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La Geografia delle lingue, Sintesi del corso di Geografia

La geografia delle lingue, G. Barbina. Prof. Ferrari

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 29/04/2020

Roberta.Gaudenzio
Roberta.Gaudenzio 🇮🇹

4.2

(5)

9 documenti

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Scarica La Geografia delle lingue e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! La geografia delle lingue Capitolo I: Geografia e studi linguistici 1.1 I primi rapporti fra geografia e scienze linguistiche Nelle descrizioni geografiche dell’età classica venivano annotate informazioni di tipo linguistico senza però creare un nesso tra la lingua e l’area in cui veniva usata, serviva ad indicare la provenienza o l’origine territoriale di chi parlava. Vennero per la prima volta considerate in un unico sistema di indagine (lingua e territorio) nel secolo scorso, quando i glottologi si opposero ai neogrammatici (estrapolare la lingua da ogni contesto e analizzarla sotto punti di vista formali e strutturali). Questa novità si fece spazio nella linguistica romanza, uno dei suoi primi iniziatori fu il friulano Graziadio Isaia Ascoli, che nei suoi Saggi Ladini, propose un modello di ricerca linguistica storico-geografico e contemporaneamente nacque un altro strumento: la cartografia linguistica. Jules Gilliéron fu il primo a credere nelle potenzialità dell’analisi dei dialetti, infatti, nel 1895 cominciò a registrare su carte geografiche vocali francesi. Il neogrammatico Wenkerl fissò per primo i limiti territoriali sulle carte geografiche. Il primo vero atlante linguistico fu Atlas Linguistique de la France (Gilliéron e Edmont) e nel 1912 venne pubblicata da Gilliéron un’opera intitolata Etudes de géographie linguistique utilizzando per la prima volta l’espressione: geografia linguistica. 1.2 Le origini della geografia linguistica Nascono le isoglosse, linee che separano fenomeni linguistici omogenei da altri (Isoglosse se si stratta di fenomeni lessicali, isofone se si tratta di pronunce; entrambe generalmente chiamate isoglosse). Viene dimostrato che vi è una relazione fra l’espressione parlata e le varie organizzazioni del territorio (Continuità e discontinuità di un fenomeno linguistico dipende dalla continuità o discontinuità dei fenomeni fisici o, semplicemente, da fattori sociali). Però la lingua e tutte le sue sfumature non possono essere racchiuse in schemi troppo rigidi, presentano fenomeni complessi che sono difficili da interpretare a pieno; nonostante ciò, il metodo delle isoglosse ha permesso lo studio dell’evoluzione storica delle lingue (Bottiglioni, 1954, considerava le carte geografiche utili per dimostrare la probabile direzione di una variante linguistica sul territorio) Negli anni ’20 la geografia linguistica venne denominata: neolinguistica; nel 1945 Bartoli propose: linguistica spaziale, con l’intento di sottolineare l’importanza dell’analisi territoriale senza creare equivoci con le scienze propriamente geografiche. Tuttora tra la geografia linguistica (glottologia) e la geografia delle lingue (geografia) sorgono delle incomprensioni riguardo al loro campo d’azione. Breton propone geolinguistica/ geografia delle lingue e geografia delle etnie; Williams chiama geolinguistica tutto ciò che riguarda la geografia delle lingue; Trudgill linguistic geography (studi dialettologi intesi come distribuzione spaziale di fenomeni) e geographical linguistic (geografia sociale). Bartoli fu il neolinguista che sia avvicino di più alla geografia stipulando 5 norme areali, 3 delle quali comprendono la geografia. 1.3 Gli Atlanti linguistici Un atlante linguistico è composto da una serie di carte geografiche di una stessa area che riportano fatti fisici e antropici rilevanti. Le carte linguistiche che formano l’atlante possono essere fonetiche, lessicali e propriamente linguistiche. In ogni atlante vengono toccati punti equidistanti e disposti in modo da saturare il territorio (atlante linguistico francese 638, svizzero-italiano 604, italiano 640, tedesco 45.000). Capitolo II: La geografia delle lingue e le sue basi teoriche 2.1 Lingua e regione culturale Ogni gruppo umano tende ad unirsi in base ai propri interessi, alle proprie capacità e ai condizionamenti dell’ambiente in cui vive ma soprattutto, vivendo in gruppo, al codice linguistico che li accomuna, elemento fondamentale per considerare la comunità/società compatta ed organizzata. Alla base di ogni regione antropica c’è quasi sempre un codice comune di comunicazione che però a volte possono essere più di uno (situazioni di plurilinguismo). L’analisi dell’estensione territoriale di ciascun codice linguistico rappresenta un momento importante della geografia antropica, al di là della semplice individuazione dei vari gruppi umani. La lingua interviene nel momento organizzativo del gruppo sociale e dal comportamento e dalle esigenze di questo gruppo viene modificata ed adattata permettendo al geografo di comprendere la complessa rete di correlazioni che lega più gruppi sociali e l’ambiente. La geografia delle lingue è uno strumento utile per comprendere gli eventi che hanno portato lo spazio ad assumere determinate strutture sociali, amministrative, politiche ed economiche, e per capire i processi che modificano continuamente queste strutture. Delgado de Carvalho fu il primo geografo ad accorgersi che la lingua non è un fatto solamente linguistico; nel 1962 distinse la geografia linguistica dalla geografia delle lingue, alla quale assegnava il compito di analizzare storicamente il formarsi delle aree geografiche delle determinate lingue, mettendo in relazione la nascita e l’evoluzione delle stesse con tutti gli eventi sociali che a queste erano collegati. Inoltre, Delgado fu il primo a dare un significato geografico alla regione linguistica (non più osservata soltanto come spazio di diffusione di un fenomeno linguistico): è una regione culturale, in essa l’aggregazione sociale è massima, in quanto il possesso di un comune sistema di pensiero permette una coesione interpersonale a livello più alto. (Vittorina Langanella, testo sulla geografia delle lingue europee dove mette in evidenza l’importanza dei fatti linguistici per comprendere i motivi della regionalizzazione del territorio e la stretta correlazione tra dati linguistici e dati storici) Non tutti i geografi considerano la lingua un elemento importante, anzi, è vista come un elemento descrittivo, una semplice informazione correlata ad uno stato. 2.2 Popolo e lingua “Popolo” si intende un insieme di individui che hanno un interesse unico da gestire in comune. Questo interesse o progetto sociale può avere un’ampiezza territoriale limitata o interessare un’area vastissima; può essere complesso o presentarsi in maniera semplificata. Ovviamente, 2. Il secondo gruppo (strutture) comprende la cultura non materiale (patrimonio spirituale ereditario del gruppo, manifestazioni folcloristiche, musica, poesia popolare…), le classi sociali e il sistema economico. Il secondo elemento è importante perché con l’esistenza o inesistenza di barriere sociali dipende la circolazione della cultura e l’omogeneità più o meno forte della lingua. L’economia ha un’importanza rilevante in quanto dalla forza del sistema di produzione dipenderà la dinamica culturale e linguistica dell’etnia; 3. Il terzo gruppo (post-strutture) riguarda le istituzioni politiche (partecipazione al potere da parte di settori ampi o ristretti del gruppo), dalla metropoli (centro decisionale) e dalla rete urbana (tenuta e coesione del gruppo). 3.3 Gli elementi dell’etnia Breton ha dimostrato che un gruppo etnico non è caratterizzato solo dalla lingua e dalla cultura. Tutti gli elementi costituiscono un sistema che li lega l’uno con l’altro. Questa considerazione è importante soprattutto in funzione di una politica di tutela, consolidamento o accrescimento, non è possibile agire solo su uno di essi senza prendere in considerazione gli altri. 