipotesi di lavoro formulate in fase di progettazione o circa le attività realizzate in aula. I VINCOLI DI UTILIZZO ED ERRORI DA EVITARE il formatore deve confrontarsi con due principali vincoli uno di tipo tecnico e l’altro di tipo legale. I vincoli di tipo tecnico riguardano principalmente le tecnologie di produzione. I sistemi di produzione in uso sino a una decina di anni fa, che si componevano di televisore e dvd avevano due limiti alla fruizione del materiale: limiti di ascolto e limiti di visione. Alcune innovazioni hanno progressivamente migliorato la situazione: l’avvento dei televisori lcd o led ha contribuito a migliorare la resa audio e video, mentre i videoproiettori di piccole dimensioni, dunque facilmente trasportabili e collocabili di volta in volta in aula, hanno iniziato a sostituire la prima generazione di videoproiettori da soffitto. Cosi oggi il formatore possiede nella sua attrezzatura personale di base (pc portatili, videoproiettore) tutto il necessario per l’utilizzo dei film, evitando di dipendere da terzi per la messa a disposizione del tradizionale sistema televisivo dvd player. Anche la possibilità di acquistare dvd o file (che possono essere archiviati sul proprio hard disk) direttamente online, ha diminuito la difficoltà che il formatore incontrava nel reperire i materiali filmici di proprio interesse. le nuove tecnologie stanno offrendo un contributo decisivo all’utilizzo dei materiali filmici o meglio stanno abilitando i formatori a considerare i film una risorsa facilmente disponibile. Naturalmente non tutte le opere sono reperibili in formato dvd o file e questo limite può tradursi in opportunità di ricerca attiva. Il secondo vincolo è ti tipo giuridico: i film sono protetti da copyright e il loro uso in situazioni di gruppo è soggetto al rispetto di alcune regole. La disciplina relativa alla protezione dell’opera cinematografica è contenuta nella legge 22 aprile 1941, n.633 rubricata “protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio” questo decreto stabilisce che :sono protette le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla cinematografia- l’acquirente di un film può vederlo in ambito privato ma non può farlo vedere o ascoltare a una cerchia di persone più ampia del gruppo dei suoi familiari in un luogo diverso da quello domestico se non munendosi del consenso alla rappresentazione rilasciato dagli aventi diritto però il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera per scopi di discussione e di insegnamento sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica all’opera la rappresentazione parziale delle opere cinematografiche potrà essere libera dalla necessità di richiedere il consenso dell’avente diritto se effettuata a scopo di insegnamento, critica o discussione e se non sia configurabile uno sfruttamento economico dell’opera che possa essere concorrenziale con quello spettante esclusivamente al titolare di tali diritti e in ogni caso andrà sempre menzionato il titolo dell’opera, il nome dell’ autore . 21 Il materiale cinematografico dovrà evitare alcuni errori: • Utilizzare troppi materiali filmici, quasi a riempire tutto il tempo disponibile senza che i partecipanti sia data la possibilità di esprimere ciò che la visione del materiale ha suscitato in termini emotivi e cognitivi. Questa situazione rischia di trasformare la sessione formativa in un semplice intrattenimento che sia pure gradevole è poco efficace nel produrre apprendimento. • Non prestare la dovuta attenzione alla coerenza tra il tipo di filmato o di sequenza utilizzati e le caratteristiche dei destinatari dell’azione formativa, in termini di profilo professionale cosi come di tratti culturali delle organizzazioni da cui provengono. • Utilizzare film di difficile reperibilità, in quanto il partecipante, incuriosito dalle sequenze utilizzate in aula, potrebbe essere interessato a vedere l’intera opera, accedendo in tal modo a un’ulteriore occasione di apprendimento. • Utilizzare una sequenza senza aver visto tutto il film, in quanto può capitare che il messaggio globale dell’opera in questione sia differente da quello della singola scena. • Utilizzare troppe sequenze o film ambientati in contesti molto connotati, quali per esempio quello militare, poiché i comportamenti che si propone di esemplificare potrebbero sembrare poco verosimili e suscitare obiezioni relative alla loro effettiva trasferibilità nella propria esperienza di lavoro. Cap 18. ESERCITAZIONE In un’epoca in cui gli strumenti didattici sono in continua evoluzione, l’esercitazione assume i connotati di qualcosa di obsoleto, classico. Nasce tra gli anni 60/70 dalla combinazione tra il metodo tradizionale ed elementi tratti dai giochi da tavolo, è stato uno dei primi metodi di formazione attivo, oggi sembra anacronistico parlare di esercitazione perché si cerca sempre più una formazione a distanza. DEFINIZIONE: strumento didattico che consiste in un gioco durante il quale i partecipanti raggiungono un obiettivo prefissato attraverso la realizzazione di una prestazione il cui contenuto può fare riferimento ad una tipologia molto ampia di argomenti. Permette a tutti di sperimentare, simulare, mettere alla prova per apprendere in una condizione controllata. Ha sempre rappresentato quindi uno degli strumenti tipici dell’apprendimento esperienziale, viene così definita la filosofia di questo apprendimento da Kolb, caratterizzato da un ciclo: esperienza – osservazione – concettualizzazione – sperimentazione. L’esercitazione ripercorre tutte queste fasi ma assume una particolare rilevanza nel passaggio tra sperimentazione ed esperienza in sé, rappresentando una simulazione di un’attività pratico-lavorativa ma allo stesso tempo una vera e propria esperienza di apprendimento. CARATTERISTICHE: Immediatezza: le modalità di svolgimento sono generalmente intuitive e accessibili a chiunque 22 lettura del mandato e delle regole del gioco, viene consegnato il materiale, fornito il tempo, il contesto, i mezzi a disposizione e l’obiettivo. 2.SVOLGIMENTO/PROCESSO: vien fatto partire il tempo a disposizione 50-90 minuti. Il formatore assume un ruolo organizzativo e i partecipanti iniziano a svolgere la loro attività 3.DEBRIEFING/COMMENTO O ANALISI: è momento didattico più importante è qui che si passa dall’osservazione riflessiva alla concettualizzazione astratta (Kolb). Durante il debriefing si riflette sull’esperienza vissuta, si cerca di rileggerla, capirla e utilizzarla in chiave razionale, spogliando definitivamente l’esercitazione dalla caratteristica ludica per far emergere aspetti interessanti, più o meno problematici utili ai fini dell’apprendimento e trasferibili nell’attività lavorativa. Il tempo in questo caso deve essere adeguato e dovrebbe occupare da un terzo a metà del tempo previsto per l’intera esercitazione. In genere è il formatore che da inizio alla discussione partendo dalla riflessione dei giocatori per passare poi a quelle degli osservatori. Dopo che i partecipanti si sono espressi può fornire lui la propria analisi. Se vi è difficoltà nell’inizio della discussione, il formatore può effettuare domande guida che stimolino i partecipanti. E’ necessario ricostruire l’evento, ovvero si deve cercare di creare un immagine collettiva e condivisa di ciò che è successo, il formatore può evidenziare o riordinare alcuni passaggi, utile in questo sottopassaggio, sarebbe lo strumento della videocamera. Non è una correzione ma uno stimolo per identificare meglio le interazioni. Anche in questo caso non si può non analizzare le emozioni e, le tipologie di interazioni mostrate durante l’azione il formatore potrà fare domande specifiche “come vi siete sentiti? Sono emerse queste emozioni? Quali dinamiche ci sono state tra i giocatori?”… La fase più delicata, è il passaggio, il trasferimento degli apprendimenti dal gioco alla realtà lavorativa: il formatore in questo caso, deve accompagnare i partecipanti nella messa a fuoco di quanto i comportamenti agiti durante l’esercitazione, siano gli stessi che vengono agiti nella quotidianità lavorativa e, nel riconoscere che le buone pratiche evidenziate possono rappresentare variazioni del corrispettivo comportamento professionale. Il debriefing è il momento fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi didattici, e i partecipanti devono essere accompagnati, arrivare spontaneamente agli obiettivi didattici. Oggi è la tecnologia a mutare l’esercitazione, essa infatti permette di creare simulazioni e business game complessi e facilmente utilizzabili da proprio computer. Ciò che rimane invariato è la struttura e la caratteristica fondante di tale metodo formativo. Cap 26. OUTDOOR L’OT rappresenta una possibile risposta metodologica a un modo differente di concepire l’esperienza formativa e alla base di questa risposta c’è un modo di pensare ai processi di sviluppo e di apprendimento coerente con il desiderio di restituire un certo grado di libertà e di protagonismo alle persone coinvolte in un’esperienza formativa cosi si è passati da un’idea di formazione centrata sul trasferimento di modelli, nozioni e conoscenze (le aule tradizionali) nelle quali il soggetto aveva un ruolo abbastanza passivo nel processo di apprendimento, a un’idea di formazione capace di mettere al centro della scena formativa il soggetto, i suoi bisogni e la sua esperienza; si può dire che il modo di pensare e di agire della formazione è transitato da una prospettiva deterministica della formazione a una prospettiva euristica che fa uso del carattere empirico dell’esperienza e la necessità di sviluppare un sapere pratico a partire dalla comprensione dell’esperienza stessa. 