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La letteratura spagnola dalle origini al XIV secolo, Sintesi del corso di Letteratura Spagnola

Riassunto del libro della prof. Sarmati per l'esame di letteratura spagnola 2.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 05/02/2022

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Scarica La letteratura spagnola dalle origini al XIV secolo e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! La letteratura Spagnola dalle origini al XIV secolo Le Jarchas Nel 1948, l’ebraista Samuel Sterne scopre delle brevissime canzoncine in lingua mozarabe (lingua romanza parlata dagli ispano-cristiani nel territorio di Al-Andaluz), celate da caratteri ebraici, le jarchas. Qualche anno dopo, nel 1952, l’arabista Emilio García Gomez, aggiunge a questo primo nucleo altre 24 jarchas , sempre in mozarabe, ma stavolta celate da caratteri arabi. Ad oggi abbiamo una raccolta di ben 76 testi, il cui rinvenimento rivoluzionò le idee riguardo le origini delle letterature romanze e confermò le intuizioni di Ramon Menendez Pidàl, che ipotizzava la preesistenza di una lirica romanza ispanica da cui derivassero le successive manifestazioni poetiche. Le Jarchas sono datate dall’XI al XIII secolo e quindi costituiscono la più antica testimonianza di poesia lirica in lingua romanza. Le Moaxaja Quando gli arabi invasero la penisola iberica, a partire dal X secolo, coltivarono un genere poetico ben diverso dalla poesia araba d’Oriente (quasida), le Moaxaja. La moaxaja è un componimento strofico breve, di 5/6 strofe, con varietà di rime ed una chiusa in lingua romanza (jarcha). Si ritiene che fossero due poeti di Al-Andaluz gli inventori di questo nuovo genere poetico e che fu grazie all’ambiente bilingue che determinò la nascita di un nuovo genere poetico in lingua araba. La moaxaja è scritta in lingua araba letteraria o ebraica e le brevi strofe che la compongono hanno i primi 4/5 versi che rimano tra loro e l’ultimo o gli ultimi due che rimano con la jarcha. Secondo l’egiziano al-Mulk, la moaxaja può trattare uno qualsiasi dei temi dello shr’i (patrimonio letterario classico). Il tema della jarcha è collegato al tema della moaxaja, ma non nel contenuto. I versi della jarcha sono generalmente posti in bocca ad un personaggio diverso dal poeta e sono resi in tono colloquiale. Lo schema rimico del componimento è AA BBB AA CCC AA DDD. La jarcha chiude l’intero componimento e fornisce le rime che si ripetono di strofa in strofa. Tuttavia, sulle origini delle jarchas le opinioni divergono. L’ ipotesi più plausibile rimane quella che siano una citazione di una poesia romanza pre-trobadorica, dato che spesso non vi è coerenza tra i contenuti della moaxaja e quelli della jarcha. La jarcha, infatti, è tipicamente un canto d’amore, più precisamente il lamento di una fanciulla innamorata. La giovinetta soffre di solitudine amorosa per un amore che è assente o lontano. La fanciulla piange in prima persona e si rivolge ad un “tu” che a volte lascia intendere l’amato, altre volte le sorelle o la mamma a cui chiede consiglio e conforto. Nessuno degli interlocutori però risponde mai alle sue domande che risuonano come grida di dolore. Spesso la medesima jarcha compare in più di una moaxaja e ciò rende evidente come l’autore della moaxaja non sia lo stesso della jarcha e testimonia la preesistenza delle jarchas e la sua popolarità, tanto da invogliare i poeti colti ad inserirla nei propri testi. La jarcha più antica risulta essere datata 1042, quindi un secolo anteriore al Cantar del mio Cid, ed è quindi la prima poesia europea in lingua volgare. Le varie jarchas si presentano diverse per struttura e modalità espressive. Si va dalle semplici esclamazioni a prima vista, prive di elaborazione formale, a strofe compiute e complete che possiedono