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La letteratura degli italiani, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

"Qual è stato il prezzo che la nostra letteratura ha pagato al disagio sofferto per secoli dagli autori non toscani, costretti a scrivere in una lingua non loro, una lingua acquisita non naturalmente ma mediante lo studio, una lingua libresca di solito mal posseduta? Una lingua nella quale andavano perduti i sapori suscitati dal dialetto nativo, che evocava la casa, la terra, la familiarità, gli odori della vita?"

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 27/02/2016

laura_infurna
laura_infurna 🇮🇹

4.5

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Scarica La letteratura degli italiani e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA LETTERATURA DEGLI ITALIANI CAPITOLO 1 Il <tedesco della Bibbia> è la traduzione di Lutero (1522-1534) ed è decisivo per lo sviluppo della moderna lingua tedesca. Cosa corrisponde alla lingua italiana? Per secoli è stata la lingua della letteratura, ovvero il toscano del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio e codificato nel 1500 dal Bembo) a riguardare esclusivamente la comunità dei dotti -> la religione è per tutti, la letteratura per pochi. ✳ nella maggior parte dei paesi europei tra il codice adottato dagli scrittori e quello utilizzato dal popolo c'era solo una differenza di livelli ✳ in Italia, c'era un vero e proprio salto da una lingua all'altra: dal "superdialetto" toscano imposta come lingua della letteratura all'interno della ristrettissima comunità dei dotti al babelico fermentare di tutti gli altri dialetti ben presto considerati come lingue subalterne. Caratteristiche del toscano: a. era una lingua morta (i dialetti erano lingue vive); b. non poteva contare sul ricambio tra oralità e scrittura; c. impopolarità: serviva solo per scrivere libri e nient'altro; d. carattere scolastico: conoscibile solo attraverso la scuola; e. innaturalezza e artificio nel rapporto con l'utente; f. imponeva monolinguismo aulico; Dialetto = lingua del parlato, d'obbligo nelle relazioni quotidiane Italiano = lingua arcaica, irreale usata dagli scrittori la cui <schietta e nativa ricchezza sta tutta nelle antiche> (Foscolo). Toscano imparato come una vera e propria lingua straniera. <Ore di città> di Tessa ricorda le difficoltà dei nonni e dei padri alle prese con l'italiano. Italiano vs straniero L'italiano, incontrando uno straniero, sperimentava la propria diversità linguistica, consolidava la coscienza di far parte di una comunità distinta da quella del proprio interlocutore e viveva l'italiano con un atteggiamento paragonabile a quello con cui noi oggi ci rivolgiamo alla lingua inglese per navigare nel web/comunicare con un giapponese o russo... Italiano vs dialetto Alcuni parlanti si sforzavano di elevarsi dal proprio dialetto con intenti di promozione sociale e culturale. Ma negli anni successivi all'Unità la dialettofonia sarebbe risultata esclusiva tanto che la satira dei nuovi italiani che, alla ricerca di status, affettavano la nuova lingua sarebbe stato un tema della poesia da trattare in dialetto. Con l'espressione <PARLA COME MANGI> si intende colpire chi con l'affettazione linguistica pretende di elevarsi dalla propria realtà. Gli autori italiani hanno certamente parlato come hanno mangiato -dialetti e cibi locali- ma nella letteratura sono stati lontani dal parlare come dal mangiare. Nel <Partigiano Johnny> di Fenoglio, il primo particolare che conduce alcuni contadini a sospettare che uno straniero sia una spia fascista è che in un paese come le Langhe dove il dialetto è di rigore, l'uomo si esprima in italiano. La lingua italiana qui diviene anche la lingua della menzogna propagandistica del fascismo. PARADOSSO 1: la nostra letteratura si è sviluppata senza una lingua nazionale e ogni scrittore ha dovuto acquisire artificialmente (Ariosto, Alfieri, Parini, Manzoni) o inventarsi (Goldoni e Verga) il proprio codice. PARADOSSO 2: la necrolalia, ovvero per secoli un paese vivo ha dovuto esprimersi attraverso una lingua non nativa e morta. Per essere scrittori italiani bisognava imparare una lingua straniera e che nessuno parlava più. PARADOSSO 3: i nostri scrittori hanno proceduto con lo sguardo rivolto al passato: prima