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La letteratura spagnola dal Cid ai re cattolici, Sintesi del corso di Letteratura Spagnola

Riassunto del libro "La letteratura spagnola dal Cid ai re cattolici" di Alberto Varvaro e Carmelo Samonà per l'esame di letteratura spagnola.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica La letteratura spagnola dal Cid ai re cattolici e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! LA SPAGNA MOZARABICA pagg. 18-23 Il crollo del regno visigoto diede inizio nel 711 ad un ciclo storico di fondamentale importanza per la Spagna, il quale si chiuderà solo nel 1492 con la caduta del regno di Granada, ultimo resto per poter è musulmano e la penisola, o ancora meglio nel 1609 all'atto di espulsione dei moriscos, cioè dei musulmani che in buon numero erano rimasti nella terra che era stato dei loro padri. Con Al-Andalus si intende non la moderna Andalusia ma tutto il territorio spagnolo dominato dei musulmani. Fu un periodo di splendore intellettuale senza pari e di una straordinaria fioritura lirica che in parte continua le tradizioni della poesia araba classica, in parte dà luogo ad una nuova produzione in lingua araba volgare, ma con venature lessicali romanze. Verso l'anno 900 appare una nuova forma metrica detta MUWASSAHA che alla serie di versi lunghi monorimi che erano in uso nella lirica araba sostituiva una poesia strofica a versi brevi secondo lo schema: aabbbaacccaa.. L'ultima parte dell'ultima strofa prendeva il nome di kharga e doveva essere composta o in arabo volgare o in dialetto romanzo, mentre il resto della poesia era in lingua araba classica. L'invenzione di questo genere lirico viene attribuita ad un poeta di Cabra (provincia di Cordova). Il primo coltivatore della muwassaha fu Muqaddam ibn Muafà al-Qabri, anche conosciuto come Ben Mocadem de Cabra, poeta ispano-arabo di Cabra in Andalucia nato nell'847 e morto nel 912. Quasida= con il termine qasida si intende un componimento poetico proprio della poesia araba d'oriente e poi del mondo islamico. Shi'r= parola araba che designa la poesia nel patrimonio letterario classico. La MUWASSAHA fu coltivata da poeti arabi ma anche da lirici ebrei e fu appunto in poesie ebree che il semitista inglese Samuel Stern decifrò nel 1948 le prime khargat romanze. Vi sono diversi problemi sollevati dalle khargat sotto il profilo letterario: 1) non si sa si le MUWASSAHa siano un'invenzione propriamente araba o siano derivate da l'imitazione di forme latine o neolatine a noi sconosciute. 2) non è chiaro neppure il rapporto tra la kharga e la muwassaha, di cui essa fa parte, sia perché solo da poco i semitisti ci hanno fornito accessibili traduzioni per intero sia perché è difficileconoscenza di un contesto culturale estraneo. Nelle khargat il testo viene presentato sempre come discorso diretto posto di solito in bocca ad una donna. Importante è la muwassaha di Abu bakr, famoso poeta arabo morto nel 1145. Fra le prime quattro strofe che cantano la situazione del poeta lontano da una donna che lo respinge ma la cui bellezza irraggiungibile lo tortura, e la kharga in cui una fanciulla piange l'assenza dell'amato c'è un netto stacco, appena mediato dai primi versi della quinta strofa, e l'unico elemento comune è il tormento della separazione. Per quanto riguarda il secondo dubbio: è difficile dei poeti arabi ed ebrei abbiamo composto queste brevi poesie, che mostrano una sensibile omogeneità di toni e motivi, senza ispirarsi ad una contemporanea produzione romanza; esistono poi alcuni indizi che le khargat siano, almeno in parte, citazioni di liriche romanzi preesistenti. Le composizioni arabe ed ebree sono per la maggior parte della seconda metà del XI secolo; la più antica è però anteriore al 1042 ed alcune sono del 200 e della prima metà del trecento. Esse provengono da ogni parte di Al-Andalus. Premerebbe stabilire quale sia il rapporto tra questa tradizione mozarabica ed uno dei generi dell'antica lirica galego-portoghese, le cantigas de amigo, da una parte, e dall'altra la melica castigliana che affiorerà nel 400-500. Pur accettando nel suo fondo l'ipotesi di un'origine comune, bisogna osservare che la tradizione lirica mozarabica cui fanno parte le khargat non ebbe, una volta che gran parte di Al-Andalus venne in mano ai cristiani, prestigio sufficiente per opporsi con successo al predominio della tradizione galego-portoghese anche in Castiglia. In realtà khargat, cantigas de amigo poesie meliche tarde sono di impostazione e gusto molto diversi, anche quando usano una tematica comune. Non abbiamo alcuna sicurezza che le liriche fossero in origine così brevi, poiché è del tutto verosimile dei poeti semiti le abbiano ritagliate secondo le loro necessità, né è probabile che il quadro tematico che ci rimane sia quello originario. Vi è: assenza di gusto insistente per la metafora e la mancanza di elementi tematici rurali. LAS JARCHAS Nel 1948 l’ebraista Samuel Stern scopre in caratteri ebraici venti brevissime composizioni in mozarabe ossia la lingua romanza parlata dagli ispano-cristiani di Al-Andalus. Nel 1952 l’arabista Emilio Garcia Gomez aggiunge a questo nucleo 24 jarchas sempre in mozarabe ma rese in caratteri arabi. Ad oggi il numero delle jarchas è di 76 testi: 50 arabo-romanzi e 26 ebraico-romanzi. Il loro ritrovamento rivoluzionò ogni idea riguardo le origini delle letterature romanze e confermò le intuizioni del filologo spagnolo Ramén Menéndez Pidal che nel 1919 ipotizzava la preesistenza di una lirica ispanica da cui fossero derivate le zéjeles, le cantigas de amigo e i villancicos. Le jarchas sono datate dal secolo XI alla fine del XII e costituiscono quindi la testimonianza più antica di poesia in lingua romanza precedendo la lirica della Romània di quasi mezzo secolo e anticipandone alcune caratteristiche. Gli arabi che invasero la Penisola Iberica a partire dal X secolo coltivarono un genere poetico: la MUWASCHAHA, MUWASSAHA o MOAXAJA, piuttosto diverso dalla poesia araba d'Oriente. La quasida classica era quantitativa, non strofica, di versi lunghi monorimi (dalle 24 alle 28 sillabe). La Muwaschaha invece è un componimento strofico breve, di 5 0 6 strofe, con varietà di rime e con una chiusa in lingua romanza denominata in spagnolo JARCHA. Gli inventori di questo genere si ritiene che fossero i poeti di Al-Andalus Mugaddam ibn Mu'afa o Muhammed ibn Mahmud, entrambi di Cabra vicino Cordova e che fu proprio l’ambiente bilingue a determinare la nascita di questo genere poetico in lingua araba. Il nome Al-Andalus, da cui deriva il nome dell’attuale Andalucia, potrebbe derivare da un ipotetico “Vandalusia” ovvero terra dei Vandali che vi si erano stanziati precedentemente nel 409 d.C. Esso era diviso in terre di taifas. La Muwaschaha è scritta in lingua araba letteraria o in ebraico, è di 5 o 6 strofe di versi brevi secondo la metrica sillabica e non quantitativa. | primi 4 o 5 versi di ogni strofa rimano fra loro mentre l’ultimo o gli ultimi 2 rimano con la jarcha. In nome Muwaschaha significa cintola formata da 2 file di perle e pietre preziose. La Muwaschaha può avere vari tipi di argomenti, la jarcha dipende dal tema generale della poesia. | versi della jarcha generalmente sono posti in bocca ad un personaggio diverso dal poeta e debbono essere in un dialetto vernacolo o in spagnolo colloquiale per riflettere lo stile del personaggio che parla. Lo scherma rimico: AAbbbAAcCCCAA ecc. Sull’origine della jarcha le opinioni divergono, l'ipotesi più plausibile la indica come citazione di una poesia romanza pre-trobadorica. La jarcha è un canto d'amore di una fanciulla innamorata che soffre di solitudine amorosa o perché l'amato è lontano o perché egli l'ha abbandonata. Muwaschaha e jarcha sono strettamente connesse ma allo stesso tempo sono diverse per tema, lingua e tono. La presenza della lingua araba e del mozarabe delle jarchas è in percentuale variabile, si hanno testi completamente in arabo con qualche inserzione romanza a testi con pochi termini arabi. Le jarchas hanno non pochi problemi filologici: scritte in caratteri arabi o ebraici mancano delle vocali e dunque la loro traslitterazione in lingua romanza è inevitabilmente soggetta all’interpretazione del critico. La jarcha più antica è del 1042 ed è la prima poesia in volgare. l'amante che giunge all'improvviso (testi 2 e 6) la nostalgia d'amore che non si contiene (testo 4) e il rifiuto infastidito verso chi non merita (testo 10). A livello linguistico si notino i molteplici tratti distintivi del dialetto mozarabe, di tendenza arcaicizzante sia nei diversi esiti dell'evoluzione fonetica (yermaniellas, ellu, mibi al posto di hermanillas, èl, mì ; futuri in eyu, ayu dal latino habeo, es: bibireyo ) che nel lessico (yana in luogo di puerta). Si noti la presenza del verbo garrire, sconosciuto prima delle jarchas, equivalente a “dire”. Per quanto riguarda le jarchas: rispetto alla purezza linguistica (puritas) , il barbarismo è il vizio per difeto; l’arcaismo il vizio per eccesso. Per solecismo invece ci riferiamo ad errori di morfologia e sintassi. Mentre per metaplasmo si intende ogni cambiamento nella forma di singole parole accolto anche nel sistema linguistico per forza di consuetudine. Le figure grammaticali invece riguardano una deviazione consentita (camminava lento per lentamente). L'oscurità totale era considerata il massimo “errore per difetto” contro la perspicuitas . Nella sintassi l'oscurità totale era detta sinchisi o “costruzione caotica” : l'ordine normale è sovvertito con anticipazioni, posposizioni, interpolazioni di membri. MIA: le jarchas hanno struttura e modalità espressive diverse. Esse presentano fanciulle che partecipano con pathos. In qualche modo ancora oggi stupisce che questa fanciulla non avverte vincoli morali, che non prova pudore. Temi diversi: l'amato è andato via (testo 1), l'amante giunge all'improvviso (testi 2-6), una nostalgia d'amore difficile da contenere (testo), il rifiuto verso chi non merita (testo 10). A livello linguistico vi sono molteplici tratti distintivi del dialetto mozarabe: es. yermanillas, ellu, mibi, al posto di hermanillas, él, mi; futuri in -eyu e -ayu; lessico yana al posto di puerta. EL MESTER DE JUGLARIA pagg. 23-28 Abbiamo visto come nella Spagna musulmana sia stato il peso scarso o inesistente della tradizione latina a rendere possibile l'assunzione in sede letteraria della lirica popolare romanza che per tematica, stile e lingua pareva condannata ad una umile esistenza orale. Ma anche nel nord la cultura Latina aveva subito una grave crisi che non risparmiò neppure quei pochi ambienti clericali che più tenacemente la conservavano. Ciò spiega a sufficienza perché la letteratura castigliana non inizi, in Francia e in Italia le letterature volgari, con opere di provenienza e di impostazione perlopiù clericali. Nella penisola iberica, salvo poche eccezioni, la deficienza di un ambiente culturale è intellettuale latino affidava ogni forma di produzione letteraria all'attività modesta ma preziosa dei giullari, umili professionisti che, conservando e sviluppando a seconda del proprio talento un patrimonio tradizionale molto vario, divertivano un pubblico eterogeneo nelle piazze e nei castelli con un repertorio molto vario. La situazione castigliana favori in modo particolare lo sviluppo di un'attività letteraria da parte dei giullari che acquisì grande prestigio. Il "Mester de Juglaria" si articolava a seconda delle diverse capacità ed inclinazioni di chi lo esercitava e si adattava alle circostanze di luogo e di tempo. Esisteva addirittura una gerarchia tra i giullari, determinata appunto dalla loro specializzazione e dalla considerazione, quanto i moralisti fossero perlopiù avversi almeno sospettosi verso i giullari, essi riconoscevano il prestigio e la funzione educativa della classe più alta. Questa tradizione epica di tipo giullaresco noi la conosciamo direttamente a partire dal secolo XIII; resta da precisare se sia più antica e che origine abbia ma anche i suoi contenuti e le sue forme. i primi hanno perlopiù una base storica almeno parziale: episodi della vita castigliana dei secoli della riconquista come il Cid. Ovviamente il dato storico passa attraverso uno specifico filtro e si arricchisce di fioriture fantastiche. Alcuni storici sostengono un'origine gota dell'epopea castigliana. Quando si parla di "cantares" non ci si riferisce soltanto allo stile e alla metrica ma anche ai contenuti e alla prospettiva del reale. In Spagna il passaggio dai cantares ai romances (secolo XIV) non avviene per graduale evoluzione ma comporta una profonda rivoluzione nella tecnica narrativa, non si può in nessun modo parlare di una tradizione unica e permanente: muore una tradizione informale e se ne instaura un'altra del tutto distinta anche continuando in parte gli stessi contenuti. In conclusione, può darsi che i cristiani del Nord abbiano risentito del favore con cui i Visigoti coltivavano i canti narrativi del tema storico ma è certo che l'epica castigliana ha sviluppato nuclei leggendari che si sono formati nei secoli della riconquista ma rimane oscuro il momento in cui i diversi fattori culturali hanno permesso la coagulazione di una tradizione letteraria nuova. Ma perché è prevalso il tipo castigliano a discapito degli altri? Se malgrado tutto la base della lingua comune è stato il castigliano sembra proprio che il merito vada a quei giullari che crearono e diffusero una poesia epica nei secoli più antichi. Il testo più antico è quella versione del "Cantar de los siete Infantes de Lara" di poco posteriore al Mille; secondo i calcoli di Menendez Pidal esso doveva contare circa 1500 versi. CARATTERISTICHE DELL'EPICA: * Oggettività e realismo ® Assertività (carattere a-problematico) ® Manicheismo * Giullare, menestrello o interprete CONCETTO DI ETA’ EROICA: per la Francia= Carlo Magno e la chanson de Roland. Per la Spagna= invasione araba e inizi di Riconquista cristiana (VIII secolo) + indipendenza del regno di Castiglia con Fernàn Gonzalez. Alcune leggende ebbero più fortuna di altre: 1) CICLO DEDICATO AL CID: 1) CANTARDE SANCHO Il: (ricostruito a partire della sua «prosificazione» nella Cronica najarense, fine sec. XII 2) CANTARDEL MIO CID 3) LAS MOCEDADES DE RODRIGO: tardo e anonimo, 1360 ca. Se ne conservano 1164 versi, l’unico codice che tramette l’opera è un manoscritto del 1400 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Narra le origini e la giovinezza dell'eroe. 2) CICLO DEDICATO Al CONTI DI CASTIGLIA: Ci è pervenuto solo il “Poema de Fernn Gonzalez”, ritenuto primo conte di Castiglia, poema del Mester de Clerecia del XV secolo. 