una totale autonomia espressiva. Anche l’emozione resa dalla voce dell’innamorata non è sempre uguale: si passa dall’urgenza di una passione a stento trattenuta, all’ingenuo stupore di un incontro inaspettato, fino ad arrivare al dolore per un imminente separazione. Le donne che parlano non sono amanti timide, ma giovani innamorate che vivono con grande intensità le proprie passioni, anche quando il sentimento predominante è la pena d’amore. Trepidano durante il corteggiamento, sono attive nell’unione amorosa con esplicite richieste e inviti e non esitano a rifiutare un amante ingrato o frettoloso. Partecipano sempre con rande pathos. ANCORA OGGI STUPISCE LA FIGURA DI UNA FANCIULLA che non avverte vincoli morali, che non prova pudore, che non si sente trattenuta da costrizioni sociali e si consegna all’amore in modo autentico, libero e appassionato. L’evento per cui si gioisce o si patisce è annunciato sempre con estrema essenzialità e in modo diretto, anche se nella maggior parte si tratta di una sofferenza amorosa. Cantigas de amigo e villancicos Lo studioso Samuel Sterne aveva definito già le jarchas delle vere canciones de amigo, dove l’uomo però, invece di essere l’amico, è l’amato (habibi). Infatti, vediamo che sono molteplici le caratteristiche che jarchas, cantigas e villancicos hanno in comune. Vediamo però che delle cantigas possediamo dei canzonieri coevi, mentre per i villancicos dobbiamo aspettare fino al secolo XV per averne testimonianza. Le cantigas de amigo Il genere delle cantigas venne portato avanti in area castigliana avvalendosi della lingua galego-portoghese, come vediamo nelle Cantigas de Santa Maria, scritte da Alfonso X detto El sabio. Si dividevano essenzialmente in tre gruppi:  Le CANTIGAS DE AMOR: legate alla tradizione provenzale e alla lirica trobadorico-cortese. Cantano pene di amore ambito ma irraggiungibile, dunque destinato all’infelicità, all’insoddisfazione e alcune volte alla morte.  Le CANTIGAS DE ESCARNHO E MALDIZER: canti di scherno che uniscono la satira politica a quella personale.  Le CANTIGAS DE AMIGO: come le jarchas, narrano i canti di una fanciulla innamorata. Anche le cantigas de amigo sono state chiamate in causa per quanto riguarda la discussione relativa alle origini della poesia romanza. Ad oggi, tuttavia, prevalendo una teoria poligenetica, si ritiene possibile la derivazione da più nuclei lirici originali. Il corpus delle cantigas de amigo composto da circa 500 testi, delle liriche colte con stile popolareggiante, cioè che imitano i tratti tipici folklorici come l’espressione sintetica, le ripetizioni e il tono evocativo, pur rimanendo testi d’autore. La struttura delle cantigas de amigo è parallelistica o incrociata, che riduce il lessico all’essenziale e punta, grazie alle strofe altamente ripetitive, ad essere altamente sonora. Una cantigas è composta da 4 o 5 strofe di due versi seguiti da un verso di ritornello. Il tessuto lessicale delle due strofe è uguale, si verificano solamente inversioni di termini o la sostituzione di uno di essi (nella maggior parte dei casi il termine amigo viene sostituito con amato). Le strofe successive hanno come primo verso, il secondo verso delle strofe iniziali e così via: questo meccanismo è detto “leixa-pren”. I villancicos VI e VII hanno una diversa natura e riguardo ciò si è espresso in modo eloquente lo studioso Caravaggi. Le due glosse, se messe a paragone, rivelano due sviluppi nettamente distinti e si differenziano tanto nella struttura che nella tematica. Il commento più tradizionale del villancico VI viene sviluppato in una semplice quartina assonanzata in sede pari, seguita da una vuelta che ripete l’ultimo verso dell’estribillo. Tuttavia, la quartina di mudanza è autonoma e rimane conclusa e isolata. Il tema del testo è il solito incontro amoroso sul far