verso la triade del Trecento, poi con Bembo nel Cinquecento e infine verso i lemmi della Crusca. Ne deriva che l'esemplarità è una categoria decisiva nelle tradizioni letterarie ma nella nostra essa è divenuta patologica avviando un prematuro destino di mummificazione. CONSEGUENZA: mentre gli altri paesi si affiancavano a contrassegni concreti come la monarchia o la nazione, l'Italia si è attribuita un'identità fittizia e cartacea. Trattandosi di una lingua morta, non ha potuto far altro che riferirsi a un'identità antiquaria come il decrepito <elmo di Scipio>. LA QUESTIONE DELLA LINGUA caratterizza tutta la nostra tradizione. La lingua è come l'"araba fenice" che <ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa>. Dante è riconosciuto padre fondatore delle patrie lettere ed è colui che inaugura la ricerca della lingua. Tale questione non è stato in nessun altro paese così assiduo e duraturo. Essa dimostra come in Italia la lingua mancava e ha continuato a mancare per secoli. Essa inoltre riguarda esclusivamente la lingua letteraria, non quelle d'uso poiché queste ultime esistevano già. Dante nel De vulgari eloquentia scrive in latino per sdoganare il volgare ribadendo che la questione riguarda in particolare gli scrittori, gli uomini di cultura e ponendo in questo modo un problema retorico, non comunicativo. La sua ricerca infatti avrà un esito negativo: nessun dialetto può ambire a imporsi come codice esperantico. RAPPORTO LINGUAGGIO-PENSIERO-REALTA’: Il primo ad adombrare l’ipotesi relativista è stato Locke. Egli ha sostenuto che le idee generali non sono innate in quanto, se confrontate in lingue diverse, presentano delle divergenze. Per i filosofi sette-ottocenteschi i concetti su cui fondiamo la nostra conoscenza non rappresentano una realtà univoca attinta con la ragione ma vengono filtrati dal linguaggio che plasma esso sulla realtà TEORIA DI SAPIR-WHORF: tale problema risale anche agli anni Trenta: Edward Sapir sostiene che al variare delle lingue varierebbero anche le categorie fondamentali del nostro pensiero, lo spazio, il tempo, il R oggetto-soggetto ecc. Le lingue quindi sarebbero vere e proprie interpretazioni della realtà e condizionerebbero, con le loro strutture, le percezioni del parlante organizzando cosi il suo pensiero. Si parla quindi oggi di mutue influenze tra lingua e pensiero. Il linguaggio ha comunque una forte influenza a sua volta sul soggetto. DIALETTO COME MOTHER TONGUE: Chi vive esperienze di diglossia o bilinguismo sostiene che la lingua materna determini una maggiore congiunzione tra la parola e la cosa: <in dialetto il mondo ha tutt’altro sapore>. Questo avviene perché il dialetto ha un carattere nativo, è strettamente intrecciato al rapporto primario con la madre dunque ai vissuti più remoti, al corporeo, alle prime esperienze visive e sensoriali. Proprio per questo suo carattere molti scrittori come Luigi Maneghello sostiene che il dialetto non sia una lingua bassa bensì una lingua profonda perciò trova fondamento nelle ferite antiche al contrario dell’italiano, del francese o del latino che si trovano nelle ferite superficiali. Molti scrittori hanno dovuto rinunciare alla propria lingua nativa per adattarsi alla lingua letteraria. Da noi tale rinuncia costituisce una sorta di esperienza costitutiva, ma in atre tradizioni come quella della letteratura dell’emigrazione (rumeni con parole francesi) ciò ha comportato un disagio proprio come hanno sofferto in passato gli autori non toscani costretti a scrivere in una lingua illustre in cui i sapori suscitati dal dialetto nativo andavano persi. MULLER: La scrittrice Herta Muller ha sempre rifiutato di scrivere nella lingua ufficiale del proprio paese perché solo nella lingua madre è possibile riversare autenticamente su carta il proprio mondo interiore. Evidenzia come il linguaggio permetta di custodire la memoria della propria patria anche quando non sia fisicamente possibile vivere in essa. TODOROV: bulgaro,dichiara che <cambiando lingua, mi sono sentito cambiare di interlocutore immaginario> proprio come gli scrittori toscani non hanno avuto la possibilità di raggiungere il pubblico più vasto degli “homini senza littere”. JULIA KRISTEVA: bulgara, afferma che sapere e voler scrivere in dialetto ma non poterlo fare è come portare dentro di