3) CICLO FRANCESE: RONCESVALLES - frammento di 100 versi di forse 5500 versi iniziali, Cantar del Bernardo de Carpio. La conservazione di alcune parti dei cantares de gesta nelle cronache è un fatto di strordinaia importanza. | compilatori della Crénicas considerarono i Cantares dei juglares dei veri e propri testi storici, delle fonti attendibili. Ogni Crònaca, ovviamente, recepisce uno stadio del cantar, per questo a volte ci si trova con versioni contradittorie. Grazie a un paziente lavoro di indagine e di ricostruzione, a partire dalle cronache storiche gli studiosi hanno potuto ricostruire parzialmente poemi storici quali: 1) Il Cantar de la hija del don Julian y de la pérdida de Espania. 2) Il Conde Fernàn Gonzéles 3) La Condesa traidora y el conde Sancho Garcia 4) Primera gesta de los infantes de Lara o Salas ORIGINI DELL'EPICA: tesi francese (Gaston de Paris), tesi gota (Menéndez Pidal) e tesi araba (Julian Ribera). EL CANTAR DEL MIO CID pagg. 28-39 La narrazione epica ha delle costanti Generali. Vi si raccontano in uno stile alto e sublime le azioni (imprese o gesta) di un eroe compiute in nome della collettività. Si tratta di un mondo dai valori fortemente maschili, fedeltà assoluta e rispetto al proprio sovrano, senso del coraggio elevato ed esaltazione di ogni virtù guerriera. La donna amata aspetta il ritorno del suo eroe ma a lei egli dedica pochi pensieri. ad esempio Rolando in punto di morte ricorda la sua terra, il suo re e la sua fede ma non la sua donna Alda. L'opera inizia sempre con una situazione di crisi generale o personale, all'eroe tocca ripristinare l'armonia perduta. Vi sono diverse teorie sull'origine dell'epopea spagnola. Alcuni pensano che essa sia di origine ignota mentre altri pensano che essa sia di origine francese o araba. Riguardo alla derivazione francese tutti concordano su due differenze sostanziali: la prima riguarda l'aspetto formale poiché nell'epopea castigliana vi è la tendenza anisosillabica mentre nell'epopea francese vi è l'isosillabismo; la seconda riguarda la spiccata tendenza realista dell'epica spagnola estranea all'epica francese. | promotori di una tesi araba sono stati Julian Ribera e Francisco Marcos Marin. In realtà le tre tesi si completano a vicenda perché 1) evidenti sono le somiglianze tra l'epica gota e il cantar del Cid, 2) indubbia è l'influenza francese e 3) certamente presenti sono elementi di civiltà araba come i nomi di persone e luoghi e allo stesso titolo di Cid che in arabo vuol dire signore. Il "Cantar del mio Cid" è il poema nazionale di Castiglia. Cantar: chanson perché è destinato a una recitazione ritmata. È l'unico dell'epica primitiva spagnola che ci sia pervenuto sostanzialmente completo, nel solo manoscritto conservato mancano circa 200 versi. Sulla dotazione del poema vi sono diverse teorie, Menéndez fidal la colloca nel 1140, solo mezzo secolo dopo la morte del Cid del 1099. Il poema del mio Cid fu composto probabilmente nella provincia di Burgos e narra le imprese di Rodrigo (Ruy) Diaz de Vivar, noto anche come Cid o il Campeador (colui che si distingue sul campo di battaglia per azioni particolarmente coraggiose) con una mescolanza di fatti veri e fatti inventati. Riguardo alle caratteristiche della narrazione epica: il Cid in parte le rispetta ma 1) vi è una marcata tendenza realistica che ha fatto parlare più propriamente di una biografia eroica o di una cronaca, 2) assente il tono elevato e 3) le qualità sono più umani che soprannaturali. Il Cid muori nel suo letto invece che su un campo di battaglia. Oltre al Cid, non resta molto dell'epica spagnola, solo 4 poemi arrivati in modo estremamente frammentario. 1) Le "Mocedades de Rodrigo": testo epico del 1300 di cui si conservano 1160 versi è che narra la gioventù di Rodrigo Diaz. 2) 100 versi del "Cantar de Roncesvalles", traduzione tarda del poema francese 3) un altro centinaio diversi di "Los infantes de Lara o Salas" di cui Menendez Pidal ricavò il tessuto narrativo da una cronaca. I giullari diffusero i poemi epici per via orale interpretando lì davanti a un pubblico che si riuniva intorno a loro. La creazione non è dunque popolare nel senso proprio del termine bensì per via delle modalità di trasmissione, vi era sempre un autore o degli autori re-formadores. Secondo la scuola neo-tradizionalista di Menendez Pidal si tratta dunque di poesia collettiva creata dalla collaborazione nel tempo di poeti anonimi. Diversa è la teoria individualista di Bédier che ammette solo l'esistenza di ciò che ci è arrivato concretamente. Per disegnare il profilo del Cid Campeador molto si deve alla ricostruzione storica di Menéndez Pidal. Il Cid nasce intorno al 1040 da una famiglia di infanzones, la categoria più bassa della nobiltà. Inutile ogni tentativo di dare una fisionomia certa al suo autore. Menendez Pidal ipotizzò che fosse un Chierico giullare e non un giullare itinerante, data la sua alta elaborazione letteraria del testo. Smith propende invece per la tesi di un autore colto, probabilmente un giurista, data l'alta competenza sulla legislazione. La lingua del Cid è senza dubbio arcaica, come si può notare dai patronimici in -oz invece che in -ez. La forma metrica, costituita da lasse assonanzate, è anch'essa tratto arcaico. Le lasse variano moltissimo: la più breve è di 3 versi, la più lunga di 185. Per quello che riguarda la misura dei versi si va dalle 10 alle 20 sillabe con emistichi dalle combinazioni molto differenti, in genere è il secondo emistichio quello più lungo. Si è notata una certa varietà formale nei tre cantari che compongono il poema: la tendenza a diversificare le rime presente nel primo cantare va riducendosi progressivamente nel secondo e poi nel nasconde nessun tesoro, ma non dispone neanche di che mangiare), avrà bisogno del coinvolgimento di Martin Antolinez. E costui, il burgalés complido, cioè perfetto, appoggia senza remore Rodrigo, Campeador complido a sua volta. Con il suo aiuto, il Cid riuscirà ad ottenere in prestito dai due usurai la considerevole somma di 600 marchi (straordinaria per l'epoca), garantita da oggetti di valore inesistenti. E dagli usurai, grati per aver loro fatto concludere l'ottimo affare, spunta anche una ricompensa personale di 30 marchi, più una pelle pregiata per farne un mantello, e un tessuto per confezionarsi delle calze. Martin Antolinez risalta come personaggio leale e generoso (Fornisce provviste di viveri a Rodrigo sebbene il re lo abbia vietato), ma, appunto, è anche astuto, è lui che propone al cid l'inganno’ ai due ebrei, episodio che alcuni critici hanno tacciato di antisemitismo. È anche un valoroso guerriero. Sarà tra i compagni del Cid che sfiderà gli Infanti di Carriòn nel duello finale. EL DESTIERRO DEL CID (Pagg. 66-71) I: Scritto che si conserva del poema del mio CID, scoperto nel 500 nell'archivio del municipio di Vivar, è del XIV secolo. Presenta 74 folii ed il testo è scritto senza interruzioni né tra le l'asse né tra un cantare e l'altro; entrambi aggiustamenti tipografici introdotti successivamente dagli editori. La prima Lassa colloca il lettore già nel vivo dell'azione. Il poema doveva iniziare con gli avvenimenti che motivano l'esilio dell'eroe. È stato notato come la perdita dei versi iniziali, dovuta a ragioni estranei alla volontà dell'autore, abbia conferito grande efficacia agli esordi del poema, il cui inizio viene a coincidere con il pianto doloroso dell'esiliato che si appresta a lasciare la terra. 4 lassi possono essere considerate come un'unica sequenza narrativa basata sulla disperazione dell'eroe che deve lasciare tutto ciò che gli è caro. Nell'epica il pianto con nota virilità, il Cid piange più volte lungo il poema. Vi sono espressioni come "piangere dagli occhi" (v.20), "vedere con gli occhi" e "parlare con la bocca" che sono tautologie frequenti nei testi medievali. | versi 3 e 4 spiegano il senso di privazione avvertito dall'eroe, vi sono ripetizioni dell'avverbio "sin". La pena del Cid è ribadita Alberto sei dove per la prima volta si nomina l'eroe con l'epiteto "mio Cid". | versi 6 e 7 sono in costruzione parallelistica. | versi 8 e 9 si prestano ad interpretazioni diverse: per alcuni il Cid ringrazia comunque il Signore del destino che gli è toccato perché, di nuovo realisticamente, considera responsabili della sua sventura i cortigiani invidiosi che lo hanno calunniato presso il re. Altri percepiscono nel ringraziamento al Signore una punta di sarcasmo (nota che stona però con la forte religiosità dell'eroe). Il: Il verso 10 è una perfetta bimembrazione parallelistica in cui inizia il viaggio dell'esule. Il verso 17 presenta una metonimia "sessaenta pendones". Due presagi accompagnano l'eroe: uno positivo con la cornacchia a destra e uno negativo quando all'entrata di Burgos la cornacchia è a sinistra e indica probabilmente la fredda accoglienza che l'eroe riceverà nella capitale della vecchia Castiglia. anche in questi due versi e nel successivo domina la simmetria della costruzione sintattica. Di significato discusso è il verso 14, nel quale l'esclamativo jAlbricia! (Buone notizie!) legge un accento di dolorosa constatazione. III-IV: la ripetizione di sostantivi che rimandano alla comunità dei sudditi (mugieres e varones, burgeses e burgesas, todos). Nei rimanenti dei versi 16, 19-22 vi è la presenza della "e paragogica" ossia l'aggiunta nella recitazione di una e finale: a volte etimologica (20-22) a volte anti-etimologica (19) che consentiva al poeta di far assonanzare quando il rimanente terminava con vocale tonica il poeta aggiungeva il suffisso -ve (v. 16). Si trattava di una licenza poetica. Il tempo per lasciare la propria terra era previsto nel numero di 13 giorni mentre Alfonso VI concede a Rodrigo solo 9 giorni. La severità del re Alfonso è testimoniata anche in altre fonti, motivo per il quale non può parlarsi in questo caso esclusivamente di un espediente poetico per rendere più drammatica la rottura tra monarca e vassallo. Dal verso 53 inizia il vero e proprio esilio dell'eroe con l'esatto riferimento alla geografia reale dei luoghi. JIMENA CONTEMPLA VALENCIA (Pagg. 72-73) e LA AFRENTA DE CORPES (Pagg. 74- 77) Lasse LXXXVII-CXXVIII. L'episodio di Corpes del III cantare è interamente inventato, come sembrerebbe essere inventata l'ostilità tra la famiglia dei Beni Gomez e il Cid. Il re è favorevole alle nozze, il Cid è riluttante come se presagisse un'imminente sciagura. Ma quando sulle sponde del Fiume Tajo, in un solenne incontro con il sovrano, riceve il perdono, per obbedienza a consente al matrimonio. In effetti gli infanti maturano col tempo sentimenti di rancore e vendetta nei confronti del Cid e decidono di vendicarsi maltrattando bilmente le mogli e abbandonandole seminude e ferite nel Querceto di Corpes. All'improvviso viene descritto un luogo accogliente e ospitale, il cosiddetto locus amoenus. è proprio in quel luogo che si consuma l'oltraggio nei confronti del Cid attraverso la violenza esercitata sulle sue figlie. L'autore prosegue con i particolari del crudele gesto degli infanti in contrasto con l'eroismo delle due spose che chiedono per loro stesse la morte piuttosto che sopravvivere al generale disonore. Emerge una grande capacità descrittiva degli ambienti dell'anonimo giullare: egli concentra con sapiente abilità la rappresentazione di due spazi (la foresta e il verziere) che nell'accostamento simbolico tra infernali sofferenze e paradisiaci godimenti rendono più intensamente drammatica la vicenda narrata. Vi sono poi: pochissimi aggettivi, una costruzione essenzialmente nominale con solo una subordinata. OLTRAGGIO DI CORPES-APPUNTI: Spade: Colada e Tizzona. Colada la prima spada del Cid non appare in documenti storici. Il nome proverrebbe dalla tecnica di lavorazione del metallo, l'acciaio colado, cioè puro, forse temprato. Differentemente dalla Durlindana di Rolando, le spade del Cid sono ottime ma normalissime armi, che non posseggono vitu magiche. Tizzona: seconda spada del Cid- Tizén = brace, tizzone. Babieca: proverbiale cavallo del Cid, preda di guerra come le spade. Bdùcar: definito re del Marocco, viene a riconquistare Valenza, ma è sconfitto dal Cid. La figura è modellata (1091) probabilmente su quella del conquistatore e governatore di Siviglia probabilmente su quella del conquistatore Sir ibn Abi-Bakr o su Abu Bakr, generale almoravide DON SANCHO CERCA ZAMORA Questo Romance costituisce un antefatto del Poema del mio Cid. Dopo la morte di Ferdinando | (1035- 1038), il suo regno di Castiglia e Leén fu diviso secondo la volontà tra i tre figli: 1) La Castiglia toccò a Sancho Il 2) Il Leén ad Alfonso VI 3) La Galizia a Garcia 4) La signoria della città di Zamora a Urraca 5) La città di Toro a Elvira. Nel Cantar di Sancho Il si narrano i tentativi di sopraffazione di Sancho rispetto ai suoi fratelli. Sancho Il muore nell'assedio di Zamora. ALTRI POEMI EPICI ANTERIORI ALLA META’ DEL DUECENTO pagg. 39-41 Quale sia stato L'Eco del Cantar del mio Cid nel pubblico contemporaneo non è facile da dire. Evidente il riflesso del Cid in un'altra leggenda ovvero "Cerco de Zamora" (assedio di Zamora); la storia del re Sancho, giovane e valoroso, ucciso a tradimento sotto le mura della città cui assediava il fratello Alfonso (poi l'Alfonso VI del Cid) e la sorella Urraca. Trascurando qualche testo sulla cui reale esistenza i dubbi sono più forti, rimane da parlare della leggenda di Bernardo del Carpio, la cui data non pare anteriore alla fine del secolo XII, la "E storia de Espana". Si tratta di una trasformazione della vicenda di Roncisvalle in una vittoria non dei saraceni ma dell'eroe cristiano e spagnolo Bernardo di Carpio ma poco si può dire del poema. IL DUECENTO: | POMETTI GIULLARESCHI pagg. 42-48 La grande popolarità in tutta Europa del pellegrinaggio a Santiago de Compostela in Galizia e la penetrazione degli altri ordini religiosi riformati avevano portato in Spagna fra l' XI e il XII secolo un flusso crescente di stranieri. Per questo la penisola si integra più profondamente nella vita europea, da cui era rimasta in qualche modo isolata per circa tre secoli. Questa importante svolta storica non avviene senza contraccolpi culturali. La Spagna dei secoli XI-XIII ha un'importanza straordinaria per la cultura del medioevo in quanto è la via attraverso cui si recupera la filosofia greca ed in particolare Aristotele, e si acquisiscono il pensiero e la scienza degli arabi ed anche degli ebrei. Per quanto riguarda invece la poesia d'arte in volgare, la Penisola Iberica conosce la produzione trovatorica sia attraverso le situazioni dei giullari sia accogliendo nelle principali corti numerosi trovatori. In galego-portoghese si sviluppa una tradizione lirica che accoglie ed elabora il messaggio trovatorico ed in Catalogna la poesia provenzale trova continuatori nel 400; invece non ci è noto alcun Trovatore castigliano né comunque liriche in castigliano ma di imitazione provenzale. "L'auto de los Reyes Magos" è il più antico monumento del teatro spagnolo nato alla Cattedrale di Toledo verso la metà del secolo XII. Anche se non è certo che l'autore sia di origine guascone, come si è creduto di dedurre