dell’alba, ma intravisto in forma di sogno, un sogno talmente sconvolgente da impedire il sonno. Tale sogno è riferito in prima persona e il personaggio che raccoglie la confidenza è la madre della fanciulla, la figura di confidente più tradizionale della tradizione. La metafora della rosa che viene utilizzata è legata al linguaggio allusivo, e lo stesso incontro è localizzato presso l’acqua fresca, altro luogo comune della tradizione. Nessuno dei particolari di questa mudanza si dimostra dunque originale. Il testo VII, invece, vale come tipico esempio dello sviluppo colto del tema proposto. Innanzitutto, è maggiormente esteso: infatti è composto da 3 coplas di commento. Ogni copla è composta da una redondilla a rima ABBA, seguita da due versi de enlace e la ripetizione finale dell’ultimo verso dell’estribillo. La stessa complessità e ricerca vi è a livello tematico. Il poeta per esprimere il grave dissidio che impedisce agli occhi di riposare, fa ricorso alla collaudata allegoria dell’assedio d’amore: gli occhi sono i custodi delle porte del cuore, cioè le sentinelle di un castello stretto d’assedio. La prima copla propone una motivazione più che obiettiva che giustifica il tema dell’estribillo: gli occhi sono accerchiati da una schiera di “soldati di dolore” sempre con le armi pronte; gli occhi però non riescono a sostenere l’assalto di quell’armata e per questo non possono dormire. (GUERRA D’AMORE) La seconda colpa è altrettanto lineare: stavolta nella redondilla viene espresso un nuovo motivo d’insonnia, ovvero gli incubi, che sorprendono gli occhi non più vigli e gli impediscono di riposarsi, quando cedono inconsciamente al sonno. (INSONNIA D’AMORE) Infine, la terza copla che offre una suddivisione similare, nella redondilla insiste sullo sfinimento degli occhi, per cui il poeta arriva al limite della follia. La parte finale ribadisce poi definitivamente l’estribillo: se il poeta sbatte le palpebre per stimolare i propri difensori, gli occhi non possono dormire. L’epica Premessa: le caratteristiche del genere epico castigliano sono strettamente collegate al contesto storico-culturale in cui si colloca la sua nascita, durante il quale convivevano popoli diversi per cultura e credo: goto-cristiani, arabi ed ebrei. I goti furono quei popoli barbari che invasero la penisola iberica nel V secolo. Essi giunsero in terra spagnola già romanizzati poiché soggiornarono a lungo ai confini dell’Impero romano. Dunque, conquistarono la spagna come alleati di Roma, per portare pace ed ordine tra le popolazioni indigene. Riuscirono ad imporsi su tutta la penisola, ad esclusione della Galizia e scelsero Toledo come capitale. Poi si convertirono al cattolicesimo. Secondo Ramon Menendez Pidal, l’epica spagnola ebbe origini gote. Egli riteneva che i visigoti avessero conservato l’epopea(narrazione di gesta eroiche) dei propri avi e che a queta si sarebbe poi sovrapposta quella dei nuovi eroi. Infatti, è gota la leggenda che narra la perdita della spagna contro la conquista musulmana. Vediamo però che le due epiche spagnola e gota coincidevano nei temi e nei motivi, come quello del duello tra campioni per dirimere un oltraggio, quello della consultazione del re con i vassalli prima di una decisone, il tema dell’esilio del re condiviso con i vassalli e quello dell’eroe che si umilia davanti al re mangiando erba. All’idea di origine gota si sono sovrapposta anche altre due tesi: quella francese e quella araba. La tesi francese viene portata avanti in modo particolare dallo studioso Gaston de Paris, che sostiene che l’epica spagnola era un’imitazione di quella francese date le grandi somiglianze e dato che quest’ultima nacque prima di quella iberica. È pur vero però che le due differiscono per alcuni elementi, come la tendenza anisosillabica dell’epopea francese rispetto a quella