25 PRINCIPALI DIFFERENZE TRA PROSPETTIVA DETERMINISTICA ED EURISTICA NELLA FOMRAZIONE Nella prospettica deterministica, la formazione pensa a sé stessa come a un’opera di miglioramento continuo delle conoscenze delle persone a cui si rivolge, è calata dall’alto e presuppone che vi siano delle conoscenze che si ritengono essere valide a priori. È una formazione che lavora sempre secondo il principio dello scarto tra quello che non si sa e quello che si dovrebbe sapere; è ispirata tendenzialmente al principio d’istruzione e vista come una sorta di addestramento più che formativa. Nella prospettiva euristica, l’azione formativa fa leva sul principio di scoperta che stimola la naturale predisposizione delle persone a una conoscenza trasformativa del mondo circostante. In questa prospettiva decade lo status di allievo inteso come soggetto passivo del proprio apprendimento che invece acquisisce uno status a sé. Nella prospettiva deterministica il soggetto in formazione impara nozioni e comportamenti la cui validità sarà sperimentata quando uscirà dall’aula a affronterà il suo ambiente reale mentre nella prospettiva euristica le persone sono chiamate a cercare e scoprire da soli le riposte ai propri quesiti, lasciando alla formazione la funzione di accompagnare l’allievo e immergersi nella realtà. La formazione secondo il modello deterministico si affida alla logica dei corsi in aula e quindi al valore della scomposizione in unità didattiche degli obiettivi formativi secondo una logica educativa basata su un metodo deduttivo la logica del metodo deduttivo prevede una didattica che alterna teoria e pratica esercitativa, l’attenzione è sul docente che insegna. Nella prospettiva euristica l’attenzione è spostata sul soggetto che apprende, ai suoi interessi, difficoltà, esperienze e quindi a ciò che facilita il suo naturale processo d’indagine dei significati e delle soluzioni alla base del suo agire nel mondo e alla qualità delle riflessioni che i partecipanti saranno disposti a fare sull’esperienza vissuta. È un imparare facendo e il metodo di apprendimento che lo ispira è quello induttivo, nel quale l’esperienza prende forma e diventa occasione di apprendimento solo quando diventa oggetto di riflessione e il soggetto se ne appropria consapevolmente per comprendere il senso. Affinché produca sapere, l’esperienza richiede ascolto: ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e cognitivi e del feedback(risposta) degli altri se l’esperienza è avvenuta in gruppo. Compito vitale del processo formativo nella prospettiva euristica trasformare l’agire in azioni intelligenti. Coerentemente con la prospettiva della formazione euristica che favorisce l’apprendimento esperienziale fondato sulla partecipazione fattiva dei partecipanti e il loro coinvolgimento attivo, si inserisce la metodologia dell’OT. L’OT contiene una forte dose di realtà con la quale i partecipanti dovranno confrontarsi, è una formazione basata sull’esperienza che riproduce attraverso metafore situazioni che le persone fronteggiano sul loro posto di lavoro. La formazione OT mette al centro l’uomo valorizzandone la possibilità di crescita autonoma. Ogni persona è lasciata libera di decidere fino a che punto coinvolgersi nelle diverse attività e nelle fasi di riflessione e rielaborazione dell’esperienza e aspetta a ognuno fare i dovuti parallelismi con la sua vita reale e concettualizzare quanto ha appreso e inoltre è sempre l’individuo a essere libero di applicare o no i comportamenti appresi. Ciò che l’individuo impara dipende principalmente dall’influenza che esercita su di lui il contesto sociale nel quale è inserito l’apprendimento diventa allora il risultato del processo di comunicazione e dell’osservazione reciproca che s’instaura tra i soggetti che interagiscono. 26 Il principale teorico dell’apprendimento esperienziale su cui si basa la metodologia OT è david kolb -> egli ha proposto un modello di apprendimento in cui svolgono un ruolo centrale l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva dell’esperienza. Il processo di apprendimento ideato da lui viene dal suo modello “ciclo di apprendimento esperienziale” che si articola in quattro stai 1) esperienza concreta 2) osservazione e riflessione 3) concettualizzazione astratta 4) sperimentazione attiva. OT esprime benissimo il ciclo di apprendimento individuato da Kolb e prevede tre macro fasi che ne ricalcano i quattro stai: 1. La prima fase è l’azione: ovvero il momento dell’esperienza concreta nella quale si eseguono le varie attività otdoor 2. La seconda fase e la rielaborazione dell’esperienza messa a disposizione dell’attività cioè il momento dedicato all’osservazione e riflessione di quanto accaduto e alla concettualizzazione astratta che consente di ricavare teorie e principi generali sottostanti che conducono a nuovi modelli di azione da sperimentare 3. La terza fase è la sperimentazione attiva: ovvero trasferire e sperimentare in situazioni nuove gli apprendimenti acquisiti. Nell’ot questa fase significa sperimentare e trasferire gli apprendimenti sia alla realtà lavorativa e sia alla attività che fanno parte del programma di outdoor nelle quali i partecipanti possono sperimentare e allenarsi ad applicare quanto appreso durante le fasi di debriefing. LE ORGINI DELL’OUTDOOR L’OT è la più antica delle metodologie di formazione esperienziale. Nasce nel 1941 a opera di un pedagogista tedesco Kurt Hahn, il quale fonda la prima vera scuola di OT nel Galles. La scuola di “formazione accelerata del carattere”, cosi si chiamava, si rivolgeva ai giovani dell’aristocrazia inglese per sviluppare un carattere forte sicuro di se ed eticamente corretto, ed era finalizzata a operazioni di salvataggio in mare. Egli fondò questa scuola perché era deluso dai comportamenti dei politici del ministro degli esteri tedesco. Chiamerà il programma di formazione accelerata del cataratte “ outwardbound” termine che indica il momento in cui una nave molla gli ormeggi e lascia la sicurezza del porto per affrontare l’ignoto del mare aperto. Questa scuola diventa la prima outwardbound school ed ebbe un successo crescente durante la guerra per l’addestramento dei marinai ma anche successivamente alla fine della guerra come modello educativo e cosi i partecipanti ai suoi corsi non furono più solamente i giovani aristocratici inglesi ma anche manager, i quadri aziendali e poi i venditori delle imprese associate. La scuola offre un percorso formativo strutturato in una serie di attività sfidanti ma nelle quali i partecipanti hanno comunque la possibilità di terminare la prova con successo e attraverso queste conquiste essi scoprono che possono fare un po’ di più di quanto credevano di poter fare. Questa metodologia ha avuto bisogno di espatriare in America prima di avere diffusione anche in tutta Europa e quindi anche in Italia a partire dagli anni ottanta. COS’E L’OUTDOOR L’OT (è il diminutivo di outdoor training)è un metodo esperienziale per la formazione degli adulti che prevede percorsi formativi nella natura, in cui i partecipanti, incontrandosi fuori dai ruoli e dai contesti organizzativi consolidati e rigidi, vivono esperienze di apprendimento coinvolgenti emotivamente, affrontando compiti e situazioni nuove, spesso impreviste, riflettendo su quanto accaduto sviluppando cosi la capacità di apprendere nell’esperienza. Bisogna distinguere tra le varie iniziative che vanno sotto il temine di outdoor, in quanto esiste ancora una discreta confusione fra l’OT inteso come metodologia finalizzata a raggiungere determinati obiettivi di 27 • Flessibilità e cambiamento • [altri temi] IL PROGRAMMA DI UN PERCORSO IN OUDOOR TRAINIG La durata media di un programma di OT è di due/tre giorni consecutivi e questa giornate sono residenziali e la partecipazione è full time. Il programma è composto da 5/6 attività, precedute da una plenaria di apertura e seguite da una plenaria di chiusura alla fine del programma. Le attività seguono una logica didattica che alterna presentazione e svolgimento dell’attività e debriefing. I debriefing rappresentano il cuore dell’opportunità di apprendimento offerta da una metodologia OT. Il debriefing si compone di due marco-movimenti logici: 1) il primo è rappresentato dalla