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La letteratura degli italiani, Appunti di Acustica E Illuminotecnica

storia della letteratura

Tipologia: Appunti

2015/2016

Caricato il 29/06/2016

daisycrazylazy
daisycrazylazy 🇮🇹

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Scarica La letteratura degli italiani e più Appunti in PDF di Acustica E Illuminotecnica solo su Docsity! La letteratura degli italiani di Franco Brevini Cap 1: Una nazione senza stato Per secoli l’unica realtà condivisa nella penisola ha riguardato in modo esclusivo la comunità dei dotti; la lingua della letteratura, ossia il TOSCANO del Trecento, emblematicamente utilizzato da Dante, Petrarca e Boccaccio e codificato nel Cinquecento da Bembo ha costituito un prezioso codice antiquato. Nel corso dei secoli, nella maggior parte dei paesi europei, tra il codice adottato dagli scrittori e quello utilizzato dalla gente correva solo una differenza di livelli; da noi interveniva un vero e proprio salto da una lingua ad un’altra. Il toscano era a tutti gli effetti un’altra lingua e per di più era una lingua d’arte, ossia a esclusiva destinazione d’uso. Il “superdialetto” toscano era andato lentamente imponendosi come la lingua letteraria italiana, ma solo all’interno di una ristretta comunità di dotti. Vi si contrapponeva il fermentare di tutti gli altri dialetti. È sconcertante come il volgare letterario abbia immediatamente escluso dal suo cammino, interi sistemi linguistici e intere aree del paese; si è imposto come codice centripeto, impegnandosi a privilegiare al proprio interno in imperturbabile monolinguismo. Mentre i dialetti erano lingue vive, il toscano era una lingua morta: non serviva a niente, se non a scrivere libri e non c’è da stupirsi se finì con il rinchiudersi in se stesso. • Parla come mangi A partire dagli anni Novanta del secolo scorso alcuni linguisti hanno sostenuto che l’italiano parlato avrebbe goduto di un certo corso anche prima dell’Unità; un’obiezione corretta viene fornita dalla relazione tra i parlanti di regioni diverse o con gli stranieri. Lo ricorda anche Foscolo quando afferma che “ le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è privilegio solo di chi, si giova d’un linguaggio tal quale tanto da farsi intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile”. Ricorrendo al dialetto, il parlante sperimentava la propria diversità linguistica e viveva l’italiano con un atteggiamento paragonabile a quello con cui oggi ci rivolgiamo alla lingua per navigare sul web. Uno degli istituiti più collaudati della satira è stato il tentativo con cui alcuni parlanti si sforzavano di elevarsi dal proprio dialetto, tramite intenti di promozione sociale e culturale. Manzoni illustra la formula di questa maldestra affettazione italianizzante: • Voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano, e al resto supplire come si poteva e , per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi [..] A lungo negli anni successivi all’Unità la dialettofonia sarebbe risultata pressoché elusiva, tanto che la satira dei nuovi italiani i quali affettavano la nuova lingua, sarebbe risultato un tema obbligato nella poesia dialettale. Risalendo ad anni più vicini ai nostri, si può citare il caso di Fenoglio: l’italiano non è solo il codice dell’artificio scolastico, ma è addirittura la lingua della menzogna propagandistica del fascismo, cui egli contrappone il modello etico e civile inglese. A fronte dell’impegno dei dialetti nelle relazioni quotidiane, gli scrittori italiani si sono trovati a operare per secoli con una lingua arcaica, irreale, aulica e gelosamente custodita in una teca lessicografica. Il toscano ha dovuto essere appreso dagli scrittori come una vera e propria lingua straniera, con tutte le difficoltà e le ripercussioni del caso; gli autori italiani hanno, certamente, parlato come hanno mangiato, ma quando si sono seduti a tavolino per scrivere, sono stati costretti a tenersi ben lontani dal parlare non meno che dal mangiare. Il PARADOSSO della TRADIZIONE ITALIANA: la nostra letteratura si è sviluppata senza poter contare sul retroscena di una lingua nazionale e ogni scrittore ha dovuto acquisire artificialmente il proprio codice. Un SECONDO PARADOSSO della nostra tradizione è