isosillabica dell’epica spagnola e la spiccata tendenza realista dell’epica iberica, estranea a quella francese. La tesi araba era invece sostenuta da Julian Rivera e Francisco Marcos Marin. I due sostenevano che quando gli arabi arrivarono in Spagna importarono una serie di insegnamenti, tra cui anche l’epica. Notiamo infatti all’interno del Cantar del mio Cid alcuni termini della tradizione araba, tra cui lo stesso nome dell’eroe: infatti Cid deriva dall’arabo “signore”. In realtà è giusto pensare che siano veritiere tutte e tre le tesi e che si completino a vicenda e dunque è plausibile pensare che l’epica spagnola sia in realtà il frutto di un complesso rapporto di reciproche influenze nel corso dei secoli. Il Poema del mio Cid La narrazione epica si definisce per alcune caratteristiche costanti: si raccontano, utilizzando uno stile sublime ed alto, le gesta/imprese di un eroe, compiute in nome di una collettività. La missione alla quale l’eroe è destinato, è sentita dalla comunità a cui egli appartiene come un’impresa collettiva, dei cui benefici godrà l’intera collettività. Il mondo dell’epica è ricco di valori fortemente maschili, come l’abnegazione degli interessi individuali rispetto a quelli della comunità-nazione, la fedeltà assoluta, il rispetto per il sovrano, grande senso del coraggio ed esaltazione di ogni virtù guerriera. Il sentimento di amicizia prevale su quello dell’amore; la donna amata è marginale, aspetta il ritorno del suo eroe che le dedica pochi pensieri. Le opere epiche iniziano sempre con una situazione di crisi generale o personale e all’eroe toccherà poi ripristinare l’armonia perduta, o in senso collettivo che proprio. Il Cantar del mio Cid o Poema è il poema epico nazionale di Castiglia, l’unico che ci sia pervenuto quasi del tutto completo; mancano infatti solamente 4 folii, che contengono circa 200 versi. Anche la datazione del poema è messa in discussione: c’è chi porta avanti la tesi della nascita del poema nel 1140 e chi prende in considerazione come data utile il 1207. Menendez Pidal, sostiene che il poema, essendo fortemente realistico e ricco di descrizioni dettagliate (bottino, alimentazione dei cavalli, numero dei nemici), sia stato scritto solo pochi anni dopo gli avvenimenti accaduti, e dunque sostiene la tesi del 1140. Addirittura, egli ipotizza che il primo aedo che lo trascrisse, avesse potuto sentire testimonianze delle vicende da testimoni coevi all’accaduto. Lo studioso Colin Smith, invece, ritenendo i tratti arcaici del poema solo un fenomeno di convenzione linguistica e non un segno di antichità, propone di accettare la data presente nell’explicit del poema, ovvero il 1207 d.C.(si contano gli anni non a partire dall’anno 0, ma bensì a partire dal 38 a.C., data della pacificazione della provincia romana in Spagna e dunque nascita dell’era spagnola). Il Poema del mio Cid fu probabilmente composto nella provincia di Burgos e narra le imprese di Rodrigo (Ruy) Diaz de Vivar, noto anche come il Cid o il Campeador, con una serie di fatti veri ed inventati. L’opera si caratterizza per alcuni aspetti peculiari…in primo luogo vediamo una marcata tendenza realistica, che lo rende quasi una biografia eroica. In seconda analisi vediamo l’assenza del tono elevato tipico dell’epopea; infatti, il Cid è narrato in stile prosaico, dunque meno elaborato e preciso, sia nella narrazione che nel linguaggio, talvolta anche con notazioni umoristiche. Un terzo elemento caratteristico lo vediamo nelle caratteristiche dell’eroe: Rodrigo ha qualità più umane che soprannaturali e lo vediamo anche molto legato all’amore coniugale e alle figlie, con descrizioni di vita domestica tenera e partecipata. Oltre al Cid, non rimane molto dell’epica spagnola e tutt’oggi si può contare solo su 4 poemi. Tuttavia, se degli altri si sa poco e niente, del