rielaborazione dell’esperienza 2) il secondo dalla razionalizzazione dell’esperienza che deduce principi guida e modelli concettuali alla base delle competenze oggetto di sviluppo e predispone a sperimentare nuovi modelli di azione. I debriefing hanno una durata variabile ma mediamente durano da una a due ore. Durante lo svolgimento delle attività, il tecnico outdoor farà delle foto dei momenti più significativi o delle videoriprese che verranno utilizzate per reintrodurre l’esperienza a distanza di tempo e facilitare la discussione sugli apprendimenti avvenuti e trasferiti sul lavoro. Un progetto in OT può coinvolgere un numero molto variabile di partecipanti tuttavia è importante che ci sia un rapporto di 5/6 persone per ogni consulente che le seguirà. Le persone coinvolte in un OT aziendale potranno rappresentare un gruppo reale nel senso che potranno essere una reale funzione aziendale ma succede sempre più spesso che a partecipare a un progetto in OT possano essere anche persone che non rappresentano un gruppo reale ma che sono coinvolte sulla base di obiettivi di sviluppo personali. IL FOLLOW-UP IN UN PERCORSO DI OUTDOOR TRAINING Nel workshop di follow-un, che in genere dura un giorno, si chiede ai partecipanti di esprimere i loro ricordi, sensazioni e riflesssioni sul percorso fatto durante le gionate di ot-> prevedere un incontro di follow-up è un occsione utile per dare continuità al processo di apprendimento attivati durante l’outdoor e per poter verificare insime i risultati raggiunti. Nel follow-up sono presenti tre momenti fondamentali: 1. Vengono reintrodotte e approfondite le competenze e i comportamenti oggetto di sviluppo durante l’outdoor 2. Segue una fase di riflessione sul gruppo che consiste nella visione di un’ampia campionatura della visione delle videoregistrazioni per recuperare i comportamenti agiti durante le attività e fare collegamenti a situazioni aziendali reali per sottolineare le evoluzioni già realizzate e i nodi ancora aperti 3. Si chiude la fase di gruppo e si passa a una fase individuale nella quale viene chiesto ai partecipanti di rianalizzare i feedback che i partecipanti si sono scambiati durante l’ot. Il follow-up si chiude con una sintesi delle principali riflessioni emerse e la possibilità per i partecipanti di lavorare alla realizzazione di un progetto di sviluppo individuale. QUALI SONO LE FIGURE COINVOLTE IN UN OTDOOR La realizzazione di un progetto in OT presuppone la partecipazione di due figure: 30 a. Il consulente esperto in OT: è un esperto in formazione esperienziale ha la responsabilità della conduzione delle attività ed è un professionista che facilita il processo di apprendimento delle persone, aiutandole a condividere la propria esperienza in forma di dialogo e a rivederla da diverse prospettive. L’obiettivo del consulente impegnato in un OT è l’avvicinamento progressivo del gruppo e di ogni partecipante agli obiettivi formativi che il progetto di prefigge. Il consulente crea un clima di fiducia reciproca tra i partecipanti, in modo che vi sia la voglia da parte di tutti ti condividere le proprie esperienze con gli altri. Il consulente è una presenza silenziosa che agisce da stimolo per il gruppo, il suo stile di partecipazione non sarà direttivo ma lascerà libere le persone di essere in disaccordo con le sue considerazioni o quelle sostenute dagli altri. Il suo profilò dovrà contemplare delle solide conoscenze psicologiche e pedagogiche che utilizzerà per comprendere le dinamiche individuali e di gruppo e per promuovere efficace strategie di apprendimento. b. Il tecnico outdoor: ha la responsabilità della progettazione e della realizzazione tecnica operativa delle attività e della sicurezza dei partecipanti durante l’attività, egli scatta fotografie significative ai partecipanti durante lo svolgimento delle attività e quando è necessario attua anche videoriprese. Ha un rapporto di stretta collaborazione con il consulente. Nel suo profilo professionale sono presenti: capacità organizzative- affidabilità- capacità di prevedere possibili pericoli- discrezione- tempestività- chiarezza nella comunicazione e una capacità di spiccata sensibilità formativa. Inoltre egli deve saper comprendere le dinamiche di un gruppo in apprendimento. COME SI REALIZZA UN OUTDOOR TRAINING: IL METODO I passaggi chiave per realizzare un intervento di OT: 1. Analisi della domanda: obiettivo di questa fase è chiarire e fissare con il committente gli obiettivi di apprendimento su cui si vuole costruire il progetto formativo in OT. Il committente sarà anche titolato a verificare il raggiungimento degli obiettivi concordati, il ruolo del committente è svolto insieme alla consulenza. Per raggiungere l’obiettivo previsto da questa fase i passaggi operativi sono: ■ Intervistare il committente: questo passaggio avviene con una o più riunioni e ha l’obiettivo di identificare le competenze oggetti di apprendimento ma soprattutto i comportamenti attesi o che si vogliono sviluppare attraverso l’OT. ■ Intervistare le persone coinvolte dalla formazione outdoor: questo passaggio ha l’obiettivo di raccogliere da parte dei partecipanti che saranno coinvolti nell’ot il loro percepito riguardo le competenze e i comportamenti target da sviluppare ■ Verificare l’allineamento con la committenza: ?! Le informazioni raccolte in fase di analisi della domanda serviranno per individuare correttamente lo spazio di sviluppo delle competenze e dei comportamenti e per progettare di conseguenza le attività e le metafore più efficaci da utilizzare nel corso dell’OT. Questa fase di analisi della domanda sarà anche l’occasione per spiegare alla committenza e ai partecipanti che cos’è l’ot, come si lavora durante una formazione in OT e quali sono i limiti e le opportunità offerte da questa metodologia inoltre vengono date alcune informazioni sull’abbigliamento informale da tenere duramente il progetto. 2. Progettazione: la progettazione del percorso formativo deve essere ben preparata sia sotto il profilo della scelta delle attività sia sotto il profilo della sequenza delle attività da 31 proporre, quest’ultima deve essere concepita in progressione difficoltà dopo difficoltà dalla più facile alla più difficile. Una buona progettazione deve sempre mantenere un carattere aperto cioè deve prevedere la possibilità di un certo adattamento e cambiamento a seconda degli eventi che possono accadere durante il progetto-> è bene, per tenere un carattere aperto, prevedere un certo numero di attività doppie ma allo stesso tempo diverse nel senso che sollecitano le stesse competenze e comportamenti target. Quando ci si appresta a progettare qualsiasi progetto di formazione, anche per una formazione in OT bisogna prevedere due fasi: ■ La fase di progettazione macro: prevede che il consulente, assieme al tecnico outdoor si confrontino e realizzino due macro-operazioni: 1) la prima ha come obiettivo di individuare quale sia la tecnica più adatta per sviluppare quella data competenza e che rappresenta una metafora credibile per l’esperienza aziendali di quel gruppo 2) la seconda prevede l’identificazione di un percorso ottimale di apprendimento per i partecipanti e in base a questo decidere la sequenza coerente delle attività. Alla fase macro, segue la progettazione micro che prevede tre attività principali: I. La progettazione di dettaglio delle singole attività: consiste nel progettare nel dettaglio i dispositivi didattici che animeranno quella data attività-> la scelta e la progettazione di dettaglio dell’attività permettono di calibrare il percorso formativo ad hoc per ogni cliente, realizzando cosi un buon livello di personalizzazione rispetto ai suoi obiettivi di sviluppo e alle caratteristiche di quel gruppo. II. Il programma delle singole giornate di outdooor: prevede di organizzare la struttura completa delle giornate di outdoor cioè la sequenza delle attività, la scansione dei tempi e le metafore più pertinenti che saranno utilizzate. Le metafore devono avare una struttura simile alle situazioni della vita reale delle persone ma applicate a un oggetto diverso, solo in questo modo potranno essere credibili. Dopo aver deciso il programma si passa alla fase di preparazione logistico- organizzativa. Sarà responsabilità del tecnico outdoor scegliere la location più adatta per seguire le attività, predisporre tutta l’attrezzatura necessaria per il loro svolgimento in totale sicurezza e descrivere l’abbigliamento da avere durante tutto il progetto e per le singole attività. 