da qualche indizio linguistico, il testo è senz'altro in rapporto con opere francesi; ed infine l'uso stesso del dramma liturgico pare ignoto al rito mozarabico e sarebbe stato introdotto nella penisola dagli ecclesiastici franchi. "L'Auto" drammatizza il racconto di San Matteo. Il frammento di 147 versi polimetrici che ci è rimasto comprende tre monologhi dei Magi, la scena del loro incontro, la visita ad Erode, una adirato monologo del re ed infine la discussione di Erode con i suoi dotti. Il testo illustra bene la tecnica del teatro medievale con la scenografia schematica che permette frequenti spostamenti di spazio. Il frammento che ci rimane fu copiato sulle ultime carte di un codice biblico della Cattedrale di Toledo, ora alla Biblioteca Nazionale di Madrid. È questo un esempio di letteratura destinata al consumo meno esigente ma volto ad avvicinare a poco a poco la cultura media. Vi è poi una serie di composizioni narrative piuttosto brevi che recano evidente il segno della professione dei loro anonimi autori giullari e tutte sono di origine francese, più o meno mediata. Questi poemetti introducono nella letteratura spagnola il distico a rima baciata, metro del romanzo cortese e della poesia didattica galloromanzi; mentre però il distico francese è di ottonari in genere regolari, nei nostri testi la misura sillabica resta oscillante, con prevalenza a volte del novenario a volte dell'ottonario, e la rima è spesso surrogata dall'assonanza. L'anisosillabismo (differenza sillabica) è un carattere tipico della metrica spagnola di questo periodo. Il "Libre dels tres Reys d'Orient" è un'operetta di 242 versi, vi sono dialettismi orientali e il titolo è in catalano. Riunisce insieme il racconto dell'adorazione dei Magi con altri episodi biblici: il filo conduttore è l'identificazione del buon ladrone col bambino lebbroso. La "Vida de Santa Maria Egipciaca" del 1215 circa nei suoi versi rivela più chiaramente precisi modelli francesi. La biografia della peccatrice redenta ha goduto di molta fama non solo perché è un esempio apparentemente estremo della capacità di riscatto dell'uomo ma anche perché offre l'opportunità di INTENCION Mester de juglaria: Su objetivo es entretener e informar sobre hechos de interés popular. / Mester de clerecia: Su finalidad es ensefiar y adoctrinar mediante los relatos. TRANSMISION Mester de juglaria: Transmisiòn oral. Las obras se recitaban de memoria. / Mester de clerecia: La obra se creaba para que fuera leida individual o colectivamente. Era escrita. TEMATICA Mester de juglaria: Cantos épicos, gestas heroicas, poemas amorosos... / Mester de clerecia: Poemas de tipo religioso sobre la Virgen, los santos, la historia nacional... Arti del trivium: tres vias, insegnamento elementare: grammatica, logica e retorica. Arti del quadrivium: cuatro vias, cuadrivia, insegnamento superiore: aritmetica, geometria, musica, astronomia. Insieme formavano le sette arti liberali che dovevano portare allo studio della filosofia e della teologia. GONZALO DE BERCEO pagg. 50-53 Di Gonzalo de Berceo si conoscono solo quelle notizie che egli stesso ha affidato alle sue opere: nacque a Berceo nella Rioja, regione dell'Alto Ebro Ducato nel monastero di San Millan de la Cogolla. Il titolo di "maestre" con cui si autoappella potrebbe far riferimento al titolo di "maestro di confessione" o al conseguimento di studi universitari forse presso Palencia. L'intera sua opera è improntata al proselitismo, nel senso che si propone di divulgare presso i fedeli storie e vicende a carattere devoto. Era nato a Berceo, un paesino della Rioja, ed era stato educato nel vicino monastero di San Millan de la Cogolla. Non conosciamo la data della morte ma appare come testimone in un documento ancora nel 1248. Probabilmente dice parte del clero di Berceo, mantenendo sempre legami assai stretti con San Millan. L'appellativo di "maestro" non si riferisce ad un'attività di insegnamento e vale piuttosto come "confessore". La tua produzione è molto ampia ma tutta di argomento religioso: il "Sacrificio de la Misa", i "Signos que aparesceràn ante el Juicio", 4 opere agiografiche, alcune opere mariane che culminano nei 25 "Milagros de Nuestra Senora". Berceo si serve in ogni caso di fonti latine, quasi sempre note, ma le 3 "Vidas" ed i "Milagros" lasciano più agio alla sua vena narrativa. AUTONOMINATIO: Egli stesso si nomina. BERCEO: è un piccolo municipio della Comunità Autonoma de La Rioja. Si trova nel cuore della vallata di San Millan de la Cogolla. OPERE DI BERCEO: Todas las de Berceo son religiosas. Tres vidas de santos: 1) Vida de Santo Domingo de Silos, 2) San Millan de la Cogolla 3) Vida de Santa Oria, monja benedectina que vivié reclusa en San Millan 4) Milagros de Nuestra Sefiora MILAGROS: durante un pellegrinaggio il personaggio capita in un prato che con la sua frescura invita al riposo chi è affaticato; ma il prato in cui si è fermato il poeta, garantito dai suoi realissimi nome e cognome, ha delle qualità di superlativa bellezza che già caratterizzavano "l'huerto" della "Razén de amor" e innumerevoli altri giardini, tutti coltivati dalla stessa tradizione retorica. Il pellegrinaggio di maestro Gonzalo si rivela come il cammino della vita umana, il prato è la Vergine, le quattro fonti i vangeli e molto altro: tutto ha un senso allegorico. Non è possibile nella poesia di Berceo separare l'elemento ingenuo, quello letterario e quello religioso, che in realtà si integrano tutti e tre in una forma estremamente semplice e eppure molto articolata. Il pellegrinaggio non riguarda solo maestro Gonzalo ma tutta l'umanità, come tipico della mentalità medievale bastille pensare alla commedia di Dante. Berceo è capace nella sua opera di fondere naturale e soprannaturale. La sua fede ha un respiro sicuro che lascia ai margini il male, che esiste ma è del tutto subordinato ad un disegno di salvezza: è raro che i cattivi di Berceo non riconoscano il segno del soprannaturale e non pieghino la loro iperbolica ostinazione. In ogni caso l'intervento della Vergine non appare come una rottura dell'ordine naturale ma come suo incremento: come il ladrone che si allontana dal peccato nel miracolo IX. Questa certezza è la vita morale sono così radicate in Berceo che per lui mondo terreno e mondo soprannaturale vivono in un rapporto di totale intimità. Codice latino: Miracula Beatae Mariae Virginis. 25 miracoli costruiti sul modello della narrazione breve o exemplum (pl. exempla), genere letterario antenato della novella breve a scopo didattico religioso che nel Medioevo proliferò in Occidente ad opera dei predicatori che nei loro sermoni usavano un racconto (exemplum), dichiarato vero, per illustrare un'idea. MILAGROS DE NUESTRA SENORA | "Milagros" si basano su un codice latino, il "Miracula Beatae Mariae Virginis" che appartiene al genere della miracolistica relativa al culto mariano. Berceo seleziona 24 miracoli della fonte latina. Berceo narra le vicende di un uomo, sempre devoto al culto della Vergine, che si salva o migliora il proprio status grazie all'intervento benevolo della Madonna. Nel testo volgare si approfondiscono i tratti psicologici dei personaggi che nell'opera latina sono totalmente assenti. Ogni "Milagro" presenta la storia di una salvazione, non di una redenzione. Il peccatore è tratto in salvo dall'intervento di Maria a cui si attribuiscono tutte le qualità. Assente è la descrizione del male, non vi è pentimento né senso di colpa. Ciò che interessa è esclusivamente la devozione che l'uomo dimostra alla Vergine. Alcuni Milagros hanno un luogo preciso, altri un'ambientazione varia. Berceo utilizza spesso tecniche proprie della letteratura giullaresca come i frequenti appelli all'uditorio o la richiesta di una ricompensa a fine racconto. Egli indica con i "Milagros" non la sua vita, ma come Dante con la Commedia la vita di tutti gli uomini. INTRODUCCION (pagg. 92-95) Il prologo sembrerebbe essere del tutto originale. Dopo l'apostrofe iniziale (tipico espediente giullaresco per avvicinare il pubblico) collega il poeta ricorre all'autonominatio (v. 5). Come nella Commedia dantesca il poeta qui è l'io che intende farsi carico delle venture di tutta l'umanità. Quello che si racconta nel prologo è la storia della caduta dell'uomo nel peccato e della sua salvazione grazie all'intervento tempestivo della Vergine, schema che si ripete in ognuno dei 25 miracoli. Berceo ricorre abbondantemente al meccanismo dell'amplificatio sviluppando brevi citazioni in distese descrizioni. Dalla strofa 14 si offre l'interpretazione allegorica del testo. Dalla stoffa 16 grazie alla metafora del midollo e della corteccia per indicare con l'uno il significato profondo di un testo e con l'altra una sua interpretazione solo letterale, se ne svela il contenuto anagogico-morale. Nei rimanenti sono collocate le parole chiave del messaggio. Dio, la Vergine e Cristo con i loro sinonimi (onnipotente, gloriosa, ben creato) determinano l'andamento delle rime. LA BODA Y LA VIRGEN (Pagg. 96-101) MILAGRO 15 I miracoli seguono uno schema prefissato che prevede generalmente: Apostrofe al destinatario Circostanze di luogo Presentazione del protagonista Narrazione Epilogo con chiusa morale PANE | punti 1-3 possono non essere tutti presenti. Il miracolo di "le nozze della Vergine" è pieno di dettagli: l'evento è localizzato a Pisa, il protagonista è il canonico San Cassiano, uomo di grande lignaggio è molto devoto al culto della Vergine. Da questo stato di perfetta armonia il personaggio precipita quasi inconsapevolmente in una serie di eventi che alterano l'ordine stabilito. La Vergine è umanizzata a tal punto da apparire come l'amante del devoto. Dalla strofa 343 lo sposo esce dalla chiesa dove è avvenuto il vivace colloquio ma, nonostante l'apparente pentimento, non si sottrae alle nozze che vengono celebrate. Nella strofa 347 il novello marito svanisce tra le braccia della sposa, rapito dalla Vergine. La costruzione del racconto poggia tutta sull'ambiguità della relazione tra l'uomo e le due donne, giocata tra il sacro e il profano e sull'ingenuità del canonico. L'umanità dei miracoli appartiene perlopiù a questa tipologia di Fedeli divisi tra devozione e debolezza, tra spirito e carne ma tutti indistintamente soccorsi da Maria che può e sa più di loro. NASCITA DEL CULTO: I secoli XII e XIII segnano all'interno dela Cristianesimo l’affiorare di un fenomeno di largo interesse: il culto della Vergine Maria. Fino al XII secolo la devozione mariana era stata episodio marginale. Marginale anche nelle Sacre Scritture la figura della Vergine. Maria e la liturgia mozarabe: La madre di Cristo inizia a entrare in uno schema teologico di salvazione e redenzione cristiana: | Padri della chiesa nel tentativo di conciliar Vecchio e Nuovo testamento elaborano un concetto in cui Maria viene identificata con la «Nuova Eva», la donna che è venuta per redimerci dai peccati dell’Eva del Vecchio testamento. A partire dal V secolo Maria come Theotokos, o madre divina, acquista sempre più importanza nella liturgia mozarabica. Liturgia visigotica: Nella liturgia visigotica appare l'idea di Maria come Humani generis reparatrix, mediatrice nella salvazione dell’uomo. Culto di Maria e amore cortese: La centralità della donna nella teoria dell'amore cortese potrebbe aver influenzato l'affermarsi del culto della Vergine. Marilogia antiortodossa (non eterodossa): Maria corredentrice e mediatrice. Religione separata dalla base dogmatica, intesa come puro sentimento. Maria corredentrice: L'idea di una cooperazione di Maria alla nostra salvezza ha il suo fondamento dogmatico nella maternità divina della Madonna. Maria ha concepito, partorito e ha sofferto insieme al figlio fino alla morte in Croce. Alla base della dottrina della corredenzione di Maria stanno i punti dottrinali seguenti: nel disegno di Dio, Maria è associata a Cristo per il trionfo sul peccato, così come Eva fu associata ad Adamo nel peccato originale; Maria è stata associata alla Passione e morte di Gesù, partecipandovi con il suo dolore di madre. Maria corredentrice:per riferirsi alla partecipazione della Madre di Gesù nell'opera della Redenzione umana. Intendere la figura di Maria «Corredentrice» significa metterla allo stesso livello di Nel 1253, per ordine di don Fadrique, fratello minore di re Alfonso, fu tradotto da un perduto esemplare arabo una delle forme assunte dell'opera meglio nota come "Libro di Sindibad o dei sette savi". Il figlio del re è falsamente accusato dalla matrigna di avere attentato al suo onore, ma per 7 giorni non può discolparsi perché il suo processore glielo vieta; per guadagnare tempo e salvare il principe, sette sapienti raccontano ciascuno una storia che metta il re in guardia conto le decisioni affrettate e la perfidia femminile ed ogni volta la matrigna racconta anch'essa una novella per dimostrare come anche gli uomini possano essere malvagi. Trascorsi così i 7 giorni il principe si giustifica e la matrigna è condannata a morte. Il numero degli racconti è molto più limitato che nel "Calila"; inoltre l'intento didattico si ferma su un tema solo, quello dell'antica polemica misogina. ALFONSO EL SABIO pagg. 61-68 Il regno di Alfonso X segna una svolta molto importante della storia castigliana. Figlio di Ferdinando III, il re che aveva conquistato l'Andalusia, Alfonso salì al Trono nel 1252, a 31 anni. Egli aveva combattuto contro i musulmani ed a lui si deve la presa di Murcia. Alfonso X amore nel 1284 mentre è in aperto dissidio col figlio Sancho, per quanto il suo favore abbia privato dei loro diritti i nipoti, figli del primogenito Fernando, morto prima dei padre. Ha lasciato un'opera tra le più straordinarie del medioevo considerata una vera summa della cultura castigliana del secolo XIII. Ne fanno parte una raccolta di oltre 400 liriche in onore della Vergine, per la maggior parte miracoli, scritte in galego, lingua della tradizione lirica peninsulare a livello letterario (Cantigas de Santa Maria); una monumentale compilazione legislativa (le Siete Partidas) ed un'opera giuridica (il Fuero Real); due vaste compilazioni storiche (la "Estoria de Espana" e la "General e Grand Estoria"), una collezione di libri magici, una raccolta di 15 trattati astronomici cui vanno aggiunte le "Tablas alfonsies", 11 trattati astrologici tra cui un "Lapidario"; un libro sul gioco degli scacchi; altri opere minori o di controversa attribuzione. Il re si circondava di un gruppo di collaboratori, tra cui traduttori, estrattori di fonti, i poeti e i musici. Il re fa un libro non nel senso che lo scrive con le proprie mani, egli è il programmatore e l'organizzatore del lavoro ed anche il revisore dei libri scritti sotto la sua direzione. Oltre all'uso del castigliano ci sono altri tratti che allontanano la produzione alfonsina da quella toledana. AI centro degli interessi di quest'ultima erano stati gli aspetti teorici, sia