sé una cripta segreta o un bambino handicappato, amato e inutile che non ci lascerà mai. Avere una nuova lingua può apparirci come una resurrezione che viene poi disillusa quando ci si riascolta e la nostra voce ci appare bizzarra. EVA HOFFMAN: ricorda il suo primo giorno di scuola in un paese straniero il quale tradusse il suo nome polacco nella nuova lingua. I nuovi appellativi vengono considerati come targhe identificatorie, segni incorporei mentre il suo vero nome polacco non si riferiva a lei ma era lei. ADORNO: nella malinconia del nuovo paese e della nuova lingua, rievoca una parola della sua lingua nativa e in questo modo nella mortificazione dell’errore ritrova il proprio radicamento nella vita. La lingua materna quindi evoca il corpo, è il corpo e perderla equivale a perdere una parte irrinunciabile di se stessi. DELIO TESSA afferma: <Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla>. MANZONI: scrive nella seconda Introduzione del Fermo e Lucia: <quando l’uomo che parla abitualmente il dialetto si pone a scrivere in un’altra lingua, il dialetto di cui si è servito nelle occasioni più attive della vita, gli si affaccia da tutte le parti e dalla penna gli cola […] questa irruzione inevitabile ha attribuito un carattere speciale agli scritti d’ogni parte d’Italia>. SVEVO: <con ogni nostra parola toscana noi mentiamo […] La nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto>. La polarità tra “toschi modi” e “sermon natio” (Parini), tra lingua letteraria e mots de la tribù ha determinato la storia sociolinguistica caratterizzata dalla diglossia lingua-dialetto. CARATTERI DELLA LETTERATURA ITALIANA 1. CARATTERE METASTORICO: la precoce egemonia del toscano letterario ha accentuato nella nostra letteratura i tratti di immobilità metastorica, di atemporalità, di fissità. La nostra tradizione risulta prevalentemente monolinguistica: da Petrarca a Leopardi non si è fatto altro che riscrivere sempre lo stesso testo nella stessa lingua, indipendentemente dal mutare dei tempi e delle culture. 2. CANCELLAZIONE DELLE DIFFERENZE GEOLINGUISTICHE: la continuità storica contava più della discontinuità geografica. La letteratura italiana ha puntato su un’universalità liberando la pagina da tutti i tratti che la contrassegnavano alle concrete aree da cui nascevano. 3. REGISTRO ILLUSTRE: la letteratura in lingua ha puntato unicamente sull’idealizzazione e sulla stilizzazione, sull’aulicità e sulla nobiltà mentre il dialetto provvedeva alla comicità, al grottesco e alla parodia. L’uso del dialetto in poesia si è offerto come ribaltamento della poesia illustre, come antimodello di un modello che le attribuiva senso. La scelta del registro illustre si è tradotta nella propensione per i personaggi eroici, per l’amore celeste, per le ambientazioni rarefatte, per l’idealizzazione. 4. SELETTIVITA’ TEMATICA: l’esclusività della lingua letteraria toscana ha contribuito alla riduzione della realtà rappresentata: l’amore spiritualizzato, la materia cavalleresca, la convenzione pastorale. I mondi dell’esperienza quotidiana erano trattati dal dialetto. Pirandello affermò che la nostra letteratura amava più “lo stile delle parole” che “lo stile delle cose”. A fronte dello sfacelo politico, gli scrittori hanno preferito l’omogeneità dell’ideale alla discontinuità del reale, l’astratta perfezione del mito alla tragicità dell’esistenza, il modello all’irregolarità; hanno sostituito ai volti le maschere e hanno composto paesaggi ideali. Si potrebbe parlare di PLATONISMO della nostra letteratura. 5. GENERICITA’ LINGUISTICA: a fronte delle carenze del vocabolario toscano e della conoscenza solo libresca da parte degli scrittori, spesso essi hanno adottato un lessico sommario, evasivo, impreciso, convenzionale. 6. CONVENZIONALITA’: il toscano è la lingua esclusa da ogni legame profondo con le radici psichiche del soggetto. I nostri scrittori hanno pensato in dialetto e tradotto in toscano. Per questo hanno avvertito l’illegittimità del proprio mondo interiore. Per questo hanno proceduto per allusioni e metafore. 7. RIPETIZIONE MANIERISTICA: i nostri scrittori si sono mossi entro rassicuranti giardinetti della tradizione, dato che la selva era di competenza dialettale. Si tratta di una prassi compositiva tendente al modulismo, alla formula, all’imitazione. Da noi il cannibalismo fisiologico di ogni letteratura, per cui i libri si nutrono di altri libri, ha assunto caratteri patologici. E’ mancata la presa diretta sulla realtà. Pascoli infatti afferma che la nostra letteratura sa più di lucerna che di plein air. 8. LETTURA IPERCOLTA: per il suo codice solo letterario, il toscano risulta una lingua a bassa densità denotativa e ad altissima valenza connotativa. Perciò ogni parola si pone già come una parola “poetica”. Solo andando oltre la fruizione immediata, chi affronta un testo è in grado di cogliere il senso profondo di un’opera. Ciò presuppone un superlettore. 9. CULTO DELLA FORMA: avviandosi in un’operazione autoreferenziale, gli scrittori hanno perso contatto con l’esperienza viva. Imposto il primato della forma a discapito di altre istanze, dal raccontare al rappresentare. Tale culto autoriproduttivo riflette la crisi di un paese divenuto terra di conquista delle potenze straniere. 10. ALTERAZIONE DEI VALORI: la letteratura italiana si articola sulla produzione in toscano e in dialetto. Gli scrittori in toscano hanno puntato sulle rappresentazioni sublimate e trasfigurate, quelli in dialetto aprono le pagini al quotidiano, all’economico, al popolare. Gli uni hanno scelto il registro aulico e sublime, gli altri il registro comico e realistico. La diglossia lingua-dialetto ha condizionato pregiudizialmente la valutazione delle due letterature al punto che il valore estetico dipende dalla discriminante linguistica e non dalla qualità letteraria. Per questo venne privilegiato il toscano (entrò in vigore il criterio dei “buoni autori” in cui vi rientravano solo coloro che scrivevano in toscano) squalificando coloro che scrivevano in dialetto ai quali appunto vengono riservati, nei testi, paragrafi minori e intitolati Poeti minori e dialettali. CAPITOLO 3 TEATRO: Redatta in una lingua che non era di tutti, la nostra letteratura si è trovata nell’impossibilità di parlare delle cose di tutti. Maggiormente penalizzato è stato il teatro che ha bisogno di una lingua viva e credibile. Data la fissazione del toscano, vi è stata una immediata reazione da parte del teatro che ha trascinato sul palco la sarabanda delle lingue risonanti nella realtà. Molte opere sono state condannate a una produzione di rappresentazione da oratorio ma le tragedie di Tasso, Alfieri e Manzoni per esempio, anche se destinate alla scena, danno il meglio di NOVECENTO: Pascoli è stato salutato come ultimo dei classici. Con i crepuscolari e con Palazzeschi giunge al termine la stagione che, tra Sette e Ottocento, aveva puntato sulla consacrazione sacerdotale del poeta, caratterizzata dal rilancio del vate-artiere di Carducci. Nei primi decenni del Novecento il poeta rinuncia alla sua maschera depressiva o beffarda per porre al centro della propria opera un io nuovo con un’inedita intensità. Gli anni Sessanta del Novecento si rivelano decisivi perché il parlato, la lingua veicolare si insedi nella poesia in modo irreversibile. UNGARETTI: In Ungaretti la parola si fa oracolare, viene costruita in modo da suggerire solennità, sostenutezza. I versi sono ridotti a brevissime sequenze sopraffatte dal silenzio reso dal bianco della pagina. Si assiste a una nuova sacralizzazione della parola. La parola con Ungaretti viene valorizzata in quanto oscuro annuncio di un messaggio, di cui il poeta ne è portatore, sullo sfondo di una nuova religione delle lettere. Grande tema della nuova lirica resta l’aridità dell’uomo ma il poeta qui aspira a farsi sacerdote, testimone privilegiato ed elettivo. CAPITOLO 4 MANZONI: La divaricazione tra parlato e scritto in Italia costituisce il nodo centrale della riflessione di Manzoni. Egli afferma che se da noi è mancata una letteratura popolare, ciò è avvenuto a causa della lingua. Diverso è per lui la non-popolarità della lingua e la non-popolarità della letteratura. Egli ribadisce continuamente l’anomalia di una lingua che non ha con sé una società che la parla e di una letteratura che si basa sulla divisione tra dotti e pubblico. Manzoni si riconosce nell’idea romantica della letteratura come espressione di un intero popolo. Manzoni poneva la questione della lingua della nostra letteratura che doveva essere rinnovata affinché potesse svolgere la sua missione pedagogico-educativa. Se Manzoni ha denunciato le cause dell’impopolarità, se Bonghi ne ha posto in luce gli effetti, se molti altri studiosi hanno lavorato sugli elementi sociolinguistici della nostra letteratura, bisogna analizzare in che modo tale impopolarità si è manifestata. Per esaminare tale prospettiva esaminiamo 3 principali esperienze che la maggior parte degli scrittori ha trattato nei loro testi: • Esperienza amorosa • Civiltà agro-pastorale • Guerra portata da eserciti stranieri 1.LIRICA AMOROSA: si assiste a una proiezione della vicenda amorosa verso la rarefazione e l’idealizzazione. In una prima fase tale proiezione è determinata da spinte culturali, successivamente essa dipende dall’impiego di una lingua non nativa, morta. Nella prima fase il comico consente l’affermazione di varianti più basse e prosaiche, nella seconda esso viene assunto in termini parodici e contrappuntistici. Inizialmente l’amore viene esaminato nel concreto, attraverso le esperienze dei trovatori provenzali. Il distacco dalla concretezza avviene molto presto e gli scrittori si concentrano sul fin’ amor, sull’amore cortese. Tra il Dolce Stilnovo e Dante l’amore si installa a livelli alti del sistema letterario facendosi spesso esperienza metafisica. Con Dante infatti l’amore diventa il tramite della salvezza morale e religiosa. Nel corso del Trecento la nostra letteratura ripropone l’opzione del sublime. Ancora con Dante l’idealizzazione e il comico si pongono su poli contrastanti: il registro comico costituisce un’eccezione all’interno di un’opera lirica di più elevata ambizione, in cui l’amore è intrecciata alla filosofia e alla fede. PETRARCHISMO: Petrarca rappresenta il centro di tutta la lirica italiana, offrendosi per secoli come modello, repertorio. Egli sentiva il fiorentino come un codice sganciato dall’uso comune, un codice più rarefatto, una lingua della poesia che egli suggellerà in una nuova perfezione. Petrarca tende a proiettare la propria autobiografia in una purificata fenomenologia dell’amore, rivolta verso la trasfigurazione morale. La sua vita è sganciata dal reale e tende verso l’esemplarità. Il paradigma petrarchesco viene rilanciato con l’operazione del Bembo che con il Canzoniere costituisce un tutt’uno insegne della lirica italiana tra registro sublime, referenti idealizzati e lingua morta. Egli definisce il petrarchismo “poesia pura”, basato su: 1. Ferreo monolinguismo 2. Ricorso esclusivo al sonetto e alla canzone 3. Misurato dosaggio delle immagini ANTIPETRARCHISMO CON RUZZANTE: si oppongono soprattutto attraverso una ricca produzione antifrastica e sarcastica in lingua ma soprattutto in dialetto (Ruzzante, Sgruttendio..). Ruzzante costituisce l’emblema dell’antimodello. Egli avvia un organico progetto comico di rivendicazione della concretezza e della naturalità. L’amore veniva brutalmente riportato sulla terra: voleva dire semplicemente sicurezza, protezione, cibo, denaro. CON TASSO: il petrarchismo trova una suprema sintesi e nel contempo vive il suo superamento sia attraverso l’allargamento dei temi oltre la sfera amorosa sia attraverso l’incremento delle componenti tecniche. I moderni iniziano a prendere coscienza della loro originalità a fronte anche degli antichi e nel contempo avviene la riscoperta della realtà attraverso la nuova scienza galileiana: oltre l’introspezione petrarchesca si assiste a una nuova curiosità enciclopedica verso il mondo e i suoi mutevoli aspetti. Anche Campanella condanna l’uomo di sostituire i libri alla contemplazione delle cose. Gli autori iniziano cosi a inoltrarsi verso l’estetica dello strano, del bizzarro, dell’estremo che sarà esemplare nel barocco. SUBLIME VS COMICO: essi non si escludono/ superano ma sono stabiliti come una polarizzazione di due estremi, senza possibilità di incontro. Alla cortesia si opponeva la mercanzia, all’amore celeste di Petrarca l’amore terreno di Boccaccio. La nostra è sempre stata una letteratura degli opposti estremismi. E’ mancato il mondo intermedio perché non c’era la lingua per dirlo né una classe sociale corrispondente che l’avrebbe costituita. Sul piano della lirica amorosa è mancato l’amore nella sua normalità, umanissimo intreccio di terreno e di celeste. Il sublime è dato da una lingua libresca che era mal posseduta dagli scrittori e perciò ci si rifaceva all’idealizzazione. Anche l’amore infelice, le miserie sono connotate da eroismo, ascesi, generosità. Ma rappresentare le miserie della vita richiedeva una lingua ricca di tutte le tastiere del quotidiano come lo era il dialetto. Perciò il toscano è associato al sublime, all’amore nobile e sublime; il comico all’amore terreno. 2.PRODUZIONE BUCOLICA: tratta le realtà dell’agricoltura e della pastorizia. Anche questo tema è caratterizzato dalla polarizzazione tra la deformazione comica e la trasfigurazione sublime. La poesia pastorale si rinnova nel Quattrocento soprattutto in Toscana. Boccaccio reggeva un mirabile equilibrio di mitologia e rusticano ma dopo di lui si innesterà uno sviluppo divergente: da una parte il filone rusticale con umori parodici, realistici e popolareschi e dall’altra il filone allegorizzante che si serve della convenzione bucolica come di una maschera per alludere a situazioni delle classi egemoni. Sarà il teatro a rilanciare le finzioni legate al mondo pastorale. 3.POESIA CAVALLERESCA: si innesta quando si diffonde tra la borghesia modelli culturali sempre più sganciati dalle tradizioni di parsimonia e razionalità nel Quattrocento. Rientrano qui i romanzo cavalleresco con ideali di romanticismo eroico e i trattati sulle buone maniere. Sarà Boiardo con l’Orlando innamorato a sollevare il repertorio cavalleresco padano che si era inizialmente mosso in una letteratura di intrattenimento, “di consumo”. Manterrà una viva dimensione popolaresca. Come quella bucolica, anche la poesia cavalleresca tratteggia dei mondi ideali su cui la nuova società va rimodellandosi: modelli dati dall’incrocio di amore e armi, di tradizione lirica e tradizione narrativa. La società italiana reale non corrispondeva a ciò che veniva scritto in questi testi. Anzi la tragedia italiana veniva trasfigurata su carta nel meraviglioso dell’avventura guerresca e amorosa dei poemi cavallereschi. Nessuno stupro, angheria, saccheggio veniva citato. Tutto risplende di armature, gesti nobili, imprese eroiche. Solo nella produzione dialettale si riscontrano affioramenti del dramma finis Italiae. CAPITOLO 5 LA CITTA’: Nella tradizione otto-novecentesca assai raramente si affrontano temi come la città, la modernità, il lavoro industriale. Dalla seconda metà del XIX secolo si compie nella nostra letteratura una grandiosa scoperta del mondo reale, compiuta facendo ricorso ai dialetti. L’osservatorio privilegiato dei nostri autori rimane comunque la campagna. La città era stata per secoli un elemento strategico della storia italiana. Il letterato italiano è di solito di mentalità cittadina e tendenzialmente cosmopolita. La siepe è la protagonista della letteratura italiana. Viene descritta come barriera utile e pia. Avviene un movimento centrifugo dalla città alla campagna, ovvero dal centro alla periferia, dalla storia alla natura che caratterizza la letteratura italiana. Molti contrapponevano alla città, la pace rurale o la vita dei piccoli centri di provincia. Ma il vagheggiamento di questi ambienti si accompagnava alla fascinazione per il nuovo assetto urbano, sentito come il mondo del futuro. Nella letteratura italiana mancano quindi i romanzi della città moderna come quelli, ad esempio, di Dickens. CARDUCCI: se parla di città lo fa per evocare i comuni delle libertà medievali. In Alla stazione descrive la partenza della donna amata da una stazione ferroviaria. Si tratta di una situazione moderna. La locomotiva viene trasfigurata in un “mostro con un anima metallica” mentre la donna, pur calata nello squallido scenario della stazione, resta consegnata al suo decor petrarchesco. PASCOLI: si allontana dalla città per rifugiarsi nei monti. Rievoca il mito agreste caro ai ceti medi, sgomenti di fronte alla complessità della moderna società urbana. D’ANNUNZIO: le sue sono le “città del silenzio”; egli fu un collezionista di città avviate al tramonto: Firenze vista dai colli, Roma barocca, Venezia come luogo del decadentismo. Il superuomo propugna una vita legata all’istinto e in comunione con la natura. Nonostante D’Annunzio riconosca l’orrore del nuovo mondo industriale, ne coglie le potenzialità. Egli si differenzia in questo modo da Carducci e da Pascoli. Il prodotto industriale conosce una saltuaria
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