3. Realizzazione dell’outdoor: la realizzazione dell’outdoor si divide in quattro fasi: a. Apertura: il responsabile dell’apertura è il committente, il quale dichiarerà: gli obiettivi dell’ot, i motivi che rendono importante per questo gruppo e per l’azienda raggiungere quegli obiettivi, le sue attese circa il modo di partecipare alle giornate di OT. Successivamente sarà il turno del consulente che rilocalizzerà nel dettaglio la metodologia dell’ot in particolare: la logica delle metafore isomorfe alla realtà lavorativa dei partecipanti, il meccanismo didattico che prevede di far eseguire a ogni attività proposta una sessione di discussione e analisi ( debriefing) durante la quale verranno esaminate, a livello individuale e di gruppo, le principali dinamiche sviluppatesi nel corso dell’esperienza al fine di trarne le “ lezioni per il futuro” da trasferire sul lavoro e da tenere in conto in vista delle successive attività-> è un passaggio importante perché responsabilizza i partecipanti e essere i principali 32 • Ot ha il pregio di rimettere in moto la capacità e la voglia dei partecipanti di apprendere dall’esperienza e il pensare e il riflettere insieme, l’osservare e l’osservarsi. • Ot allena le persone al gioco delle percezioni reciproche attraverso l’opportunità continua di chiedere e ricevere efficaci e puntuali feedback. • Ot riesce a motivare e a coinvolgere i partecipanti in quanto le attività che vengono proposte sono impegnative, divertenti, stimolanti e si svolgono il più delle volte in un contesto accattivante. • Ot dispone favorevolmente le persone a svelare i lati inediti del loro carattere • Ot fa si che le emozioni che si provano giocando e appassionandosi a un’attività siano un aiuto del processo di apprendimento. ALCUNI ESEMPI DI ATTIVITA CHE SI UTILIZZANO DURANTE UN PROGETTO IN OUTDOOR TRAINING Attività dedicate alla fase di warm-upl’obiettivo di queste attività è quello di fornire ai partecipanti delle occasioni per avviare un processo di socializzazione piacevole e confortevole, attraverso varie esercitazioni di riscaldamento sia fisico che mentale. Attività sulla fiducia reciproca l’obiettivo è quello di sperimentare situazioni che contengano un discreto contenuto di preoccupazioni e di ansia, il cui superamento con successo favorisca un incremento del sentimento di fiducia verso se stessi e verso il gruppo di colleghi. Inoltre, l’obiettivo di questa attività è di far riflettere gli individui e il gruppo sulla qualità del rapporto che si ha con i limiti, con i rischi e con le sfide. Attività di team working obiettivo di queste attività è di creare situazioni di gruppo nelle quali sperimentare le caratteristiche fondamentali del lavorare insieme per ottenere un obiettivo. Mettere insieme le persone nelle condizioni di imparare a gestire le diverse dimensioni che animano un lavoro di gruppo: le dinamiche di conflitto, la frustazione dovuta alle prime difficoltà, la necessità del coordinamento, i processi di comunicazione, assunzione di responsabilità. Cap 30. ROLE PLAY Il termine role play è tradotto in “gioco di ruolo” e descrive un insieme di attività caratterizzate dal coinvolgimento dei partecipanti in situazioni in cui viene esercitata la possibilità di comportarsi “come se”. Sul piano etimologico richiama appunto i concetti di gioco e ruolo: il termine ruolo rimanda al latino “rotulum” che significa foglio arrotolato, all’origine del termine vi è il concetto di teatro e di parte recitata dove, il ruolo e lo snodo tra individuo e gruppo, tra storia personale e sociale. E’ quindi una tecnica di drammatizzazione dei ruoli sociali o organizzativi espressa attraverso una rappresentazione di situazioni prossime alla realtà. Conduttore, uno o più attori impersonano un ruolo e, altri soggetti fungono da osservatori. La tecnica solitamente prende avvio dall’esame in gruppo di una situazione e della successiva simulazione. Il role play è un metodo didattico che valorizza l’esperienza dei partecipanti, in una modalità protetta e sperimentale consente di far emergere comportamenti e atteggiamenti che resterebbero sommersi all’interno di metodi formativi focalizzati su contenuti di natura essenzialmente verbale e privi di coinvolgimento emotivo. Questa tecnica può assumere molteplici configurazioni e abbraccia situazioni che oscillano tra l’osservazione sul campo ed esperimenti in laboratori. 35 DEFINIZIONE: rientra tra i metodi pedagogici attivi, il soggetto viene coinvolto direttamente nel processo di apprendimento attraverso la mobilitazione della loro esperienza unita alla conoscenza diretta delle situazioni simulate. Evidenzia anche la relazione dinamica che caratterizza gli scambi tra formatore/discenti e discenti/discenti che la simulazione rende interattiva e interdipendente. Lo scopo è accrescere le competenze relazionali (ascolto attivo, gestione dei conflitti, comunicazione, gestione di un gruppo di lavoro), con un livello di codificazione che in rapporto ai ruoli e ai comportamenti richiesti può essere più o meno accentuato sul piano della prescrittività e della strutturazione. Viene qualificato il role play, come una simulazione comportamentale in quanto ha una natura artificiale, è una recita allestita in presenza di una sceneggiatura fornita dal formatore dove, il copione, dipende dagli obiettivi di apprendimento OBIETTIVI: il role play quindi rende vivo l’apprendimento grazie agli aspetti di creatività ed identificazione, attraverso la simulazione viene attivato anche l’apprendimento motorio ed affettivo. Con la recitazione si stabilisce anche un ponte tra le parole e le azioni in un contesto protetto e stimolante. La tecnica posiziona gli individui in situazioni e ruoli diversi da quelli soliti e, dà al RP un valore transizionale, come fattore di transizione tra “far finta” e “fare per davvero”. Matwiejczuk ha identificato le caratteristiche essenziali, esse derivano dalla capacità di tale metodo di costituirsi “altro da se” e “come se”: -Cornice originaria: funzionale a dividere gli eventi che avvengono al suo interno da quelli che avvengono nella realtà -Cornice secondaria: attraverso la quale si chiede al partecipante di “comportarsi come se” -Il materiale è rappresentato da un episodio un evento distaccato dal flusso della continuità del reale. Permette a colui che partecipa di agire come se si trovasse in una situazione professionale significativa e, di sperimentarsi in vista di farne un’esperienza realistica. Ovviamente non tutti i partecipanti possono effettuare il role play, per questo è importante sottolineare che l’apprendimento non viene solo dall’esperienza diretta, ma anche dalla simulazione per esaminare tattiche generali di comportamento, vantaggi e svantaggi complessivi dei vari stili relazionali. Si potrebbe anche ipotizzare che, l’attività dei neuroni specchio sia stimolata dalle esperienze di simulazione. In riferimento alla teoria di apprendimento di riferimento, distinguiamo 2 categorie di role play con differenti obiettivi didattici: 1 role play addestrativi: prevale il modello e la prescrizione, sono noti anche come simulazioni addestrative per sottolineare la prescrittività di tali tecniche, tipiche di esperienze di addestramento il cui obiettivo consiste nel far apprendere ai partecipanti regole comportamentali predefinite, funzionali all’esercizio di ruoli che richiedono competenze standardizzate, dove prevale la conformità alle regole stabilite da altri. Operativamente consiste nel far simulare ai partecipanti una specifica e circoscritta situazione per cui è predefinito il modo giusto di parlare e di rapportarsi con l’interlocutore secondo una scansione strutturata. 2 role play formativi: sono simulazioni utilizzate per apprendere comportamenti non prescrivibili in modo preciso ma, criteri di efficacia il cui grado può oscillare tra quelli più prescrittivi e quelli meno prescrittivi basati sulla creatività e riflessività. STRUTTURAZIONE: Shaw e Corsini hanno messo in luce le principali modalità operative di conduzione del role play, il criterio più diffuso per la sua classificazione è rappresentato dal livello di strutturazione del copione predisposto del progettista: informazioni sul contesto fisico, psicologico e comportamentale. 