filosofici che scientifici; l'interesse di Alfonso è invece pratico ed è molto significativo il disinteresse assoluto per Aristotele che proprio attraverso Toledo era penentrato nella cultura europea. Mentre i traduttori toledani erano quasi tutti venuti dall'estero e lavoravano per un pubblico quasi esclusivamente non spagnolo, la produzione alfonsina ha un'influenza determinante sulla cultura castigliana ma pochissima eco fuori dal mondo iberico. Le "Siete Partidas" il cui titolo originale devi essere stato "Libro del Fuero o Libro de las leyes", sono un complesso di circa 2500 leggi, raccolte in "titoli" a loro volta riuniti nelle 7 parti da cui l'opera prende il nome. La prima "Partida" espone la dottrina cristiana e il diritto canonico, la seconda tratta dei sovrani ed include la legislazione universitaria perché allora le università dipende vano dal papa o dal re, la terza delle procedure giudiziarie, la quarta del matrimonio, della famiglia e dei rapporti sociali, la quinta del commercio, la sesta di testamenti ed eredità e la settima del diritto penale. L' "Espéculo" del 1260 circa, i cui 5 libri corrispondono alle prime tre Partidas. Ogni "Partida" continuò a subire revisioni indipendenti, anche dopo la morte di Alfonso, che non aveva prolungato il nuovo codice. Solo in parte l'opera è propriamente legislativa; per essa gli autori hanno utilizzato i Fueros di Castiglia e di Leon, a cominciare dal "Fuero Juzgo" ma soprattutto il diritto romano e i glossatori bolognesi, oltre che naturalmente il diritto canonico, rinnovando così molto profondamente il diritto castigliano. Accanto alla parte legislativa prendono gran posto le riflessioni morali e filosofiche. Le Partidas non furono promulgate che da Alfonso XI, nel 1348, in un testo riveduto ed emendato, ma da allora sono state la base della legislazione spagnola ed ispano-americana. La prima opera storica di Alfonso X è la "Estoria de Espana", iniziata verso il 1270. La sua base è infatti il "De rebus hispaniae" di Rodrigo Jiménez de Rada. Per quanto riguarda le "Crénicas generales" è stata possibile identificazione del pesto di Alfonso solo grazie allo studio dei tutte le "crénicas" di Menendez Pidal. Studi posteriori hanno messo in chiaro come la prima parte sia realmente alfonsina mentre la seconda è stata messa insieme sotto Alfonso XI con materiali in parte alfonsini, in parte rielaborati sotto Sancho IV ed in parte raffazzonati. È importante osservare come dopo la morte di Alfonso il materiale rimasto sia stato utilizzato da qualche anonimo come l'autore della "Crénica de Veinte Reyes". L'opera rimane importante sia per l'ampiezza dell'impianto sia per la novità della prospettiva, essa non si occupa soltanto delle imprese del re, come era consuetudine, ma anche del mondo nobiliare e del modo di vivere nel senso più ampio. Inoltre queste fonti letterarie, vale a dire i cantari epici, conferiscono alla cronaca un valore particolare sia perché essi sono andati quasi del tutto perduti e solo la "Estoria" e qualche altra cronaca mantengono un'eco più o meno fedele, sia perché il loro utilizzo all'interno dei documenti storiografici dà prova di grande valore storico. La tecnica alfonsina si basa su due principi, apparentemente contrastanti, della selezione della Fonte e poi della sua riduzione al dato informativo da un lato e della precisazione accurata del contenuto e della sua amplificazione secondo i dettami retorici dall'altro. Grazie a questo duplice processo materiali di provenienza molto disparata vengono fusi in uno stile unitario, organizzato da una sintassi semplice mari rigorosa e controllata. La "Estoria General" le cui prime quattro parti erano ormai compiute nel 1280 ma che rimase tronca alla sesta parte quando giungeva appena ai genitori della Vergine. Essa non è stata data alle stampe anticamente e di una edizione intrapresa nel nostro secolo sono apparse finora solo le prime due parti. Questa volta fu presa come base la Bibbia. Vengono inseriti dei racconti pagani per poi tornare sempre al filo conduttore che è appunto la Bibbia. Le "razones de los gentiles" sono i miti pagani assunti come travestimenti di vicende storiche. Le fonti sono anche questa volta molto varie. Alfonso X realizzò così una sintesi castigliana per questo egli è ricordato con il soprannome di "Rey sabio", re sapiente. Cantigas de Santa Maria: 427 componimenti dedicati alla Vergine. Origine e sviluppo del mito di Santiago Il corpo di Giacomo, primo apostolo martire, morto per decapitazione nell’anno 42 per ordine del re di Giudea Erode Agrippa (Atti degli Apostoli, 12, 1-2), sarebbe stato trafugato da due dei suoi discepoli, Teodomiro e Atanasio, dopo il martirio subito in Palestina. Sempre secondo la tradizione il ritrovamento del sepolcro di San Giacomo si deve all’anacoreta Pelayo (o Pelagio o Payo) che, avendo assistito a una visione di luci simile a una pioggia di stelle, rinvenne sul monte Liberon in arcis marmoricis (in un'arca marmorea) i resti del santo decollato. Compostela starebbe dunque per Campus stellae, sebbene oggi si ritenga etimologia più probabile Campus Tellum ossia campo di sepoltura. La scoperta del sepolcro avviene nell’813 sotto il regno di Alfonso Il delle Asturie, detto il Cattolico o il Casto, che fa costruire nel luogo del ritrovamento una prima chiesa, poi ampliata dai suoi successori, Alfonso III e Vermudo, sino ad arrivare all'odierna basilica romanica fatta edificare dal 1075 al 1128. Il culto di San Giacomo il Maggiore, in spagnolo Santiago el Mayor, dal latino Sanctus lacobus, e i pellegrinaggi in Galizia iniziarono già nel X secolo. Probabilmente nell’organizzazione del pellegrinaggio svolse un ruolo di primo piano la potente Abbazia di Cluny, presente in Spagna nel secolo XI con 34 monasteri benedettini riformati, che operava a sostegno della Riconquista, intesa come guerra dei cristiani contro i musulmani invasori. Il vessillo del santo evangelizzatore della penisola si veniva a saldare con la promozione di uno spirito di crociata, allo scopo di riunire in un fronte comune i popoli cristiani del Nord: galiziani, asturiani, navarri e cantabri. A Santiago, divenuto il santo della Riconquista secondo una tradizione popolare confermata anche dal Codex calixtinus o Liber Sancti Jacobi (XIII secolo, una delle fonti più importanti per lo studio del pellegrinaggio giacobeo), fu attribuito il merito della vittoria sugli arabi nella battaglia Clavijo (844), meritandosi l'appellativo di Matamoros (Ammazzamori). CANTIGAS DE AMIGO Vi sono molteplici coincidenze tra la lirica ispano-araba delle jarchas, quella delle cantigas de amigo e quella d'amore castigliana dei villancicos. Le jarchas furono probabilmente il sostrato sia per le cantigas de amigo che dei villancicos. Le cantigas ebbero fortuna nei secoli XIII e XIV mentre i villancicos nel XV anche se gran parte delle testimonianze scritte si collocano nel XVI secolo. In galego-portoghese furono scritte le cantigas de amigo come le Cantigas de Santa Maria di Alfonso X el Sabio. La produzione iberica dei trovatori galego- portoghesi si articolò essenzialmente in 3 generi: 1. Le cantigas de amor: strettamente legate alla lirica trobadorico-cortese anche se vi sono innovazioni. Il poeta canta la pena di un amore anelato ma irraggiungibile (coita d'amor), un amore dunque destinato all’insoddisfazione e a volte alla morte. DAMA: chiamata al maschile SENHOR. COITA: Tristezza del poeta, causata dallo sdegno o dal rifiuto (sanha) della dama. Il poeta deve serbare il segreto della sua identità (mesura). 2. Le cantigas de escarnho e maldizer: canti di scherno, con un linguaggio volutamente popolaresco e scurrile, utilizzano la satira (letteraria, politica, morale o personale). Derivate dal siventés provenzale. Circa 430 testi di questo genere. 3. Le cantigas de amigo: canti di fanciulla innamorata. Panismo e concezione dionisiaca della vita. Le cantigas de amigo sono circa 500 testi ricchi di figure di ripetizione, hanno un autore, il lessico è ridotto all'essenziale. La cantiga è composta da quattro o cinque strofe di due versi, spesso seguite da un verso di ritornello, tra la prima e la seconda strofa il tessuto lessicale è uguale, si può assistere al inversione dei due ultimi termini o alla sostituzione dell'ultimo termine. I secondi versi delle prime due strofe diventano poi i primi delle strofe 3 e 4 e così via secondo il meccanismo del "leixa-pren". Su questo schema si possono avere delle variazioni. La fanciulla lamenta la lontananza dell'amico ma a volte anche la gioia dell'incontro e di un amore ricambiato con una sensualità pervasa, assente nella cantiga de amor. Frequente è la struttura dialogica. A differenza delle jarchas e del villancico, nelle cantigas è presente il paesaggio, spesso marino, e a volte la descrizione della donna anche se in termini molto essenziali. | trovatori galego-Portoghesi più famosi sono Martin Codax e Pero Meogo. Le cantigas ci sono state trasmesse da codici antichi come il "Cancioneiro da Biblioteca Nacional". Di Martin Codax, trovatore galego-portoghese, ci sono giunte solo 7 canzoni di amico, molto omogenei sia per temi che per morfologia. Il suo breve canzoniere del XIII secolo, oltre ad essere stato trasmesso dal Cancioneiro da Biblioteca Nacional, è curiosamente conservato anche in un quaderno singolo, la cosiddetta "Pergamena Vindel". Canta Vigo e il suo mare (Galizia), forse il suo luogo d'origine. La cantiga "Ay Deus, se sab'ora meu amigo" tratta il tema della fanciulla innamorata in 6 strofe organizzate a loro volta in coppie. In le Il sì annuncia e si ribadisce La solitudine d'amore, in III e IV al tema della solitudine si aggiunge quello dell'assenza di sorveglianza, nessuno vigila su di lei. Vi è l'utilizzo del leixa-pren (ovvero la ripresa del v. 2 nel v. 7 e del v. 5 nel v. 10). Sono solo due parole che variano: amigo e amado, migo, ambos. La seconda cantiga di Martin Codax presenta frequenti variazioni di amigo in amado. Leixa-pren. Il richiamo luoghi precisi non serve come precisazione realistica bensì lo individua come sede preferenziale. 3. Il villancico di 4 versi che appare con lo schema della redondilla (xyyx) Il villancico strofico aggiunge all’estribillo iniziale alcune strofe che lo amplificano dette pies di 6 o 7 versi composte di 2 mudanzas (abba) e da uno o due versi di allacciamento (enlace) con l’ultimo verso delle mudanzas (a) e con uno o due versi che riprendono la rima del secondo dell’estribillo o lo ripetono interamente a mo' di ritornello (vuelta). I sei villancicos hanno struttura diversa, alcuni con glossa (2, 5, 6 e 7) altri solo con strofetta semplice (1,3 e 4). Il villancico 1 è una quartina assonanzata di settenari e ottosillabi. Il tema è l'attesa dell'amato. Nei primi due versi si presentano i fatti: bussano alla porta mentre una fanciulla attende il suo innamorato, negli altri due non vi è il chiarimento del mistero iniziale di dove sia finito l'amato ma solo i richiami dei battiti del cuore innamorato. Il villancico infatti non interessa la narrazione di una storia bensì la descrizione dello stato d'animo. Nel villancico 3 l'attesa è vana perché l'amico tarda ad arrivare perché è trattenuto en el campo con un'altra fanciulla. La fanciulla tradita invece di dare voce al proprio dolore pronuncia parole di comprensione. Nei "Cartapacios literarios salmantinos" lo stesso villancico presenta una variante insignificante ai sensi del significato, duele/pene e una strofetta di glossa sul tema dell' insonnia d'amore. Nel "Cancionero" di Torner la variante di duele è entretiene. Nel villancico 2 la ripetizione circostanziale "En Avila" che scandisce una esile narrazione tutta incentrata sul devastante evento della morte dell'amante. Gli occhi hanno una funzione sineddotica. Nel villancico 4 tema è il dolore d'amore: l'attesa dell'amato nel verso 1 e il timore della separazione nel verso 2. Nei versi 4 e 5 vi è un'iperbole. In Timoneda lo stesso villancico mantenendo inalterati i primi due versi interpretata in senso completamente antitetico i versi 3 e 4. Nel villancico 5 il tema principale è l'amore gioioso legato al ciclo delle stagioni e alla rinascita primaverile. | villancicos 6 e 7 sono una variazione di "no pueden dormir mis 0jos". VILLANCICO 1, II, III, IV, V, VI e VII (Pagg. 42-45) ANALISI: Con struttura diversa si presentano i 6 villancicos riportati, alcuni con glossa (I,V,VI,VII) altri solo nella strofetta semplice (I, III, IV). Il villancico | è una quartina assonanzata di senari e ottosillabi (6a , 8b, 8c, 8b) sul frequente tema dell'attesa dell'amato. Nei due primi versi si presentano con estrema sintesi i fatti, nei restanti due non vi è il chiarimenti del mistero iniziale (è l'amato?) , ma si amplifica il tema associando, con efficace espressionismo, i richiami esterni ai battiti del cuore dell'innamorato , trepidante e speranzoso. Come spesso accade nella poetica del villancico, qui non interessa la narrazione di una storia, ma la descrizione di uno stato d'animo. Attesa vana è quella del villancico III giacché l’amico ritarda perché è trattenuto “en el campo” da un'altra fanciulla. L'attenzione poetica qui è spostata dai sentimenti della protagonista del canto a quelli dell'amico, verso il quale, con una nota di empatia, la fanciulla tradita invece di dare voce al proprio dolore pronuncia parole di comprensione , come se l’amore, meriti compartecipazione e rispetto. Intensamente drammatico il testo II , ove la ripetizione circostanziale en Avila scandisce un'esilissima narrazione tutta incentrata sul devastante evento della morte dell'amante. Turbano quegli occhi che all’inizio ci fanno percepire la protagonista del canto ma che poi nella brevissima glosa diventano metafora dell'amico. In IV il dolore d'amore viene compendiato in una redondilla che propone nei primi due versi, in costruzione parallela e antitetica l'attesa dell'amato e il timore della separazione . VERSO IL LIBRO DE BUEN AMOR La Cuaderna via si mantiene in vita anche nel secolo XIV per poi cedere il passo al verso ottonario nella lirica dei Cancioneros dei secoli XV-XVI. Di metà del 1300 sono alcune opere scritte in tetràstrofo monorimato, più complesse per temi e meno fedeli alle rigide norme dell'uso della quartina di alessandrini del secolo precedente. Si tratta principalmente del "Libro de Buen Amor" di Juan Ruiz Arcipreste de Hita e del "Libro rimado de Palacio" di Pedro Lépez de Ayala. IL TRECENTO: PRIMI ESEMPI DI ROMANZO pagg. 69-71 Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento continua la produzione di operette didattico-moralistiche. Tuttavia occorre segnalare due grandi opere che, iniziando la narrativa in prosa, avviano in qualche modo la grande tradizione del romanzo cavalleresco. La più antica sembra la “Gran Conquista de Ultramar”, difficilmente databile ma comunque della fine del secolo XIII o dell'inizio del successivo. Il nucleo principale è costituito dalla storia delle crociate di Guglielmo di Tiro ma è farcita con prosificazioni delle “chansons de geste” del ciclo delle crociate. Lo stile è prolisso e impacciato, per la prima volta nella storia della letteratura castigliana si avverte l'interesse per la registrazione di una situazione psicologica nel suo divenire, e non più soltanto come stato tendenzialmente immutabile. Del 1270 è la traduzione di un anonimo del “Roman de Troie” di Benoit de Sainte Maure che intercala alla prosa delle parafrasi in versi. Più tardi Alfonso XI promuove un'altra traduzione del testo francese ma interamente in prosa che fu terminata nel 1350. Sempre nel Trecento un tal Leomarte volge in castigliano nelle sue “Sumas de historia troyana” un derivato di Benoit. Il “Libro de Cavallero Zifar” (o “Libro del cavallero de Dios”) di autore anonimo ma si pensa sia di un chierico toledano, è il primo romanzo originale. La prima parte racconta le peripezie di Zifar, della moglie e dei loro due figli. Il figlio cadetto, Roboén, desidera andare all'avventura per procacciarsi onore. La seconda parte trascrive gli ammaestramenti che gli dà il padre. Nella terza parte Roboan parte e dopo varie avventure cavalleresche diviene imperatore di Tigrida. La prima parte segue la falsariga dei romanzi bizantini ed in essa le avventure sono governate dal caso e non dalle peripezie cavalleresche; la seconda rientra nella tradizione didattica e la terza ha uno spiccato carattere cavalleresco e sfrutta abbondantemente la tematica meravigliosa del romanzo bretone. Queste tre tendenze sono compresenti in tutta l'opera. JUAN MANUEL pagg. 71-80 La crisi interna della Castiglia iniziata sotto Alfonso X acquista gravità sempre maggiore nel Trecento; la nobiltà di sangue reale, che ha preso coscienza della sua forza nei dissidi per la successione ad Alfonso X, profitta di ogni occasione favorevole sotto i suoi due successori e ritorna in primo piano durante la minore età di Alfonso XI. Di ciò possiamo vedere riflessi già nella vita tormentata di Juan Manuel. Figlio dell’infante Manuel, un fratello di Alfonso X, Juan Manuel era nato nel 1282, orfano di padre a 2 anni e di madre ad 8, egli crebbe a capo di un dominio vastissimo ed ereditò la carica di “adelantado” (governatore) del regno di Murcia dove giovanissimo dovette combattere i mori di Granada. Morto il cugino Sancho IV, si alternano i periodi di fedeltà e quelli di rivolta a Fernando IV; morto anche costui, Juan Manuel è co-reggente durante la minore età di Alfonso XI, ma poi, quando il re rompe il fidanzamento con sua figlia, egli scende in guerra aperta contro di lui e si allea col re di Granada; alla fine sarà però al fianco del sovrano castigliano nella battaglia del Salado, pochi anni prima di morire (1348). Juan Manuel sposò successivamente una principessa della casa reale maiorchina, una principessa aragonese e poi donna Bianca, della potente casa di Lara; una sua figlia andò in sposa al re Pietro IV di Portogallo, un'altra dopo la sua morte salirà al trono di Castiglia come moglie del fratricida Enrico II. Come gli altri dopo di lui, anche Juan Manuel trasferisce nella sua opera l'eco degli orgogli e delle turbolenze della crisi del rapporto fra sovrani e nobili. La formazione letteraria di Juan Manuel è guidata dall’esempio dello zio Alfonso X; basti pensare che egli apprezzò talmente tanto |’ “Estoria de Espana” da redigere un’abbreviazione capitolo per capitolo, la “Crénica abreviada”. Da Alfonso viene il nostro concetto di sapere, egli dice che mediante il sapere gli uomini diventano signori e contrastano le difficoltà; vi è quindi un piano propriamente didascalico. Le opere alfonsine rimangono per lo più "in fieri", disponibili alle revisioni, quelle di Juan Manuel raggiungono una forma definitiva e intangibile. Egli scelse il monastero domenicano di Penafiel, da lui stesso fondato, e vi depositò copie delle singole opere e poi anche una più vasta collezione, che non includeva però il "Conde Lucanor". Ma purtroppo tutti questi manoscritti sono andati perduti ad eccezione della "Crénica abreviada". Tra le opere minori conservate ricordiamo il "Libro de la caza", con molti ricordi personali, il "Libro de las armas", sullo scudo nella sua famiglia, e il "Libro enfenido", libro di consigli morali al figlio. Juan Manuel non ha ricevuto alcuna educazione scolastica, egli stesso dice di aver appreso tutto vivendo presso le corti di diversi signori. Egli utilizza lo schema dell'esperto consigliere che ammaestra il giovane allievo; il consigliere non è mai un dotto ma appunto una persona maturata dalla vita di corte o lo stesso Juan Manuel. L'opera conserva così il tono di un esperienza insieme cortigiana e universalmente umana. Juan Manuel mostra di conoscere la letteratura castigliana e quella catalana, non è ignaro del latino e sa l'arabo (arabe, scritte o orali, sono alcune sue fonti). Ma la sua opera non è nutrita dai libri bensì dell'esperienza insostituibile della vita. Questo aspetto è talmente importante per l'autore che egli si ritiene autorizzato ad inserire nella pagina narrativa non solo se stesso e la sua opera ma anche particolari di imprevista intimità come la sua frequente insonnia dovuta alle preoccupazioni. Il "Libro del Cavallero e del escudero" (1326) narra come un giovane scudiero, chiamato a corte dal re, si fermi in un eremitaggio abitato da un anziano cavaliere, da cui riceve insegnamenti morali; dopo esserci recato a corte ed essere stato fatto cavaliere, il giovane torna presso il vecchio ad interrogarlo sulla vita e sulla natura; ma alla fine l'eremita muore. Nel "Libro de los estados" (tra 1327 e 1332) il re pagano Morovan fa educare il figlio Johas dal saggio Turin in modo che gli si nascondano il dolore e la morte; ma, quando egli vede per caso un cadavere e gli si rivela il dramma della vita, il giovane non può soddisfarsi con le risposte di Turin, che ricorre al saggio cristiano Julio, il quale alla fine converte Morovan, Johas e Turin. La trama è direttamente ricavata dalla famosa leggenda di Barlaam e Josaphat, che non è altro che l'adattamento cristiano della storia di Buddha. Il "Libro de los enxemplos del conde Lucanor e de Patronio" (1335) è una raccolta di 50 esempi (il cinquantunesimo pare apocrifo o almeno scartato), cui poi furono mano mano aggiunte 3 parti proverbiali ed una quinta ed ultima parte sul problema della salvezza. Qui lo schema è capovolto: è il pretesto dialogico e didattico a fare da cornice all'opera ed a chiudere in sé 50 nuclei narrativi; ogni volta il conte Lucanor sottopone al suo consigliere Patronio un proprio problema concreto e Patronio gli suggerisce il comportamento più adatto mediante un racconto da cui egli stesso ricaverà poi la morale, che riceve esplicita conferma dalla successo del Conte, che si è affrettato ad applicarla al suo caso. La provenienza dei racconti è molto vari molto altro. alcuni provengono da raccolte orientali, altri da fonti europee e Anche in quest'opera l'interesse di Juan Manuel non è teorico ma pratico. | problemi posti dal conte Lucanor sono sempre di comportamento spicciolo, ricavati da ipotetici ma probabili casi della vita, e le risposte di Patronio insegnano virtù molto mediocri. Alla fine dell'opera il consigliere stesso dice lo scopo: proteggere l'anima, il corpo, l'onore, i beni e la posizione sociale nella vita di tutti i giorni, per lui la salvezza dell'anima è interamente affidata alla cognizione della vera fede ed alla sua esatta osservanza. Importante è l'XI esempio che tratta il motivo del tempo fallace. JUAN RUIZ, ARCIPRESTE DE HITA pagg. 80-87 Di Juan Ruiz non sappiamo che quanto egli stesso ci dice nell'unica opera sua che ci è nota. Il nome e la carica di arciprete di Fita, oggi Hita, in provincia di Guadalajara, a nord-est di Madrid. (Arciprete= era il Trino dunque nell'unità è il creatore è tutto racchiude in suo potere. La supremazia Romana risulta così sancita da un misunderstanding. LAS SERRANAS (Pagg. 120-127) leggere Si tratta della parodia di un genere piuttosto noto e di sicuro prestigio letterario: quello della "pastorella" francese. Nelle pastorelle avveniva l'incontro tra un cavaliere e una pastora in una cornice di perfezione bucolica. In questo caso la pastora rappresenta l'ideale femminile di cortesia in misura, di fronte alle offerte del cavaliere ella si nega difendendo la propria dignità che le impone di non accettare un amore che non sia tra pari. Importanti sono le "serranillas" del Marqués de Santillana. Il luogo evocato è di tipo bucolico, è primavera, rose e fiori circondano la pastora occupata a badare alle greggi. Della donna manca un ritratto fisico esplicito, al poeta basta evocarne la bellezza ritenuta senza pari per richiamare alla mente del lettore una tipologia femminile. Il suo intervento è breve e si nega sempre alle offerte amorose del cavaliere. Nella Serrana dell'Arcipreste invece infuria il freddo invernale, il 3 marzo, giorno di Sant'Emeterio, nevica e grandina. E dunque presentato un locus horribilis chiamato a contrastare il locus amoenus come spazio deputato all'amore. Nel nomignolo "la Chata" si riassume l'espressione di un volto sgraziato, i gesti sono sgarbati ed anche le prime parole. Nulla in lei evoca la dama di corte. Il finale è caratterizzato dall'incontro sessuale, voluto dalla pastora come pagamento per i servizi offerti all'arciprete, l'unione sessuale è visto come necessità naturale. LETTERATURA MINORE DEL TRECENTO pagg. 87-91 Il "Poema de Yucuf", sulla cui datazione non sappiamo nulla di preciso, è un'opera di un anonimo morisco Aragonese cioè di un musulmano rimasto in terra cristiana. Il poeta usa l'idioma romanzo ma lo scrive in caratteri arabi (i testi di questo tipo si chiamano "aljamiados"). Vi si narra la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, ma non secondo la Bibbia bensì sulla base della sura XII del Corano, arricchita di sviluppi leggendari già elaborati in testi giudaici e poi recepiti dalla tradizione islamica. Il momento saliente del racconto è l'amore di Zalifa per il casto Giuseppe, che resiste alla seduzione. Il poema è rozzo e approssimativo. Il "Libro de miseria de omne" (fine del XIV secolo) è una traduzione in quartine di alessandrini del "De contemptu mundi" di papa Innocenzo III. I "Proverbios de Salamén" (1375 circa) sono un componimento sulla vanità del mondo. | "Proverbios Morales" di Santo de Carriòn: si tratta di 725 distici di alessandrini a rima interna e finale (i manoscritti usano alcuni l'alfabeto latino, altri quello ebreo). Vi è ricchezza di metafore e comparazioni. | versi avrebbero dovuto essere accompagnati da un commentario, verosimilmente di altro autore, che non ci è pervenuto. La "Crénica geral de Espanha de 1344" del Conte don Pedro de Barcelos, subito tradotta in castigliano dal portoghese, in essa il Cid appare in una versione rielaborata, il racconto riceve dunque maggiori sviluppi. Il "Poema de Alfonso XI" composto nel 1348, il metro è nuovo: vale a dire la quartina di ottonari a rima abab. Il proposito è biografico e storico, tanto che egli si è servito di una fonte scritta, la cronaca ufficiale del Regno, per quanto narri avvenimenti a lui contemporanei. Lo scopo è celebrare le imprese di Alfonso XI contro i musulmani ed in particolare la vittoria di Salado. Il "Cantar de Rodrigo y El Rey Fernando" è una variazione della vita del Cid. Narra come il giovane Rodrigo uccida durante una lite il conte G6mez, la cui figlia Ximena chiede al re come riparazione di poter sposare l'assassino; lo sposo rifiuta però di tornare presso la moglie se non avrà prima vinto cinque battaglie campali, hanno inizio le lotte contro i mori e contro i traditori che ad essi si alleano. LA POESIA LIRICA DURANTE I PRIMI TRASTAMARA pagg. 91-93 Nel 300 ci fu un gruppo di trovatori cne scrivevano le loro liriche sia in galego che in castigliano e si influenzavano delle cantigas de amor e NON delle cantigas de amigo. In queste composizioni la donna è crudele e la figura di Amore colpisce e punisce. Si utilizza l'ottononario e il verso a quattro sillabe. Emistichio, struttura simile allo "zejel". Uno di questi poeti è Alfonso de Villasandino, lui sarà il portavoce della lirica, con molte innovazioni PERO LOPEZ DE AYALA pagg. 93-101 Autore importante della fine del 300, combatte con i re del periodo castigliano , la Castiglia all'epoca era alleata con la Francia e Portogallo e contro l'inghilterra. In quel periodo si afferma la potenza navale castigliana e un'idea di monarchia assoluta ma i re sono ancora deboli. Ci troviamo in un periodo di discordie reale e nobiliari. Prigioniero in Portogallo compone delle poesie poi raccolte "Rimado de Palacio": appaiono versi in arte mayor e la cuaderna via. Si divide in tre parti con una visione per il mondo e l'ingiustizia della vita sociale e religiosa per arrivare ad una confessione e ripiegarsi sulla nostra vita, questa religiosità travagliata mette in luce l'inadeguatezza del genere umano. Scrisse anche una Cronica narrando il periodo da lui passato con Pedro , Enrico etc.. La sua scrittura è permeata di fatti e una discrezione nel descrivere, racconta ciò che accade nella storia fedelmente: stile personale e raffinato. Volse in castigliano alla fine del 300 alcune opere antiche. IL QUATTROCENTO: L’ETAì DI JUAN II E DI ENRIQUE IV UMANESIMO E TRADIZIONE MEDIEVALE pagg. 102-109 Il Trecento è stato il secolo di fusione delle 2 grandi culture semitiche con quella cristiana. Nel Quattrocento l'influenza dall'esterno delle due grandi culture semitiche va indebolendosi sia per un affievorirsi della loro fecondità in terra iberica che per un crescente antagonismo avvertibile negli ambienti cristiani, ma grazie al livello intellettuale di numerosi “conversos” ossia ebrei convertiti la spiritualità ebraica opera dall'interno della cultura spagnola con intensità ed effetti molto rilevanti. Un elemento del tutto nuovo è l'Umanismo italiano che acquista in terra iberica caratteri specifici. Soltanto alla fine del Trecento Pero Lépez de Ayala volge in castigliano opere antiche. Importante autore è Juan FernAndez de Heredia. Egli calca le orme di Alfonso X, la sua opera principale è “Grant Crénica de Espanya” in 3 partidas. Ad essa si pone accanto la “Grant Crénica de los Conquiridores” in2 parti. Enrico di Aragona, discendente di Castiglia e Aragona, sorprese i suoi contemporanei per la sua inettitudine o meglio disinteresse per le armi e la vita politica e per la passione esclusiva per la cultura. La sua importanza è nell’apertura alle diverse correnti letterarie e alla sua opera di mediazione culturale. Per Ifigo Lépez de Mendoza nel 1428 compose la versione in prosa della Divina Commedia. Negli stessi anni per il re Juan de Navarra egli tradusse sempre in prosa l'Eneide virgiliana. Tra le sue opere personali scrisse nel 1417 i “Doze trabajos de Hercules”, riprende i miti e l'insegnamento morale dalle opere classiche. Altro autore è Alfonso de Cartagena, egli ebbe un ruolo di primo piano nella vita politica e religiosa del regno di Juan II, egli tradusse il “De casibus” di Boccaccio. Fu al centro di una polemica con Leonardo Bruni per la traduzione di quest'ultimo dell'Etica” di Aristotele da cui Alfonso rimase deluso. L'Umanesimo che si diffonde in Castiglia tende ad accogliere tutti gli elementi delle altre culture ma facendo fede alla propria e non era molto favorevole all’Umanesimo italiano. Altra figure importante è Martinez de Toledo, arciprete di Talavera, che scrisse un'importante opera “Arcipreste de Talavera”, un'opera in 4 libri terminata nel 1438. Egli scrive contro la lussuria, sui difetti delle donne, sulle 4 complessioni dell’uomo e contro l'astrologia. Lo stile accoglie il parlare quotidiano misto al parlare elevato, vi sono molti dialoghi e monologhi. LA POESIA AGLI INIZI DEL REGNO DI JUAN Il pagg. 110-115 Il regno di Juan Il fu un periodo contrastante, quello di Fernando | un periodo di relativa pace e trasmissione culturale. | poeti del Quattrocento non erano omogenei e provenivano da diverse parti del paese, si dedicano a temi completamente nuovi, sono autori ma anche “maestri” con un preciso impegno culturale. Non sarà un caso che Dante verrà utilizzato come modello. Diventano alla moda i “decires” che trattano della Trinità, della morte, dell’immacolata Concezione, del libero arbitrio. Anche sul piano formale le cose cambiano: si utilizzano versi de arte mayor sia nei decires che nella narrativa in versi. Il verso con vocaboli poco comuni perché tecnici e metaforizzati assume un tono più oscuro e difficile. Si inspirano moltisimo a Dante in maniera stilistica e allegorica, anche nei "Dezir " è molto frequente, il poeta non critica e giudica del tutto l'uomo ma vuole che si impegni nella sua vita, non ha sfiducia in lui. IL MARCHESE DI SANTILLANA pagg. 115-122 Iigo Lépez de Mendoza riprende e traduce i classici nonostante conoscesse poco il latino e per nulla il greco. Si interessò anche ai testi cristiani e italiani, leggeva il francese e aveva larga conoscenza per la poesia d’oil. Nel “Prohemio e Carta” egli non solo definisce la poesia come fusione di bellezza e utilità intellettuale o morale ma si sofferma a designare un panorama della storia più recente in cui distingue i diversi generi e pone in risalto le maggiori personalità ed opere. La sua produzione, molto vasta e multiforme, è già rilevante perché mostra il confluire di diverse tradizioni culturali ed il tentativo di sintesi elegante. Importante tematica è il destino dell’uomo e delle forze che lo determinano. Egli mostra interesse per il sonetto. Le sue composizioni che spiccano sono le "serranillas" composta in arte menor che narrano l'incontro tra un uomo e una donna montanara. Un racconto importante: "Comedieta de Ponza" in ottave di arte mayor, prende spunto dalla sconfitta navale di Alfonso V d'Aragona nelle acque di Ponza. Il poema riprende in maniera modesta la commedia dantesca perché inizia con dolori e finisce lietamente. Nell'opera l'intento è impegnativo: egli canta la battaglia di Ponza come eroica e sfortunata impresa non dei principi ma di tutta la comunità peninsulare, va oltre il fatto politico in sé arrivando a soffermarsi sulla Fortuna personificata. La fortuna governa ma sopra di lei vi è Dio quindi all'uomo non resta che affidarsi a Dio. La Fortuna non è altro che la legge di Dio così come il Fato. Il tema del destino e della Fortuna ricorre spesso in Santillana: anche nel “Bias contra Fortuna” con un dialogo di 170 strofe di arte menor. Bias è uno dei 7 saggi di Grecia, figura semileggendaria di uomo politico, militare e filosofo. Qui la Fortuna è concepita nella sua negativià come nemico dell’uomo, e l'etica del saggio è quella che conta per poterla affrontare. JUAN DE MENA pagg. 122-130 Stretti rapporti con Santillana. Nacque a Cérdoba da una famiglia relativamente modesta di ebrei conversi, fece studi regolari a Salamanca e in Italia presso Juan Il fu cronista e segretario di lettere. | suoi contemporanei e posteri lo identificarono come “l’intellettuale” mentre identificarono Santillana come “il cavaliere”. Nella sua produzione sono presenti prove di liriche d'amore, si dedicò all'attività di traduttore. | suoi contemporanei ci presentano la sua perfetta padronanza del latino, ma a differenza di Santillana egli non si dedicò alla diffusione della conoscenza dei classici. Lo stile è didattico, chiaro, costruito da coordinate di frasi brevi e utilizza in alcuni momenti l’interpretazione allegorica. Un'importante opera è “Coronacién”, parabola della vita di don Rodrigo e la sua morte serena ed esemplare. La morte è qui intimamente cristiana e perciò molto serena e quasi consolante, è affrontata con sereno coraggio. Per quanto riguarda lo stile il suo verso è spoglio di aggettivi, per lui evitabili, egli è infatti scarno. La scelta metrica contribuisce all’essenzialità del verso: strofe di 12 versi in cui l’ottonario si alterna con versi di 4 sillabe (di pié quevrado o piede spezzato). UMANESIMO E POESIA TRADIZIONALE LA CULTURA ALL’AVVENTO DEI RE CATTOLICI: CARATTERI GENERALI pagg. 151-154 Il regno di Fernando e Isabella, i re cattolici, fu un periodo di essenziale sviluppo per la penisola, sia nell’ambito della politica interna (fine della lunga crisi fra monarchia e nobiltà, instaurazione di un regime autoritario, tendenza all'’omogeneità religiosa con conseguente espulsione di israeliti e moriscos e unione delle due corone di Castiglia e Aragona, che nell’ambito della politica estera (fine della Reconquista con la caduta di Granada nel 1492, inserimento rapido della Spagna nella politica estera che comportò un grande contrasto con la Francia e la scoperta dell'America). In ambito letterario iniziano a diffondersi prevalentemente tre generi: lirica colta cortese, teatro e narrativa. Quanto alla lirica cortese: essa presenta almeno 2 novità ovvero l'affermarsi negli ambienti colti del gusto per temi e toni popolari e il fiorire di una poesia religiosa che raggiunge risultati notevoli con fray Inigo de Mendoza e Ambrosio Montesino. Quanto al teatro, pressoché inesistente durante tutto l’arco del Medioevo, inizia con Juan del Enzina, Lucas Fernandez e Gil Vicente la grande tradizione iberica, con Bartolomé de Torres assimila l'insegnamento umanistico e con la Celestina raggiunge un risultato eccellente, essa eredita certo molto della tradizione medievale ma è una creazione della vitalità rinascimentale. Quanto alla narrativa: i temi della civiltà cortese sono proiettati in un gusto per il meraviglioso ed il fantastico che corrisponde alla richiesta di un nuovo pubblico cortigiano. Nel 1508 si stampa a Saragoza un’opera intitolata “Los cuatro libros del virtuoso caballero Amadis de Gaula” che è stata redatta tra il 1492 e il 1500 da Garci Rodriguez de Montalvo, regidor di Medicina del Campo. Egli ammette di aver modernizzato e corretto degli “antiguos originales” e di aver ampliato i 3 libri in 4. Il quarto narra le avventure di Esplandiàn, figlio di Amadis. LA STORIOGRAFIA pagg. 154-161 Nell’umanesimo la corte reale diviene il centro e pressoché unico della vita culturale. La figura più rilevante della storiografia del tempo è il cronista Diego de Valera. Egli era probabilmente di origine giudaica e fin dall'infanzia visse a corte dove suo padre era il medico di Juan II. Diego de Valera dedicò opere a molti signori, questo non per scopo politico bensì per scopo cortigiano in quanto egli cerca di darsi una funzione specifica attraverso la selezione dei temi e del loro svolgimento. Tra le sue opere vi è “Crénica de Espania” che è una compilazione degli avvenimenti dall'antichità al regno di Juan II, preceduta da una introduzione geografica. Essa ebbe 18 edizioni e fu pertanto fortemente richiesta. Diego de Valera continuò poi con la storiografia con l’opera “Memorial de diversas hazafias” (1486-87) che tratta del regno di Enrique IV e poi con “Crénica de los Reyes Catélicos”. All’avvento dei re Cattolici egli cominciò infatti a scrivere per loro e cessò con le dediche ai magnati. Altro importante cronista è Fernando del Pulgar, non sappiamo né dove né quando sia nato ma sappiamo che come Valera fu a corte di Juan II, Enrique IV e Isabel, ebbe una vita politica più attiva di quella di Valera. Nella sua produzione importanti sono le “Letras”, anteriori al 1485 in cui la tematica è varia, più personale, a volte fino alla confessione, ma meno filtrata da una vena di fine umorismo. Ma la fama di Pulgar è legata ai “Claros Varones de Castilla”, raccolta di 25 profili biografici di protagonisti della vita castigliana sotto Juan Il ed Enrique IV. L'autore dichiara la volontà di consegnare alla memoria dei posteri le imprese dei suoi conterranei. Già prima che egli terminasse i Claros Varones, i re Cattolici gli affidarono la stesura della “Crénica de los Reyes Catélicos” che narra gli avvenimenti storici dal 1486 probabilmente al 1490 con la guerra di Granada. Essa è caratterizzata da informazione accurata riscontrata dai fondi archivistici. LA NUOVA FILOLOGIA UMANISTICA pagg. 162-166 Alfonso de Palencia, dobbiamo ricordare | “Universal vocabulario en latin y romance” stampato nel 1490, imortante per l'utilità che conserva ancora oggi quale inventario del lessico castigliano della fine del Quattrocento. Altro importante autore fu Antonio de Nebrija che studiò a Salamanca ma la sua formazione umanistica è dovuta agli anni che egli trascorse a Bologna, più tardi abbandonò l’Università di Salamanca per non essere stato chiamato alla cattedra di Grammatica e fu subito accolto all'Università di Alcalà dove rimase fino alla morte. Con lui si tenta l'integrazione dell'umanesimo nel vecchio organismo accademico, a lui si deve la riforma dell'insegnamento del latino, importante fu il suo interesse per il greco, per l'ebraico, per i principi pedagocici e il diritto civile. Fu portavoce delle innovazioni dalle lingue classiche al volgare romanzo, pubbicò infatti un vocabolario latino-spagnolo e viceversa nel 1492; nello stesso anno pubblicò la sua “Gramatica castellana”. Anche due italiani furono importanti in questo periodo, si tratta di Lucio Siculo e Pietro Martire. Grazie a loro si afferma la figura di Jiménez de Cisneros che fu confessore di Isabel e per questo determinò la vita religiosa della Castiglia e fu anche arcivescovo di Toledo. Due furono le sue opere importanti: la fondazione dell’Università di Alcalà de Henares e la “Biblia poliglota complutense”. La fondazione di questa nuova università non risponde solo al progetto di moltiplicare le sedi dell’insegnamento superiore ma anche al fine dell'addestramento dei teologi che abbiano esperienza di lingue antiche. Così l'Umanesimo trova la sua sede nell'università. La Bibbia Poliglotta è una grandiosa impresa filologica mirante a garantire un testo critico della Sacra Scrittura. La stampa fu in 6 volumi e fu approvata da papa Leone X. I TARDI CANZONIERI E LA POESIA RELIGIOSA pagg. 166-172 Nel periodo dei Re Cattolici si assiste al recupero di atteggiamenti di tipo popolareggiante e l’accentuazione della tematica religiosa. Fra gli autori aumenta proporzionalmente il numero degli appartenenti alla nobiltà. Importante autore è Juan Alvarez Gato, egli si dedicò alla poesia amorosa in giovinezza il cui tratto rilevante è il ricorso all’iperbole sacro-profano e ad una produzione di tipo satirico che investe una problematica morale e politica. Il momento finale della sua produzione sono le liriche religiose con cantares popolari e letras composte appunto sotto i re Cattolici, vi è quindi un recupero del passato religioso ma con innovazioni. Importante è poi fray Inigo de Mendoza, fu legato prima alla corte di Enrique e poi di Isabel. La sua opera principale sono le “Coplas de vita Christi” che trattano del racconto evangelico, l'infanzia di Cristo, la Passione, il dolore di Maria e il suo rapporto con Gesù. Ma a queste tematiche si affiancano temi tipicamente francescani come l'elogio della povertà e il senso dell'uguaglianza fra gli uomini. | rappresentanti della poesia religiosa sotto i re Cattolici sono: Ambrosio Montesino e Juan de Padilla. Il primo fu anch'egli francescano ma a differenza di Mendoza in lui non vi è nulla dell'impegno sociale e politico. In Montesino si trovano i temi mariani, quello dell'Infanzia e della Passione di Cristo. Juan de Padilla fu un frate certosino seguace degli schemi allegorici di Mena. La sua opera principale è “Retablo de la vida de Cristo”. Il poema narra tutta la vita di Cristo e si presenta come imitazione di un “retablo” (pala d'altare) con 4 pannelli corrispondenti ai Vangeli ed ai fiumi del Paradiso Terrestre. “Los doce triunfos de los doce Apòstoles”, terminato nel 1518 e costruito su una trama di corrispondenze (fra gli apostoli, i profeti, i mesi ed i segni dello zodiaco) ed obbediente all’allegoria. Altra importante opera del tempo è “Cancionero musical de Palacio”: i temi cortigiani sono esaltati con eleganza e sentimento. LA LIRICA TRADIZIONALE pagg. 172-174 In questo periodo la lirica popolare apparentemente tace quasi del tutto ma sarebbe certo un errore considerarla inesistente anche se, d'altra parte, non è facile individuarne le forme, i toni e la vitalità. 3 sono gli esempi: il lamento per la morte di Guillén Pereza, il “tres morillas me enamoraron” appartenente al Cancionero musical de Palacio e “No puedo apartarme”. Queste poesie sono per lo più villancicos formati da distici o tristici, sono per lo più testi anonimi e di poeti singoli e di tematica amorosa. IL ROMANCERO pagg. 174-182 Nacque nella penisola un nuovo tipo di poesia popolare, il romance. In una specie di zibaldone nel 1421 Jaume de Olesa mise per scritto una versione molto catalanizzata del romance della Dama e del Pastore, una sorta di pastorella alla rovescia. Juan Rodriguez del Padrén scrisse 3 romances, Mena e Santillana anche ne scrissero. | romances saranno famosi sotto il regno di Enrique IV che li canterà lui stesso, comincia la gran voga del genere in Castiglia e questa fortuna durerà fino a metà circa del Seicento; poi i romances scompaiono ma continunano ad esistere in forma orale. Nei secoli XIII e XIV la parola romance indicava una composizione narrativa in versi sia didattica che epica, ma nel Quattrocento il termine si specializza per un genere particolare. Il testo di Jaume de Olesa è in doppi ottonari con il primo emistichio piano e il secondo tronco e con assonanza in e dei secondi emistichi; i tre romances di Juan Rodriguez del Padrén hanno la stessa struttura ma il verso è meno regolare ed uno dei testi usa la e paragogica dell’epica antica. Santillana dice che essi erano costituiti senza regole perciò sembra lecito pensare che fossero costituiti da versi anisosillabici anche se a base di emistichi ottonari. Nel Cinquecento gli emistichi divennero veri e propri versi e l'assonanza rimase nei versi pari, in sede dispari perdurò la preferenza per le terminazioni piane. Tematica: la Dama e il Pastore è di spunto indigeno (la serranilla”, il Conde Arnaldos è molto affine alle ballate, “Rosaflorida” di Rodriguez del Padrén deriva dall’epica francese e i romances di Mena sono a tematica storica. Menéndez Pidal ha chiarito che i romances sono poesia popolare non per la sua origine bensì per il suo vivere nella tradizione orale che incessantemente lo modifica. Qual è la data di nascita del genere? C'è da fare una distinzione tra romances storici ed epici. Gli storici sono legati all’avventimento che cantano, ad esempio i romances sul re Pedro il crudele furono composti per impressionare l'opinione pubblica a favore dei Trastamara dunque in funzione propagandistica. Importanti romances storici sono i romances fronterizos ovvero i romances nella guerra contro Granada durante la minore età di Juan II, essi sono di carattere giullaresco e informativo per il popolo. I romances epici si pensa che fossero parti salienti di altri poemi che il pubblico imparava e ripeteva come il “Cantar de Rodrigo”. Non si sa dunque dove e quando nacquero i romances, sappiamo che si diffusero in uno stato sociale basso e veniva conosciuto anche a corte. I romances sono presentati in maniera frammentata data la loro diffusione orale, il poeta nei testi non interviene mai e tutto è rappresentato mediante il discorso diretto. Sono testi che ormai abbracciano una netta modernità grazie alla loro coscenza ed al loro drammaticismo. Il romance è una composizione poetica caratteristica della tradizione letteraria spagnola, composta usando la combinazione metrica di ottosillabi assonanzati nei versi pari. Il romance è un poema caratteristico della tradizione orale, e diventa popolare nel secolo XV, dove si raccolgono per la prima volta per iscritto in antologie chiamate Romanceros. I romances si interpretavano recitando, cantando o intercalando canto e recitazione. Definzione di romance: Componimento poetico astrofico, costituito da una sequenza di ottonari, assonanzati nei versi pari. LA NARRATIVA: STILIZZAZIONE E TRAMONTO DELLA CIVILTA’ CORTESE pagg. 183- 185 Con la diffusione della stampa cambia il modo di produzione dei libri e nasce una nuova concezione dell'attività intellettuale. La possibilità di riproduzione meccanica della parola scritta muta profondamente il rapporto tra l’autore e il suo destinatario: alimenta la richiesta di opere da parte del pubblico e getta le basi dell'economia libraria moderna; nello stesso tempo fonda un concetto più complesso di letteratura come possibilità perché estende la sfera d'influenza del prodotto letterario su cerchie sempre più numerose di realmente conoscibili, oggetti dell'esperienza quotidiana, personaggi che hanno volti, abiti e mestieri concreti e che parlano una lingua familiare; dunque verosimile. COMMEDIA E TRAGICOMMEDIA: LE REDAZIONI E GLI AUTORI pagg. 216-219 L'opera non si è generata dal nulla ma affonda le sue radici in modelli diversi. Inanzitutto notiamo un certo legame con la tradizione del realismo medievale. Vanno citate poi le commedie di Plauto e Terenzio e il libro de buen amor o anche il corbacho per la tipizzazione dei servi e dell'ambiente ma anche la Bibbia e il de remediis utriusque fortunae per lo stile della moralità e delle sentenze. Poi Ero e Leandro e la commedia elegiaca ma anche la Historia de duobus amantibus del Piccolomini. Ma chi è l'autore dell'opera? Questa come altre opere nasconde l’autore dietro un anonimato prudente il cui nome si cela dietro l’acrostico posto all’inizio dell’opera. È dunque solo l’opera a far luce sull'autore. La scelta dell'autore probabilmente fu dettata da una motivazione precisa. Grazie ai pochi preziosi dati che sono stati ritrovati, si sa che Fernando de Rojas era un converso (ebreo convertito) e che esercitò l'avvocatura e sappiamo poi che al tempo della prima stesura dell’opera era baccelliere a Salamanca. All’edizione del 1501 sappiamo inoltre che fu richiesta la partecipazione di un correttore Alonso de Proaza insieme al quale Rojas integra il testo del 1499, mentre accetta che vengano inseriti stralci sulla sua identità, sul fine dell’opera e sulle ragioni pratiche. [dà indizi sul tempo di stesura che sarebbe l'arco di una vacanza e precisa di aver terminato una commedia già cominciata da altri con 1 primo atto]. Dopo un anno, ci troviamo poi di fronte ad un’altra edizione (Siviglia 1502) ulteriormente arricchita di 5 atti e un prologo in cui si spiega il prolungamento inatteso come tributo al gusto o alle richieste dei lettori. Ancora un atto sarà poi aggiunto in un’altra edizione, quella di Valencia del 1514, il cosiddetto “Auto de Traso”. Quanto al titolo di “Celestina” poi universalmente assunto appare per la prima volta nella traduzione italiana del 1506. Perché l’autore si nasconde? Rojas scrisse la Celestina dopo il 1492 (l'anno dell’editto di proscrizione degli ebrei dalla penisola), si tratta dunque di cautela dell’anonimato a causa di questo editto. L'ARGOMENTO DELL'OPERA E IL PROBLEMA DEL SUO MORALISMO pagg. 220-225 C'è il nobile Calisto, che si presenta nei panni di un giovane cavaliere impetuoso e insensato, sembra predestinato alla malinconia e alla rovina, perdutamente innamorato di Melibea dopo un fugace incontro, e respinto da lei, si dispera e di dimostra subito incline alla prepotenza e all’inganno pur di raggiungere lo scopo. Ci sono i suoi servi, i quali entrano nel gioco come confidenti e consiglieri del padrone, ma con ruoli diversi: da un lato Sempronio, cinico e opportunista, ragionatore sottile e insieme triviale, capace di deridere Calisto con battute degne di un filosofo antico e però subito pronto a sfruttarne la follia per i suoi fini, persuadendolo a ricorrere agli aiuti della mezzana Celestina, da cui spera di cavar poi, egli stesso, il suo profitto; e dall'altro Parmeno, fragile custode di un'innocenza sgraziata e un po’ bigotta, con reazioni da adolescente ignaro dei piaceri del mondo e perciò portato a veder mali dappertutto, ancora fedele al suo padrone tanto da metterlo in guardia contro Celestina ma già pronto a rinunciare di fronte al miraggio di una conquista amorosa. E infine, c'è Celestina: annunciata da Sempronio come autorità infallibile nelle questioni d'amore, invocata da Calisto come consolatrice degli afflitti, disegnata, ancora, da Parmeno al centro di un affresco portentoso di traffici e di torbide macchinazioni. È “madre” e mezzana delle fanciulle che protegge con calcolato profitto, Elicia ed Areùsa: è grande esperta d'affari, e quando fiuta la convenienza di quello che Sempronio le offre, ne prende subito il comando con lenta strategia; ed è maestra in raggiri ed eloquenza a diversi livelli: con Sempronio che tiene in pugno perché è l'amante della sua Elicia, con Calisto per il quale ha in serbo il linguaggio adatto ai cavalieri innamorati, con Parmeno di cui si appresta a vincere la riluttanza promettendogli l'amore di Areùsa. Celestina si accaparra da Calisto doni e denaro a compenso del proprio ufficio, tiene a bada Sempronio, getta Parmeno tra le braccia di Areùsa per conquistarlo all'intrigo, guadagna a sé la criada Lucrecia con promesse di belletti miracolosi; e sferra il primo agguato all'innocenza di una Melibea che è già pericolosamente incline alla pietà per un immaginario mal di denti di Calisto, di cui la mezzana le favoleggia. E la trappola è tesa: basta quel tenue indizio di pena, quella prospettiva di soccorso, e di lì a poco la passione esplode vertiginosa. Sarà la stessa giovane a supplicare Celestina, in un secondo incontro, di aiutarla a rivedere Calisto, sarà lei a blandire Lucrecia, ad aggirare i sospetti dei propri genitori. Celestina lo spinge al primo convegno notturno. È il momento culminante dell’azione: il XII atto. Calisto e Melibea di incontrano alle soglie della casa di lei, parlano sottovoce attraverso la porta senza ardire ancora di toccarsi, progettano un secondo incontro. Intanto i due servi, rimasti a guardia, ascoltano le parole degli amanti e le commentano con beffarda ostilità; si sentono esclusi entrambi dalle gioie del padrone come dai profitti che l'affare ha reso a Celestina; e al ritorno, quella notte stessa, corrono a casa della vecchia, ed essi non esitano a ucciderla a coltellate sotto gli occhi di Elicia disperata; poi, temendo il sopraggiungere delle guardie, si gettano dall'alto di una finestra e muoiono miseramente. Calisto apprende la sciagura al mattino, e ne è sconvolto; ma non si sofferma a lungo a temere lo scandalo, a rimpiangere i servi che credeva fedeli. Teso al compimento del desiderio, non ha altro pensiero che correre da Melibea appena fa notte. E questa volta lo fa senza reticenze: lasciati a guardia altri due servi, Tristàn e Sosia, scavalca il muro del giardino, penetra nella stanza della fanciulla e ne coglie la verginità, rimanendo con lei fino al mattino. La morte l’aspetta al momento del congedo, subitanea e crudele: un attimo di incertezza nel varcare il muro, un piede messo in fallo, e il cavaliere precipita dall'alto della scala e si sfracella al suolo. Melibea non regge a quella vista, disperata decide di togliersi la vita a sua volta gettandosi dalla torre del palazzo dopo aver reso un'estrema confessione al proprio padre, Pleberio, che era accorso alle sue grida. Il lamento di Pleberio e la tragedia si conclude. Vi è un'impostazione moralistica: il rimprovero agli sensi come veicolo di perdizione e sciagura. La pluralità delle morti è orchestrata in modo che ne risalti il valore fortemente punitivo. La morte di Calisto, in particolare, così spietata nella banalità del movente, così sottilmente casuale e senza gloria, occasionale e sciatta, è un autentico “exemplum”, una specie di emblematico e repentino castigo dei sensi: è difficile pensare che con la scena d'amore precedente non abbia un rapporto chiaro e calcolato di causa ed effetto. “innamorati folli”, è l'atto di accusa contro il delirio dei FORMA DRAMMATICA E STILE DELL'ELOQUIO: IL COMMENTO DELLE AZIONI UMANE pagg. 225-232 L'autore dell’opera aveva innanzitutto bisogno di una forma adatta, perciò la scelta cade su qualcosa che è innanzitutto dialogo vivo (e dunque prosa) e che non può non essere azione drammatica, scena, in una sola parola: teatro. È sì teatro ma ben lontano dalle regole a cui siamo abituati. Il numero di atti è ben superiore a quello consueto, l’opera comprende infatti ben poche scene e gesti, si può dire per questo che alla base vi sia il groviglio di pensieri e la riflessione dei personaggi e non la scena in sé. L'autore sembra adattare un soggetto di narrativa al teatro. Gli atti sono brevi ma numerosi rispetto al consueto. La Celestina è la prima opera moderna in cui si menzionano le riflessioni psicologiche dei personaggi, che dà modo ad ogni personaggio di formulare ed enunciare una sua morale e Rojas diviene il drammaturgo dell’illustrazione totale dei pensieri. Lo stile: clausole brevi. Non vi sono linguaggi diversi, non c'è retoricismo né popolarismo. L'autore prima e poi Rojas però prestano molta attenzione all'adozione di un adeguato linguaggio teatrale e drammatico che è studiato sin dall'inizio dell’opera. Gli stessi personaggi che si spendono in lunghe digressioni, sanno anche scambiarsi battute brevi. Lo stile dell’opera è quindi la sintesi tra una tendenza lenta, tendenzialmente astratta e l’altra rapida, simultanea con il gesto e concreta. LA STRUTTURA ITINERANTE: pagg. 232-236 La vicenda ruota principalmente intorno a 3 temi ovvero l’appagamento d'amore, la sede del denaro e la morte. È il racconto dei primi due in corsa verso il terzo, il resto è tutto un groviglio di pensieri e riflessioni. C'è un fitto gioco di interni ed esterni ed un fitto gioco di alti e bassi. Si è parlato per questo di struttura itinerante, non è un caso che i personaggi siano sempre in movimento da un punto ad un altro. Vi sono due ritmi principali: uno intermedio, preparatorio, che esprime indizi e avvertimenti di ciò che sta per accadere (dato dai dibattiti, dai monologhi e dalle conversazioni lungo il percorso) e uno centrale che è il punto di arrivo dell'altro ed è dato dalle scene vere e proprie con le azioni. LA CELESTINA, TRAGICOMMEDIA URBANA: pagg. 236-243 L'opera si muove in uno spazio urbano. La cultura è essenzialmente urbana e i personaggi hanno una loro identità sociale precisa. L'opera fornisce dettagli esatti su spazi e tempi. L’opera è caratterizzata da un arricchimento di dati verosimili che costringe il personaggio a smascherarsi lentamente a connotarsi di elementi attuali e decifrabili riducendo al minimo la finzione letteraria. L'autore nell'opera ette in crisi l'autorità dei valori cortesi e genera una serie di situazioni incerte. Basti pensare a Calisto. Inizialmente egli sembra incarnare gli ideali cortesi, è un cavaliere che inseguendo un falcone entra per caso nel giardino dell’amata e si dichiara a lei contemplando la sua bellezza. Ma man mano l’autore fa trapelare dalle scene successive un Calisto diverso. È il rappresentante di una casta nobiliare che paga degli intermediari per raggiungere il suo scopo. Egli è più un nobile in decadenza. È in preda a una passione ancora per certi versi cortese ma che se ne discosta per questo suo delirio di possesso. Non meno importante sembra essere Melibea: nel | atto è modellata sul cliché delle eroine cortesi poi diventa una donna che cerca di affermarsi nella società, donna che vuole scegliere chi amare entrando in contrasto con la sua famiglia, il tutto però si conlcude inevitabilmente con la morte. Il contrasto tra vecchio e nuovo si fa evidente soprattutto sul piano linguistico. Calisto soprattutto più volte smentisce la sua eloquenza con le azioni che compie. Anche le metafore impiegate sono subito smascherate. LA REDAZIONE IN 21 ATTI E LA SECONDA UNITA' DI COMPOSIZIONE: pagg. 243-247 Verso il 1502 5 atti furono aggiunti nel momento cruciale dell’azione drammatica: vale a dire a metà del XIV atto, un istante dopo la grande scena d'amore, un attimo prima che Calisto precipiti dalla scala e si sfracelli al suolo. Essa mantiene intatto il finale dell'opera, ma nel dare spazio alla nuova parte dell’intrigo (Elicia e Aretùsa, per vendicare la morte di Celestina progettano di far assassinare Calisto da un sicario, Centurio, complici inconsapevoli i servi Tristàn e Sosia) determina anche un prolungamento del legame tra Calisto e Melibea. Con queste aggiunte tutti gli equilibri risultano ormai spostati: trasforma un unico convegno amoroso in una segreta relazione di alcuni mesi; allunga la distanza tra la conquista dell'amore e il precipizio della morte (e dunque affievolisce il valore punitivo); introduce nella caduta di Calisto una motivazione d’intreccio (che ora accorre improvvisamente al frastuono provocato dal sopraggiungere di alcuni sgherri inviati da Centurio). Si aggiunga che il rapporto di continuità fra questi 5 atti e gli altri 16 non sembra favorito dalla perfetta saldatura che si dava, invece, tra il primo e i successivi dell'edizione di Burgos: qui l’autore ha tagliato e ricucito i pezzi incorrendo in alcune trascuratezze (ad esempio uno strano scambio di caratteri tra Elicia e Aleùsa). Tuttavia, nonostante si parta diffidenti di fronte alle aggiunte, a lettura finita abbiamo l'impressione che la parte aggiunta sia divenuta un corpo ormai ineludibile, fortemente radicato nell’insieme dell’opera. È nel lungo monologo all’inizio della parte aggiunta che Calisto rivive per la prima volta in modo conffittuale il dualismo tra la propria passione e i pericoli che essa comporta; e Melibea ci dà i primi indizi di una situazione sociale e familiare inquietante, vissuta come confronto di generazioni, nella scena del XVI atto, quando ascolta, non vista, le confidenze dei genitori che la credono vergine e progettano di darle marito. Nella famosa scena del giardino del XIX atto, c'è un'atmosfera quasi rituale, un linguaggio erotico che negli altri convegna sentivamo appena. Sono passati alcuni mesi, e in questo modo di amarsi, percepiamo un languore sottile e disperato, da passione matura. La morte che verrà immediatamente dopo questa scena porterà insieme al castigo della lussuria, una sfumatura più umana: quella del tragico e naturale scioglimento di una passione irrealizzabile. Elicia e Areùsa sembrano già la nascita di un nuovo tipo letterario, “la hija de Celestina”, che sarà il modello di una serie fortunata del genere picaresco. È un po’ come passare da Amadiîs a Espaldian. C'è infine Centurio, figura del gradasso di periferia, il suo ruolo è quello di uno che trasforma gli omicidi in gazzarra, l'agguato notturno fallisce, non vi sono omicidi e la morte resta praticamente casuale. Centurio è il sicario inesistente. * Secondo Dorothy Severin Calisto è una parodia ma non dell’amante cortese in generale bensì di uno specifico ossia del protagonista del romanzo sentimentale spagnolo e più nello specifico del protagonista di “Carcel de amor” di Diego de San Pedro, Leriano * L'incantesimo che fa Celestina è tratto direttamente dagli incantesimi dell’epoca ® Rojastrasforma in una parodia tragicomica del romanzo sentimentale il primo atto de La Celestina, la commedia umanistica che aveva trovato incompleta, realizzando un'operazione simile a quella che Cervantes portò a termine un secolo dopo scrivendo l’antiromanzo di cavalleria. E di fatto, nonostante la sua forma dialogata, La Celestina è un romanzo moderno che distrugge l'antecedente letterario a cui fa da parodia. La Celestina è l'opera che apre il cammino al genere picaresco. ® LACRITICA MODERNA: Menéndez Pelayo fu il primo critico moderno a studiare i personaggi dell’opera. Il maggior interesse della critica si è concentrato sulla spinosa questione della magia della Celestina. Francisco Rico ha affermato che secondo lui Rojas ha utilizzato la magia come semplice questione argomentale ma senza essere convinto di essa. Dice Gilman che secondo lui Parmeno, un personaggio relativamente minore, ha in realtà una grande importanza come parallelo di Melibea e che vari atti sono dedicati ad illustrare come Parmeno sia soggetto a Celestina senza alcuna magia. L'astuta vecchia fa uso, al contrario, delle sue abilità retoriche e della promessa di fargli avere favori sessuali, mentre il pazzo Calisto emargina colui che fino ad allora è stato il suo leale criado, dandogli così un buon motivo per tradire il suo signore. Melibea la vediamo cambiare tangibilmente, passa da essere un'adolescente con tratti ancora infantili a diventare una donna matura e appassionata che preferisce seguire il suo amante fino alla morte per non vivere senza di lui. Sempronio è stato visto come il più superficiale, cinico e corrotto dei due criados. Areùsa e Elicia scambiano il loro ruolo negli atti aggiuntivi: la tanto domestica Areùsa desidera improvvisamente un'avventura amorosa. Tanto Melibea come Parmeno sono sedotti da Celestina in due scene; l’amore di Calisto e Melibea ha il suo parallelo e la sua parodia nell'amore tra Areùsa e Parmeno; ci sono due notti d'amore, due sono i giardini degli incontri, due i criados, entrambi muoiono, due prostitute, due amanti morti. Solo Celestina sembra essere sola. ® Parte della critica moderna vede la Celestina come l'opera che riassume 3 dei temi più importanti del Medioevo: la fortuna, l’amore e la morte. ® critici della scuola cristiano-didattica dicono che tutti i personaggi muoiono senza confessione e dunque tutti andranno all’inferno, anche Melibea lascia intendere che seguirà Calisto fino a lì. ® Visono numerosissime citazioni di classici greci e latini ma anche spagnoli e italiani medievali. JUAN DEL ENCINA E LUCAS FERNANDEZ pagg. 250-261 Con l'avvento della Celestina si iniziano ad avere esigenze di rappresentare il teatro a stretto contatto con la corte ma la drammaticità della Celestina non verrà mai raggiunta da nessuno. Due sono gli autori che spiccano verso la fine del secolo: Juan del Enzina e di Lucas Fernandez, entrambi di Salamanca, entrambi musici e poeti e, a quanto sembra, in concorrenza tra loro. Il primo è più aperto alle esperienze del Romanticismo nascente ed è molto più versatile, visse in molte corti del periodo. Egli racchiude le sue composizioni in un “Cancioniero” che lui stesso darà alle stampe nel 1496, mette in atto un ESTILO PASTORIL e CORTESAN : scene di pastori e cortigiani, l’opera è realizzata in un tempo e luogo ben preciso. L'opera comprende 8 egloghe, un trattatello di “Arte de la poesia castellana”, alcune poesie religiose e d'amore. Si tratta di 4 rappresentazioni, ciascuna divisa in 2 tempi e dedicate rispettivamente: alla celebrazione del Natale (I-Il egloghe), a Passione, Morte e Resurrezione di Gesù (III e IV), al Carnevale (V e VI), a un idillio pastorale che poi conclude festosamente a palazzo (VII e VIII). Encina ha intuito che solo dal dialetto o da forme dialettali mescolate al castigliano può sprigionarsi un certo tipo di comicità: quella che nasce appunto dall’interferenza con una lingua colta, quella che si basa sulla rapidità dei giochi di parole. La nuova parlata ha anche un suo significato innovatore dal punto di vista sociale: introduce nei testi drammatici il diritto alla parola dell’uomo del volgo. Encina non menziona mai le figure di Gesu, Maria.. ma vengono presentate tramite la descrizione di altri pastori, le immagini sacre vengono ridotte a scene della vita quotidiana di lavoro: qui sta la sua innovazione. LUCAS FERNANDEZ E IL SUO “AUTO DE LA PASION” pagg. 261-264 Scrisse "Auto de la Pasién" di registro diverso da Encina, egli inventa un Cristo con una serie di particolari violenti e descritto lacerante e quasi morente, nella scena gli attori non lo avrebbero rappresentato , un Cristo ricco di realismo, si andava a creare quasi il "teatro nel teatro"= tutto questo apre l'esperienza al misticismo anche dei secoli successivo, immagini ricche di pathos LE ULTIME EGLOGHE DI ENCINA pagg. 264-268 Encina negli ultimi periodi sviluppa egloghe più mature, corpose e leggermente più complesse rispetto al passato, il verso si fa piu levigato, ne scrive quattro in totale. Ritorna il tema dell'amore passionale, adultero e di morte. Tutto questo abbraccia un nuovo Encina che si dedica ad un "vitalismo rinascimentale" e non "medievale " come quello passato, accoglie nuove esigenze di pubblico ed è portavoce di una nuova mentalità. Encina ha come obiettivo quello di diventare un poeta colto. Un esempio spiccato lo è "Placida y Victoriano" un lungo racconto dove il poeta riassume le sue capacità di "comedia", fonde pastori e amanti nella sua ultima egloga e in qualche modo annuncia il teatro seicentesco ma non prenderà mai una posizione nella sua produzione teatrale, è dunque solo un cortesano e un buon umanista. TORRES NAHARRO E LA PROPALLADIA pagg. 268-279 Torres Naharro rappresenta uno specchio emblematico del periodo dei Re Cattolici, affrontò e vide molte cose nella sua vita, venne probabilmente rapito dai pirati e poi riscattato e subi forse un periodo di schiavitù, visse sotto il pontificio di Leone X e decise di raccogliere le sue avventure in un’opera chiamata: "Propalladia" dedicata al Marchese di Pescara. Alcuni studiosi pensano appartiene all'epoca di Carlo V ed è anche sbagliato collocarlo nel medioevo; per lui il teatro si colloca al di sopra di tutto. Egli utilizza il castigliano per le sue opere e non l'italiano e il latino, i suoi personaggi sono molto piu complessi. Esplicita il suo disegno di "Commedia" nel “Prohemio alla Propalladia”: Torres evidenzia due tipi di teatro: uno a "noticia " e uno a "fantasia", il primo si basa sulla fedeltà delle azioni della vita reale e l'altro su temi romanzeschi inventati. Nell'opera il poeta raccoglie i peccati e i difetti della società religiosa e li mette in bocca ai suoi personaggi. LAZARILLO DE TORMES DISPENSA LAZARILLO Tra i tanti inediti anonimi che circolavano nel Regno di Carlo V si fa avanti un'opera di particolare eccezione. Un libro anch'esso anonimo e di argomento piuttosto offensivo (racconta le avventure di un accattone dall'infanzia alla conquista di un'ambigua stabilità sociale) così viene definito nella dispensa | secoli d’oro. Fu dato alle stampe nel 1554 ad Alcalà de Henares, a Burgos e ad Anversa e poi ebbe continuazioni, traduzioni e ristampe. La sua diffusione inaugura un nuovo genere romanzesco che avrà grande successo. Stando ad un cenno dell'edizione di Alcalà sembra che ci fu un'edizione precedente nel 1553. Il romanzo riuscì ad imporsi nonostante l'Inquisizione, con una edizione censurata dall’Indice nel 1571. Il Lazarillo (il cui titolo completo è “Vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades”) è un libricino di poche pagine che ruota attorno ad un unico tema centrale. Vi sono alla genesi dell’opera 4 circostanze: 1. Una forte autonomia del racconto che appare privo di giustificazioni letterarie o morali e digressioni 2. L'uso di un io narrativo particolarmente spiccato 3. Il rigido anonimato di cui l’autore si circonda. Va detto che a differenza della Celestina il Lazarillo ha resistito all'anonimato anche nonostante gli studi degli studiosi più attenti e non sono emersi nomi concreti, solo congetture più o meno motivate 4. La presenza di un destinatario dell’opera, immaginario o reale, che affiora con insistenza durante tutto l'arco del racconto. Sembrano inidizi privi di connessione tra loro ed invece durante la lettura si dimostrano legati. Il Lazarillo può essere definito il racconto senza cornice, l’opera cioè che tende a realizzarsi unicamente in ciò che narra. Il suo vissuto concreto è vissuta come un'esperienza autonoma, c’è un prologo ma è incorporato nella finzione del racconto, vi sono riferimenti esterni ma fungono da corredo alle imprese dell'eroe. Il Lazarillo si fonda su una particolare economicità della lingua, non si perde in lusinghe o cornici allegoriche, è un'opera trasparente, si limita a raccontare. L'autore rivendica la possibilità di raccontare la storia di un uomo qualsiasi. Si tratta inoltre di un'autobiografia con un personaggio-autore che parla in prima persona. L'autore non si limita a trattare una materia aspra rinunciando ad ogni copertura morale, ma vi si colloca all’interno con un atto di identificazione integrale che gli permette di essere l'autore, il personaggio bambino e quello adulto. L'opera si distingue dal resto delle opere del tempo perché l'autore esce dalla sua vita ed entra in quella del personaggio che è un eventuale figlio del popolo, ecco un autore che parla di cose che non hanno niente a che fare con la sua vita. Tuttavia dell'autore vero e proprio non sappiamo praticamente nulla. ANONIMATO: L'autore è stato spinto dal timore di censure, forse anche dal desiderio di non associare il proprio nome ad una materia così degradante. Dà al personaggio il nome di Lazaro e cerca di dare a quell’io una verosimiglianza di identità reale. Egli non trascura nemmeno il fatto che il personaggio che parla in prima persona, per essere credibile, ha bisogno di un interlocutore: perciò mette al cospetto di Làzaro un misterioso “Vuesa Merced” ovvero un signore a cui l’opera è dedicata. Esso resta innominato. La falsa modestia è l'alibi dello stile grosero, le citazioni latine servono a dar forza al diritto di raccontare ciò che pare indegno. Lio del prologo è Làzaro de Tormes, il tù è il dedicatario. L'autore si serve di un personaggio di un suburbio per rappresentare i mali della società. Il Lazarillo non è un romanzo sociale in senso stretto, egli è figlio di un miserabile mugnaio che diventa il tramite tra un autore colto e un destinatario aristocratico entrambi privi di nome. All’inizio del primo capitolo Làzaro si rivolge a vossignoria affermando che la gente lo chiama LAzaro de Tormes, figlio di Thome Gonzalez e di Antonia Pérez, nativi di Tejares, provincia di Salamanca. Afferma che la sua nascita è avvenuta dentro il fiume di Tormes, da qui il soprannome. Spiega poi come è nato: il padre era incaricato di provvedere alla macinatura di un mulino sulla riva del fiume di Tormes, una notte che stava nel mulino la madre ebbe le doglie e lo partorì. Vi è già all’inizio il paradosso ai limiti del reale. Però man mano i fatti cambiano: appena il bambino esce dalla tutela della madre le cose ricordate aumentano in numero e sostanza, la narrazione si distende, ora Làzaro non trasmette più notizie bensì scende in particolari perché maggiore è la sua memoria. È straordinario che l’autore faccia coincidere questo cambio di ritmo con l'abbandono del nucleo familiare, è come se Làzaro abbandonata la tutela materna prende coscienza della sua gestione della vita, diventa attivo e attore. La figura di picaro nasce nel momento in cui si delinea la sua capacità di iniziativa, nel momento in cui si conquista la libertà psicologica. La parola “picaro” non compare all’interno del romanzo ma diventa l’eroe del genere che inaugura ovvero il genere picaresco. Làzaro fa inizialmente l’accompagnatore di un cieco ma quando ne capisce la diabolica astuzia se ne serve per ingannarlo, diventa egli stesso astuto a tempo debito per ricambiare con la stessa moneta il cieco. Rimasto solo va a servir messa da un prete che si dimostra presto ancora più avaro rifiutandogli il pane che per questo Làzaro dovrà rubare di notte ma viene scoperto e messo alla porta. Ed ecco un nuovo padrone: uno scudiero con tanto di cappa e spada, egli tuttavia è povero e ha uno smisurato culto delle apparenze. Gli abiti sono vecchi e consunti, la casa non ha mobili, non c'è denaro per fare la spesa tanto
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