3.3 Il significato degli etnismi e dei nazionalismi contemporanei C’è difficolta nella comprensione dei termini etnia e nazione soprattutto quando si parla di un fenomeno sociopolitico di grande interesse per l’Europa; etnismo spesso viene confuso con nazionalismo. Il termine nazione è più antico del termine etnia. Tuttavia, oggi con nazionalismo si tende a definire un pensiero sociopolitico nato con la Rivoluzione Francese e sviluppatosi col romanticismo che ha portato alla valorizzazione delle nazioni e alla nascita degli stati nazionali. Secondo Chabod la nazionalità corrisponde ad una individualità storica; etnia, invece, è soprattutto il senso di individualità linguistica e culturale. Mentre alla soggettività culturale non si può rinunciare perché l’appartenenza ad una comunità etnica è un dato acquisito, la soggettività storica è una scelta politica e culturale e pertanto è modificale con l’evolversi del pensiero sociale e politico. La soggettività storica arriva mediante una richiesta; nazione, nazionalismo e stato nazionale sono i tre momenti con cui un gruppo si afferma nella sua autonomia storico-politica. Se non riesce a realizzare lo Stato nazionale, il gruppo nazionale rimane nell’ambito di uno Stato a maggioranza nazionale diversa e costituisce una minoranza nazionale; se invece raggiunge almeno parte dell’autonomia desiderata con altri gruppi nazionali diversi si trova a far parte di uno stato multinazionale ovvero una federazione. È evidente che sono soprattutto le comunità etniche a porre la questione della propria nazionalità e a rivendicare il diritto della propria autonomia politica, in quanto queste comunità più facilmente possono sentire il bisogno di una rivendicazione autonomistica di tipo nazionale. Etnismo e nazionalismo hanno una natura diversa tanto che vi sono molte comunità etniche le quali non manifestano sentimenti nazionalistici perché sono prive di territorio ben definito e suff. ampio o perché sono numericamente poco significative o perché hanno da tempo accettato l’appartenenza a una diversa nazione comune a più gruppi etnici. La differenziazione fra etnia e nazione, etnismo e nazionalismo, comunità etnica e minoranza nazionale è assai complessa. Ciascuno ha una particolare carica espressiva e un preciso impatto con l’opinione pubblica. Ad esempio, è diffuso il preconcetto che per rivendicare una tutela occorra appartenere alla categoria di minoranza nazionale considerata come unico soggetto degno di attenzione ma in realtà è la comunità etnica che deve essere valorizzata e difesa. Nell’Europa postbellica i paesi europei a regime parlamentare si sono avviati a profonde trasformazioni sociali e organizzative che hanno creato vasti processi di integrazione sovranazionale. La realizzazione della comunità economica europea (1993 Unione Europea) ha permesso un salto psicologico e materiale nel cammino verso il superamento dell’idea tradizionale di stato, inteso come contenitore politico-amministrativo di popolazioni, rigido e quasi sempre poco permeabile. Scarsi furono i progressi realizzati per la valorizzazione dei particolarismi culturali (visti come ostacolo per lo sviluppo economico). Negli anni del benessere l’Europa occidentale a partire dagli anni 60 ha visto un notevole sviluppo dei movimenti etnici che sono diventati rilevanti fatti politici e vi sono diverse chiavi di lettura: 1. Alladart: negli stati moderni democratici la possibilità di gestire direttamente sia aiuti economici che servizi di vario tipo ha fatto aumentare il numero dei soggetti che si propongono per questa gestione, e fra essi quelli che hanno più titolo e che più facilmente si possono aggregare attorno alle loro posizioni il consenso della massa sono i gruppi che trovano un motivo di bandiera in una lingua minore o in una situazione socioculturale rimasta trascurata (non suff. ad inquadrare storicamente il problema); 2. Marx: interpreta i movimenti etnici secondo la logica della lotta di classe. I gruppi etnici minori sono le classi subalterne oppresse dalle classi dominanti e così le loro rivendicazioni rientrano nello schema più generale della lotta di classe. Ciò è inaccettabile in quanto una comunità etnica non corrisponde ad una classe sociale in quanto è composta da coloro che si identificano per mezzo di una cultura e lingua in comune; è però realistico che magari potessero trovarsi in una situazione economica svantaggiata; 3. Mayo: i gruppi etnici sono il risultato dell’attuale malessere politico e sociale dell’Europa contemporanea; poiché l’uomo è un essere sociale per necessità esso è riportato a ricercare sempre nuove forme di aggregazione sociale per trovare sempre un’identità comunitaria; l’uomo ricerca oggi con più forza nel suo patrimonio culturale un motivo di identità, sviluppando così l’etnismo e esasperandolo fino al nazionalismo 4. Etnismi di oggi come fenomeni analoghi ai movimenti nazionali del XIX secolo: ma, in realtà, la rivendicazione nazionalistica rivendica il diritto di una comunità a diventare stato o ad essere politicamente autonomo mentre la rivendicazione etnica sorge per impedire che una comunità perda la sua identità culturale; 5. Ultima e più probabile interpretazione: oggi le comunità etniche minori, quando non coincidono con la nazione dominante nello Stato in cui vivono, avvertono il pericolo della loro scomparsa in quanto entità culturale e della loro alienazione (la cultura di massa). La reazione di oggi non è pertanto una ricerca di individualità di fronte alla storia, cioè nazionalismo, ma piuttosto la difesa della propria soggettività culturale. Gli etnismi di oggi non rappresentano un pericolo per l’integrità degli stati nazionali e vanno osservati come una richiesta di difesa di patrimoni culturali e linguistici in pericolo di scomparire. Il problema dell’alienazione culturale è avvertito soprattutto da quelle comunità che sono portatrici di valori spirituali più originali e più profondi e che sono depositarie di un patrimonio culturale di grande importanza per tutta la cultura occidentale. Ma una seria ed efficace politica di tutela di questo patrimonio non può essere fatta senza aver prima inquadrato con precisione il significato e le motivazioni della richiesta di tutela. Capitolo IV: Lingua e società 4.1 I diversi usi delle lingue La vitalità di una lingua e la sua capacità di affermarsi sul territorio dipendono da molte cause; una di queste è la sua attitudine a essere utilizzata nei diversi momenti della vita sociale. Il latino in epoca classica era lingua tribale, nazionale, vernacolare, coloniale, internazionale, di comprensione per gli immigranti, diplomatica, scientifica e liturgica e per questo era una lingua scritta e codificata e in continua espansione; dal latino nacquero le parlate romanze e da quel momento rimase solo come lingua liturgica nell’ambito della chiesa cattolica romana e come lingua sapienzale e scolastica ed è diventata così una lingua priva di vitalità. Un altro esempio è l’aramaico, lingua veicolare internazionale per un’area molto vasta nelle regioni del mediterraneo orientale e lingua officiale dell’impero persiano; oggi è una lingua usata in piccoli villaggi della Siria e come lingua liturgica da una piccola comunità cristiano-caldea del Vicino Oriente. L’uso più importante della lingua è sicuramente quello religioso ma è il più statico. Una lingua utilizzata nelle funzioni amministrative possiede un’effettiva capacità di agire e di incidere sulla vita sociale e privata da parte di un sistema di governo, un’amministrazione insufficiente coinvolgerà nel suo fallimento anche la lingua mentre se è valida contribuirà a diffonderla. Il caso dell’inglese in India durante e dopo la colonizzazione britannica che si è inserito rapidamente al di sopra delle lingue locali come veicolo per esprimere non solo le necessità di un unico potere centralizzato ma anche creare coesione culturale e nazionale all’interno dell’India. Una lingua diventa nazionale quando ad essa viene affidato il compito di aggregare attorno un unico ideale di nazione comunità sono sensibili a una visione comune e condivisa del proprio destino storico: si individua una parlata come lingua nazionale, viene imposta con provvedimenti legislativi come lingua obbligatoria per tutti i campi. L’uso commerciale è uno dei più poveri della lingua, perché i codici linguistici possono essere semplificati al massimo per favorire la comprensione immediata. L’uso culturale e scientifico è legato alla capacità di chi parla quella lingua di elaborare e trasmettere messaggi culturali e informazioni scientifiche: un popolo detentore dell’evoluzione culturale e del sapere in un certo periodo storico impone la sua lingua come strumento per trasferire le innovazioni (greci, latini, arabi, italiani…). L’uso diplomatico nasce da accordi internazionali, a loro volta determinati dalla situazione di potere nel momento in cui questi accordi sono stati ratificati, mentre quello scolastico dalla volontà politica di favorire una determinata lingua nell’insegnamento per mancanza di maestri, strumenti e sussidi didattici in una lingua diversa. (Situazione linguistica del Regno di Italia dopo il 1861). Un caso particolare sono le lingue nate per una esigenza comunicativa che inizialmente erano semplificate al massimo e col passare del tempo acquista sempre più strutture complesse; una lingua franca che col tempo ha cambiato valore è il Kiswahili (x secolo) nata come lingua di contatto commerciale tra le popolazioni bantu della costa africana dell’Oceano Indiano, fra Mombasa e Capo Delgado, e gli arabi che giunsero in questi porti per i traffici commerciali. Si diffuse rapidamente penetrando verso il cuore dell’Africa, nella zona dei grandi laghi e divenne presto lingua di comunicazione fra tutte le svariate popolazioni bantu. Durante la colonizzazione tedesca del Tanganica il Kiswhili venne adottata come lingua amministrativa e se rappresentare nella sua estensione solo la lingua ufficiale o tutte le varietà regionali (quasi sempre impossibile, bisogna fermarsi ad un certo numero di varietà) 2. La scala: è difficile che si possano ottenere risultati utili con scale di scarso dettaglio, perché si perderebbero un gran numero di situazioni linguistiche (abbastanza frequente in quanto le comunità etniche sono sparse in tante piccole isole linguistiche, che rappresentano gli ultimi rifugi delle popolazioni che ancora mantengono viva una cultura minore) 3. Dati da utilizzare per rappresentare il fenomeno linguistico: sia il censimento sia la carta saranno ufficiali ma entrambi sono poco attendibili (le carte portano con sé il particolare punto di vista e la visione ideologica di chi le ha elaborate) 4. Il momento che si vuole raffigurare: i fenomeni linguistici, come quelli umani, mutano. Risolti questi problemi elencati, rimane da scegliere la tecnica per disegnare questa particolare carta tematica. Il problema della relazione fra realtà e rappresentazione risale ai primi tentativi di raffigurare qualcosa, le dimensioni spaziali sono due mentre la realtà è multidimensionale. Le carte, fisiche e politiche, rappresentano fenomeni immobili in un breve periodo, le carte tematiche vogliono mostrare i fenomeni sociali e non possibile offrire un lavoro attendibile su dei dati che cambiano continuamente. Un’altra difficoltà è quella dei confini delle aree linguistiche, non possono essere rappresentati con una linea perché sul territorio non esistono divisioni nette. (Problema nel raffigurare aree bilingue o plurilingue; come agganciare il dato linguistico ai dati demografici). Una carta linguistica attendibile è così un’ispirazione che solo raramente viene realizzata in modo soddisfacente, hanno un’utilità molto limitata sotto il profilo scientifico e didattico (scopo politico), Un caso interessante è la carta che venne ideata nel 1987 dall’European Bureau for Lesser Used Languages, un ente che opera per la difesa delle comunità linguistiche minori della Comunità europea e col finanziamento del CEE, e per realizzarla venne formato un comitato internazionale di geografi ed esperti di problemi linguistici. La carta avrebbe dovuto avere una natura sociolinguistica e mostrare le aree dove. 1. le comunità linguistiche minori usavano ancora la loro lingua 2. i confini degli stati della comunità e delle suddivisioni amministrative interne dovevano essere posti in evidenza 3. le aree bilingue dovevano essere segnate 4. se disponibili i dati statistici sulla percentuale dei parlanti la lingua minoritaria bisognava segnalare questo valore con una scala di sfumature di colore usato per quella lingua 5. i toponimi dovevano essere usati con moderazione e nelle aree delle lingue minoritarie utilizzando la grafia della lingua locale. Il comitato dovette affrontare tre ordini di problemi: 1. teorico-ideologico: bisogna definire cosa i intende per lingua minoritaria e decidere se segnare l’area storica di questa lingua oppure l’area attuale; 2. natura informativa: non sempre si hanno dati attendibili; 3. ordine tecnico: fra essi quello più serio era quello della scala. Il comitato arrivò alla conclusione che era impossibile realizzare questa carta raggiungendo tutti gli obiettivi prefissati. Capitolo V: Le regioni etnico-linguistiche 5.1 Il territorio etnico Il territorio abitato da una comunità etnica non è sempre percepito dai componenti della stessa con la medesima intensità. Nell’ambito della patria etnica la memoria storica e la sensibilità culturale della comunità trovano riferimenti e risposte di segno non sempre uguale (alcuni parti di territorio possono avere un significato spirituale). Per definire la diversa intensità della etnicità dello spazio geografico può essere utile il parallelismo fra il territorio etnico e quello di uno stato che si è costituito partendo da un nucleo territoriale centrale (core area) e da qui si è allargato di più o di meno a seconda delle sue fortune politiche ed economiche. Il concetto di nucleo centrale nell’area di uno stato può essere applicato anche al territorio etnico: si può, infatti, individuare un nucleo centrale dove sono collocate le forze ideali da cui ha avuto origine quella cultura. Un modello di regione culturale analogo a quello del Pounds viene proposto da Donald Meing che ha individuato il nucleo centrale o core nell’are più densamente e anticamente popolata da chi appartiene a quella cultura. Attorno al nucleo centrale si trova l’area di dominio culturale, ossia il territorio dove quella cultura risulta dominante, anche se con minore influenza, rispetto ad altre presenti accanto alla principale. All’esterno del dominio possono trovarsi importanti gruppi di persone appartenenti a quella cultura in piccoli territori chiamati serie di influenza della cultura medesima, a volte isolati in ambiti dominati da una cultura diversa. Nel suo modello, Meing, ipotizza sfere di influenza anche molto staccate dal nucleo centrale e dal dominio in conseguenza delle migrazioni e della colonizzazione. Questo modello si presta bene per la comprensione della dinamica geografica del territorio etnico: 1. il nucleo centrale è quello percepito dalla psiche e nel sentimento comune come il territorio patrio e, di norma, quello in cui la lingua etnica possiede maggiore forza ed è meno intaccata da influenze esterne; 2. mentre il dominio è quello del contatto con altre culture nel quale avviene un continuo confronto e dove l’interferenza con esse richiede una costante verifica competitiva del valore della propria cultura; 3. le sfere di influenza o sono residui più resistenti di un nucleo centrale un tempo più allargato e poi intaccato da una cultura diventata più forte o sono aree in cui parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale è andata ad abitare stabilmente, trasferendovi l’impronta della propria cultura etnica. 5.2 La regione culturale La regione culturale è caratterizzata non solo per la presenza al suo interno di una comunità dotata di una sua propria e originale espressione culturale ma anche perché sul suo territorio si avverte l’impronta sia dei prodotti sociali della cultura sia dei prodotti materiali che danno forma non casuale al paesaggio. Certamente la conservazione della lingua è sentita dalla comunità etnica come condizione fondamentale per il mantenimento della propria identità, ma anche il legame col territorio viene percepito come qualcosa di irrinunciabile. Per rafforzare il legame spesso si assegna al territorio una valenza religiosa. Il popolo dogon, nel Mali, vive da alcuni secoli in una serie di villaggi sistemati in posizione difficilissima, quasi irraggiungibile, nei punti più impervi della scarpata di Bandiagara. Inizialmente per difendersi dall’invasione islamica, costruendo un’organizzazione sociale di particolare validità, con distribuzione di compiti e funzioni, per cui tutti i villaggi hanno un grado di cultura veramente notevole, che si esprime in una bella produzione di manufatti artigianali… Anche le comunità etniche europee tendono a consacrare il loro territorio, con la costruzione di santuari che assumono molto spesso una valenza aggiuntiva rispetto a quella puramente religiosa in quanto diventano luoghi di riferimento della cultura etnica. Così le comunità friulane emigrate in Argentina alla fine del secolo scorso hanno costruito alcuni elementi caratteristici del Friuli centrale e gli immigrati siciliani a Manhattan hanno creato attorno a Mulberry Street una Little Italy che assomiglia a un centro urbano minore della Sicilia. 5.3 I confini dei territori etnici Poiché la coscienza del proprio territorio è un dato importante nella vita della comunità etnica, anche il modo in cui il suo confine viene percepito assume una grande rilevanza. La determinazione esatta di un confine etnico è troppo spesso un’impresa irrealizzabile e la zona di contatto può anche diventare un’area di scontro fra comunità differenti. Proprio a causa di questa possibile conflittualità ogni comunità etnica cerca in genere di rafforzare la percettibilità del limite del suo territorio, e di marcarlo in modo da rendere difficile sullo stesso ogni possibile contestazione. È infatti nella zona di transizione (fra due aree linguistico-culturali differenti) che nascono le contestazioni più violente, in quanto la difficoltà di separare nettamente le due regioni culturali lascia aperta a soluzioni di vario segno: rapporto di reciproca tolleranza o rapporto conflittuale. I confini etnici non coincidono necessariamente con quelli politici, che per loro natura sono definiti sul terreno e hanno un carattere di ufficialità. Cartwright mostra come le fasce di contatto fra due culture sono fonte di contestazione territoriale e finiscono poi alla fine per essere assorbite dall’espansione delle culture dominanti. Oggi le cose non vanno sempre come descritte da questo modello di Cartwright. Capitolo VI: Lingue e azione politica 6.1 I processi di acculturazione e deculturazione La fascia di contatto fra due aree linguistiche non è quasi mai stabile nel tempo: solo se il confine linguistico si appoggia a precise barriere fisiche che impediscono o rallentano l’effettivo passaggio dalle persone essa assume un carattere di fissità; ma se fra le due regioni esiste uno scambio di informazioni, di merci, di servizi e di persone, allora la pressione linguistica si fa sentire nella direzione del gruppo più forte verso il gruppo più debole. Il processo di conquista territoriale di una lingua può avere cause indipendenti da una precisa azione di pianificazione culturale o può essere la conseguenza di atti e di provvedimenti espressamente finalizzati all’espansione dell’area linguistica. Nel primo caso, più frequente, bisogna distinguere fra la processualità della conquista territoriale e le cause della stessa. La 6.4 La tutela delle lingue minori Nell’epoca attuale l’accelerazione del processo di trasformazione della società e delle forme di organizzazione economica e il continuo progresso delle tecnologie per la trasmissione di idee e info hanno messo in pericolo i patrimoni linguistici di molte comunità. Queste lingue in pericolo vengono definite come minori o minoritarie per essere vengono richieste forme di tutela e di protezione allo scopo di impedire la decadenza e la scomparsa per salvaguardare con esse il patrimonio di cultura e valori spirituali e sociali di cui sono l’espressione più viva e autentica. Per evitare che una lingua decada bisognerebbe seguire il concetto di rivitalizzazione esposto da Breton ma mentre agire dal punto linguistico sembra facile è chiaramente impossibile modificare con provvedimenti legislativi e amministrativi situazioni che riguardano ad esempio il trend demografico o l’organizzazione sociale. E senza intervenire anche su queste dimensioni il processo di decadenza non può essere invertito. La tutela delle lingue minori è quasi sempre una semplice dichiarazione di democratica buona volontà ma raramente raggiunge i risultati per cui è stata messa in atto. Capitolo VII: lingue nazionali e lingue minoritarie in Europa 7.1 La frammentazione linguistica europea L’unica classificazione certa che possiamo dare a un certo numero di lingue è quella di ufficiale, in quanto questa qualità è assegnata con un provvedimento legislativo e dunque non può essere contestata. L’origine storica della frammentazione linguistica europea va ricercata sia nelle caratteristiche fisiche di questa parte del mondo che nelle vicende del popolamento. La cellularità fisica dell’Ue è dovuta a vari fattori. Le lunghe catene montuose nella sua sezione meridionale fanno da ostacolo al movimento delle persone e hanno contribuito con la loro presenza ostile a indirizzare forzatamente su direttrici precise di itinerari commerciali e culturali dell’Ue antica. Su questo quadro ambientale così vario si sono sovrapposte le complesse vicende del popolamento da parte delle genti indoeuropee che hanno occupato prima gli spazi più fertili e poi hanno organizzato tutto il restante territorio. Entro queste grandi regioni linguistiche le popolazioni europee si sono lentamente differenziate nei vari linguaggi e nelle diverse espressioni culturali: e queste aggregazioni umane sempre più omogenee per lingua e cultura hanno alimentato la nascita di movimenti che hanno raccolto le diverse aspirazioni nazionali e hanno formato, disfatto e riformato l’insieme degli stati europei. Le popolazioni più forti e più unite sono riuscite a costruire stati ben caratterizzati sia sotto il profilo linguistico che culturale mentre i gruppi minori si sono inseriti in vario modo subendo o accettando la situazione di predominio culturale che veniva imposta. L’Europa degli stati nazionali si presenta come un insieme di unità politiche che hanno una netta dominanza di una sola lingua ma che contengono sul loro territorio gruppi linguistici minori o frammenti di quelle comunità etnico-linguistiche che hanno resistito all’assorbimento e che sono riuscite a mantenere una loro identità espressiva e culturale. Le aree dove la frammentazione è maggiore e dove la coincidenza fra stato e comunità etnica è minore sono quelle in cui i lineamenti fisici del territorio non hanno favorito grandi coaguli culturali o quelle dove le vicende storiche hanno spostato continuamente i confini politici imponendosi con alterne situazioni sulle popolazioni che li abitavano. Solo di recente l’Europa sembrava orientata a chiudere una questione che ha certamente avvelenato la storia: alla prima conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki, 1975) gli stati europei avevano dichiarato di non voler dar spazio a rivendicazioni territoriali basate su considerazioni di tipo nazionalistico e di non fare guerre per il pretesto di tutelare o riaggregare un gruppo minoritario. Nello stesso tempo si è affermata in Europa la coscienza che le cosiddette culture minoritarie vanno tutelate in quanto patrimonio dell’umanità. Ma nel 1989 in coincidenza con il crollo dei regimi totalitari dell’Europa dell’est sono riaffiorati con estrema violenza i fermenti etnici e il nazionalismo: tutto questo ha provocato la nascita di nuove entità politiche. Le parlate usate negli stati che occupano lo spazio europeo sono moltissime: solamente nei territori dell’ex unione sovietica le lingue utilizzate sono almeno 130 con 5 alfabeti diversi. Ma solamente 11 stati (1990) ammettono ufficialmente il plurilinguismo mentre gli altri 22 si dichiarano ufficialmente monolingui pur riconoscendo la presenza di comunità alloglotte. (Rapporti internazionali difficoltosi all’interno dell’Europa) In Europa gli stati effettivamente monolingui, se si escludono il Portogallo e i due microstati italiani, non esistono. Capitolo VIII: Lo scontro fra le lingue celtiche e le lingue germaniche nelle isole britanniche 8.1 Le lingue celtiche Nel secondo millennio a.C. i celti si spinsero ad occupare tutti gli spazi a nord della catena alpina. Deboli numericamente e divisi in tanti gruppi, pur dotati di una cultura ricca e viva di espressioni spirituali non riuscirono mai ad affermare la loro presenza in Europa. I latini dal sud e i germani dall’est verso la fine del primo millennio a.C. occuparono i territori celtici imponendo le loro lingue. (Ad Hallstatt e La Tène dimostrano le dimensioni del loro vasto territorio colonizzato) Le isole britanniche hanno rappresentato il rifugio più sicuro delle lingue celtiche: qui nel 55 d.C. (invasione romane) potevano essere distinte in britico e goidelico. Da queste due parlate principali sono derivate il gallese, il cornico e il bretone (britico) e gaelico irlandese, gaelico scozzese e il manx dell’isola di Man (goidelico). Queste lingue nel corso del tempo si sono sviluppate e a partire dal X secolo hanno dato vita a differenti coscienze etniche. Mentre il cornico ha cessato di esistere dal XVIII secolo a causa della predominanza della lingua inglese sulla Cornovaglia e il manx non è più una lingua d’uso, le altre lingue celtiche hanno opposto una forte resistenza al processo di acculturazione da parte dell’inglese e, per il bretone, del francese. 8.2 Il gaelico scozzese Il gaelico scozzese ha cominciato ad essere la lingua maggioritaria del paese a partire dal III secolo d.C. dove si affermano le dinastie locali, il potere militare e organizzativo di Dalriada e col crescere del prestigio ecclesiastico di Iona, isola delle Ebridi interne dove San Colombano eresse nel 563 un monastero divenuto centro della cristianità. alla fine del medioevo la lingua degli angli cominciò a sopraffare la parlata celtica e l’area d’uso del gaelico iniziò a contrarsi sotto la spinta della nuova lingua. L’inglese si impose come lingua di prestigio e divenne poi lingua dell’amministrazione e dei rapporti commerciali; l’antica parlata della Northumbria, affine all’inglese, era utilizzata dalla gente comune come lingua veicolare. Dopo l’unificazione della Scozia all’Inghilterra, nel 1707, e con la sconfitta di Culloden il governo di Londra promulgò le leggi anti-gaeliche che proibivano l’uso della lingua ma anche tutte le altre manifestazioni della loro cultura; a questa nuova linea aderì la Society in Scotland for propagating Christian Knowledge il più importante ente di cultura religiosa presbiteriana (1716, stabilì che l’inglese era l’unica lingua degna per la liturgia). Quando queste leggi vennero abrogate nel 1782 la cultura gaelica era in declino. Il gaelico scozzese riuscì a resistere dove i poteri locali rimanevano saldamente in mano alle famiglie del posto o dove le chiese locali riuscivano a organizzare scuole e centri di cultura nella lingua celtica. Solamente alla fine del secolo scorso vennero presi i primi provvedimenti per consolidare la lingua nelle aree dove essa era ancora viva. Nel 1872 venne accordato un provvedimento che consentiva l’insegnamento di questa lingua nelle scuole delle aree dove vivevano monolingui. L’area ormai gaelica era ridotta all’area nordoccidentale (Highlands e Ebridi) cioè nelle zone più povere e lontane dai centri urbani scozzesi. Il turismo esteso anche a questi territori ha quasi finito per distruggere la lingua gaelica. Nel 1981 i parlanti del gaelico ammontano a 9.30 mila alle quali si devono aggiungere 3000 persone che sanno leggere e scrivere ma non parlarlo. Oggi le aree dove si trova la maggior concentrazione di persone in grado di parlare il gaelico scozzese sono il distretto delle Ebridi esterne e tutta la regione amministrativa degli Highlands e quella dello Strathclyde. La comunità gaelica di Glasgow sembra ormai scomparsa. Il gaelico scozzese è ormai avviato verso la morte, il confronto con l’inglese è impossibile da sostenere. 8.3 Il gaelico, lingua nazionale nella Repubblica d’Irlanda L’altra lingua celtica del gruppo goidelico è il gaelico irlandese. Prima dell’indipendenza concessa dagli inglesi nel 1921 dopo una lunga lotta di liberazione del popolo irlandese contro gli oppressori, le condizioni della lingua gaelica erano già da tempo preoccupanti. Il lungo periodo del dominio inglese aveva visto una continua penetrazione della lingua dei dominatori. Poiché la lingua gaelica era anche la lingua della forte tradizione cattolica irlandese, gli inglesi cercarono in tutti i modi di combatterla. Nel 1851 venne effettuato il primo censimento alla vigilia della Grande Fame. In quell’anno i parlanti irlandesi erano il 25% della popolazione dell’isola e per di più questo milione e mezzo di monolingui o bilingui era costituito dalle classi isolane più povere. Il declino della lingua celtica si era accelerato a partire dalla fine del XVIII secolo. Nel 1891 il gaelico irlandese era ormai scomparso in quasi tutto il Leinster e dall’East Ulster mentre aree con percentuali di parlanti gaelico superiori all’80% si potevano trovare nei tratti costieri del Connacht, parte occidentale dell’isola. Questa situazione critica aveva provocato la nascita della Lega Gaelica fondata dal 1893 con lo scopo di sostenere la lingua sull’isola. L’attività della lega ebbe un gran risultato politico. Al censimento del 1901 solamente 641mila erano in grado di parlare gaelico, e questo fatto era percepito dagli irredentisti e dagli intellettuali come un risultato dell’oppressione politica ed economica degli inglesi. Così con l’esclusione di 7 contee dell’Ulster, divenne indipendente, fra i primi provvedimenti presi dal nuovo stato ci furono quelli per la restaurazione della lingua gaelica che venne proclamata ha creduto utile instaurare un bilinguismo ufficiale ma non c’era bisogno in quanto la popolazione è monolingue spagnola. La comunità autonoma della Galizia ha eletto il gallego lingua ufficiale insieme allo spagnolo (80% bilingue). L’area della lingua basca in territorio spagnolo gode di alcuni privilegi solo nelle tre province che costituiscono la Comunità autonoma del Paese Basco (o bilingue o monolingue spagnolo). Il catalano è ufficiale nella catalogna, nella comunità valenciana e nelle Baleari. Ma è soprattutto nella Catalogna, a Barcellona, che la lingua catalana attinge ancora la sua vitalità e trova la forza per continuare ad essere lingua moderna e attuale della cultura. 9.2 La lingua francese contro le lingue minori La lingua francese è stata vista sempre come un elemento essenziale della nazione. Questa identità assoluta fra lingua, nazione e stato, unita ad una visione centralizzata del potere non è mai stata messa in discussione e oggi continua a improntare di fatto tutta la politica culturale dello Stato e ad alimentare una concezione egemonica della lingua e della cultura francesi. Ha sempre considerato tutte le comunità allofone come situazioni di anomalia culturale, da eliminare attraverso l’introduzione della civilizzazione francese. La Francia ha considerato le popolazioni del suo vasto impero coloniale come soggetti a cui fare dono della sua lingua e cultura. Ne è conseguita una particolare politica linguistica. Assimilando anche popolazioni che non avevano alcuna intenzione di assorbire anche la lingua e la cultura dei loro dominatori. Questa doppia azione linguistico-culturale ha permesso una estensione geografica vastissima e solida dell’area dove si parla la lingua francese. Réclus coniò un termine nuovo: francophonie. L’area francofona al di fuori dell’Europa comprende parte del Canada e delle ex colonie francesi e belga. (Leopold Sedar Senghor) È difficile dire quanti siano oggi coloro che abitualmente parlano francese nel mondo ma l’effettiva rilevanza del francese non sta tanto nel numero dei parlanti quanto nell’importanza dei momenti in cui essa viene utilizzata. Divenne lingua diplomatica al congresso di Vienna (1815) e al congresso di Versailles (1919) ha dovuto cedere il suo privilegio all’inglese (Presidente degli stati uniti, trattato di pace). Essa rimane lingua coufficiale di tutte le più importanti organizzazioni internazionali. Essa è inoltre lingua ufficiale assieme ad altre lingue nella Confederazione Elvetica, in Belgio, in Canada, ad Haiti, nel Laos e in gran parte degli stati africani. Tutti i paesi francofoni sono riuniti nella Agenzia per la Cooperazione Culturale e Tecnica, fondata nel 1969. L’area della lingua francese non corrisponde ai confini dello stato ed essa si sovrappone in alcuni casi ad aree dove vivono ancora lingue minoritarie. Fra queste l’area più vasta corrispondente al midi della Francia e delimitata a nord da una indefinibile linea che congiunge l’estuario della Gironda con le Alpi Marittime, arrivando fino a est della catena alpina, nelle valli piemontesi e comprendendo anche il territorio del Principato di Monaco. Nella parte meridionale del territorio francese la parlata d’oc ha avuto momenti di ripresa letteraria nel secolo scorso nonostante le molte varietà locali in cui si frammenta ed è diventata a volte motivo di una rivendicazione vagamente autonomistica nei riguardi fi Parigi. Diversa è invece la situazione della penisola bretone dove sopravvive una comunità di lingua celtica che ricorda le aree celtiche delle isole britanniche. La Bretagna si allunga verso l’atlantico. Dopo essere stata romanizzata completamente, venne ripopolata da gente celtica fuggita dalla Cornovaglia e dal Galles all’epoca dell’invasione dei Sassoni. Con la fusione del Ducato col Regno di Francia nel 1532 la Bretagna divenne provincia francese, periferica e abbandonata alla sua misera economia di autosussistenza. L’area del Bretone si divide in due subregioni: nella Bassa Bretagna la lingua celtica si è conservata a lungo come lingua esclusiva e il francese è stato utilizzato in alcuni centri urbani come Brest mentre nell’Alta Bretagna la situazione normale era quella di un bilinguismo diglossico che affidava alla lingua celtica solamente le relazioni a livello familiare nei ceti più poveri. Attualmente il bilinguismo dell’Alta Bretagna è quasi del tutto scomparso, mentre nella bassa Bretagna la lingua celtica viene ancora utilizzata, assieme al francese da due categorie sociali molti differenti: nelle zone interne dagli abitanti di villaggi agricoli e nei centri urbani da borghesia ricca e istruita. Per spiegare il continuo arretramento del bretone di fronte al francese, bisogna tenere presente due condizioni: 1. La prima è quella socioeconomica: la lingua è cambiata per necessità pratica o per ricerca del nuovo prestigio culturale e sociale che l’uso del francese sembrava garantire; 2. la seconda è la politica culturale del governo centrale. La lunga serie di atti amministrativi ostili al bretone comincia già con la Rivoluzione Francese ed è continuata nel secolo scorso. La reazione contro questa politica di oppressione culturale cominciò in concreto dopo la Prima Guerra Mondiale quando nacquero i primi partiti e le prime associazioni a difesa del patrimonio etnico bretone e si sviluppò durante la seconda quando i i bretoni collaborarono con i tedeschi durante il nazismo. Attualmente in Francia del rapporto lingua nazionale-lingua locale è molto ambigua. Il governo centrale a partire dagli anni 80 ha fatto qualche concessione a favore dell’uso della lingua bretone ma i provvedimenti economici a favore delle regioni più arretrate hanno fatto crescere il benessere degli abitanti della Bretagna e hanno eliminato completamente l’isolamento della regione. La comunità di lingua basca, al confine spagnolo, è troppo esigua per mostrare una forza autonoma di resistenza nei riguardi del francese. Anche se attualmente la Francia concede alcune possibilità anche alle parlate minori presenti sul territorio, di fatto la situazione non è molto cambiata dal secolo scorso e ancora oggi l’unità linguistica e culturale è considerata come un irrinunciabile motivo di prestigio e di forza. 9.3 Il confine fra parlate romanze e germaniche nella regione renana Verso oriente invece il confronto con le lingue germaniche risulta molto più difficile, complicato da una serie di vicende politiche, religiose, culturali ed economiche. I territori che si allungano dal mare del Nord fino alla svizzera, in corrispondenza della valle e del delta del Reno regione d’incontro, dove si sono confrontati gli interessi economici e le idee che sono maturate nell’Europa centrale dalla nascita dell’impero carolingio alla costituzione della Comunità economica europea. Sotto Carlo Magno la regione renana era il cuore vitale dell’Europa, dove la città, la cultura e le arti fiorivano per un continuo scambio di idee e merci. Alla disgregazione dell’Impero, nell’843, questa parte dell’Europa passò a Lotario e perse la sua funzione centrale diventando un’area in cui si susseguirono per secoli guerre devastanti e continui cambi di confine. Il confine linguistico romanza-germanico si allunga per quasi 700 km dalle coste del mare del Nord alle Alpi. Questa linea che taglia in due l’Europa, separando l’area della cultura di precisa impronta latina da quella dove la germanizzazione ha imposto parlate, culture, modi di pensare e di essere profondamente differenti, approda alle coste della Manica nella regione di Dunkerque, ritagliando nel territorio attuale dello stato francese uno spazio dove la lingua fiamminga è conosciuta da circa 200mila persone. Qui, nelle fiandre francesi, il bilinguismo franco-fiammingo sopravvive come strumento per mantenere pacifiche relazioni transfrontaliere e ha fatto di questa regione un valido territorio di mediazione interculturale. In Belgio invece la divisione fra fiamminghi e Valloni francofoni ha assunto aspetti meno pacifici. Quando il Belgio si staccò dal regno dei Paesi Bassi nel 1830 il problema della convivenza tra francofoni valloni e neerlandesi fiamminghi non sembrava tanto difficile da risolvere. Il confine fra le due parlate tagliava a metà lo Stato: erano di lingua neerlandese le fiandre, la provincia di Anversa e il Limburgo, mentre erano di lingua romanza l’Hainaut, le province di Namur, di Liegi e il Lussemburgo; il Brabante, al centro dello stato, era diviso a metà, con Bruxelles appena a nord della linea di separazione linguistica, ma in realtà in una condizione di bilinguismo, l’unico vero bilinguismo del Belgio. La Vallonia a partire dal 1830 conobbe uno sviluppo straordinario grazie all’industria siderurgica. Charleroi, Namur, Liegi e le altre città della Vallonia divennero presto importanti poli industriali. Il potere economico diede alla borghesia vallone una supremazia anche politica sulla comunità fiamminga. I fiamminghi, in lieve, superiorità numerica dei valloni, tentarono più volte di opporsi all’invadenza della lingua francese che era diventata la lingua ufficiale dello stato ma la loro debolezza economia li condannava a una posizione di subordinazione (agricoltura). Solo verso la fine del secolo le nuove materie prime provenienti dalla colonia congolese e l’inizio dello sfruttamento del giacimento carbonifero della Kempen, nel Limburgo, portarono poco a poco il progresso industriale anche nell’area fiamminga. L’asse industriale Anversa-Bruxelles si sviluppò rapidamente e dopo il 1930 la disoccupazione cominciò a colpire le industrie meridionali. Durante l’occupazione nazista i tedeschi concessero alcuni privilegi alla popolazione di lingua germanica, negandoli a quella di lingua francese e anche questo fatto non contribuì a favorire la conciliazione nazionale. La spaccatura assunse aspetti drammatici con la ripresa postbellica quando i giacimenti carboniferi del Borinage e di tutto l’asse meridionale e le industrie 800tesche di quel distretto apparvero obsolete mentre invece si svilupparono rapidamente le nuove attività produttive sull’asse Anversa-Bruxelles. Quando la disoccupazione cominciò a colpire in maniera dura la Vallonia la rivalità linguistica divenne esplosiva. La situazione di contrapposizione sociale-etnico-linguistica divenne gravissima a partire dagli anni 60 e minacciò più di una volta di sfasciare lo stato. Si arrivò a pensare a una soluzione di carattere federale, con larghissima autonomia alle due regioni anche in materia economica e sociale. Dal 1980 con una serie di emendamenti il Belgio si è dato una struttura federale dove la divisione linguistica è consacrata da quella istituzionale e legislativa: i valloni e i fiamminghi. Così con spartizione federale che sanziona quella etico-linguistica, il Belgio rimane uno stato con due lingue contrapposte (solo Bruxelles bilingue). In Alsazia e Lorena il francese è sempre convissuto con le parlate germaniche. La necessità di trovare una intermediazione fra le due grandi regioni culturali ha fatto convivere per secoli parlate neolatine e dialetti germanici e il modo di pensare e di essere dei francesi e quello dei tedeschi, accostati gli uni agli altri in un confronto che non aveva mai creato attriti o rivendicazioni. Dopo l’annessione da parte della Germania nel 1871 (per riunire il popolo tedesco – risorse minerarie) venne imposto l’insegnamento del tedesco senza proibire il francese che però divenne seconda lingua anche in quei distretti dove prima si parlava solo francese (Metz, Chateau-Salins e alcuni villaggi) Il cambiamento del confine nel 1918 riportò la lingua francese in Alsazia e Lorenza a una posizione di privilegio specie nell’educazione scolastica ma l’annessione alla Germania nazista nel 1940 provocò un’intensa e rapida germanizzazione del territorio. Nel 1945 la Francia riprese il controllo e l’insegnamento del tedesco venne proibito ma a partire degli anni 50 il governo di Parigi ha riammesso lentamente l’insegnamento del tedesco come seconda lingua. Ma ès tata soprattutto l’apertura del confine politico tra Francia e Germania nell’ambito della cee che ha permesso al confine linguistico che attraversava le due zone di cominciare a perdere quel 10.3 Lingue e culture minoritarie di fronte ai nuovi modelli di vita Oggi le numerose isole linguistiche dell’Italia meridionale sono in fase di scomparsa. Gli insediamenti dove oggi vivono persone ancora parlanti la lingua albanese sono più di 20 ma sono tutti di piccolissime dimensioni e non sono collegati l’uno con l’altro; i croati sono presenti in piccoli comuni del Molise; i Greci abitano ormai solamente in due piccole aree in puglia e in Calabria, mentre in provincia di Cosenza sopravvive ancora una comunità occitana, in puglia una comunità franco-provenzale e in Sardegna, ad Alghero, una comunità catalana. Questi gruppi sono stati assorbiti dalle grandi trasformazioni che hanno interessato il Mezzogiorno italiano e hanno modificato in maniera quasi completa i generi di vita tradizionali. Così anche le comunità minori del settentrione riescono con fatica a mantenere in qualche modo una loro identità culturale, aggrediti continuamente da un processo che tende ad uniformare le basi stesse della vita individuale e dell’organizzazione sociale, e che valorizza solamente quelle espressioni culturali che, possono essere commercializzate. In questi territori c’è tutto un fiorire di gruppi folcloristici, di piccoli musei etnografici, di premi letterari nella lingua locale. Più facile è la vita culturale delle comunità ladine delle Dolomiti: quelle della provincia di Bolzano hanno gli stessi diritti che tutelano i gruppi italiano e svizzero, mentre quella della provincia di Trento è tutelata da norme particolari. Per quanto riguarda invece la comunità sarda e quella friulana, la situazione è favorita da norme legislative o da altri provvedimenti dello Stato ma piuttosto dall’ampiezza territoriale e numerica delle comunità stesse e dalla forte impronta che le loro lingue hanno dato e continuano a dare al sentimento di individualità proprio di queste due popolazioni. La popolazione sarda è legata alla sua lingua da una serie di vicende storiche che fanno parte del patrimonio morale e culturale dell’isola. Anche se i tentativi fatti negli anni 70 per industrializzare l’isola e l’economia turistica che interessa in forma massiccia alcune zone della stessa hanno intaccato in parte i modelli comportamentali e i modi di pensare tradizionali, la lingua continua ad essere un momento di identità fondamentale per la vita della popolazione isolana. Di questa forza della lingua hanno approfittato movimenti politici sardisti autonomisti, a volte indipendentisti e separatisti. Abbastanza simile è il caso del friulano, lingua di una società molto legata alla terra, essa è diventata strumento di aggregazione e di identificazione sia durante le molte invasioni che hanno travagliato il Friuli, sia durante la diaspora migratoria, che ha portato i friulani in vari paesi europei, nell’Africa settentrionale, nelle Americhe e in Australia. La solidità del friulano si è rivelata in special modo quando l’intenso processo di industrializzazione e di urbanizzazione che ha interessato la pianura padana a partire dagli anni 60 ha toccato anche questa regione. Oggi la lingua friulana viene ancora correttamente utilizzata nella vita di relazione, anche al di fuori dei rapporti famigliari, anche in contesti formali. La spinta verso la massificazione linguistica e l’alienazione culturale, in un paese che 30 anni ha modificato in modo radicale la sua società e i suoi modi di pensare e di vivere, aggredisce tutti, ma le prime a cedere sono espressioni culturali più deboli e meno difese. In realtà i motivi che possono giustificare una forma ufficiale di tutela sono soltanto due: 1. con la massificazione culturale bisogna salvare il salvabile del nostro patrimonio culturale minore; la perdita di quest’ultimi impoverisce tutti; 2. motivo di natura psicopedagogica: bisogna arrivare alla conquista culturale generale attraverso la proposizione della cultura locale perché la prima non è antagonista alla seconda ma è un completamento. 10.4 La tutela delle minoranze nazionali tedesca e slovena e il caso della Valle d’Aosta Per quanto riguarda la tutela delle comunità etniche che sono anche minoranze nazionali vi sono difficoltà di natura politica e giuridica di rilevanza internazionale. Ma è evidente che una minoranza nazionale deve godere di diritti di tipo diverso di quelli propri di una comunità etnica e di norma questi diritti sono sanciti da trattati internazionali. Così le due minoranze nazionali presenti in Italia a seguito della modifica dei confini sono tutelate la prima dall’accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 e da tutti i provvedimenti successivamente ne sono scaturiti per attuarlo e la seconda dal trattato di pace del 1947, dallo statuto speciale allegato al Memorandum d’Intesa del 5 ottobre 1954 e dal Trattato di Osimo del 10 novembre 1975. Ma mentre per la tutela della minoranza tedesca alto-atesina il problema è stato chiuso nel 1992 col definitivo riconoscimento da parte del governo della repubblica austriaca dell’attuazione da parte italiana degli impegni presi in sede internazionale, per quanto riguarda la tutela della minoranza nazionale slovena non c’è mai stata una formale dichiarazione di soddisfazione della parte interessata. Infine, un caso del tutto particolare è quello che riguarda gli abitanti della regione autonoma della Valle d’Aosta. Questa regione di montagna nei secoli scorsi ha sempre utilizzato il particolare patois franco-provenzale. Quando col trattato di Torino del 24 marzo 1860 la casa di Savoia rinunciò a favore della Francia al possesso dei suoi territori al di là dello spartiacque alpino, la Valle d’Aosta si trovò a far parte di uno stato che sarebbe ben presto diventato il nucleo originario del Regno D’Italia, diventando così una regione a lingua minoritaria nell’ambito del Regno d’Italia. Ben presto l’ideologia nazionalistica tentò di intaccare quest’area linguistica e già prima dell’avvento del fascismo l’insegnamento bilingue era soppresso. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale venne ripristinato il bilinguismo in tutta la Valle, un bilinguismo italiano-francese. Come si vede la situazione italiana è varia e poiché è varia non è possibile assimilare in un unico progetto di tutela comunità compatte ed estese come quella friulana, comunità ormai rappresentate solamente da piccoli frammenti come quelle di origine balcanica dell’Italia meridionale, comunità disperse sul territorio come quella rom, comunità che sono anche di minoranze nazionali, ogni tentativo di arrivare ad una conclusione legislativa uniforme si trasforma in una palestra di rivendicazioni e di polemiche che alimenta un numero incredibile di convegni e di tavole rotonde dove tutti parlano senza comprendersi. Capitolo XI: I confini linguisti e politici fra Europa germanica ed Europa slava e ugrofinnica 11.1 L’area dell’incontro fra genti germaniche e genti slave La pianura polono-germanica ha sempre costituito un’area ideale di incontro nei grandi movimenti di popoli che qui si sono verificati in modo lento ma continuo fino al medioevo. La fertilità del suolo ha permesso alle genti che hanno popolato questo spazio di sviluppare forme di insediamento sempre più stabili, con un’occupazione del territorio continua e metodica. Dapprima i celti poi le tribù germaniche colonizzarono queste pianure attivando le forme di utilizzo del suolo a loro più abituali, con insediamenti dispersi lungo i fiumi e nelle aree più facilmente dislocabili e animarono i primi itinerari commerciali dalle coste baltiche al Mediterraneo scambiando l’ambra e il ferro con i prodotti dell’agricoltura mediterranea. L’occupazione dello spazio da parte dei germani, dopo il periodo delle grandi migrazioni che li portò prima al contatto poi allo scontro con la presenza amministrativa e militare romana, fu lenta e metodica e il suo sviluppo corrisponde al consolidarsi di forme di potere sempre più incisive e solide. Solo alla fine di un lungo periodo di assestamento che va dall’inizio del primo millennio d.C. a tutto il medioevo, nella pianura cominciarono a fissarsi i confini che divisero lo spazio abitativo dai popoli di lingua germanica da quello popolato dalle genti slave. Con la fine del periodo medioevale comincia a delinearsi in maniera più precisa l’area linguistica germanica, almeno in corrispondenza dell’istmo ponto-baltico. E in questo processo di assestamento cominciò anche a evidenziarsi la maggior forza di controllo territoriale e il più sviluppato dinamismo culturale delle popolazioni di lingua germanica rispetto a quelle di lingua slava. E quando la lingua, con l’inizio del XIX secolo, divenne un elemento fondamentale nell’identificazione dei nuovi soggetti politici che si affacciavano sulla scena della storia assunse una valenza che mai prima di allora aveva avuto provocò una serie di mutamenti violenti o pacifici sulla carta geografica dell’Europa centrale e orientale, ancora oggi non terminata. Uno dei motivi dell’instabilità cronica degli stati si trovavano all’inizio del XIX secolo nella seconda posizione di cuscinetto fra l’impero germanico e quello austriaco da una parte e l’impero zarista dall’altra è derivata dall’incertezza dei confini linguistici. E le carte geografiche con indicazione delle aree linguistiche, realizzate nel periodo in cui più forte era l’utopia romantica di poter creare gli stati nazionali in funzione delle diverse espressioni linguistiche. Ma nonostante l’incertezza dei limiti dei territori etnico-linguistici, alla fine della Prima Guerra Mondiale l’idea di stato nazionale basta soprattutto sulla omogeneità dell’espressione linguistica sembrò trionfare in questa parte dell’Europa. Apparvero così stati centrali del tutto nuovi. 11.2 Il difficile confine fra la Germania e la Polonia Quando la Prussia di Bismarck, fra il 1867 e il 1871, riuscì a riunire in uno stato unico i popoli di lingua germanica della pianura polono-germanica e degli spazi a essa collegati, il concetto di Volkstum divenne motivo di coesione del nuovo stato tedesco e il nazionalismo linguistico di Herder venne assunto a dottrina ufficiale per accelerare la germanizzazione delle terre orientali che erano state annesse alla Germania dopo la spartizione della Polonia conclusasi nel 1795 e dove la presenza tedesca si era andata affermando ancora. Per soffocare la ripresa del nazionalismo polacco venne messa in atto una politica che favoriva in tutti i modi l’insediamento di elementi prussiani nelle terre della pianura polacca. In aree marginali si rafforzava così la presenza di polacchi, sostenuta dalla nobiltà e dalla borghesia slava che vedevano in questa presenza un modo per contrastare l’invadenza prussiana. La germanizzazione sostenuta dopo il 1894 penetrò profondamente lungo la costa baltica arrivando a contatto con le terre abitate dai lituani ma non occupò in maniera uniforme il territorio costiero, perché in corrispondenza della Vistola la campagna rimaneva solidamente abitata da polacchi anche se le città come Danzica rimanevano sotto il controllo dei prussiani. Questa discontinuità della presenza germanica in corrispondenza della Vistola rappresentò la giustificazione alla conferenza della pace di Versailles nel 1919 per la creazione del cosiddetto corridoio polacco cioè di quella fascia larga un centinaio di km che collegava il cuore del periodo nazista. Gli austriaci hanno cercato in varie maniere di rendere numericamente inconsistente la loro presenza, introducendo nei loro censimenti tutti i possibili accorgimenti per ottenere risultati a sfavore di questa comunità alloglotta; e se il trattato di stato del 1955 concede anche a loro le tutele previste per gli sloveni della Carinzia, la loro dispersione in piccoli nuclei rurali, la distanza dalla nazione croata e la mancanza di un centro urbano di lingua croata fa sì che questa comunità sia soggetta oggi a un processo di rapida germanizzazione sotto l’aspetto linguistico e culturale. Anche la piccola e dispersa comunità ungherese del B gode di tutte le tutele previste per i croati ma appare chiaramente in via di esaurimento. Il caso di questi tre gruppi alloglotti in territorio austriaco è l’unico che alla fine della Seconda Guerra Mondiale non abbia provocato tentativi traumatici di far coincidere le aree di lingua germanica con i nuovi confini postbellici. Nei casi in cui le comunità alloglotte erano rappresentante da tedeschi in paesi di lingua slava o magiara o romena, le cose sono andate in altra maniera. Infatti, i casi delle comunità germanofone in Boemia e Moravia o in Ungheria sono stati risolti spostando coattivamente gran parte di queste comunità dall’area del loro insediamento storico ai territori degli stati tedeschi. In conclusione, oggi il confine orientale dell’area linguistica germanica dell’Europa centrale appare chiaro e coincide per larga misura con quello degli stati come mai era avvenuto in passato. Lo spazio germanofono si è contratto considerevolmente e la lingua tedesca non è più la lingua della cultura, dei contatti internazionali di tutta l’Europa centrale. Ma l’aver risolto in maniera così violenta il problema della frammentazione linguistica, etnica, nazionale dell’Europa centrale non sembra sia servito a risolvere in maniera definitiva il contrasto fra le diverse nazioni all’interno della grande famiglia slava. Capitolo XII: Etnie, nazioni e stati nella instabilità dell’Europa orientale e balcanica 12.1 Popoli e lingue La causa principale nel cambiamento della situazione politica dell’Europa dell’Est sta nel fallimento clamoroso dei progetti sociali ed economici basati sui principi dell’ideologia marxista; tuttavia in questa crisi generale dell’assetto politico e territoriale dell’Europa dell’Est il dato linguistico ed etnico viene ancora utilizzato soprattutto dalle comunità minori per proporre nuove soluzioni e vecchi nazionalismi. 12.2 La frammentazione etnica dell’Europa orientale Nessuna parte dell’Europa presenta una pluralità e una frammentazione di situazioni etniche paragonabili all’Europa orientale e balcanica. L’instabilità cronica di questa parte dell’Europa è stata alimentata dal secolo scorso da etnismi veri o presuntuosi, che hanno creato progetti nazionalistici di grandi dimensioni opposti a micronazionalismi mai appagatisi, in una continua contrapposizione di un popolo contro l’altro, in un alternarsi di momenti in cui sembrava che questi motivi di divisione fossero superati dalla volontà di aggregazione a momenti in cui nuovamente hanno prevalso le forze disgregative. Nella storia contemporanea, fino allo scoppio delle guerre balcaniche del 1912-13, tre politiche hanno tentato di frenare in qualche modo la disgregazione dei loro territori: l’impero zarista (ortodosso), quello asburgico (cattolico) e quello ottomano (islamico sunnita). L’impero zarista era riuscito a riunire in un unico stato le tre grandi famiglie russe orientali e a sottomettere le diverse popolazioni non slave, per lo più povere e incolte, sparse nel suo territorio. Fra le etnie minori si distinguevano i cosacchi. La politica linguistica del periodo zarista fu fortemente oppressiva soprattutto nei riguardi degli ucraini e dei polacchi, mentre fu più tollerante verso i popoli non slavi di minore estensione territoriale in quanto essi non davano preoccupazioni secessionistiche di grande rilievo e verso i quali anche la Chiesa ortodossa si rivolgeva utilizzando le lingue locali. Nel 1869 l’università polacca di Varsavia venne chiusa e sostituita con una università russa; nel 1876 fu vietata qualsiasi pubblicazione in lingua ucraina mentre nel 1885 fu soppresso l’uso del polacco in tutte le scuole della polonia sotto il dominio russo e nel 1892 questa lingua venne vietata anche per l’insegnamento del catechismo. Dal 1870, con l’introduzione del russo come lingua d’insegnamento in tutti gli istituti kazaki, venne intensificata l’opera di russificazione anche nei riguardi delle popolazioni di ceppo turco. La monarchia asburgica col compromesso del 1867 aveva creato uno stato nuovo non di nome ma di dimensioni il regno d’Ungheria. I magiari, di lingua ugro-finnica e di religione prevalentemente cattolica, non costituivano la maggioranza della popolazione, che era divisa in gran numero di etnie in quanto il territorio comprendeva l’Ungheria storica, anche una piccola striscia del Burgenland, la Slovacchia, la Rutenia subcarpatica, la Croazia e parte della Dalmazia, la Slavonia, la Bacska, il Banato e la Transilvania. Quando il trattato del Trianon, il 4 giugno 1920, ridisegnò i confini dell’Ungheria postbellica, ne risultò uno stato assai più piccolo e dotato di una compattezza etnica all’interno, ma col problema di più di 5 milioni di magiari inglobati nei nuovi stati di Cecoslovacchia, Iugoslavia e di Romania e questa considerevole massa di genti di lingua e di tradizioni ungheresi divenne subito un nuovo motivo di destabilizzazione nell’Europa centro-orientale. Dalla disgregazione della parte europea dell’Impero Ottomano emersero situazioni di contrapposizione etnica ancora più ingarbugliate. La parte meridionale della penisola balcanica ospitava una notevole varietà di popoli. L’eterogeneità fisiografica di questa regione ha fatto sì che nella penisola balcanica venisse a mancare quel processo di fusione che ha permesso nelle altre parti l’estensione territoriale. La dominazione ottomana, debole e incapace, era riuscita a diffondere la religione islamica solamente nelle aree dove la religione ortodossa non si era affermata solidamente, all’interno della Bosnia che fu incapace di imporsi all’islamizzazione e nell’area povera e montagnosa della regione albanese, dove l’islamismo si instaurò diffusamente con grande facilità. I popoli slavi meridionali, i bulgari e i romeni rimasero invece attaccati alla religione ortodossa e da questa loro fede trassero motivo e forza per opporsi alla Sublime Porta e per alimentare quei nazionalismi che nel secolo scorso hanno fatto della penisola la regione europea debole e instabile per eccellenza, e che non si sono ancora appagati. 12.3 La nascita degli stati nazionali Il dato linguistico è sempre stato utilizzato come motivo per proporre nuove soluzioni politico- territoriali. Con il diffondersi degli ideali nazionalistici le maggiori comunità linguistiche dell’Ue orientale e balcanica tentarono di organizzarsi in unità politiche che ebbero sempre confini incerti e in continua contestazione, senza riuscire mai a trovare una duratura stabilità territoriale. La regione di Mosca fu il centro di elaborazione e di irradiamento di una parlata slava che presto conquistò le popolazioni rurali disperse nei vasti tavolati russo-sarmatici e che praticavano forme di vita omogenee: la sua forza consentì quella centralizzazione politica dalla quale nacque lo stato russo. Ma la costruzione dello stato zarista non fu né pacifica né facile, e Mosca dovette sempre preoccuparsi delle spinte secessionistiche delle popolazioni che si sentivano diverse dai russi. Verso il mar Nero gli ucraini che qui erano penetrati relegando le etnie seminomadi asiatiche negli spazi steppici più orientali, riuscirono nel secolo scorso, sotto lo stimolo degli ideali nazionalistici a trasformare in lingua letteraria la loro parlata e questa lingua fu uno dei motivi che giustificarono la nascita della repubblica di ucraina nel 1917 oggi del tutto indipendente. Anche il Bielorusso venne codificato solamente nel secolo scorso per giustificare un nazionalismo certamente più debole di quello ucraino che però non trovò nella repubblica della Bielorussa un suo risultato politico territoriale. Così anche le lingue ceca e slovacca, parlate la prima in Boemia e in Moravia e la seconda in Slovacchia, vollero considerarsi come due lingue distinte e non come due varianti della stessa lingua quando l’esigenza di liberarsi dall’impero austro ungarico diede la spinta a due diversi nazionalismi. Ma lo Stato che nacque con la pace di Versailles nel 1919 fu unitario, anche se la Cecoslovacchia mantenne sempre al suo interno un dualismo culturale e regionale che l’ideologia marxista non riuscì mai a spegnere. Col primo gennaio 1993 la Cecoslovacchia si è spaccata nelle due repubbliche ceca e slovacca. Nelle aree del bacino inferiore del Danubio l’occupazione romana nel II secolo aveva favorito la colonizzazione latina della Dacia e la romanizzazione delle genti indoeuropee ormai sedentarizzate in un’economia di tipo agricola. Con la fine del potere di Roma e l’afflusso di popolazioni barbariche, le genti di lingua latina si rifugiarono ai piedi dei rilievi dei Balcani o più a nord nelle valli delle Alpi Transilvaniche e dando vita a tre differenti forme di parlate neolatine il dacoromeno, l’aromeno e il meglenoromeno. Queste parlate trovarono la forma scritta e una loro unificazione attraverso l’adozione dell’alfabeto cirillico. Ma alla fine del XVII secolo sotto l’impulso della Chiesa Romana una parte del clero ortodosso passò al greco-cattolicesimo dando vita alla Chiesa unita o cattolicesimo del rito orientale e rivendicando così la propria origine latino-romana. Questa scelta portò anche alla sostituzione dell’alfabeto cirillico in Transilvania, Valacchia e Moldavia. Solo la Bessarabia aveva mantenuto il cirillico per la sua parlata moldava e quando questa regione venne annessa allo stato zarista, nel 1812, i russi inventarono una autonoma lingua moldava approfittando della differenza di scrittura. Nel 1918 Bessarabia tornò nell’ambito dello stato romeno, che vi introdusse l’alfabeto latino; tuttavia nel 1945 i sovietici inglobarono questo territorio nell’Unione Sovietica col nome di Repubblica socialista moldava, imponendo di nuovo il cirillico. Con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, la Moldavia ha ottenuto la piena indipendenza ma non ha modificato il proprio alfabeto. Un altro caso di differenziazione linguistica voluta ed enfatizzata a scopo nazionalistico è quella del macedone, che fino al 1944 era considerato come una variante dialettale del bulgaro. Era amministrata dalla Bulgaria, Grecia e Regno di Iugoslavia. Ma in quell’anno per dare maggiore consistenza all’idea di repubblica di Macedonia aggregata alla costituenda federazione, la parlata macedone venne proclamata lingua e nell’anno successivo essa divenne una delle tre lingue ufficiali della nuova Iugoslavia federale. Al contrario la parte di Macedonia rimasta nell’ambito del territorio bulgaro non viene assolutamente riconosciuta come una entità etnico- linguistica separata e anche la Macedonia greca è considerata dallo Stato greco solamente come una regione storica e non gode di alcuna tutela particolare. La Iugoslavia federale aveva tentato di risolvere il problema delle nazionalità concedendo agli sloveni, ai croati, ai serbi, ai montenegrini e ai macedoni un’ampia autonomia come stati federali. In realtà le nazionalità erano rimaste ben vive, sia perché la supremazia dei serbi, che detenevano il controllo dell’amministrazione centrale, dell’esercito e dell’economia, aveva aggravato il separatismo e l’ostilità delle nazionalità periferiche contro la posizione egemonica
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