36 Può essere classificato in 3 categorie: strutturato: oltre alla descrizione del contesto e dei ruoli, sono presenti anche indicazioni relative a cosa deve essere detto o fatto nel dettaglio. È molto complesso, può aiutare gli attori e rassicurarli, sul comportamento da assumere, facilita il compito degli osservatori nel cogliere gli aspetti critici. Semi-strutturato: si indica in modo dettagliato il contesto e la situazione psicologica dei ruoli giocati e si accenna il nodo problematico. I copioni sono meno vincolanti, le informazioni necessarie sono quelle atte a inquadrare il contesto fisico e psicologico Non strutturato (libero): si stabiliscono ruoli e contesto lasciando liberi gli attori nell’interazione comunicativa. Non prevede quindi alcuna informazione scritta per gli attori ma semplicemente coordinate generali relative al contesto che, sono fornite dal formatore. E una tecnica che responsabilizza i soggetti sul proprio apprendimento, favorendo l’interpretazione creativa e la libertà espressiva. Il copione però aperto rappresenta di punti di debolezza e delle specifiche condizioni di impiego: la rappresentazione può svilupparsi in una direzione imprevista, il numero dei partecipanti deve essere limitato per non rendere dispersiva la messa in scena, i tempi e le fasi di gioco risultano più difficili da stimare. UTILIZZO: l’uso del role play e la sua efficacia dipendono da fattori: la creazione di una situazione ambientale favorevole, ovvero l’ambiente sociale e psicologico deve essere adeguato, raccogliendo informazioni sul contesto, sulle relazioni presenti tra i membri e sui problemi che i partecipanti percepiscono maggiormente e, capacità di fornire al gruppo le giuste info, in modo tale che essi possano dare significato e direzione all’esperienza. Questi compiti dipendono in entrambi i casi dalla competenza e dalla sensibilità del formatore. Spetta quindi al conduttore spiegare le ragioni e trasmettere l’entusiasmo, da tenere presente nella progettazione è che sarebbe meglio evitare di collocare il role play all’inizio di un seminario ma, inserirli quando il gruppo ha già fatto esperienza di sé. MA COME SI CONDUCE IL METODO DEL ROLE PLAY? Sono dieci le fasi della modalità standard di conduzione di role play: -Presentazione della metodologia: è opportuno enfatizzare l’aspetto strumentale e non valutativo, illustrando la valenza didattica e rassicurando i partecipanti riguardo la riservatezza su ciò che può accadere -Il formatore presenta il tema-problema evidenziando i collegamenti con il tema di apprendimento più generale -L’individuazione degli attori: dovrebbe sempre avvenire su base volontaria evitando forzature da parte del conduttore e proposte di candidature da parte di alcuni membri del gruppo. -Una volta definito i ruoli e consegnate le istruzioni a diversi attori viene assegnato il copione che dovranno interpretare. I restanti membri del gruppo con l’aiuto del conduttore stabiliscono quali aspetti del role play e in vista di quali risultati, grazie all’aiuto di griglie di osservazione e schede di rilevazione. -Fase del warming up: è la fase durante la quale inizia il gioco vero e proprio. Comprende tutte quelle tecniche volte a creare un clima che faciliti l’assunzione di ruolo da parte degli attori. Possono essere utilizzate delle tecniche: cluster warming up: gruppo suddiviso in sottogruppi che dovranno discutere il tema proposto partendo da affermazioni contrapposte – brevi sketch: brevi scene rapide con due o tre partecipanti – interviste a futuri attori: chiedere a chi interpreterà il 37 Che significato attribuire alla parola sé?! Chi si rivolge come un destinatario è gia quel sé agente: scrive perché desidera guardarsi proiettato su una superficie cartacea o di altra natura, come a un altro. Ne consegue che il sé al genitivo, che parrebbe il ricevente dei messaggi, ne costituisce anche l’autore. Chi è infatti che scrive?! Che se non il nostro se dirige l’azione e i processi conseguenti, sceglie parole e frasi, dipana i concetti, li tratta linguisticamente, cosi come farà lo stesso con le emozioni provate e che meritano di essere salvate in poche righe. Il sé è l’insieme della fonte del messaggio e spettatore di quanto il suo doppio va inviandogli. Il soggetto scrivente si educa, educando dallo scrivere e dal confronto con gli esiti del proprio lavoro. Agisce la capacità di sapersi distinguere restando uno nel corpo, di uscire da se stesso e tornarvi per dar conformazione a una seconda figura- a un’altra vita. BILOCAZIONI COGNITIVE: DI Sé O DEL Sé?! Ogni autore si stacca dal sé per diventare l’alter ego nel testo che va redigendo. A dispetto del pronome Sé, la cui S maiuscola indica un ben altro significato: la cui dizione rinvia a concezioni astratte e sostanzialiste, metafisiche; contestate dall’approccio culturale neocostruttivista di cui Bruner è stato il caposcuola. Secondo buber, la nozione di sé esprime il prodotto empirico del nostro racconto, non un’essenza da svelare. Raccontando e scrivendo di noi, creiamo la nostra identità non univoca bensì composita- molteplice-mutevole, decostruendola e ricostruendola nell’incontro con altre storie. La scrittura concorre a ri-mobilitare processi e appartenenze. Il sé si rivela un vissuto narrativo in continua mutazione, poiché l’alter ego che abbiamo creato ci induce a non indulgere nella stabilità del pensiero, bensì nel suo ritrovare la via del moto. Bruner afferma che: non è dato conoscere un sé intuitivamente evidente ed essenziale, che attende di venire rappresentato con parole. Piuttosto noi costruiamo e ricostruiamo continuamente un sé secondo ciò che esigono le situazioni che incontriamo, con la guida dei nostri ricordi del passato e delle nostre speranze e paure per il futuro. Parlare di noi a noi stessi è come inventare un racconto su chi e che cosa noi siamo, su cosa è accaduto e sul perché facciamo quel che stiamo facendo. IL CONCETTO E LE PRATICHE IN UNA STORIA DI EMANCIPAZIONE Questa pratica dello scrivere ha fatto la sua comparsa nelle culture umane più evolute, quando il pronome io inizio ad apparire sulle superficie materiali. Questa pratica è stata frequentata da innumerevoli filosofi, letterati, poeti e biografi però divenne un oggetto d’attenzione e prese a essere esaminata concettualmente soltanto in epoca moderna e contemporanea. Per merito soprattutto della riforma protestante, delle esigenze della borghesia, delle élite illuminate, fu ben presto un genere che accompagnò i viaggi per mare e per terra oltre che di coloro i quali si dedicarono alla conquista di mondi ignoti, dei geografi, degli esploratori, dei pellegrini. Sarebbe quindi un errore ritenere che la diaristica, i saggi introspettivi, le cronache sentimentali era indirizzati soltanto negli ambienti colti e nei salotti letterali. l’individuo grazie a una penna usata per porsi domande e porre domande ai suoi oppressori, andava scoprendosi , contro ogni dogmatismo e tirannia, sia civile che clericale, ulteriormente in grado di raccontarsi in prima persona non come un narratore qualsiasi, ma come pensatore dotato di autogoverno. Il quale non volle essere più suddito, penitente, devoto; il quale per non esporsi ai pericoli capitali vi ci si dedica inventando pseudonimi, doppi sensi, ogni forma di nascondimento -> tutto questo grazie alla penna. Scrittori e scrittici, famosi e dimenticati da ogni cronaca, apprendevano che desideravano diventare padroni della propria storia e a questo scopo avvertirono il bisogno, in età 40 giovanile o in vecchiaia, di raccontarla, sottoponendola a un vaglio a nessun altro affidato che al proprio lavoro introspettivo, anche soltanto per la ristretta cerchia famigliare e amicale. SAPERI E VOCI CONVERGENTI: TRACCE La scrittura non è oggetto soltanto degli studi psicologici e letterari già in antropologia storica Michel Foucault ne ritrovò le prime tracce nel mondo antico meditterraneo e neocristiano per quanto concerne il bisogno di soggettivazione come cura di sé. In quel epoca si trova una cultura di ciò che si potrebbe chiamare la scrittura personale: prendere appunti sulle letture, le conversazioni, le riflessioni che si sono ascoltate o che si sono rivolte a se stessi. Foucault afferma che sono tecniche che avevano lo scopo di legare tra loro la verità e il soggetto. Jacques Lacan, in ambito psicoanalitico, ha mostrato che sollecitare a scrivere i pazienti rappresenti una forma di conoscenza indispensabile per il terapeuta oltre che ha un sostegno all’analisi terapeutica. Maria Zambrano, avvalendosi della parola rivivere, metteva in luce quanto uno scritto a orientamento autobiografico ci consenta di rammentare i nostri vissuti per poterli ritrovare, interpretare, giudicare e quindi coglierne anche tutta la finezza e la dissolvenza poetica. Egli afferma che scrivere di sé è andare a raccogliere ciò che in noi e attorno a noi è noto per riscattarlo dalle oscurità iniziali e dargli occasione di rinascere perché nasca in altro modo, questa volta nel campo della visione. In sintonia con gli studi di Zambrano vi è Aldo Giogio Gargani il quale dice che noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione ma poi c’è una nuova nascita non recepita dall’esterno ed è la nascita che noi ci diamo da noi stessi con la scrittura. L’adozione della scrittura sostiene e porta a termine il compito di auto chiarificazione di ognuno e asseconda le necessità esistenziali di autorinnovamento soggettive. Se l’identità è liquida la scrittura non lo è da meno: rappresenta metaforicamente un galleggiante al quale affidarsi per non affondare, tra le opportunità diverse di cui ci si doti. La scrittura di sé condivisa in internet è espressione di un individuo, per esempio, che non rinuncia a stare individualmente insieme a chi senta il bisogno di radicalizzarsi in luoghi comuni, oltre ogni appartenenza: per creare reti fra loro e condividere intimità e creare comunità virtuali. LA PAROLA AUTOBIOGRAFICA: UN’APPARIZIONE TARDIVA [La parola esito conseguente del secolo dei lumi fu introdotta come vocabolo nuovo dal filosofo tedesco Friedrich von Schlegel nelle lezioni