la sua necrolalia. I nostri autori hanno scritto non solo in una lingua non nativa, ma anche in una lingua morta; attraverso i secoli per essere scrittori italiani bisognava imparare una lingua sostanzialmente straniera, che risaliva ad alcuni secoli prima e non in voga. I nostri scrittori hanno proceduto attraverso i secoli con lo sguardo rivolto al passato ; ne è risultata una letteratura e una tradizione a tendenziale retroversione. Mentre altri più fortunati paesi di affidavano a contrassegni concreti, come la monarchia e la nazione, l’Italia si è ritrovata ad agitare un’identità del tutto fittizia, cartacea. Trattando con una letteratura composta in lingua morta, il risultato è stato quella di un’identità antiquaria e retorica. • “Decentiorem atque illustrem ” Da noi la lingua si presenta subito come un problema. Uno degli elementi più caratteristici della nostra tradizione è la questione della lingua; la lingua mancava e ha continuato a mancare per secoli. Se è vero che anche altrove si è discusso della lingua, è altrettanto vero che in nessun altro paese il dibattito è stato altrettanto assiduo e duraturo. Le lingue d’uso esistevano; sciaguratamente frammentate, incomprensibili l’una all’altra a pochi chilometri di distanza, ma esistevano. I dialetti che risuonavano babelici e incontrollabili nelle cento città d’Italia. Dante scrive in latino un trattato per snodare il volgare, ribadendo che la questione riguarda gli uomini di cultura e in particolare gli scrittori; pone un problema retorico, non comunicativo. La sua ricerca avrà un esito negativo: nessun dialetto può ambire a imporsi come codice esperantico. È pur vero che, più del De vulgari eloquentia in cui Dante vorrebbe grammaticalizzare il volgare, sarà la Commedia a contare, dove il sommo poeta offre un modello di lingua popolare e aperta. Ma proprio l’incomprensibile vitalità linguistica del poema pone un’altra questione: la contrapposizione tra gli scrittori toscani e quelli che non lo sono. 1) la lingua italiana nasce aristocratica ed esperantica e può essere esperantica in quanto aristocratica, cioè appannaggio di ristretti circoli culturali; 2) quella lingua è solo un codice letterario; 3) è straniera nella patria reale; 4) salvo per i toscani, è sentita dagli autori come estranea, non naturale; Cap. 2: “Toschi modi” e “sermon natio” • Pensiero e linguaggio Nel caso della nostra letteratura la scelta del toscano letterario ha rappresentato per lo scrittore l’opzione più prevedibile. Fino al Novecento ricorrere al dialetto significava rivendicare la possibilità di scrivere, invece che nell’italiano letterario, nella medesima lingua impiegata nella quotidianità. Per i filosofi sette-ottocenteschi i concetti su ci si fonda la conoscenza non rappresentano una realtà univoca attinta alla ragione, ma vengono filtrati dal linguaggio il quale plasma esso stesso la realtà. Spetterebbe alle lingue, vere e proprie interpretazioni della realtà, condizionare mediante le loro strutture le percezioni del parlante e organizzare il suo pensiero. • Stranieri a se stessi Nei dialettofoni e generalmente in tutti coloro i quali si trovano a vivere esperienze di diglossia (presenza nella stessa comunità di due lingue o di una varietà della stessa, una alta e una bassa) o di bilinguismo, è diffusa l’impressione che la lingua madre realizzi quella congiunzione tra la parola e la cosa, di cui nessun altro codice si rivelerebbe capace. Il dialetto è più vicino alle cose oppure “detto in dialetto il mondo ha tutt’altro sapore”. Gli scrittori sono tornati spesso sul rapporto tra lingua e pensiero o tra lingua ed esperienza, affrontato dai filosofi, dagli antropologi e dai linguisti; dietro alla ricomposta perfezione del testo toscano si nascondono i contrasti della gestazione, il trasferimento dalla lingua dell’io al codice della cultura e la traduzione all’interno del codice letterario di ciò che nella sua profondità è incarnato nella lingua nativa. “La Patria sono le cose che si dicono” ha dichiarato la scrittrice Muller (premio Nobel per la letteratura nel 2009) intendendo sottolineare che il linguaggio è un modo per custodire la memoria della propria patria anche quando non sia possibile vivere fisicamente in essa. La lingua materna evoca il corpo, è