Cantar del mio Cid e dell’eroe protagonista si sa molto. La ricostruzione storica del profilo di Rodrigo si deve principalmente a Menendez Pidal. Il Cid nacque intorno al 1040 da una famiglia di infanzones, la categoria più bassa della nobiltà. Quando morì il sovrano Ferdinando I, re di Castiglia e Leon, il Cid fu nominato generale capo dell’esercito di Sancho IV re di Castiglia ed ebbe un ruolo importante che egli mosse nella guerra contro i suoi fratelli per la divisione del regno. Una volta morto Sancho IV egli passò sotto il sovrano Alfonso VI, ma tuttavia non migliorò il proprio stato, rimase comunque un infanzon e non ebbe mai posto a corte. L’evento che però aggravò ancor di più la sua posizione fu una spedizione che gli fu commissionata. Fu mandato dal sovrano ad Al Andaluz per andare a riscuotere le parias. Durante la spedizione i regni di Siviglia e Cordoba, però, vennero attaccati dalla città di Granada e il Cid naturalmente si trovò a schierarsi contro il regno di Granada. Così, per contrastarlo, al suo ritorno, Garcia Ordoñez lo accusò di malversazione, cioè di aver trattenuto per sé una parte delle tasse che era andato a recuperare. Da quell’episodio, il Cid fu condannato all’esilio. Così, accompagnato da tutto il suo esercito, partì per abbandonare la città. Da qui ha inizio il poema. L’opera procede per fatti storici, arricchiti da narrazioni. La maggior parte dei personaggi sono reali, come ad esempio donna Jimena Diaz e le sue figlie Elvira e Sol, il vescovo Geronimo, Alvar Fañez, Muño Gustioz, Alvar Alvarez, ecc… Sono presenti però anche episodi di natura inventata, come ad esempio quello in cui due ebrei ricevono dei sacchi pieni di sabbia, credendo che fossero pieni d’oro. La presenza di episodio non storici comunque non riduce la forte tendenza realistica del romanzo, data anche dal fatto che, a differenza dei testi epici francesi, non contiene nessun elemento fantastico. L’unico avvenimento soprannaturale è l’arrivo dell’arcangelo Gabriele che appare in sogno al protagonista per augurargli buona fortuna. Per quanto riguarda la genesi del poema ci sono poche certezze. Probabilmente il Cantar del mio Cid difficilmente può essere considerato il primo componimento epico della tradizione in assoluto. Infatti, la tecnica narrativa appare ad uno stadio troppo avanzato per poter essere un’opera capostipite. Piuttosto si può pensare all’esistenza di una tradizione orale di verso epico, dalla quale può derivare un’opera già ben strutturata tecnicamente e stilisticamente. È inutile anche ogni tentativo di dare una fisionomia certa all’autore dell’opera. Nell’incipit appare un’annotazione di un certo Per Abbad, ma si ritiene che egli fu soltanto il copista del componimento. Secondo Menendez Pidal, egli era un chierico giullare e non un giullare itinerante analfabeta, data l’alta elaborazione del testo. Tuttavia, però per Colin Smith, il copista era in realtà un autore colto, probabilmente un giurista, date le sue conoscenze in campo giuridico che ritroviamo nel poema. Successivamente Pidal elaborò la tesi del doppio autore, uno che scrisse la prima parte, ovvero i primi 500 righi, intorno al 1100, e uno che scrisse la restante parte successivamente. Per quanto riguarda la lingua del poema invece, vediamo che è utilizzata una lingua arcaica. La forma metrica, costituita da lasse (strofe epiche) assonanzate, è anch’esso un tratto arcaico. Le lasse del poema variano tantissimo: la più corta conta solo 3 versi, mentre la più lunga ben 185. L’estensione di ciascuna dipende dal tema trattato. La misura dei versi invece varia dalle 8 alle 20 sillabe. A livello stilistico vi è una grande libertà nell’uso dei tempi verbali, anche se predomina il presente storico per attualizzare la narrazione. Il linguaggio inoltre tende a rendere concreto e visibile ciò che