sulla filosofia della vita e del linguaggio tra il 1827.1828.] Nella nostra lingua, sia la dizione scrittura di sé che autobiografia si affermarono lentamente a causa del ritardi inerenti ai processi di emancipazione culturale e sociale della penisola. Non conobbero il consenso popolare, come era accaduto in altri paesi, per le condizioni di analfabetismo specie nelle regioni del sud oltre che per il controllo sulle coscienza esercitato dalla chiesa cattolica. UNA PRESENZA IN OGNI Età DELLA VITA Scrivere di sé da un lato, consente all’autore di prendere coscienza progressivamente della sua situazione psicologica, sociale, civile; dall’altro permette agli osservatori di raccogliere indizi sufficienti per la presentazione di sé nel tempo e non solamente su quel tempo narrato e vissuto. La tendenza a raccontarsi evidenziando l’io narrante appare già nell’infanzia, in relazione ai primi passi nell’arte del leggere-scriver, del pensiero egocentrico: contrassegna, spesso l’apparire di una vocazione destinata a perdurare, gli anni dell’adolescenza, della prima giovinezza. Dove per un io fragile in crescita, disorientato, si rivelerà consolatoria e rasserenante; oppure aggressiva, 41 impotente verso tutto e tutti, anche verso di sé. È però negli anni della maturità o già approdati all’età senile, che il genere autobiografico ci ha lasciato e lascia le prove migliori anche letterarie. L’AUTOBIOGRAFISMO: SPIA DEL DISAGIO E DEI DIRITTI PERSONALI CONTEMPORANEI Autobiografismo-> movimento culturale informale inarrestabile, costituito da ignoti gli uni agli altri; in costante aumento anche per l’introduzione delle nuove tecnologie. Ci si rivolge alla scrittura per reagire alla solitudine, per farsi ascoltare, per reagire a sofferenze fisiche e psichiche, per testimoniare situazioni estreme. La scrittura personale è in rapporto alla seconda metà della vita. Ci si rivolge alla penna quale ne sia lo strumento e il supporto, cartaceo o digitale, per ritrovare quella concentrazione, quel silenzio, quella stanza meditativa che in ogni momento lo scrivere sa offrirci. CHI è LO SCRITTORE DI Sé, CHI PUO DIVENTARE: UN PROFILO Chi scrive è mosso dall’impulso per lo più spontaneo di offrire un resoconto di ciò di cui gli sia accaduto di fare esperienza diretta; in un crescendo narrativo che può muovere dai primi ricordi d’infanzia a quanto la vita gli abbia insegnato e che ritenga utile lasciare per iscritto ad altri; chi scrive è sollecitato a ciò in ragione di emozioni e fatti realmente vissuti. Chi scrive di se vuole: rovistare nella memoria, cercare nessi e trame tra gli eventi, chiedersi quanto abbiano contato le figure più importanti che l’hanno allevato, educato, ostacolato e incoraggiato. Chi scrive di sé è persona appassionata e tenace, sa che occorre molto coraggio e determinazione-> non tutti infatti sono disposti a iniziare una simile impresa; ma chi la comincia e la porta a termine avrà atteso al compito di diventare pienamente donna o uomo. Ogni vita conta se abbiamo saputo raccontarla da soli o se grazie all’aiuto di uno scriba possiamo rileggerla e rivederla. Possono bastare poche pagine a tessete la mappa di un’esistenza, della quale lo scrivente si percepirà esserne l’unico e assoluto titolare. Chi scrive di sé è in dialogo interiore continuo, adotta una modalità solitaria per conoscersi anche quando quei foglio vengano condivisi, quando qualcuno ad alta voce le leggerà al suo posto. Chi scrive di sé genera processi di sviluppo mentale; alcune volte riesce a incidere sulle proprie abitudini condotte cognitive, altre volte amplia orizzonti di senso- si educa a soffermarsi sul dettaglio, sulle cose cui in precedenza aveva attribuito scarsa importanza. Chi scrive di sé contribuisce a risvegliare un amore di sé negato, respinto: ma anche scopre che vive un’opportunità che quasi gli/o le impone di elargirla ad altri. UN METODO PER SPERIMENTARSI PENSANTI Scrivendo di noi, accediamo a varie potenzialità del pensiero non sempre coltivate: l’introspezione si sostituisce alla più abituale autoriflessione; il narrare si vede costretto a mitigare le sue intemperanze loquaci, il ricordare si sottomette al compito di sintetizzare frasi e periodi quando non sarà mai la storia di uno sconosciuto, bensì un argomento di cui occorre rivendicare la assoluta proprietà. Per scrivere si sé occorre pensarle, riesaminare, ricostruire la propria vita. La scrittura di sé accidentale, occasionale, dettata da impulsi temporanei, non è da ritenersi, se non coltivata con continuità, in grado di incidere sulla storia di vita di chi vi si dedichi. Innumerevoli sono le tipologie autografiche e autobiografiche ma non tutte possono essere riconosciute come dotate di un valore formativo. IL LAVORO DELL’IO: TRA ONNIPOTENZA E FRAGILITA Ogni narratore assimila già in relazione alla lingua della quale si serve climi culturali, interferenze epocali, sollecitazioni ideali e morali provenienti dagli ambienti storicamente delimitabili e domestici nei quali si trova a vivere. -> ogni scrittura di sé è collocabile in una temperie storico- sociale e culturale. 42 vissuto. si tratta di una scrittura basata esclusivamente su esperienza percettive, cognitive, emotive. L’autobiografia non è un romanzo di invenzione, mentre può essere attraverso la tecnica dell’autofiction una storia romanzata. LE APICALITA ESISTENZIALI Durante il percorso un ruolo cruciale è rappresentato dai sollecitatori tematici introdotti, da un lato non si tratta che di suggestioni visive, narrative, filosofiche, la cui funzione è volta ad approfondire alcuni momenti della vita, anche critici, dolorosi o viceversa evocatori di momenti sereni, felici, emersi durante il lavoro di recupero, ovvero di archeologia memoriale applicata a se stessi. Questa prevede la scrittura di evocazioni ancora soltanto sensoriali, percettive, sceniche fino a risalire ai ritrovamenti più ambigui, coperti dal dubbio, dall’incertezza. Dallo scrivere descrittivo di episodi, emozioni, eventi si transiterà a sollecitazioni volte a generare una scrittura più riflessiva e meditata, più prudente, più costruita a livello di impegno interpretativo ed esplicativo. SCENEGGIATURE E TRAME Un passaggio cruciale -> dalle liste dei ricordi, dai repertori memorialistici si possa transitare alla costruzione della trama, dell’intreccio, dell’intrigo. Durante questa fase si assiste a un cambio di direzione di alcune mosse cognitive, poiché si chiede al pensiero una trasformazione delle modalità prima adottate che puntavano a suscitare soprattutto il coinvolgimento affettivo in quanto fonte di ricordi obliati prima della scrittura. Ora l’impegno si renderà più personale e sarà affidato alla solitaria ricerca di un modello compositivo adatto a se stessi, alla propria sensibilità per il romanzo, alla propria filosofia di vita. A un’idea di forma narrativa conforme alla rappresentazione della propria vita. Gli scriventi saranno invitati: • A ricostruire la loro intera storia (ordine narrativo e cronologico) • A distinguere in periodi salienti, critici, problematici la loro esistenza (ordine esistenziale) • A stabilire quale genere autobiografico intendano realizzare, tra le varietà prevalenti di carattere introspettivo, genealogico-sequenziale, lirico-poetico (ordine stilistico e compositivo) • A restituire in un insieme il più possibile interconnesso la narrazione della propria storia • A curare i particolari anche i più irrilevanti al fine di arricchire il ritmo della resa narrativa • A connettersi a sfondi di carattere storico-sociale, al fine di collocare la propria storia dentro contesti non solo ambientali, famigliari o communitati ma più ampi: indipendenti dalle vicende narrate dal protagonista e delle quali sia stato attore. L’AUTOFICTION La scrittura autobiografica verrà ad assumere un carattere romanzesco, anche nel suo essere antiromanzo; per la ragione che l’autore metterà in scena eventi, personaggi, sfondi oltre alla propria voce narrante timida o in terza persona-> sarà sempre un testo un’opera riconducibile al genere definito letteratura personale. Costituirà essa un artefatto letterario/ un’impresa nel quale l’autore inseguirà il sogno umano di entrare nei panni di un’altra storia, pur essendo quella narrata di nessun altro se non la propria, la quale assomiglierà a quella nel corpo effettivamente vissuta. DALL’AUTOFORMAZIONE ALLA CONSULENZA AUTOBIOGRAFICA 45 Davanti a una fenomenologia di resistenza, paure che determina l’instaurarsi di una relazione diversa tra il formatore e l’autobiografo. La transizione comporta un cambiamento di postura, il formatore (i cui scopo debbono suscitare autonomia e autoformazione nei suoi interlocutori mediante l’esclusiva attività di scrittura) si assumerà in tal caso compiti a livello di consulenza individuale. Con la conseguenza che occorre istituire un setting di lavoro alquanto diverso, rispetto alle consuete attività informative soprattutto a una cultura di carattere