il corpo e perderla equivale a perdere una parte irrinunciabile di se stessi. • La protesi del toscano letterario L’imporsi sia pure contrastato della norma letteraria toscana ha comportato per i nostri autori una duplice conseguenza: essi si sono trovati a scrivere in un codice artificiale, che era al contempo una lingua morta e una lingua non materna , e tramite una lingua acquisita ,ma mal posseduta che suscitava una sensazione di illegittimità. Impossibilitata ad alimentarsi del fecondo scambio con la lingua d’uso, la letteratura toscana è vissuta quasi esclusivamente di altra letteratura; la poesia in dialetto, che attingeva all’uso vivo, non ha mai perso l’occasione per rivendicare la propria diversità. “Riconosco ed onoro un solo maestro: il popolo che parla” sosteneva il milanese D. Tessa. Il poeta si accosta al coro popolare grazie al bisogno di incarnare la voce di un personaggio; in tal modo esso entra in contatto con quell’alterità antropologica che avrebbe segnato gli esiti della poesia dialettale. Su tutto ciò si è soliti sorvolare: vi ha contribuito per primo il neoclassicismo che costituisce l’animo più profondo delle nostre letterature, in seguito il crocianesimo, insinuatosi fin nelle robuste formazioni marxiste. Oggi appare del tutto evidente come l’impostazione di un codice con le caratteristiche del toscano letterario dovesse comportare precise ripercussioni sui testi in esso composti. Ma ancora prima dell’invenzione e della creazione della letteratura, la lingua ha rappresentato il problema cruciale, il grande assillo del letterato italiano. Chi non era toscano era esposto al biasimo dell’integralismo toscano. Nonostante gli sforzi degli scrittori il lapsus era incombente: il dialetto si presentava ogni qualvolta si tentava di estraniarlo; preziosa è la testimonianza del Manzoni nella seconda introduzione al Fermo e Lucia: “ Quando l’uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il dialetto di cui si è servito nelle occasioni più attive della vita gli si affaccia da tutte le parti, s’attacca alle sue idee, se ne impadronisce, anzi talvolta gli somministra le idee in una formula” • “Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!” La questione della lingua può essere letta come la manifestazione sintomatica più clamorosa del secolare malessere degli scrittori. Il milanese Tessa nel 1936 affermò: “ Se la letteratura italiana anziché cibarsi dei classici rosicchiando i fossili fosse entrata nelle stalle ad ascoltare le fole delle vecchiette ai nipotini, se si fosse occupata della gente, vivrebbe ora di una vita sua” Manzoni aveva compiuto un passo cruciale in direzione del parlato, ma il “fiorentino colto” proposto dalla borghesia italiana come modello per la lingua unitaria era in realtà una speranza mai esistita, sovrapposta al frammentato mosaico della situazione della penisola. La contraddizione di fondo della proposta manzoniana coincide con la sua modernità: lo scrittore milanese aveva riformulato una vecchia questione ponendo un attuale problema sociolinguistico, ma la soluzione proposta si fondava sull’autorità della tradizione letteraria. Manzoni aveva optato per il fiorentino vivo, che in verità non era una lingua unitaria. Quella lingua che si voleva nazionale risultava solo normativa e libresca. La storia sociolinguistica del nostro paese all’indomani del 1861 non è consistita in altro che nell’imposizione di una lingua pseudoesperantica, dietro alla quale è riconoscibile un progetto di integrazione pedagogica e politica dell’intera società, in una prospettiva cattolica e moderata. È il processo culminato nella catastrofe antropologica denunciata da Pasolini nei suoi ultimi interventi. Il sofferto modello del fiorentino colto di Manzoni rappresenta il più generoso tentativo compiuto da uno scrittore italiano per affrontare le nuove esperienze linguistiche di una nazione moderna. Ma faceva acqua da tutte le parti. • I caratteri della letteratura italiana 1) Il carattere metastorico La precoce egemonia del toscano letterario che si afferma fin dal Trecento e la sua definitiva codificazione cinquecentesca nei termini di una lingua morta hanno contribuito ad accentuare nella nostra letteratura i tratti di immobilità metastorica e di atemporalità. Cosi da Petrarca a Leopardi le superfici testuali si sono sottratte al cambiamento. 2) La cancellazione delle differenze geolinguistiche La letteratura italiana ha puntato su un’universalità conquistata liberando tutti i tratti che l’ancorassero alle concrete aree da cui nasceva. Le articolate realtà della penisola sono state respinte in una perifericità senza riscatto. Cattaneo scrisse: “il vero stato degli animi e delle anime, lo specchio delle abitudini, delle tradizioni sfugge alle superbe frasi della letteratura nazionale.” 3) Il registro illustre È stato di gran lunga prevalente, ma alla comicità, al grottesco e alla parodia ha provveduto la produzione in dialetto, mentre a causa della forte grammaticalizzazione la letteratura in lingua ha puntato univocamente sull’ideazione e sulla stilizzazione, sull’aulicità e sulla nobiltà. Questo è stato per secoli l’orizzonte d’attesa della nostra tradizione letteraria. Non per nulla la poesia in dialetto si è offerta sempre, non solo come esito naturale, ma come ribaltamento della poesia illustre, come anti modello. La scelta del registro illustre si è tradotta nella propensione per i personaggi eroici, per l’amore celeste e le ambientazioni rarefatte; Pascoli nel Fanciullino annotava come: “gli Italiani abbarbagliati dallo sfolgorio dell’elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule”. 4) La selettività tematica Il toscano letterario disponeva di una fitta serie di sinonimi per ambiti tematici ben circoscritti, come l’amore spiritualizzato, la materia cavalleresca, la convenzione pastorale, ma risultava fortemente carente quando si misurava con i mondi dell’esperienza quotidiana o della civiltà materiale, tradizionalmente appannaggio dei dialetti. Alla discontinuità del reale i nostri scrittori hanno preferito l’omogeneità dell’ideale, la perfezione del mito e il modello. Tra la letteratura più laureata e la vita di ogni giorno si era spalancata una voragine. Linguisticamente delegittimato, il quotidiano continuerà a consegnarsi ai dialetti e alle letterature che vi faranno ricorso e sempre come opzione di secondo grado. 5) La genericità linguistica Quando non è stato possibile eludere un elemento non è rimasta che la strada della generalità. Essa è stata la risposta sia alle mancanze di vocabolario del toscano letterario, sia alla conoscenza solo libresca che si possedeva del codice. In questi casi i nostri autori hanno adottato un lessico sommario, impreciso e convenzionale. 6) La convenzionalità Costretti a tradurre da un codice all’altro, gli scrittori non hanno potuto indagare le zone più intime del proprio io; per la maggior parte di loro il toscano è l’inevitabile risultato di una lingua esclusa da ogni legame profondo con le radici del soggetto. Per questo si sono dovuti spesso accontentare di incamminarsi nel solco di grandi autori, da cui hanno mutuato stampi, atmosfere, luoghi e motivi ricorrenti. 7) La ripetizione manieristica L’estremo approdo dell’Ottocento è costituito dalla lingua di Gabriele D’Annunzio, che nella fornitissima banca dati del suo lessico accoglie di tutto. Se per i narratori ottocenteschi, ansiosi di accostarsi all’uso comune, la lingua della tradizione costituiva un ostacolo, per D’Annunzio diventava invece una risorsa da valorizzare. Ciò che importa è di assumere in maniera programmatica le distanze dalla lingua veicolare e dalla sua piattezza. • “Tanto miglior è, quanto più dei parlari del profano vulgo si sprolunga” Se la lingua della prosa poteva risultare esamine, quella della poesia appariva in confronto un autentico fossile, consacrata com’era al culto della “voce antica”. La restaurazione neoclassica aveva rilanciato la tradizione più aulica e illustre. Nello Zibaldone Leopardi non ha esitazioni: “ Una parola o frase difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo all’uso volgare”. Perfino Manzoni in poesia si allinea al canone; ma nell’arco di un paio di generazioni quel corpus linguistico che aveva gloriosamente sfidato i secoli subisce un tracollo. Quel patrimonio linguistico tanto clamorosamente incompatibile con le nuove condizioni ambientali sarebbe sopravvissuto a lungo nella serie dell’educazione scolastica. A cavallo tra il XVII e il XIX secolo l’universo della poesia comincia ad apparire sempre più anacronistico a fronte dell’impetuosa accelerazione registrata dalla vita europea; il poeta non scrive più nel presente assoluto e immobile. Il suo io non è più idealizzato, sublimato ed esemplare, ma si fa concreto. Nonostante questa spinta innovativa, la tradizione continua a imporre i suoi gravosi pedaggi. L’inedita “poesia senza nome” di Leopardi venne costruita senza mai uscite dalle più rigide forme codificate della convenzione classica. Ancora a metà Ottocento la riluttanza della lingua della poesia ad accostarsi alla sfera familiare, al concreto e al quotidiano restava molto forte. La tradizione poetica opporrà ancora per anni una strenua resistenza, sopravvivendo anche all’unificazione linguistica del paese, con la quale lingua letteraria e lingua d’uso per la prima volta dopo secoli si ritrovavano ad appartenere allo stesso sistema linguistico. Così negli scapigliati e i nuovi confusi fermenti realistici e colloquiali convivono con un canone sempre più anacronistico. Nel corso della prima metà dell’Ottocento il conflitto tra nuovi contenuti e ricerca di popolarità da una parte e tradizionalismo dall’altra affligge anche il genere di maggiore successo: il melodramma. Il caso più emblematico è offerto dalla Traviata di Verdi. Scegliendo una vicenda ambientata nel presente il musicista non fa che applicare coerentemente i principi del realismo romantico. Proprio mentre l’opera colpisce per un’attualità carica di elementi scandalosi, la lingua spicca per il vistoso arcaismo. • La tenacia del classicismo e Carducci Nel poeta toscano vengono rispolverati i tratti peculiari del letterario italiano, a cominciare dall’erudizione in quanto fondamento della poesia; c’è in Carducci un’idea della poesia che fa tutt’uno con la storia della poesia, a partire della persuasione che la lingua del verso dovesse porsi un gradino sopra di quella prosa. La sua è una “poesia della letteratura”. Carducci si presenta come il poeta della santità, persuaso che il verso sia ars rhetorica, tecnica, egli volle essere “grande artiere” del tutto estraneo alla poesia illuminata. Anche in Carducci vive il bisogno di una lingua poetica nuova, ma la via prescelta è restaurativa e passa attraverso le citazioni incastonate. Si cerca il nuovo passando attraverso l’antico. Egli mira a un più profondo contatto con le fonti dell’antico, convinto che il rinnovamento si possa ottenere ritornando a una classicità più vera, recuperata fin dentro l’anima metrica della poesia. Carducci era come intrappolato dentro la prigionia di una tradizione e di una cultura che si sforzavano faticosamente di affacciarsi alla soglia della modernità. • Pascoli a Recanati Forse nessuno come Pascoli ha colto e sofferto in prima persona i limiti della tradizione letteraria italiana che egli identificava nella genericità e nell’indeterminatezza della lingua poetica. Il tema è al centro di una conferenza sulla giovinezza di Leopardi, che Pascoli tenne a Firenze del 1896. Il nodo centrale del discorso pascoliano verte sul duplice errore della nostra tradizione: 1) “indeterminatezza” e 2)“falso”, ossia genericità e convenzionalità. 1) “l’errore dell’indeterminatezza per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi con il nome di alberi” 2) “si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole e tutti gli uccelli a usignolo” Secondo Pascoli la descrizione della scena oscilla tra due poli: impressionismo prezioso e humiltas rurale. Mentre il paesaggio vibra di un brusio di voci e campane e si accende la luce del tramonto, la canonica “donzelletta” cede il passo a due meno auliche “vecchiarelle”. Pascoli non manca di cogliere la novità della poesia leopardiana: l’ingresso dell’hic e nunc, la rappresentazione in presa diretta di ciò che sta scorrendo dinnanzi agli occhi del poeta. Ma tanto innovativo nella rappresentazione della realtà nel suo farsi, Leopardi resta impigliato nel vischio della tradizione quando sostituisce i fiori con lo stereotipo del “mazzolino di rose e viole”. Quelle rose e viole sono entità cartacee, sono i fiori della tradizione letteraria italiana. Leopardi ha offerto delle citazioni poetiche, sostituendo il dato con un “tropo”, termine con cui Leopardi indica la voce convenzionale, lo stereotipo letterario. Rispetto a questa tendenza allo stereotipo, la poesia pascoliana muove esattamente in direzione opposta; la poesia di Pascoli consiste nella visione di un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi, ossia di uno specifico, inedito dato della realtà. Nel finale del Sabato Pascoli ricorda la sua idea di poesia: è sempre fondata sull’osservazione diretta. Il risoluto appello di Pascoli ad aprire gli occhi sulla vita che scorre, coglie un vizio nostro: “noi italiani imitiamo troppo”, incastoniamo le gemme altrui in un anello nostro. Grava sulla nostra letteratura il vizio della retorica, che allontana una volta di più dall’umile poesia delle cose. • Lo smantellamento della lingua della tradizione La diagnosi di Pascoli delucida in merito alla crisi ormai irreversibile della lingua poetica italiana alla fine dell’Ottocento; inequivocabile è la denuncia del Fanciullino: “ Ma poi per poesia vera e propria, a noi manca, sembra mancare, la lingua”. Pascoli distrugge la lingua della tradizione , rivendicando al suo posto una lingua concreta e precisa, all’occorrenza tecnica, regionale e addirittura dialettale. D’Annunzio la smonta dall’interno, riesumandola con gusto puramente manieristico, servendosene con instancabile frenesia sperimentale. Con D’Annunzio si verifica uno stacco senza precedenti nella lingua poetica; la tradizione non è più percepita nella sua vitale continuità con il presente, ma come uno spento patrimonio del passato. Pascoli percepisce che la questione non è solamente linguistica e che per uscire dalla genericità occorre un cambiamento di contenuti; a tale scopo egli compie una duplice operazione: in primo luogo accorda piena cittadinanza al mondo feriale e fabbrile, in particolare all’universo contadino; Pascoli introduce tre novità: • il contadino viene rappresentato nella sua quotidianità e nella sua miseria; • viene dato spazio alla visione contadina del reale; • la concezione del rurale non è solamente poetica, ma nasce da una conoscenza diretta di quel mondo. In secondo luogo Pascoli evoca le gerarchie retoriche e stilistiche legate alla separazione degli stili. L’autore ha sconvolto gli schemi, la vecchia architettura retorica e ha eliminato ogni distinzione di livelli. Il punto di partenza di Pascoli è sempre l’osservazione diretta del mondo rurale e della quotidianità popolare. • Il rilancio dell’aura In Gozzano il fascino della grande tradizione poetica continua a essere presente; il poeta torinese è stato salutato come l’ultimo dei classici. Nei primi anni del Novecento sia l’espressionismo, sia l’ermetismo rilanciano l’aura: non più fanciullo, il poeta rinuncia alla sua maschera depressiva per porre al centro della propria opera un IO nuovamente caricato di un’inedita intensità. In Ungaretti la parola si fa attonita, si irrigidisce, è sottoposta a una serie di forzature sintattiche e viene costruita in modo da suggerire solennità; si assiste a una nuova sacralizzazione della parola: nell’espressionismo intraprende nuovi cammini con una pronuncia individuale, mentre in Ungaretti viene valorizzata in quanto oscuro annuncio di un messaggio, di cui il poeta è portatore. La poesia, sia pure con modi differenti, torna a puntare su una lingua diversa da quella veicolare. Con la consacrazione espressionista e ungarettiana del poeta e la scelta di una lingua a sé, il neoclassicismo della nostra tradizione riprese il sopravvento. La strada verso una nuova restaurazione era aperta e l’ermetismo non faticò a regolamentare e a grammatizzare il disordine linguistico dei suoi predecessori; ma proprio la lingua ermetica segna anche l’ultimo sussulto di una tradizione a fine corsa. non possedeva il materiale di ogni giorno ed è stato inevitabile che gli scrittori si siano sempre attenuti a temi codificati come quelli connessi all’amore sublime e nobile. • La produzione bucolica (bucolico significa idilliaco, arcaico, della poesia pastorale) La realtà dell’agricoltura e della pastorizia, da cui le classi dirigenti hanno sempre ricavato sola rendita, sono state oggetto di una rappresentazione elusiva. Due le convenzioni formali che con i loro stereotipi hanno mediato l’accesso a quei mondi: 1) la satira anticavalleresca e la farsa rusticana; 2) la produzione georgica e bucolica. Di origine medievale, la satira contro il villano ha alimentato un ricco filone che ha innescato lo stereotipo del contadino deforme, barricato entro il suo ghetto culturale e linguistico della letteratura rusticana. Quanto alla poesia pastorale, il rinnovato interesse che nel Quattrocento si registra in latino come in volgare è un fenomeno che si sviluppa a partire dalla Toscana. Boccaccio si era retto su un mirabile equilibrio di mito e rustico, ma dopo di lui la nuova produzione conosce uno sviluppo divergente: da una parte il filone rusticale, con i suoi umori realistici e popolari e dall’altra il filone dell’allegoria, che si serve della convenzione bucolica come di una maschera per alludere a situazioni proprie delle classi dirigenti. Nella cultura umanistica sarà il teatro a rilanciare la finzione legata al mondo delle greggi e dei boschi; il dramma pastorale costituisce uno dei contributi più rilevanti, che poco ha a che fare con il mondo rurale. È in Sannazzaro che la bucolica si consolida in quanto mediazione idealizzante ed elegante travestimento; in questa produzione il raffinato gioco intertestuale si accompagna alla proiezione nella finzione bucolica degli spettatori. La commedia pastorale incarna la spinta del pubblico cortigiano dell’età controriformista verso l’equilibrio, la temperanza: le vicende rappresentate muovono dal disordine delle passioni per approdare alla moderazione delle nozze. Nel Settecento il genere bucolico riacquista attualità sullo sfondo di un rinnovato clima culturale a livello europeo: riscopre i valori di naturalezza e semplicità. Il bersaglio era l’artificioso mondo barocco. Folengo e Ruzzante reagiscono all’irrigidirsi delle poetiche classiche della separazione e della distinzione degli stili, rimescolando illustre e popolare, alto e basso. La operazione ideologica messa in atto tra l’Ottocento e il Novecento, quella del Pascoli, consiste nella costruzione di una grande epica contadina. • La poesia cavalleresca Lo sfondo storico e sociale in cui si sviluppa tale poesia è costituito dal diffondersi tra le classi borgesi di modelli sempre maggiormente distaccati dalla tradizione. La ripresa del romanzo cavalleresco comporta gli ideali di romanticismo eroico, ma anche trattati sulle buone maniere. All’origine del filone cavalleresco c’è un consolidato genere di letteratura di consumo. Spetterà ad Ariosto ricondurre il genere all’omologazione linguistica e retorica del Bembo; è evidente che la poesia cavalleresca tratteggia dei mondi ideali. Questa tragedia collettiva presenta episodiche occorrenze nella letteratura italiana, che preferisce rimuoverla, trasfigurandola nell’avventura guerresca e amorosa. Solo nella produzione dialettale si registra l’affioramento del dramma della finis Italiae. Qui la guerra non è quella degli eroi di Francia, ma è la guerra della miseria, delle vittime e dei profughi. Cap.5. La siepe e la città • L’elusione di Metropolis Nella produzione otto-novecentesca solo di rado si affronto temi quali la città, la modernità, il lavoro industriale; nella seconda metà del XIX secolo si compie in letteratura la scoperta del mondo reale, spesso facendo ricorso al dissonante universo dei dialetti. Ciò nonostante l’attenzione continua ad essere rivolta alla campagna. Il letterato italiano è di solito di mentalità cittadina, tendenzialmente cosmopolita, eppure le sue pagine sono elusive rispetto alla realtà urbana e preferiscono parlarci di mondi più rarefatti e arcaici. Questo movimento centrifugo dalla città alla campagna, ovvero dal centro alla periferia, rappresenta un tratto caratteristico della letteratura italiana: la categoria più profonda per interpretarlo è l’arcadia (corrente letteraria che si proponeva di reagire al gusto barocco promuovendo una poesia semplice, d’ambiente pastorale, vicina ai modelli bucolici greci e latini). La fantasia dei nostri autori non sembra stimolata dalle contraddizioni della moderna società. È mancato nella tradizione letteraria italiana il romanzo della città moderna alla Balzac o alla Dickens, mentre abbondano storie di baroni e contadini. • Il trio di fine Ottocento e la modernità Carducci descrive la Maremma e i cipressetti, le fonti del Clitunno e il Monte Spluga, ama le rovine e, se si parla di città evoca i comuni delle libertà medievali. Pascoli sceglie anche sul piano della vita privata di allontanarsi dalla città per rifugiarsi fra i monti della Garfagnana. La sua poesia edifica uno dei più importanti miti della nuova Italia: il mito agreste, caro ai ceti medi e sgomenti di fronte alla complessità della moderna società urbana. D’Annunzio parla di città nella sua opera, ma sono le “ città del silenzio”; egli fu un collezionista di città avviate al tramonto: la Roma barocca, la Firenze osservata dai colli, Venezia come luogo tipico del decadentismo. L’orrore per il nuovo mondo industriale non impedisce a D’Annunzio di coglierne le potenzialità mitiche e in fondo la sua poesia contiene un’apologia del capitale, delle macchine, della finanza, con fini imperiali. La città moderna acquista significato solo a partire dal viaggio in Grecia e l’ordigno che esce dai cancelli della Fiat è trasfigurato nelle spoglie di Satana o di Pegaso: il movimento è sempre a ritroso. • Verso le periferie Svevo è forse l’unico scrittore che presenti una città emporio, in cui si agita il fervore dell’economia borghese; la città che ha commosso generazioni d’italiani è quella di Saba, la quale si apre nei pittoreschi squarci del vecchio centro storico. La più celebre poesia Trieste e una donna contiene uno degli schemi prediletti dagli autori italiani: la passeggiata che conduce il poeta al di fuori dal contesto urbano, in una posizione elevata, da cui contemplare il brusio della città sottostante. Non c’è adesione al cuore pulsante della città: si preferisce il pathos della distanza; il topos della gita fuori porta permette l’elusione della città borghese che sta cambiando rapidamente. A invertire questo schema provvederanno in pieno Novecento, Pasolini per Roma e Giannoni per Genova, opponendo le grandi tradizioni cosmopolite della borghesia mercantile ligure al piccolo- borghese di Firpo. • La città postmoderna Il rimpianto della città preunitaria si ritrova soprattutto, anche se non esclusivamente, nei poeti in dialetto. Tanta letteratura del secondo Ottocento e primo Novecento tende a regredire in una situazione minore, esorcizzando la nuova realtà economica e sociale. Milano si offriva allora come osservatorio delle nuove dinamiche innescate dalla modernità capitalistica. Se c’è una letteratura in cui la città moderna faccia la sua comparsa, questa è certamente la letteratura milanese. Il vagheggiamento di una città legata ai ritmi del mondo preunitario può essere letto come reazione all’accelerazione economica di quegli anni; entro tale schema si collocano gli esercizi degli scapigliati, che continuano a guardare con nostalgia a universi arcaici preborghesi. Verga che nel 1872 era approdato nella frenetica Milano, si congederà agli scenari urbani di Per le vie, per approdare con I Malavoglia alla campagna. Lo choc della vita cittadina non attrae i nostri autori e neppure nell’avanzatissima Milano è dato trovare un equivalente urbano dei romanzi veristi di invariabile ambientazione rurale. L’unica vera eccezione in questo quadro è costituita da Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi: il romanzo è a tutti gli effetti urbano, nel senso che la città e le sue dinamiche ne costituiscono l’irrevocabile sfondo. De Marchi descrive il ritratto di una città in cui tutto si muove secondo le logiche della modernità, raffigurate nella prospettiva dei ceti medi, che costituivano anche il pubblico dei suoi lettori. Il suo mondo si compone della piccola borghesia che arranca nella metropoli, investita dall’impetuosa modernizzazione che ne sta mutando l’aspetto. La prospettiva di De Marchi è la psicologia: alla fine a lui interessano più gli uomini rispetto agli spazi in cui vivono. Le prose cadenzate Milanin Milanon consegnano una metropoli anonima, travolta dalla cancellazione della sua antica identità; apparse nel 1902, sono non a caso scritte in dialetto e hanno come destinatario il massimo poeta meneghino Carlo Porta, a cui l’autore si rivolge con il confidenziale “Carlin”. Il testo tende far leva sul sentimento di appartenenza del pubblico municipale, soprattutto delle classi medie per le quali l’Unità aveva significato una serie di trasformazioni socioeconomiche.
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