è astratto (lo vide con gli occhi, lo disse con la bocca). Ci sono anche altri stilemi che svolgono lo stesso lavoro, e venivano utilizzati dal giullare per riempire emistichi in carenza di altre soluzioni. Lasse I-IV prevale su tutto. Da tutto ciò deriva un clima di serena gioia e di fiduciosa certezza nella comprensione altrui. I Milagros hanno ambientazione varia e di molti non vi è neppure il riferimento ad un luogo preciso, proprio ad indicare che si parla dell’uomo in generale come peccatore e non ci si interessa delle circostanze. Nella narrazione Berceo si avvale di tecniche proprie della letteratura giullaresca come i frequenti appelli all’auditorio (pubblico) o la richiesta di un compenso a fine racconto. Inoltre, a volte, ricorre a un lessico famigliare e a metafore tratte dalle occupazioni di tutti i giorni. Queste sono strategie che sfrutta per conferire al sacro una dimensione meno trascendente e più concreta e quotidiana. I 24 racconti sono tutti perfettamente armoniosi, completi ed autonomi l’uno dall’altro. Milagros de Nuestra Señora – Introduzione Se i miracoli di Berceo derivano tutti da una fonte latina accertata, lo stesso non si può dire del prologo, che sembrerebbe un testo del tutto originale, seppur si ricorra a stereotipi tipici della tradizione, come l’uomo inteso come pellegrino in questa vita e la descrizione paradisiaca/idilliaca del locus amoenus. Dopo un’apostrofe iniziale in cui il poeta richiama l’attenzione del pubblico, egli ricorre all’autonominatio, indicando sé stesso come autore e personaggio del racconto, anche se non si tratta di una autobiografia, dal momento che usa sé stesso per indicare e farsi carico di tutta l’umanità. Nel prologo viene raccontata la storia della caduta dell’uomo nel peccato e della sua salvazione per merito della Vergine, schema che ritornerà in ognuno dei 25 miracoli. La presentazione del giardino delle delizie occupa le prime 13 strofe dell’introduzione, per un totale di 52 versi. Berceo ricorre al meccanismo dell’amplificatio, sviluppando le brevi citazioni latine e facendole diventare distese descrizioni. Si tratta di un’ adattamento funzionale al diverso al diverso tipo di lettura e di destinatario, dato che il racconto veniva letto o recitato a voce alta al popolino radunato nelle piazze. L’ amplificatio del luogo ameno serve e ricreare presso l’auditorio un’atmosfera piacevole e di benessere, come quella in cui il pellegrino dice di trovarsi. Poi, a partire dalla strofa 14 inizia l’interpretazione allegorica del testo precedente, che viene spiegata tramite la metafora del midollo (significato nascosto, interno, profondo, allegorico) e della corteccia (significato letterale). Milagros de Nuestra Señora – La boda y la Virgen I miracoli che vengono dopo il prologo seguono uno schema prefissato che prevede:  apostrofe al destinatario  circostanze del luogo  presentazione del protagonista  narrazione  epilogo con chiusura morale I punti 1-3 tuttavia non sono necessariamente presenti in tutti i miracoli; anzi, come si è detto precedentemente, più spesso sono vaghi i luoghi e le caratteristiche del personaggio dato che è intenzione dell’opera prendere in considerazione l’umanità in generale. Il miracolo de “Le nozze e la Vergine” è generoso di dettagli. Ci viene data indicazione riguardo il luogo in cui si svolge la vicenda, ovvero la città di Pisa, e ci viene presentato il protagonista: si tratta di San Cassiano, un canonico di alto lignaggio molto devoto al culto della Vergine. Da un iniziale stadio di perfetta armonia, il personaggio precipita in una serie di eventi che alterano l’equilibrio stabilito: con la morte dei genitori, egli riceverà una grandissima eredità, che però, per volontà dei parenti, dovrà un giorno lasciare in eredità a sua volta. Dovendo quindi provvedere a procurarsi degli eredi (figli), si troverà presto a dover celebrare il suo matrimonio. Da quel momento si precipita in una grave crisi, evidenziata dal climax crescente, che culmina in una violenta indignazione della Madonna. Maria, infatti, è resa umana a tal punto da risultare un’amante gelosa che si ribella al tradimento dell’innamorato insultandolo e infuriandosi. La relazione Vergine-devoto appare come una relazione profana, dal momento che il canonico si auto definisce entendedor de la Gloriosa e lei lo appella buen amigo (come l’amante delle jarchas). Dalla strofa 343 Berceo sospende la narrazione, lasciandola in un clima di indeterminatezza e suspence. Lo sposo prima di andare all’altare si ferma lungo il tragitto in una chiesa ad ha un colloquio con la Madonna, che lo minaccia. Successivamente però il matrimonio si svolgerà ugualmente. In realtà egli però cela un segreto: sta fingendo lo sposalizio; infatti, quando si troverà ad andare a letto con la moglie durante la prima notte di nozze, mentre sarà tra le sue braccia, egli svanirà rapito dalla Vergine, che lo porta con sé prima che venga “guastato”. La costruzione del racconto, che non manca di umorismo, si basa principalmente sull’ambiguità della relazione tra l’uomo e le due donne, puntando sul contrasto tra sacro e profano e sull’ingenua sprovvedutezza del canonico che è vittima prima della famiglia e poi della Madonna. In effetti poco è lasciato alla libera volontà del protagonista, che prima viene attratto dalla vita mondana e profana e poi è costretto dalle minacce della Vergine a tornare sui suoi passi. Il Mester del Clerecia durante il secolo XIV La cuaderna via rimane attiva anche durante il secolo XIV, per poi cedere il posto alla lirica dei Cancioneros. Alcune opere scritte in tetrastrofo monorimato sono di metà 1300 e sono più complesse per temi e per uso di fonti rispetto a quelle del XIII secolo e sono anche meno fedeli alle rigide norme dell’uso della quartina di alessandrini, ammettono una certa irregolarità sillabica e anche la possibilità di non utilizzare la dialefe. I più importanti componimenti di tale periodo sono il Libro de Buen Amor di Juan Ruiz Arcipreste de Hita e il Libro rimado de Palacio di Pedro Lopez de Ayala. Il Libro de Buen Amor Il Libro de Buen Amor di Juan Ruiz arciprete di Hita, è un’opera complessa e composita. Lo dimostrano già i preliminari ad inizio opera. Si apre infatti con una preghiera nella quale l’arciprete (autore e protagonista dell’opera) chiede al Signore e alla Vergine Maria di essere liberato da una terribile pena che lo affligge. Si prosegue poi con due prologhi, uno in prosa e uno in versi, seguiti da due cantigas dedicate alla Vergine e una favola in cuaderna via, nella quale si narra una disputa tra greci e romani. La narrazione vera e propria però ha come centro le avventure amorose di un arciprete (circa 14) ed inizia alla riga 71. Il testo, a partire dalla narrazione presenta delle caratteristiche particolari che lo accompagneranno durante tutto il corso dell’opera. Innanzitutto, notiamo una certa mescidanza (mescolanza) di forme, in cui la prosa si alterna a versi di arte minore e versi di arte maggiore. Anche i temi sono vari e sono tenuti assieme dalla finzione autobiografica che si affianca a narrazioni di tipo diverso. L’ eterogeneità è sicuramente la cifra principale di questo originale gioiello letterario. In un contesto fortemente multiculturale quale è quello dell’opera, e in assenza di una tradizione o modello referenziale, si possono certamente riconoscere nel libro influenze di generi diversi e di diverse fonti della cultura cristiano-ebrea-musulmana, ma che indubbiamente l’autore assemblò e rielaborò in autonomia. A lettura compiuta si può avere l’impressione di aver percorso una miscillanea tenuta insieme quasi solamente dal tema erotico e dalla convenzione autobiografica. Altro aspetto che concorre a complicare ulteriormente la fattura dell’opera è l’annuncio della presenza di una o più composizioni liriche, a fine dell’opera, che mancano nei manoscritti che ci sono giunti, ma che racconterebbero ipoteticamente gli stessi episodi in versi di arte menor. Non è ben chiaro però il senso di questa duplicazione, né facile capire perché tali inserti vennero inseriti e poi andarono perduti. In ogni caso il vero nodo interpretativo si insinua nella parte del prologo in prosa ed è legato all’ambiguità del messaggio che ci viene proposto. Infatti, vediamo un primo commento ad un passo del Salmo di Davide, in cui l’autore afferma che renderà saggio il lettore, cioè rendendolo capace di distinguere il bonus amor (quello di Dio) dal malus amor (quello profano), da cui l’uomo deve prendere le distanze. Egli poi rivela che in realtà la citazione biblica ha uno scopo del tutto ironico e afferma che in realtà le vere intenzioni dell’opera sono quelle di mostrare il male (loco amor) affinché uomini e donne “buoni intenditori” sappiano evitarlo e salvarsi. Al tempo stesso però coloro che vorranno avvicinarsi al loco amor, avranno a disposizione alcuni modi per raggiungerlo. Dunque, ora che il lettore sa che l’opera tratterà di amore terreno e passionale, starà a lui utilizzare i consigli a proprio gradimento e secondo la propria coscienza. Così facendo, l’autore Juanz Ruiz si avvicina ad un concetto di letteratura molto moderno, ovvero quello della polisemia del messaggio poetico: uno stesso testo è soggetto alle diverse interpretazioni dei destinatari che lo interpretano a modo proprio. L’autore sarà ancora più esplicito nel ribadire questo concetto quando successivamente presenterà la storia della disputa tra un greco e un romano. Attraverso il proverbio della vieja ardida, presenta la morale che si deve trarre dalla storia: c’è la possibilità, in ogni discorso, che esso possa essere inteso in più modi. Il mittente del messaggio è quindi deliberato da ogni responsabilità, che si sposta sul destinatario e varia in base alla sua buona o cattiva fede. Il relativismo di J. Ruiz, ovvero la possibilità di interpretare diversamente la realtà partendo da una verità soggettiva, è stato ampliamente studiato e si è dedotto che nella sua opera l’autore vede i fatti come cose relative che ognuno ha diritto di intendere a modo proprio, senza che la percezione di uno sia più giusta di quella di un altro. Per questo Ruiz viene anche visto come un autore molto vicino al mondo spirituale di Pirandello, che vedeva la verità (intesa come realtà) come uno specchio in cui ciascuno vede sé stesso. In generale però Ruiz, prosegue durante tutto il corso dell’opera con dei meccanismi di depistaggio, non lasciando intendere se il fine dell’opera sia effettivamente quello di giovare moralmente attraverso esempi negativi di amore sensuale e dunque insegnare il buen amor del mondo cristiano, oppure solo quello di dilettare il lettore con il racconto di avventure erotiche. A tal proposito si è parlato di una voluta “poetica dell’ambiguità”. A partire dalla strofa 71 ha inizio l’azione dell’opera che ci viene presentata come una narrazione in forma autobiografica, in cui l’arciprete di Hita racconta in più di 7000 versi le sue vicende amorose. È però difficile credere all’autenticità di quel nome, che si propone come autore e stesso protagonista della sua opera. È invece più plausibile immaginare una finzione autobiografica, che per essere credibile fa coincidere chi scrive con il personaggio che parla in prima persona. Certo è però che chiunque sia l’autore del Libro de buen amor, possiede una buona formazione culturale che gli consente di elaborare nella sua opera diversi generi letterari.
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