educativo per l’età adulta. Davanti a queste circostanze si è professionalmente costretti a mutare le modalità di porsi e a scegliere il metodo della relazione d’aiuto a due o della consulenza a micro-gruppi (dalle 3 alle 5 persone) garantendo in questo modo un’attenzione diversa a ciascuno, un aiuto che seppur personalizzato si giova anche dei vantaggi degli scambi interpersonali. La scrittura che si definisce in accompagnamento personalizzato e in reciprocità diagrafica è attuabile anche quando ci si trovi in presenza di diagnosi correlate all’abuso di sostanze, alle patologie alimentari, alle depressioni di origine esistenziale grave. Questo intervento si rivela opportuno quando uno sradicamento violento della propria rassicurante quotidianità non consenta di riuscire da soli a sostenere un percorso che richiede una presenza sollecita accanto a sé. Una disponibilità del consulente di intrecciare i momenti interlocutori, discorsivi e di ascolto con il narratore e aspirante autobiografo, con le varie sedute allo scrittoio di carattere autografico finalizzate alla realizzazione autobiografica conclusiva: alla stesura del proprio romanzo dell’io. La consulenza autobiografica consiste nel condurre la persona in disagio esistenziale verso una maggiore disponibilità ad accettare e ad avvicinare le cagioni della sua sofferenza, di cui lo scrivente, oltre al parlarne, svela altri motivi e aspetti non sempre determinabili soltanto con l’impegno della “terapia della parola”. Cap 34. STORYTELLING CHE COS’E LO STORYTELLING Con il termine storytelling si intende l’arte di creare immagini di una storia, di fronte a un pubblico specifico, attraverso le parole-la gestualità- l’utilizzo del corpo e la modulazione della voce. Lo storytelling è un’arte, non già un metodo, un’arte antica affonda le sue radici nelle società orali dove la tradizione, cioè quell’insieme di concetti- valori e regole proprie di ogni specificità società, vanivano insegnati e tramandati attraverso lo storytelling poetico. Poesia era un linguaggio narrativo capace di dare concretezza a concetti astratti attraverso la descrizione di azioni e situazioni create dall’azione. Con i poemi omerici si ha la prima conferma storico-antropologica di come la poesia e lo storytelling siano i dispositivi educativi della comunità greca. In essi si trovano rappresentati gli archetipi dei comportamenti approvati e consigliati. La diffusione dell’alfabetizzazione favori la diffusione di una nuova modalità alternativa alla poesia: la prosa che divenne un nuovo veicolo della narrazione continua e sistematica dei fatti del passato ritenuti importanti per la memoria della specie umana. Bisogna fare una distinzione tra: la storia (history) intesa come resoconto di sequenze di fatti realmente accaduti nel passato e la storia (story) intesa invece come narrazione orale o scritta di vicende immaginarie o verosimili. Alla storia intesa come history viene affidato il compito di conoscere e trasmettere ciò che è veramente accaduto agli uomini in passato attraverso un’attività di ricerca basata su testimonianze-fonti e documenti. Invece alla storia intesa come story, viene attribuita una complessa funzione comunicativa e ricreativa che varia dall’intrattenere, al convincere, all’educare e che si gioca su una dinamica di interazione tra autore e fruitore. Precondizione indispensabile per la creazione di una storia è un patto di collaborazione narrativa tra un autore e un suo possibile lettore, che permette alla narrazione di sottrarsi alla condizione di 46 verità in cambio di un coinvolgimento emotivo, di sorprese. Tutto questo dimostra che lo storytelling riguardi l’ambito delle storie narrate, diverso dall’ambito della storia e del ricercare, e chiarisce come lo storytelling sia essenzialmente un’attività collaborativa con una funzione comunicativa ed educativa. Ma per cogliere la peculiarità dello storytelling occorre esplorare non solo lo sviluppo storico-antropologico, ma anche le basi psicologiche -> gli studi di bruner spiegano che alla base dello storytelling c’è una capacità costitutiva degli esseri umani: il pensiero narrativo e grazie a questo pensiero narrativo gli esseri umani interpretano la realtà, producono significati e li condividono. Bisogna distinguere il pensiero narrativo dal pensiero paradigmatico che è un’altra modalità con cui gli esseri umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo. Il pensiero paradigmatico si basa su un tipo di ragionamento logico-matematico, tende a mostrare il vero in modo oggettivo attraverso un linguaggio regolato dai requisiti della coerenza e della non contradizione- il suo ambito è costituito non solo dalle realtà osservabili, ma anche dall’insieme di tutti quei modi possibili che si possono produrre logicamente e confrontare con le realtà osservabili. Il pensiero narrativo invece si occupa della dimensione soggettiva dell’esperienza umana, si occupa di azioni- emozioni-sensazioni – non tende a porre nessuna verità assoluta. Ci sono persone più dotate di un’intelligenza logica e altre più dotate di un’intelligenza narrativa e questa distinzione comincia già dall’infanzia-> i bambini logici sono più abili a trattare i problemi inerenti al mondo fisico mentre i bimbi sono più portati verso la dimensione personale e sociale dell’esperienza. Ma nonostante questa differenza ognuno è dotato di pensiero narrativo in quanto questo pensiero è un elemento necessario dello sviluppo individuale e culturale. Dal punto di vista dello sviluppo individuale, la narrazione è la modalità principale con cui dall’infanzia fino all’età adulta si sviluppano la mente e l’identità personale. La narrazione serve alla nostra vita psichica sia per organizzare l’esperienza sia per sviluppare e regolare gli affetti. Ciò che non viene strutturato in forma narrativa nella memoria viene dimenticato. La narrazione coinvolge la dimensione affettiva-emotiva del lettore o dell’ascoltatore. (la narrazione non è un semplice resoconto o una lista di eventi. Di solito nelle storie è presente un paesaggio duplice: lo “scenario dell’azione” cioè gli eventi e gli accadimenti e quello della “coscienza” costituito dai vissuti emotivi e gli eventi mentali dei protagonisti-> questi due elementi sono fortemente intrecciato e interconnessi. Accanto alla dimensione psicologica c’è quella della coesione culturale, qui occorre tenere conto che il pensiero narrativo viene arricchito dalle risorse narrative capitalizzate dalla comunità. La capacità di narrare si amplifica e potenzia attraverso i processi educativi e didattici e viene stimolata e sviluppata dell’incontro, durante l’infanzia e l’adolescenza con le grandi narrazioni proprie di ogni tessuto culturale. Per cui il pensiero narrativo che sta alla base dello storytelling e lo storytelling stesso, si pongono come elementi di connessione tra l’individuo e la cultura del contesto in cui l’individuo è immerso. CHE COS’E UNA STORIA La storia è una collezione di fatti, organizzati e ordinati nel tempo che suggeriscono una relazione di causa effetto fra alcuni avvenimenti, vi è una sequenzialità temporale. Dentro a ogni storia vi sono cinque elementi costitutivi: attore-azione-scopo – scena-strumento. All’interno di una scena l’attore compie delle azioni per raggiungere uno scopo servendosi di mezzi appropriati. Fino a quando questi elementi sono in equilibrio fra di loro, la narrazione procede in modo canonico tuttavia qualcosa però può sovrapporsi a questo percorso. In una buona narrazione c’è una fase di processualità normale nella quale le cose si svolgono secondo le attese e poi a un certo punto si produce una rottura in questo flusso di normalità, avviene un imprevisto che crea una situazione di squilibrio facendo cosi deviare il corso delle azioni. Quindi la storia affronta contemporaneamente la canonicità e l’eccezionalità. Ogni storia parla di avvenimenti e di questioni specifiche 47 • Valutarne i risultati STORYTELLING E FORMAZIONE LA COSTRUZIONE DI STORIE NELLE SESSIONI FOMATIVE Se si immagina una sessione formativa d’aula tradizionale, lo storytelling puù essere utilizzato come apertura dell’attività -> un trainer può rompere il ghiaccio raccontando una storia autobiografica o immaginata rispetto al tema di cui si andrà a parlare per creare una relazione empatica con i partecipanti. Oppure si può usare lo storytelling come un metodo per la presentazione dei partecipanti, si può chiedere ai partecipanti di preparare una breve storia che riguarda il proprio nome, le proprie preferenze o passioni, una storia di un proprio successo professionale oppure una storia emotivamente coinvolgente dei passaggi chiave del proprio percorso professionale. Sempre in apertura lo storytelling può anche essere usato come metodologia per valutare le esigenze formative dei partecipanti: in particolare per avere informazioni sulle loro aspettative, sulle loro buone pratiche e sulle conoscenze pregresse rispetto