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La Letteratura Italiana - Dalle origini al Cinquecento (Il Quattrocento), Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto dettagliato del capitolo dedicato al Quattrocento

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 08/09/2019

ZoSooo
ZoSooo 🇮🇹

4.4

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36 documenti

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Scarica La Letteratura Italiana - Dalle origini al Cinquecento (Il Quattrocento) e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! IL QUATTROCENTO Il Quattrocento è segnato da due fenomeni importantissimi: l’Umanesimo e la formazione della nuova civiltà artistica. Il centro propulsivo della nuova cultura è la corte, dove il mecenatismo dei principi sostiene e protegge l’attività degli umanisti, che a loro volta legittimano e celebrano il potere signorile. Emergono, in ogni campo del sapere e della vita civile, nuove prospettive, sensibilità, costumi, tecniche che possono essere definiti laici l’etica prende il posto della metafisica, e ne consegue un’idea nuovo dell’uomo e della sua dignità, fondata sul primato della vita attiva rispetto a quella contemplativa, sull’eccellenza delle virtù civili e politiche rispetto a quelle propriamente intellettive e spirituali. Si annuncia l’era del cristianesimo, per così dire, mondano, in cui anche i santi possono avere il volto di intellettuali e scrittori aperti alla cultura laica. Come Petrarca, gli umanisti vogliono attuare una sintesi, un superamento della contraddizione fra cristianità e classicità (ora rinata): cercano di armonizzare la ricerca delle radici classiche con il recupero delle radici cristiane. Poi, ovviamente, l’Umanesimo non è solo un movimento luminoso: ci sono anche ombre, inquietudini spirituali, individualismi sfrenati. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e il conseguente esodo dei dotti bizantini in Occidente, la tensione religiosa si accentua: da una parte per il desiderio di intraprendere una nuova crociata, dall’altra per la ripresa degli studi teologici promossi dal confronto con la chiesa Orientale (attraverso i testi greci finora ignoti). Il termine Umanesimo nella sua accezione più precisa è della storiografia postromantica dell’Ottocento, mentre il sostantivo “umanista” indica fin dalla seconda metà del Quattrocento il lettore, l’interprete dei classici, diverso dal “dittatore” dei secoli scolastici. L’umanista è il professore, l’insegnante di latino e di greco, lo studioso delle letterature classiche e il cultore degli studia humanitatis, che sono il nucleo vitale per una formazione umana completa e armonica. Gli intellettuali quattrocenteschi pensano che l’individuo possa e debba realizzare in sé e negli altri l’humanitas, ossia il mondo di valori che fa di un uomo un uomo, vivo e non dogmatico con gli autori dell’antichità; ma soprattutto, attraverso questo confronto, egli deve interpretare il presente e agire nel concreto della storia. La nuova prospettiva filologica con cui si leggono i classici si unisce alla volontà di azione e di intervento sul reale (l’aemulatio, libera e creativa). Il mito umanistico della “rinascita” è ispirato da una morale pragmatica, fortemente laica e borghese essa non teme di assumere posizioni e costumi a volte fortemente anticlericali; tuttavia, si tende a evitare il conflitto e ad approdare a soluzioni di coesistenza e moderazione. D’altronde, l’obiettivo della nuova cultura è esprimersi attraverso tolleranza e sintesi sono quindi privilegiati tutti gli aspetti della dottrina cristiana che più si accordano col classicismo. Da questo nasce il cosiddetto Umanesimo “civile” fiorentino, che esalta le virtù attive, che favorisce una retta convivenza e tutela le istituzioni cittadine, polemizzando invece con l’ascetismo medievale perché “sterile” e anche con la vita monastica. Esponenti principali ne sono Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini (tutti cancellieri della Repubblica fiorentina). Salutati propugna la libertà repubblicana di Firenze contrapposta all’oligarchia aristocratica di Venezia o alla “tirannide” dei Visconti a Milano; egli rilanciò poi lo studio della lingua e della letteratura greca, invitando Manuele Crisolora (dotto bizantino) ad accettare la cattedra di greco allo Studio di Firenze. Bruni fu un umanista molto attivo: tradusse testi platonici e aristotelici e scrisse, in latino, opere storiografiche miranti a rafforzare il mito della Firenze repubblicana come novella democrazia ateniese (le Historiarium Florentini populi). L’attività filologica, la passione con cui si studiano i testi antichi, il sogno di restaurare la civiltà classica non sono un’operazione di pura erudizione o di evasione; al contrario, negli umanisti c’è l’idea che la lingua posa tracciare i confini della realtà: la parola pesa le cose, definisce gli ambiti del sapere e le virtù dell’uomo. Gli umanisti vedono nella parola rifondata, rispolverata dai nuovi metodi filologici, lo strumento per ridefinire gli orizzonti di tutti i saperi nella correttezza linguistica c’era il fondamento necessario per una rinascita della cultura e della civiltà. Gli autori antichi potevano condurre non solo allo sviluppo della cultura ma anche alla vita politica e civile: dalle loro opere si ricavano modelli di civiltà, esempi di misura e di orine da riprodurre nel presente. Specchio di questa convinzione è il genere della lettera, che diventa una forma comunicativa “aperta”: in essa si discute liberamente di letteratura, filosofia, politica e morale. Sulla scia dell’insegnamento di Cicerone historia magistra vitae, gli umanisti sottolineano la valenza etica della storia, un repertorio di esempi virtuosi da cui attingere insegnamenti per il presente. Nel Quattrocento nascono le prime riflessioni teoriche sulla storiografia come genere letterario autonomo e distinto dall’epica, senza più mescolare verità storica e immaginazioni poetiche. Il modello canonico è Livio, ma anche Valerio Massimo e le Vite di Plutarco. Nella novellistica riveste un ruolo di primo piano il Decameron, sia per le tematiche che per le strutture narrative il genere novellistico ha molto successo presso il pubblico cortigiano. Masuccio Salernitano, attivo presso la corte degli Aragonesi, scrive il Novellino, una raccolta di 50 novelle: pur mancando di una vera cornice, ogni racconto è preceduto da una dedica a un personaggio illustre e dall’esposizione dell’argomento; segue poi una breve morale, dove l’autore espone un giudizio sui comportamenti umani (un chiaro modello per Matteo Bandello). Le novelle di Masuccio contengono spunti personali, un’immaginazione vivida (a volte anche cruda) e una lingua che unisce dialettismi e latinismi, creando una notevole potenza espressiva. La complessità ineguagliabile del modello di Boccaccio porta al fenomeno della dissoluzione della cornice e la nascita della novella “alla spicciolata”, cioè la novella non “ancorata” a una più ampia struttura narrativa ma libera, singola. Alla fortuna di essa contribuisce il successo della Griselda, l’ultima novella del Decameron che era stata tradotta in latino da Petrarca. Ma l’influenza della novella, e soprattutto lo schema delle beffe, contribuisce alla rinascita della commedia: essa è il genere che, sovvertendo gli ideali della cultura umanistica ufficiale, rappresenta il nuovo fervore di rappresentazioni teatrali del Quattrocento. I modelli prediletti sono Plauto e Terenzio si emendano i guasti, si organizzano recite in latino ma anche in volgare ai margini delle feste di corte, volgarizzando il testo originale o imitandolo in nuove composizioni. Le recite in latino sono legate all’universo delle accademie e delle università, mentre nel tardo Quattrocento gli allestimenti in volgare si affermano presso le corti padane come svago elegante e prestigioso, soprattutto come fabule mitologiche di ascendenza ovidiana. UMANESIMO VOLGARE La produzione quattrocentesca continua a utilizzare entrambi i codici, latino e volgare; anzi, ci sono umanisti che, ancora a metà del secolo, affermano la superiorità del latino (Flavio Biondo o Lorenzo Valla). Molto acceso è il dibattito sull’origine e la natura del latino e del volgare: secondo alcuni umanisti esistevano nell’antica Roma due lingue, una regolata dalla grammatica (il latino) e una prive di regole e parlata dal popolo (l’antenata del volgare). Per altri, invece, la lingua dei romani era unica, ma con diversi livelli sociali e stilistici (oggi diremmo con varietà “diastratiche”) e i diversi volgari sarebbero nati dalla crisi della lingua latina a contatto con le lingue delle invasioni barbariche. Quest’ultima tesi fu difesa da Flavio Biondo (e difatti è corretta), che però considerava in modo negativo la nascita del volgare, perché prodotta da una corruzione del latino in realtà, mostrando il potenziale di sviluppo del volgare, ne sanciva la pari dignità. Nella prima metà del Quattrocento, nonostante il primato del latino, vi sono comunque opere in volgare, soprattutto nei generi più popolari come la novellistica e la memorialistica (diffusi caccia e alla vita agreste, incurante dei doni dell’amore conoscendo lei si eleva). Nell’opera viene rielaborato anche il genere dell’elogio (comunissimo nelle corti umanistiche e nei componimenti epici della tarda latinità) e della giostra (già collaudato da Pulci che aveva cantato la vittoria di Lorenzo in un torneo). L’ottava, il metro tipico dell’epica cavalleresca, si piega alle cadenze più libere di una nuova immaginazione lirica. Di matrice classica sono poi i personaggi, le ambientazioni mitiche e il lessico (latinismo di Virgilio, Ovidio e Seneca). La ripresa dei classici non è una scolastica derivazione ma il ritorno creativo da cui cogliere il polline poetico come l’ape che vola tra fiori diversi (immagine di Petrarca). Poliziano dimora presso i Medici fino al 1479, quando il rapporto si incrina forse anche a causa dei contrasti con Clarice Orsini, moglie di Lorenzo, riguardo all’educazione dei figli. Poliziano soggiorna alla corte dei Gonzaga e compone la Fabula d’Orfeo, uno dei primi esempi italiani di rappresentazione teatrale profana. Le ascendenze classiche sono chiare già dal titolo (riprende il mito di Orfeo ed Euridice narrato da Ovidio); tuttavia, Poliziano ha in mente il dramma satiresco, per cui la tragedia viene stemperata da un finale comico: le Baccanti, alla fine, straziano Orfeo che ha perso Euridice, ma la fine cruenta è accompagnata da un canto bacchico che assume le movenze dei canti carnascialeschi. Poliziano torna nel 1480 a Firenze e ricopre, su mandato di Lorenzo, la carica di lettore di poetica e retorica presso lo Studio, iniziando la sua brillante carriera universitaria. Diventa uno dei maestri indiscussi della nuova filologia, attuando esegesi su opere letterarie, scientifiche, filosofiche, giuridiche egli è convinto che dalla fedeltà alla parola degli antichi potesse scaturire una verità valida per ogni uomo. Questa acutezza è evidente nei Miscellanea, una raccolta di 200 questioni filologiche che propongono lezioni di testi antichi correttamente emendate. E’ un errore infatti distinguere il Poliziano poeta dal Poliziano filologo: il mondo degli antichi che lo ispira è per lui unico. Per quanto riguarda la lirica volgare, compone le Rime, dove rispetto alla canzone e al sonetto predilige il rispetto e la ballata, di origine popolaresca. BOIARDO E LE CORTI PADANE La trasformazione politico-istituzionali dell’Italia (il passaggio dal modello feudale e comunale a quello signorile e cortigiano) ha conseguenze determinanti anche sul piano intellettuale: principi, duchi, marchesi, il Papa concentrano nelle loro mani le attività di governo ed economiche e si giovano dei servigi e delle competenze di letterati, artisti, medici, architetti, giuristi ecc questi, a loro volta, concorrono a legittimare il principe e il suo potere. E nel rinnovato clima culturale della civiltà cortigiana trova largo successo l’epica cavalleresca medievale: nasce così, dopo gli esperimenti di Boccaccio, il poema cavalleresco italiano. In particolare, un terreno propizio per l’epos popolare e gentilizio sarà la corte estense: Matteo Maria Boiardo scrive a Ferrara L’innamoramento de Orlando, un poema cavalleresco in ottave, rimasto interrotto al nono canto del terzo libro (e da qui ripartirà Ariosto). Il racconto ha un intreccio assai complesso, con più personaggi e grande varietà di temi, sullo sfondo della guerra fra Carlo Magno e gli infedeli; tuttavia, il ruolo decisivo spetta all’amore: Angelica è una principessa orientale inviata dal padre sul campo cristiano proprio per allontanare i paladini dalla guerra, lei che è immagine della bellezza seducente e irraggiungibile. Così i momenti guerreschi e amorosi si alternano in uno spettacolare avvicendarsi di battaglie, duelli, inseguimenti e magie Boiardo guarda nostalgico al mondo perduto della cavalleria, di cui ammira le imprese straordinarie, riscopre il piacere del fantastico, del meraviglioso e il fascino dell’amore come desiderio, vagheggiamento. I cavalieri appassionati hanno la tristezza malinconica di un mondo di valori ormai al tramonto: nel poema confluiscono la materia “carolingia” e quella “bretone”, e sebbene il tentativo di fusione fosse già in alcuni cantari toscani, la novità di Boiardo sta nell’abilissima tessitura le gesta dei paladini non si irrigidiscono nella struttura solenne dell’epos, ma prendono slancio e movimento proprio grazie alla materia bretone. Il pubblico è cortigiano e umanista, amante di questo tipo di letteratura d’intrattenimento, mentre il poeta riesce a conservare l’incanto della favola popolare ma la innalza allo stesso tempo, nobilitandola con gemme classiche. La lingua dell’opera è un volgare di impasto padano solo parzialmente toscanizzato (per questo i lettori del Cinquecento preferiranno leggere il poema nel rifacimento toscano di Berni). Boiardo scrive anche una raccolta di liriche d’amore, gli Amorum libri tres, stampati postumi. Narrano i tre anni dell’amore del poeta per Antonia Capraia, e sono scanditi da gioia (quando l’amore è ricambiato), sofferenza (l’amore è interrotto e arriva la separazione) e rimpianto (l’amore è un lontano ricordo). E’ predominante lo schema del sonetto, la struttura compositiva è ben studiata e il tema amoroso è onnipresente questo potrebbe fare pensare a Petrarca come modello, ma in realtà l’influenza petrarchesca è più vigorosa e originale, anche grazie alla forza espressiva del volgare, nel quale permane la ruvida patina padana (la riforma cinquecentesca di Bembo invece la depurerà e toscanizzerà). Al centro del canzoniere di Boiardo c’è l’elegante rappresentazione della natura, il piacere del colore e della luminosità delle forme, espresse con la grande vitalità della parola (la stessa vitalità che si ritrova nell’Innamoramento). LA NAPOLI ARAGONESE: PONTANO E SANNAZARO Nel 1442, dopo la vittoria sugli Angioini, sul trono di Napoli sale Alfonso I d’Aragona (detto “il Magnanimo”) la corte di Alfonso diventa un centro di cultura frequentato da umanisti di rango a cui si deve la formazione dell’Accademia, poi denominata “pontaniana” da Pontano: essa nasce come circolo dei letterati di corte riuniti per la lettura, davanti al re, dei classici e degli storici (Cesare e Livio), oggetto di una riflessione necessaria e attuale sulla politica e il governo. Al servizio della corte aragonese come diplomatico e segretario di stato è Giovanni Pontano: la sua produzione letteraria consta di poesia e prosa in latino e rappresenta un capitolo importantissimo per la vita intellettuale napoletana. Scrive un po' di tutto: è un intenso poeta d’amore dai toni sensuali o elegiaci (classicamente modulati tra Ovidio e Marziale), scrive epitaffi, testi didascalici e scientifici (come l’Urania, poemetto d’argomento astrologico, o il De fortuna e il De prudentia, grandi riflessioni filosofiche) fino ad arrivare al genere tipicamente umanistico dei dialoghi (il Charon, riflessione sul destino e i vizi degli uomini o l’Asinus, allegoria dell’ingratitudine riservata a Pontano per i molti servigi resi allo stato). Scrive anche opere filologiche e storiche, come il De bello Neapolitano. Anche sotto i successori di Alfonso il Magnanimo, Ferrante I e Alfonso II, l’obiettivo della politica aragonese rimane rafforzare il potere regio che non ha radici nel territorio ed è costretto a fronteggiare le ribellioni e i conflitti dell’aristocrazia locale per cui si tenta di creare una nuova legittimazione italiana attraverso le alleanze politiche e le intese culturali. L’esperienza culturale napoletana è unica: se da un lato si appella alla tradizione toscana (vedi la Raccolta Aragonese) e alla poesia petrarchista dei lirici aragonesi, essa conserva comunque caratteristiche autoctone, a cominciare dalla lingua che è intrisa di espressività dialettale e popolare. Il maggior umanista partenopeo è Iacopo Sannazaro, che affonda le proprie radici nell’accademia pontaniana. L’opera che consacra la sua fama europea è l’Arcadia, un prosimetro in cui, sul disegno della Commedia delle ninfe fiorentine di Boccaccio, si alternano prose ed egloghe in vari metri, ognuna preceduta da un prologo e conclusa da un congedo. L’opera narra il viaggio di Sincero (alter ego dell’autore) nella mitica terra dei pastori, l’Arcadia, posta al centro del Peloponneso e rimasta incontaminata per il suo isolamento geografico per la tradizione essa è stata e rimarrà una sorta di intimo paesaggio spirituale. Sincero fugge da Napoli per trovare conforto a una delusione d’amore ma un sogno angoscioso lo riporta nella città, che raggiunge dopo un viaggio nel mondo sotterraneo (i modelli sono Dante e Virgilio) e qui trova gli amici in piano per la morte di Filli, il nome poetico con cui è designata la moglie di Pontano morta tempo prima. Dietro il velo allegorico dell’opera si celano allusioni ad avvenimenti e personaggi contemporanei, ma l’indeterminatezza che avvolge il testo può portare a diverse interpretazioni (il tono cupo del finale, per esempio, potrebbe rimandare alla crisi politica del regno aragonese ed evocare il crepuscolo dell’età umanistica napoletana). La lingua è selezionata e armoniosa, così come lo stile, con una originale rielaborazione dei modelli classici. L’Arcadia conquista subito il mercato librario e diventa un punto di riferimento per tutta la tradizione pastorale europea, dal Rinascimento fino alla poesia arcadica del Settecento.
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