ai temi oggetto di formazione. Lo storytelling può essere usato anche come strumento di visioning e di pianificazione individuale e di gruppo, oppure usato in sessioni esercitative per sperimentar, allenare e potenziare capacità specifiche come la comunicazione interpersonale, la negoziazione, il problem solving, la creatività individuale e in gruppo. Lo storytelling può essere usato anche come momento formativo per incrementare la creatività e la costruzione di un ambiente sicuro per la generazione di idee infine al termine della attività lo storytelling è usato come dispositivo per fissare gli apprendimenti o valutare l’esperienza e questo serve per aiutare le persone a fare sintesi degli apprendimenti e a prefigurarne l’uso nel contesto lavorativo. LO STORYTELLING WORKSHOP Una metodologia di formazione riflessiva diffusa in questi ultimi anni soprattutto nel mondo anglosassone è lo storytelling workshop. Per attivare questo tipo di metodologia occorre: • Identificare gli stakeholder • Favorire lo scambio di esperienze tra gruppi di stakeholder • Esplorare le somiglianze e le differenze per aumentare la reciproca comprensione tra stakeholder Lo storytelling workshop è come un processo relazionale e collettivo in cui gruppi di persone sviluppano conoscenze, rivalutazioni e apprezzamento su argomenti e pratiche. Un processo di storytelling workshop si articola in tre fasi: ▲ La scelta del focus o della pratica su cui si vuole orientare l’intervento: questo significa individuare un tema su cui si vuole generare apprendimento e sviluppare uno scambio di esperienze e di nuove soluzioni. ▲ La raccolta di un’ampia varietà di storie: per raccogliere un’ampia varietà di storie e ottenere quindi un ampio spetto di significati occorre basarsi sul principio della massima varietà, per cui in collaborazione con alcuni soggetti interessati al tema si fa una lista di tutti i possibili stakholder coinvolgibili e si iniziano le interviste; per fare emergere le storie le interviste devono essere conversazioni informali con domande aperte realizzate con uno 50 stile collaborativo; durante l’intervista si chiede all’intervistato chi (oltre a quelli già selezionati sulla lista) potrebbe essere toccato dal tema e cosi si inseriscono nuove voci da ascoltare. Al termine della fase di intervista si è in grado di identificare le storie canoniche cioè quelle che rappresentano la cultura dominante e sono coerenti con la tradizione, ma si è anche in grado di identificare le storie di opposizione cioè le storie proprie della controcultura. A questo punto le storie vengono raccolte in un report e si è pronti per organizzare i workshop ▲ La realizzazione del workshop: ogni workshop dura almeno mezza giornata ed è finalizzato a produrre uno scambio di conoscenze, di riflessioni e una molteplicità di significati e di punti di vista. Partecipano a ogni sessione non più di otto-dieci partecipanti; le sedie sono messe in circolo e un facilitatore presidia il processo relazionale, i tempi e gli obiettivi di ciascuna fase. Le sessioni sono le seguenti: ■ Accoglienza- apertura e finalità dell’intervento: il consulente chiarisce le ragioni organizzative del workshop e le finalità. Chiede il permesso di registrare e spiega l’uso che verrà fatto delle trascrizioni. Inoltre si impegna a far avere a ogni partecipante il report dell’incontro. ■ Presentazioni: ogni partecipante presenta se stesso e un quadro sintetico della propria biografia ■ Lettura delle storie e preparazione delle risposte: ogni partecipante riceve un testo con due storie selezionate dai consulenti tra quelle nelle interviste e tali da rappresentare prospettive contrastanti; il presupposto è che l’apprendimento è innescato dal confronto con differenti prospettive. ■ Racconto delle storie: uno alla volta i partecipanti raccontano le storie integrando con esse il proprio punto di vista e i propri significati; non c’è dialogo ma solo ascolto e ognuno prende nota delle proprie impressioni o risposte. ■ Scambio di esperienze: si attiva una conversazione dove i partecipanti si scambiano attivamente esperienze. ■ Chiusura dell’incontro: ogni partecipante dice ciò che ha appreso e come pensa di poterlo utilizzare nelle settimane successive all’interno del proprio lavoro. Il facilitatore fa una sintesi dei temi che sono stati discussi Al termine di tutti i workshop, la consulenza prepara un report di sintesi che include le storie, i frammenti delle conversazioni e il flusso di significati che sono emersi durante i workshop. Questo collage di storie e conversazioni renderà le persone che poi lo leggeranno consapevoli della ricchezza e della varietà di apprendimenti generati in questo processo collettivo e potrà ispirare e facilitare la progettazione di nuovi azioni gestionali o organizzative. UN FORMAT ORIGINALE DI LAVORO FROMATIVO BASATO SULLO STORYTELLING Un primo passaggio cruciale di un lavoro formativo con le storie sta nel creare uno spazio di consapevolezza tra le persone e le loro storie- creare una possibilità di disidentificazione in cui sia possibile prendere distanza dalla trama e riconoscerla in quanto trama e questo lo si può fare attraverso un lavoro di scrittura creativa, ovvero inventando una storia. Bisogna chiedere alle persone che partecipano all’attività formativa di scrivere una storia che permetta di mettere separare da sé il materiale fluido delle proprie narrazioni inconsapevoli. Al termine del lavoro di 51 scrittura le persone si sorprenderanno della loro capacità di scrivere una storia e si meraviglieranno ancor di più quando chiamati a raccontarla agli altri percepiranno in quelle trame l’eco intima e perturbante della propria soggettività svelata. Il compito del formatore, in questa fase del processo, è aiutare le persone a leggere gli impliciti delle storie, e estrapolare dai racconti i macro-temi significativi. Il secondo passaggio del processo di lavoro formativo consiste nel rielaborare il materiale delle storie introducendo elementi trasformativi ed evolutivi. Si chiede alle persone di scrivere una seconda storia inventata che può essere il proseguimento di quella di prima oppure può essere una storia totalmente nuova e diversa. La seconda storia terrà conto degli elementi di consapevolezza sviluppati attraverso il lavoro ermeneutico di lettura profonda della prima storia e contemporaneamente dei bisogni e dei desideri di crescita che le persone portano con se. Il momento della lettura pubblica della nuova storia ha una dimensione rituale che amplifica il senso dell’esperienza formativa, il compito del formatore è di sottolineare il tema trasformativo presente nella storia e restituirlo come risorsa presente alle persone. L’intervento formativo “storytelling-based” è incardinato su un processo e tale processo prevede quattro fasi: ✓ Scrittura: Scrittura delle storie: il processo viene avviato con la richiesta rivolta a chi parteciperà all’intervento formativo di scrivere una storia che abbia attinenza con il tema che costituisce lo sfondo dell’intervento stesso. una modalità che risulta efficace è organizzare,un paio di settimane prima del workshop, un incontro in cui oltre a condividere con i partecipanti il senso, gli obiettivi e il metodo di lavoro dell’iniziativa di formazione, si fornisce uno storytelling kit contenente specifiche istruzioni su che cosa è una storia e come scriverla. ✓ Lettura/ascolto: nella prima parte del workshop, che in genere dura due giorni, si chiede ai partecipanti di leggere la propria storia davanti a tutti gli altri. Si chiede di dare un valore alla lettura di leggere lentamente con coinvolgimento, presenza e consapevolezza. ✓ Ermeneutica: questa è la fase in cui si guidano i partecipanti nel lavoro di comprensione profonda di quello che è presente nel testo delle loro storie. Il lavoro lavoro costituisce il cuore dell’intero processo e può essere a sua volta articolato in tre momenti: 1) un primo momento in cui i partecipanti , in piccoli gruppi, analizzano le loro storie con l’obiettivo di individuare: temi rilevanti e ricorrenti, valori, emozioni 2) un feedback ermeneutico dei trainer che hanno letto e analizzato tutte le storie prima del workshop e hanno potuto predisporre una restituzione approfondita di quello che è presente, un feedback può prevedere una mappa in cui si possono evidenziare i temi più presenti e quelli trascurati 2) uno spazio di discussione approfondita su quanto emerso ✓ Nuova scrittura e lettura/ascolto: in questa fase si chiede alle persone di scrivere una seconda storia che tenga conto del lavoro svolto fino a qui. Una storia quindi che apra uno spazio per includere e integrare possibili elementi non inclusi nella prima storia per qualche ragione e sono ritenuti importanti perla propria crescita personale e per l’efficacia professionale- chi scrive e racconta questa storia si deve sentire orgoglioso, autentico, felice. 52
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved